Una riforma della scuola in 3 mosse - Stupor Mundi - Ugo Libardo

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Una riforma della scuola in 3 mosse - Stupor Mundi - Ugo Libardo
Una riforma della scuola in tre mosse, Messaggi invisibili, di Ugo Libardo, Stupor Mundi 2005

                                   Ugo Libardo

                           Una riforma
                           della scuola
                           in 3 mosse

                      Stupor Mundi
                                                                                                1
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                           Una riforma della scuola in tre mosse
                             Copyright © 2015 by Ugo Libardo
                                website: www.parlaconugo.it
                          Questo opuscolo, e qualsiasi parte di esso,
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                            Book Design by Gianmarco Violante
                        Disegno in copertina di Fabrizio De Tommaso
                               2015 Editrice Stupor Mundi®
                              e-mail: ugo.libardo@gmail.com

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                                    Nota dell’autore

        Ringrazio colleghi, amici, dirigenti scolastici, sindacalisti,
        che con le loro critiche, le loro riserve, le loro osservazioni
        mi hanno inevitabilmente indotto a scrivere questo opuscolo,
        che dedico soprattutto agli studenti e ai loro genitori, non
        sempre al corrente di ciò che accade alla scuola italiana.
        Questo opuscolo è, in realtà, una lettera aperta e contiene
        informazioni preziose per capire a quali condizioni, oggi, è
        ancora possibile progettare un avvenire dignitoso e ricco di
        opportunità, grazie anche alla scuola.
        Sarà una lettura agevole e lieve, ma non superficiale, che
        aiuterà a dissipare la nebulosa polemica sul delicato
        argomento della riforma. Sarà in grado la nostra scuola di
        migliorare l’offerta formativa e aiutare i nostri ragazzi ad
        affrontare l’incerto e l’ignoto senza paura?
        Giovani e meno giovani capiranno, finalmente,
        1. a quali condizioni e in base a quali principi fondanti può
        e deve funzionare una scuola moderna, osservando i sistemi
        di istruzione più avanzati nel mondo e, inevitabilmente,
        2. che aspetto avrà la nostra scuola dopo l’approvazione
        della riforma (luglio 2015).

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                      Una riforma della scuola in tre mosse

       Al popolo della scuola

       Vorrei attirare l’attenzione su un vizio originale della nostra
       scuola che costituisce un ostacolo per qualsiasi azione didattica.
       Mi rivolgo a una fetta consistente della popolazione – in primo
       luogo a studenti, genitori, docenti – tuttavia, riflettendo,
       difficilmente troveremo un cittadino che si possa considerare
       estraneo al contenuto di questo opuscolo.
       È necessaria una breve premessa: nei paesi mittel- e nordeuropei,
       nei paesi scandinavi, ma anche negli Stati Uniti, in Canada,
       Australia, e molti altri fra i più avanzati, non si boccia e non si
       blocca il percorso formativo di un alunno. Tutti gli studenti,
       bravi e meno bravi, passano all’anno di corso successivo – ma
       con una peculiarità: un 4 in matematica o in inglese rimane 4, e
       viene registrato nel portfolio dell’interessato.
       L’unico – si fa per dire – effetto collaterale per lo studente
       debole, per es., in materie scientifiche, sta nel fatto che non potrà
       accedere a facoltà scientifiche.
       Nei paesi che ho citato e che conosco per diretta esperienza, si
       considera normale quanto segue: solo 2/10 degli studenti
       brillano in tutte le materie; solo 2/10 degli studenti falliscono
       nella maggior parte delle materie (e tali soggetti vengono presto
       orientati verso i più disparati percorsi professionali); i restanti sei
       possono risultare carenti in una o più materie, ma ciò viene
       considerato nella norma, come una qualsiasi altra caratteristica
       personale (altezza, colore dei capelli, personalità, ecc.).
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       Il nostro apparato di istruzione non prevede che uno studente
       possa avere una insufficienza, ancorché una sola, pena la non
       ammissione all’anno successivo. Ma è ragionevole una tale
       aspettativa? Ne consegue che la stessa scuola è costretta ad
       attuare un recupero in appello dello studente – sebbene ciò
       richieda un coup de théatre: chiamasi tecnicamente Giudizio
       sospeso… la lodevole manovra riparatrice dettata dal buon senso,
       atta a riavviare agli studi i normalissimi studenti che presentano,
       sì, delle carenze in alcune discipline, ma che per questo motivo
       verrebbero altrimenti esclusