Vajont: 4 minuti, una tragedia (reportage di Focus.it)
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Vajont: 4 minuti, una tragedia (reportage di Focus.it) 4 minuti. In 4 minuti si conclude, tragicamente, una storia iniziata 34 anni prima nella valle di Erto e Casso, tra Veneto e Friuli. PRIMA Nel 1929, Carlo Semenza, ambizioso ingegnere della Sade (Società Adriatica di Elettricità del Conte Volpi di Misurata), sceglie questo luogo per costruire la diga più alta del mondo. Lo affianca il geologo Giorgio dal Piaz, professore universitario di 57 anni e stimato decano dei geologi italiani. Scattano fotografie, fanno rilievi, raccolgono informazioni. La valle scelta dai due studiosi è formata da due montagne: il monte Salta, dove si trovano i paesi di Erto e Casso, e il monte Toc, sul versante opposto. È sulle pendici del Toc, che formano un altopiano, che gli ertocassani hanno pascoli e campi. Alcuni hanno anche una seconda casa, lassù. Si coltiva mais, si allevano bovini, ci sono anche filari di viti: la gente del luogo sa bene che, sopra e sotto la piana, il terreno è soggetto a piccoli e continui franamenti. La toponomastica del luogo racconta proprio questa storia: “Vajont” vuol dire “viene giù”, “Toc” significa “pezzo, marcio”. Per i tecnici della Sade, però, non c’è luogo migliore per costruire la “banca dell’acqua”. In pochi anni il progetto “Grande Vajont” è pronto. Ma scoppia la seconda guerra mondiale. Nel caos, dopo l’8 settembre 1943, la Sade ne ottiene l’approvazione da parte della commissione lavori pubblici. Ora servono le terre nel comune di Erto e Casso. La Sade non ha in mano soltanto il parere positivo della Commissione (votato con la presenza di 13 membri su 36, insufficienti per il numero legale): ha anche un decreto di “Pubblica Utilità” dell’opera. Ed è questa pubblica utilità che, di fatto, impone al Comune la cessione delle proprie terre. Il passo successivo è andare a prendere quelle private, dei contadini. Tra misere valutazioni e opposizione degli abitanti, nasce un comitato “antidiga”, presieduto dal medico del paese. Sua moglie, il sindaco Caterina Filippin, si batte contro la Sade. Ma poi vende segretamente i suoi terreni, spaccando il paese e vanificando il lavoro del comitato. In questo clima nasce la caserma dei Carabinieri di Erto. Perché? Per consegnare gli espropri. Non è concepibile opporsi al “progresso della nazione". E poi siamo ancora nell'Italia fascista. Ma la mentalità della Pubblica Utilità continua a tenere banco nelle alte sfere dell'Italia Repubblicana. Nel gennaio del 1957 la Sade apre un cantiere di 400 operai: un’opportunità anche per i contadini di diventare salariati. E inizia a scavare: anche se non ha ancora ottenuto l’autorizzazione all’avvio dei lavori. Il Consiglio superiore dei lavori pubblici provvederà, ne è certa. In aprile presenta al Ministero un progetto ancora più audace. La diga verrà anche alzata fino a 266 metri. Con il lago a quota 722,60 metri il bacino avrà una capacità pari a 3 volte la somma degli altri 7 invasi della Sade. Il Ministero
è d’accordo, ma chiede un’altra perizia geologica a integrazione della prima. Semenza la commissiona all’amico Dal Piaz: che, sorprendentemente, mostra timore per un progetto che gli “[...] fa tremare le vene e i polsi”. Gli abitanti di Erto cominciano ad avere paura: il paese si troverà a soli 54 metri dalla superficie del lago artificiale. La preoccupazione cresce nel 1959 quando, a pochi chilometri da Erto, la diga di Pontesei, anche questa costruita da Carlo Semenza, inizia a mostrare problemi: fessurazioni nelle pareti dell’invaso, rumori sordi dalla montagna, macchie di acqua giallastra localizzate sempre negli stessi punti. La Sade istituisce un servizio di sorveglianza h24, con un solo operaio in turno. Il 22 marzo 1959 parte della montagna frana nel lago e genera un'onda di 20 metri che travolge Arcangelo Tiziani, l'operaio, invalido, in turno di sorveglianza. Il suo corpo non sarà mai ritrovato. Le perizie geologiche sull’impianto di Pontesei le aveva firmate Francesco Penta, consulente privato della Sade, che il 1 aprile 1958 era diventato anche il geologo della commissione di collaudo del Vajont. Nello stesso anno la diga del Vajont, la più alta del mondo del tipo a doppio arco, è pronta. Per realizzarla ci sono voluti due anni, 400 operai da tutta Italia e consistenti contributi governativi. La Sade è ora impaziente di passare al collaudo. Bisogna fare in fretta: la nazionalizzazione dell’energia elettrica è alle porte. L’azienda, che detiene il monopolio della produzione e della distribuzione di elettricità nel Triveneto e in una parte dell’Emilia, non vuole perdere i contributi pubblici e l’occasione di vendere l’impianto. Si dà quindi inizio alla prima prova di invaso. L'acqua ricopre le case e i terreni da poco abbandonati, formando un lago che arriva a quota 600 metri sul livello del mare. La Sade, preoccupata dall’evento di Pontesei, chiede una ulteriore perizia geologica a Leopold Müller, ingegnere geotecnico fondatore della scuola di Salisburgo. A differenza di Dal Piaz, l’austriaco effettua carotaggi e fori piezometrici, stabilendo che sul monte Toc si trova una antica frana larga un paio di chilometri, profonda centinaia di metri. Edoardo Semenza, figlio del progettista della diga giunge alle stesse conclusioni e scopre anche miloniti* al piede della frana. Dalle sue osservazioni emerge il profilo sommitale della paleofrana, a forma di M. Il 4 novembre 1960 una frana di 800.000 metri cubi di roccia precipita nel lago artificiale. Nella sala controllo della diga si chiede a Müller se è possibile fermare il movimento del monte Toc. “Ormai no”. La Sade è molto preoccupata: la caduta della montagna rischia di dividere in due il bacino, rendendolo economicamente non sfruttabile. Per questo si progetta (e in breve si realizza) una galleria di sorpasso che colleghi, nel caso, i due invasi. *La milonite è una roccia coesiva a grana fine, con struttura a bande formate in seguito a un complesso di azioni meccaniche dovute a fenomeni tettonici (milonitizzazione). Il processo determina nelle rocce una frantumazione particolarmente intensa a cui si accompagnano fenomeni di scorrimento plastico e ricristallizzazione dinamica, legati a un processo di deformazione che avviene in condizioni di elevata pressione e temperatura.
Soltanto una giornalista riporta i fatti e le preoccupazioni degli abitanti della zona: Tina Merlin. A causa di uno dei suoi articoli viene accusata dalla Sade di “diffondere notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico” e rinviata a giudizio. Il tribunale di Milano la assolve perché nelle sue denunce “non vi è nulla di falso, esagerato o di tendenzioso”. La Merlin prosegue le sue inchieste. Il 21 febbraio 1961 l’Unità titola: “Una frana di 50 milioni di metri cubi minaccia vita e averi degli abitanti di Casso”. Il 31 ottobre 1961, muore Carlo Semenza. Il 20 aprile 1962 muore Giorgio Dal Piaz. Intanto la Sade, preoccupata dalla possibilità di un drammatico evento franoso, commissiona una serie di test, facendo costruire al centro modelli idraulici di Nove di Vittorio Veneto un modello in scala della valle Vajont. Gli esperimenti vengono condotti da Augusto Ghetti, docente dell'istituto di Idraulica dell'Università di Padova, insieme ad alcuni ricercatori, su una grande vasca che riproduce il bacino del Vajont. L’intento è calcolare i possibili effetti di una frana e valutarne le conseguenze. Dopo varie simulazioni, effettuate sottostimando la portata della frana, viene fissato il livello limite dell’acqua dell’invaso da non oltrepassare: "La quota 700 metri può considerarsi di assoluta sicurezza nei riguardi anche del più catastrofico evento" (3 luglio 1962). Intanto, nelle case di Erto e Casso la gente sente strani boati. La montagna si muove. Il Comune, allarmato, invia lettere per informare della situazione le Istituzioni. Il presidente della provincia di Belluno, Alessandro Da Borso, vuole vederci chiaro e va a Roma. Tornerà a Belluno senza risposte, dichiarando: “Ci troviamo di fronte a uno Stato nello Stato. La Sade rappresenta una potenza contro la quale è difficile lottare e vincere”. Un anno dopo, nel marzo 1963, grazie al decreto che nazionalizza l’energia elettrica in Italia, nasce l’Enel e la diga diventa di Stato. Il 30 marzo arriva l'autorizzazione ministeriale alla nuova prova di invaso fino a 715 metri, quota di collaudo: ignorando le indicazioni di sicurezza di Ghetti. Il 15 settembre il monte Toc scivola improvvisamente di 22 centimetri. Sono i tecnici Enel, ora, a gestire la diga e decidono di svasare velocemente, per usare il livello del lago come freno e acceleratore della montagna. Sarà l’errore fatale. La relazione di Müller, infatti, ammoniva a non farlo: “Con svasi rapidi, bisogna aspettarsi movimenti più decisi della montagna”. Perché il muro d’acqua ha sì “bagnato i piedi” alla frana, fluidificandone l’argilla e facendo partire lo scivolamento. Ma ora, paradossalmente, è anche il “puntello” della frana stessa, ormai inarrestabile Nei primi giorni di ottobre, Alberico Biadene, subentrato a Carlo Semenza, si fa prendere dal panico. Va a Roma e chiede un sopralluogo al geologo Penta. Penta si dice “indisposto” e non ci va. Intanto, gli abitanti di Erto e Casso vedono i pini e i larici inclinarsi verso il lago. Sulle strade compaiono buche, prontamente chiuse dai tecnici dell’Enel. Il 7 ottobre, Guglielmo Celso, sindaco di Longarone, contatta ripetutamente Prefettura e Genio Civile: da questi riceve l’invito a non provocare inutili allarmismi. La mattina dell’8 ottobre gli strumenti di rilevazione installati dai tecnici della diga (paline luminose conficcate nel terreno) mostrano che il monte Toc si è mosso nella notte dai 57 ai 63 centimetri. La frana non si ferma più. Alberico Biadene decide di svasare il più velocemente possibile: il livello del lago deve scendere sotto quota 700 (il “limite di sicurezza” definito dalle prove sul modello di Nove) prima che la montagna vi crolli dentro. Perché su una cosa non ci sono più dubbi: il Toc sta venendo giù. Il 9 ottobre 1963 è un giorno di sole. Il Comune di Erto e Casso emette un’ordinanza di sgombero per le frazioni intorno al lago, su richiesta della Sade. Il Genio Civile, sede di Belluno, invia un rapporto al Ministero: “La situazione è gravissima, si attendono istruzioni”. L’ingegnere capo del
Genio Civile, Almo Violin, lo spedisce per posta normale. Arriverà a Roma il 16 ottobre. Biadene richiama dalle ferie il capo cantiere della diga, Mario Pancini, con una lettera. Prima dei saluti, scrive “[...] che Iddio ce la mandi buona”. Alle 22.15 il geometra Giancarlo Rittmeyer, di turno alla diga con gli operai, telefona a Biadene, a Venezia: “Ingegnere, qui non si vede alcun operai, telefona a Biadene, a Venezia: “Ingegnere, qui non si vede alcun franamento”. Biadene gli augura la buonanotte: “Dorma con un occhio solo”. Rittmeyer chiede poi alla telefonista di chiamare l’Officina Meccanica Marmi di Longarone, per avvisarli: “Potrebbe esserci una piccola frana, con una modesta fuoriuscita d’acqua”. La centralinista, Maria Sacchet Capraro, interviene: "Scusate... Qui a Longarone possiamo stare tranquilli?". “Dormite bene", risponde il geometra. INIZIA Alle 22.39 duecentosessanta milioni di metri cubi di montagna precipitano nel lago a 100 km l’ora. Dalla finestra, il parroco di Casso vede il bosco correre giù. L’acqua, invece, vola in alto. Forma un’onda a tre punte, alta 250 metri. La prima è più alta del paese, colpisce il pianoterra della scuola elementare. Fa piovere acqua e massi da 100 kg che sfondano i tetti delle case. Feriti, nessun morto. Gli abitanti escono e vedono che oltre Casso non c’è più nulla, neppure la strada. Intanto, sentono un rumore come di un treno in corsa, lontano, oltre il ciglio della gola. Poco sotto l’abitato di Erto c’è uno sperone di roccia, che spezza la seconda onda, proteggendo il paese. Ma non salva le frazioni, che avranno 347 morti. La terza parte del muro d’acqua supera il coronamento della diga, strappando via la strada sommitale e il centro di controllo, dove si trovano il geometra Rittmeyer e i suoi operai. Nel punto più alto misura 250 metri, in quello più basso 150. In tutto, 50 milioni di metri cubi d’acqua volano oltre la diga. Un “lago volante” spesso 70 metri che punta verso Longarone. A Longarone la gente è nei caffè per l’eurovisione: Real Madrid – Glasgow Rangers, finale di Coppa dei Campioni. Va via la luce. La gente esce, si accendono sigarette mentre si guarda su, verso la diga. Si vedono lampi. “...Sarà un temporale”. Sono i cavi della corrente che si strappano. Intanto arriva il vento. Un vento costante, umido, che aumenta. Come un rumore di treno in corsa. Bagna i vestiti, ha un cattivo odore di terra, toglie il respiro. L’aria, compressa dall’acqua che la spinge, acquista potenza. Tanta potenza: il doppio dell’esplosione della bomba di Hiroshima. La metà delle vittime è polverizzata: di loro non si troverà nulla. Dopo l’aria, arriva l’acqua. Un volo di 4 minuti, percorso a 80 km l’ora. Alle 22.43 l’onda che ha scavalcato la diga colpisce il letto del Piave. Ne raccoglie le pietre e piomba su Longarone, cancellandolo. L’acqua si allarga sul greto del Piave, scendendo a valle e risalendo a monte per 2 km. Il livello del fiume si alza di 12 metri in pochi istanti. Dopo 15 minuti, l’onda di riflusso torna giù a lisciare tutto, come la risacca sulla spiaggia. Trasformando la valle in una spianata di fango. Alle 5 del mattino del 10 ottobre la radio annuncia la devastazione di Longarone. La prima notizia parla del crollo della diga. Nelle redazioni dei giornali, si rincorrono le informazioni degli inviati e delle prime agenzie. I superstiti vedono sorgere il sole su una spianata di fango. Solo le prime luci dell'alba mostrano a chi sta su, in valle, a Erto e Casso, l'enorme frana e la scomparsa di un paese:
Longarone non esiste più, è stato spazzato via. Ancora oggi il numero dei morti non è certo: circa 2000. L'acqua ha travolto anche alcune frazioni, come Pirago, dov'è rimasto in piedi solo il campanile. UNA SPIANATA DI FANGO Dalle 5,30, arrivano le prime squadre di soccorso: in elicottero, via terra, fin dove esiste ancora una strada. Le ferrovie non funzionano più, i binari si sono sollevati e attorcigliati. Ci sono corpi ovunque, denudati dalla violenza dell’evento, che vanno identificati e recuperati. Alcuni sono finiti sugli rami più alti degli alberi, servono corde e pertiche per tirarli giù. Donne, uomini e bambini sono stati uccisi dallo spostamento dell'aria, annegati dall'acqua, colpiti dalle macerie. Inizia il penoso rituale dei riconoscimenti, mentre si aiutano i superstiti e si interviene per cercare di impedire le epidemie. Dal libro di Lucia Vastano, Vajont, l’onda lunga (ed. Ponte alle Grazie): “[...] oltre al dolore per le perdite subite si dice ci siano state le soluzioni disinfettanti erogate quotidianamente con un apparecchio automatico su tutta l'area disastrata, in particolare a Fortogna dove vennero raccolti i corpi poi inumati in quello che diventò il cimitero delle vittime. Il disinfettante fu messo a disposizione dal Ministero della Sanità, tranne una quantità di cloruro di calce donato da vari enti che venne distribuito sulle macerie. Durante il recupero dei cadaveri fu utilizzata una soluzione di formaldeide, mentre le pozzanghere vennero irrorate di creosolo. Lungo tutto il greto del Piave fu spruzzato cloruro di calce. Nei mesi successivi, nonostante il freddo numerose mosche cominciarono a infestare i campi di inumazione. Si dovettero usare altri disinfestanti soprattutto per rispondere alla crescente preoccupazione degli abitanti della zona e al trauma psicologico causato ai visitatori del cimitero. Un'ulteriore fonte di preoccupazione fu la perdita di 61 fusti di cianuro di sodio prodotti dallo stabilimento Faesite e finiti nel Piave. Alcuni vennero recuperati quasi subito, ma altri non furono mai trovati”. Dopo poche ore i soccorsi arrivano anche a Erto e Casso. Intanto gli emigranti rientrano appena apprendono la notizia. L'11 ottobre viene ordinato lo sgombero totale a monte della diga: si dice che la montagna potrebbe franare ancora. Alcuni abitanti di Erto e Casso vengono portati a Claut, altri a Cimolais, in colonie e alberghi. Questa zona, la Valcellina, è collegata al Vajont tramite il passo di San Osvaldo. Proprio qui, pochi mesi dopo, nel febbraio del 1964, viene costruito “il muro della vergogna”, con un posto di blocco per impedire il rientro degli ertani nelle loro case. LA RICONQUISTA DI ERTO E CASSO Alcuni non ci stanno. E rientrano in paese da clandestini, riappropriandosi delle proprie abitazioni, non più connesse alla rete elettrica. Nel primo anniversario del disastro, l’Enel la ripristinerà solo per le cerimonie di commemorazione: allora gli ertani approfitteranno dell’allaccio temporaneo per riprendersela definitivamente, presidiando a turno la cabina di distribuzione. Tuttavia Erto non viene riconsegnata ai suoi abitanti: finiscono tra Maniago, Ponte nelle Alpi (dove nasce il quartiere “Nuova Erto”) e un nuovo complesso di case (completato negli anni ‘70) appena sopra la Erto vecchia. Nel 1966 viene costituito un nuovo comune, chiamato Vajont, a 40 km da Erto e Casso, vicino a Maniago. A fronte dell’ingente finanziamento statale per la costruzione di nuove “unità abitative”, cresce l’interesse politico per la ricollocazione delle persone in questi nuovi comuni: la zona di Erto e Casso deve restare disabitata. Gli ertani temono che l’Enel voglia sfruttare il lago residuo, recuperando in parte la funzionalità dell’invaso. Longarone viene completamente ricostruita, nello stile architettonico di quegli anni, con l’onnipresente cemento armato a vista. Insieme alle sue tradizioni, perde il ruolo di punto nevralgico per la valle del Piave. Allontanati dalle case di una vita, sparpagliati a chilometri di distanza, senza più i pascoli e senza il “grosso centro” nella valle, per gli abitanti di Erto e Casso iniziano gli anni più difficili. Mentre Longarone, ricostruita, resta l’unico simbolo di tutta la tragedia. Arrivano i primi sussidi economici e si prepara il terreno alla rinascita
della Valle. Chi ha una licenza commerciale potrebbe riaprire l'attività o crearne una nuova, anche in altri comuni, grazie ai contributi della “legge Vajont”. Gli artigiani cedono le licenze per pochi soldi, arricchendo attività spesso nate solo per sfruttare le agevolazioni del dopo disastro. E alcune grosse imprese già esistenti approfittano di una mole di contributi. La legge Vajont*, nata con fini di aiuto, segnerà l’inizio di una lunga e complessa sequenza di operazioni industriali, che, protratte per un ventennio, saranno l’origine del “miracolo economico del Nord Est”. Il presidente del Consiglio, Giovanni Leone, arrivato sul luogo della tragedia qualche giorno dopo, promette giustizia. Lo stesso Leone, terminato l’incarico governativo, sarà il capo degli avvocati Enel-Sade al processo, sostenendo l’imprevedibilità del disastro. Non solo. Dal libro di Lucia Vastano, Vajont, l’onda lunga (ed. Ponte alle Grazie): “Fu proprio l'avvocato dell'Enel Giovanni Leone, che nella precedente veste di Presidente del Consiglio aveva promesso "giustizia", a scovare nel codice civile quell'articolo che fece risparmiare l'azienda in base all'articolo n.4 del codice civile sulla commorienza (quando di due persone sia impossibile dedurre quale sia deceduta per prima, al fine giuridico si considerano morte nello stesso istante) i nipoti non vennero mai risarciti per i nonni, morti assieme ai loro genitori. Fu il tribunale di Belluno a utilizzare per primo, per le vittime del Vajont, l'articolo 4*”. *La leggeVajont La legge 357/1964 prevede che ogni abitante dei comuni colpiti in possesso di una licenza commerciale, artigianale o industriale al 9 ottobre 1963, possa godere di un contributo a fondo perduto del 20% del valore dell'attività distrutta, a un mutuo pari all'80% a tasso fisso per la durata di 15 anni e all'esenzione per 10 anni dal pagamento delle tasse. Ha inoltre il diritto di cedere la licenza a terzi, che beneficiano delle stesse esenzioni e vantaggi a condizione di operare nell'area del disastro, estesa a tutte le regioni più o meno coinvolte: Trentino, Veneto, Friuli Venezia Giulia. Il tariffario (in lire) dei risarcimenti del Vajont perdita del coniuge: 2 milioni; perdita del figlio unico: 2 milioni; perdita di un figlio con altri due fratelli: 1 milione e 500 mila; perdita di un figlio con altri 3 fratelli: 1 milione; perdita di un genitore: 1 milione e 500 mila; perdita di un genitore di un figlio maggiorenne non convivente: 1 milione; perdita del fratello convivente: 800.000; perdita del fratello non convivente: 600.000; perdita di zii, nipoti, nonni anche se conviventi: nulla.
IL DISASTRO È COLPOSO Cooperazione in disastro colposo di frana, aggravata dalla prevedibilità dell'evento. Cooperazione in disastro colposo di inondazione. Cooperazione in omicidio e lesioni colpose plurimi. Con questi tre capi di imputazione, il 22 novembre 1967 vengono rinviati a giudizio dirigenti e consulenti Sade e alti funzionari del Ministero dei lavori pubblici, in tutto undici persone. Per Alberico Biadene e Dino Tonini (dirigente ufficio studi della Sade) parte un ordine di cattura, mai eseguito (e poco dopo annullato) perché i due non si fanno trovare in casa. L'Enel propone ai superstiti di accettare una transazione extragiudiziale: chi la firma si impegna a non rivalersi mai più su Enel e a non essere parte in causa nei processi. "Se l'uomo non può impedire tutto, può prevedere molto" (Marcel Roubault*) L'istruttoria era durata quattro anni: si è svolta tra pressioni politiche e difficoltà tecniche. Il giudice istruttore, Mario Fabbri, durante le indagini, non convinto dell'imparzialità di una perizia geologica sulle cause della frana, decide di nominare un nuovo collegio di periti. Nessun geologo italiano accetta di farne parte, tranne Floriano Calvino, fratello dello scrittore Italo. Le nuove relazioni tecniche, e un'altra simulazione della frana su modellino a Nancy, in Francia, non lasciano dubbi: la catastrofe era prevedibile. INIZIA IL PROCESSO: A 700 KM DALLA DIGA Parallelamente alle indagini della magistratura, vengono condotte altre inchieste: una amministrativa del governo, una dalla commissione parlamentare Bicamerale e una dall'Enel. Sostengono tutte l’imprevedibilità della catastrofe. La tesi del disastro naturale è portata avanti anche dalla stampa nazionale. Dopo il rinvio a giudizio, il processo è pronto a partire. Gli avvocati della Sade ottengono dalla Cassazione che il dibattimento venga spostato in altra sede per “legittima suspicione”: motivo, "problemi di ordine pubblico". La nuova sede è all'Aquila, a circa 700 km da Belluno. La distanza rischia di mettere in seria difficoltà i superstiti, per loro è un viaggio lungo e costoso. Il 25 novembre 1968 il processo del Vajont inaugura il tribunale abruzzese appena costruito. Tra gli imputati manca Mario Pancini, capo cantiere al Vajont. Si toglie la vita il giorno prima. Tra il novembre del '68 e il marzo del '71 si svolgono i tre gradi di giudizio. Che si conclude in Cassazione a Roma, quattordici giorni prima che scatti la prescrizione. Solo due sono i colpevoli: Alberico Biadene e Francesco Sensidoni (ispettore generale del Genio civile presso il Consiglio superiore dei Lavori Pubblici e componente della commissione di collaudo). In prigione finirà solo Biadene, grazie a un condono, per due anni. La sua buona condotta ridurrà il carcere a un anno e 6 mesi. Nel 1996 Erto e Casso vincono una causa civile contro l’Enel. Vengono riconosciuti i danni patrimoniali morali e ambientali: 25 miliardi di lire. Successivamente viene trovato un accordo e la transazione che firmano è di 18,2 miliardi di lire. Nel 1997 il tribunale di Belluno condanna la Montedison a risarcire danni patrimoniali e morali subiti dal Comune di Longarone. La Cassazione obbliga l’Enel a risarcire i beni patrimoniali perduti dallo Stato e i danni ambientali ed economici derivanti dalla “perdita parziale della popolazione del Vajont”. I processi civili si concludono nel 2000, riconoscendo le responsabilità e condannando lo Stato, l’Enel e la Montedison (che aveva acquisito parte della Sade) al pagamento dei risarcimenti. Nel luglio del 2000 un decreto a firma di Giuliano Amato, allora presidente del Consiglio, prevede il versamento di 77 miliardi di lire dall'Enel e dalla Montedison per i danni subiti da Longarone. Lo Stato si fa carico della spesa. Al Comune di Castellavazzo vanno 3,8 milioni di lire. I PERSONAGGI DEL VAJONT Chi sono? Sono quelli che hanno voluto la costruzione della diga, quelli che l'hanno osteggiata e quelli che, per la diga, sono morti. Eccone una breve biografia (clicca sul nome per attivarla). Tra loro, spicca una donna: Tina Merlin. Una coraggiosa giornalista, capace di mettere in dubbio le "ve- rità" ufficiali e dire al mondo cosa stava accadendo nella valle del Vajont.
Nato a Milano nel 1893. Carlo Semenza è l’ingegnere progettista della diga del Vajont. Nel 1929, insieme a Giorgio Dal Piaz, percorre il bacino del fiume Piave alla ricerca del luogo adatto per costruire “la banca dell’acqua”: un enorme bacino idrico artificiale, poi denominato “Grande Vajont” in seguito a una variante in corso d’opera dello stesso Semenza (che innalzava la diga di 53 metri). La sua capacità di progettista lo fa diventare in breve responsabile dell’intero settore costruizioni della Sade. Individuata la valle, Semenza progetta la diga a doppio arco più grande del mondo. Per costruirla, realizza un cantiere enorme. Muore a Venezia nel 1961, due anni prima del disastro. Nato a Feltre nel 1872. Giorgio Dal Piaz, prima farmascita, poi geologo e docente di geologia all’Università di Catania, Dal Piaz fu autore della prima perizia geologica (sulla permeabilità del terreno) nella zona del torrente Vajont. Fu sempre al fianco di Carlo Semenza e della Sade nel minimizzare le informazioni e i dati sulla paleofrana del Monte Toc. Arrivò al punto di parlare apertamente a Semenza della sua necessità di “arrotondare” la pensione da docente universitario, chiedendo di effettuare lavori per la Sade. Chiese a Carlo Semenza di preparare lui stesso una perizia geologica, che Dal Piaz avrebbe poi firmato. A lui è dedicato un premio biennale “alla memoria” dalla Società italiana di Geologia, da lui presieduta nel 1914 e nel 1920. Muore a Padova il 2 aprile 1962. Società Adriatica per l'Energia Elettrica. Fondata da Giuseppe Volpi, conte di Misurata, ministro nel governo Mussolini, nel 1905 a Venezia, "per la costruzione e l'esercizio di impianti per la generazione, trasmissione e la distribuzione di energia elettrica in Italia e all'estero". La Sade è l’azienda che ha voluto e costruito la diga del Vajont. Negli anni ‘20 era una delle più importanti società idroelettriche italiane, quando erano tutte private. Ne sorsero parecchie, in quegli anni, per necessità di politica energetica autarchica, che doveva alimentare l’industria bellica: la quasi totalità delle centrali nel triveneto erano della Sade, compresa quella di Pontesei, sul torrente Maè, dove si verificò la frana che uccise Arcangelo Tiziani. Con la legge del 27 novembre 1962, tutte le imprese elettriche vennero nazionalizzate, diventando proprietà dell'ENEL (Ente Nazionale Energia Elettrica). La nazionalizzazione innescò un processo di differenziazione finanziaria e operativa delle varie società elettriche interessate. Dopo la tragedia del Vajont, la Sade (che aveva venduto tutto all’Enel, per la nazionalizzazione della produzione elettrica), viene travolta dal processo e successivamente fusa con la Montecatini. Venezia 1877-Roma 1947. Giuseppe Volpi è finanziere, industriale e uomo politico. Rimasto orfano, si reca in Montenegro dove, grazie a legami con la Banca Commerciale, finanzia redditizi traffici in tabacco. Rientra in Italia e a soli 27 anni fonda la Sade, Società Adriatica di Elettricità garantendosi il monopolio delle acque. Il prezzo dell'energia elettrica è stabilito dallo stesso Volpi: a Venezia, in quegli anni, la corrente arriverà a costare il doppio che a Parigi. La società è proprietaria dell'impianto del Vajont sino alla nazionalizzazione dell'energia elettrica con la nascita dell’Enel nel 1962. Governatore della Tripolitania, ottiene il titolo nobiliare dal re Vittorio Emanuele III. È noto inoltre per il lancio del polo industriale di Porto Marghera e della Mostra del cinema di Venezia. Ministro delle Finanze dal 1925 al 1929, Senatore e membro del Gran consiglio del fascismo, dopo l'8 settembre 1943 si rifugia in Svizzera offrendo denaro e rifugio a uomini della Resistenza e ottenendo così l'assoluzione di una commissione d'inchiesta dopo la guerra. Non fa in tempo a vedere il grande progetto dell’ingegnere Carlo Semenza, dal momento che muore nel 1947, dieci anni prima della sua realizzazione. Mario Pancini è il direttore dell'Ufficio lavori al cantiere del Vajont e l’ideatore della galleria by-pass, anche chiamata galleria di sorpasso frana. In previsione dell’evento, questa avrebbe dovuto collegare le sponde del lago tagliato in due vasche dai detriti e garantire il funzionamento anche parziale dell’impianto. L’ingegnere era convinto di riuscire a controllare lo scivolamento della frana attraverso invasi e svasi del serbatoio e a questo proposito scrive: “Sarebbe ragionevole favorire i piccoli smottamenti, cosicché il riempimento del fondovalle venisse raggiunto per gradi”. Poco prima del 9 ottobre, si reca in vacanza negli Stati Uniti. La notizia del disastro gli arriva attraverso un telegramma di Biadene: " Improvviso crollo enorme frana ha provocato tracimazione diga Vajont con gravi danni Longarone. Stop. Diga ha resistito bene". Durante la fase istruttoria, ha sempre sostenuto l'imprevedibilità del disastro e la propria subordinazione al direttore del servizio costruzioni idrauliche. Si suicida a Venezia, alla vigilia dell'inizio del processo. Ferrara 1885- Venezia 1977. Lavora come imprenditore nell'azienda paterna di costruzioni edili, occupandosi di ferrovie, strade e vie fluviali. La sua figura è del tutto simile a quella del Volpi, da cui è definito “fraterno amico”. Svolge attività in campo finanziario, armatoriale, di navigazione e commerciale. Con Volpi, fa parte del “gruppo veneziano”. Come Volpi, ottiene il titolo di conte (di Monselice) e si distingue per la sua spregiudicata capacità industriale. Aderisce al fascismo e nel 1927 è fiduciario di governo. Mussolini
lo nomina nel 1943 ministro delle Comunicazioni, carica che abbandona dopo pochi mesi orientandosi alla dissidenza. Mussolini definirà tale atto “disfattismo” e Cini verrà poco dopo arrestato dalle SS. Fugge dalla clinica in cui viene internato e raggiunge Volpi in Svizzera. Viene anch'egli assolto dalla commissione d'inchiesta post-guerra che anzi ne tesse le lodi di patriota. In qualità di Presidente della Sade, depone per tre volte nel processo del Vajont. (Trichiana, 19 agosto 1926 – Belluno, 22 dicembre 1991). Tina Merlin all'anagrafe Clementina, oggi è ricordata come "quella del Vajont": l'unica giornalista che abbia denunciato i pericoli della diga e lo strapotere del colosso energetico Sade. Con un coraggio che le veniva forse dai tempi dell'occupazione nazifascista quando era stata staffetta partigiana, nome di battaglia Joe. Lla Resistenza si rivela un'esperienza formativa che le cambià il corso della vita. Nata da una famiglia povera, contadina, dopo la guerra inizia a dedicarsi alla politica e al giornalismo d'inchiesta come corrispondente di provincia. “Se anche noi donne partecipiamo, domani avremo maggiori diritti”. Si batte anche per questo, attraverso i suoi articoli sulla condizione femminile. Altri temi a lei cari sono l'emigrazione, il lavoro, la montagna, la resistenza. Eppure non compare nel pantheon degli scrittori famosi: "Sulla pelle viva" il suo libro sul disastro del Vajont impiega 20 anni a trovare un editore che lo pubblichi. Come si spiega? Gianpaolo Pansa scrisse che nei confronti di Tina Merlin "agiva un triplice black-out: maschilista, di rango professionale e di avversione politica". Professionista, donna, e per di più comunista. Ma lei, da "ribelle della montagna", non si è mai arresa, né lasciata intimidire: "perché no importa cosa ti ga davanti, importa quel che ti ga dentro". Nato nel 1908 a Salisburgo. Muller è il geologo che studia scientificamente il versante del monte Toc, stabilendo luogo, dimensioni e profondità della paleofrana che causò la tragedia. Non solo: Muller, pioniere della geomeccanica e della geologia applicata, comprende il ruolo attivo dell’acqua dell’invaso che, infiltrandosi nella roccia, si mescola con lo strato di argilla, trasformandola in un lubrificante. Nei suoi studi Muller capisce che l’acqua riesce a “plastificare” la roccia, rendendo instabile tutta la paleofrana. Dal 1959 al 1963 studia la geologia del monte Toc. E decreta che l’unica misura di sicurezza sarebbe stata l’abbandono del progetto. La Sade tenderà sempre a minimizzare le sue ricerche, accolte soltanto dal figlio di Carlo Semenza, Edoardo. Dopo una vita da docente universitario nel campo della geotecnica e geologia applicata, muore a Salisburgo nel 1980. Nato a Vittorio Veneto nel 1927. Figlio del progettista della diga, Carlo, è geologo e incaricato dalla Sade di redigere una perizia sul Monte Toc. Le sue analisi ricalcano quelle di Leopold Muller. Nel 1959 Edoardo individua la frana, sostenendone la pericolosità con il padre e i tecnici della Sade. Dopo aver letto la sua perizia, il padre gli suggerirà di “ammorbidirla” un po’, facendola rivedere da Dal Piaz. Dopo il disastro del Vajont Edoardo Semenza diviene membro del Gruppo Nazionale per la Difesa dalle Catastrofi Idrogeologiche del Cnr. Insegna per 40 anni geologia applicata all’Università di Ferrara, dove muore nel 2002 Verona 1907-Roma 1978. Ordinario di Geofisica all'Università di Trieste fino al 1937, poi di- rettore dell’Istituto nazionale di geofisica di Roma, è esperto geosismico. La Sade gli affida, nel 1959, l'analisi della composizione del monte Toc. Due anni prima il geologo Leopold Müller aveva messo in guardia la Sade sulla pericolosità di un'enorme frana in movimento sotto la montagna. Caloi, al contrario, sostiene che il basa- mento del Toc è costituito “da un potente supporto roccioso autoctono”. La Sade si servirà negli anni del tranquillizzante rapporto di Caloi, malgrado le successive analisi di Edoardo Semenza che confermano le teorie di Müller. E nonostante un anno dopo lo stesso Caloi noti il decadimento delle proprietà elastiche della roccia che tanto lo rassicuravano. Nato nel 1907 - 22 marzo 1959. Di lui si sa poco. Invalido, è il custode della diga di Pontesei, un’altro impianto della Sade sempre progettato da Carlo Semenza. All’alba del 22 marzo 1959 una frana di 3 milioni di metri cubi di roccia si stacca dai monti Castellin e Spiz, precipitando nell’invaso, 13 metri sotto il livello di massimo carico. L’onda generata supera la diga e travolge Tiziani, uccidendolo. Il suo corpo non sarà mai più ritrovato. Questa tragedia è considerata “antefatto” di quella del Vajont. Dopo l’evento, l’Enel ha abbassato della metà il carico della diga. Nato a Macerata. A trent'anni è il giudice istruttore che avvia il processo per il disastro del Vajont. Durante la fase istruttoria raccoglie una mole rilevante di documentazione (143 faldoni sottoposti a sequestro giudiziario), superando forti pressioni politiche e difficoltà d'indagini, anche tecniche. Risulterà de- cisiva, per individuare le responsabilità della catastrofe, la sua decisione di far ripetere una perizia, ingaggiando un nuovo Collegio di esperti geologi. L’istruttoria si chiude dopo due anni (dal 15 febbraio del '64 al 21 feb- braio del '68) con una sentenza di rinvio a giudizio dei vertici della SADE. Fabbri è stato anche procuratore della Repubblica e presidente della commissione tributaria regionale, prima di ritirarsi in pensione nel 2002.
Subentra dopo la morte di Carlo Semenza. L'ingegnere Nino Alberico Biadene subentra alla direzione del Servizio costruzioni idrauliche alla morte di Carlo Semenza, nel 1961. È lui a dare istruzioni di alzare la quota dell'invaso a 710 metri. Dopo i primi smottamenti della frana decide di abbassare il livello dell'acqua della diga. Nelle varie relazioni che invia al ministero dei lavori pubblici omette di riportare o mi- nimizza i continui segnali di pericolo che provengono dal monte Toc: smottamenti, strani rombi e scosse si- smiche. Solo la sera prima del disastro informa il geologo Penta, che è a Roma, delle prove effettuate su mo- dellino di Nove di Vittorio Veneto e che la quota di sicurezza fissata durante gli esperimenti era stata superata a settembre. Durante il processodichiara che i consulenti della Sade non lo avevano mai avvertito dei pericoli che avrebbe corso la popolazione. La sentenza di Cassazione del 25 marzo 1971 riconosce Biadene (e Sensi- doni) responsabile del disastro, di inondazione, aggravata dalla previsione dell’evento, e degli omicidi. è con- dannato a cinque anni di cui tre condonati, che sconta in carcere. Viene rilasciato prima del termine per buona condotta. Sanremo 1927 - Genova 19 gennaio 1988. Fratello del famoso scrittore Italo, nel luglio 1966 è professore pracario all’Università di Padova quando viene chiamato dal giudice istruttore Mario Fabbri a svolgere una perizia collegiale. E sarà anche l’unico geologo italiano ad accettare l’incarico. Le stesse inda- gini, condotte in precendenza da un altro gruppo di accademici, “sulle cause di manifestazione e caduta della frana del Vajont” erano risultate poco attendibili. La seconda perizia invece, si rivelerà fondamentale per ac- certare le responsabilità degli uomini della SADE che vengono rinviati a giudizio. In seguito, la carriera acca- demica di Calvino subirà un arresto: è costretto a lasciare l'Università di Padova e solo dopo la bocciatura a due concorsi ottiene la cattedra di Geologia applicata presso l' Università di Genova. Presta poi la sua opera in favore dei parenti delle vittime di sciagure come quella di Malga Villalta (alpini travolti da una valanga) e di Stava. Impegnato in attività a sostegno dei paesi poveri, con militanza attiva nel tribunale Russel e nella lega internazionale per i diritti dei popoli, partecipa alla realizzazione di importanti progetti quali la diga Bakolori in Nigeria e la bonifica del Tana-Beles in Etiopia, e svolge attività didattica presso l' Università di Modagiscio.
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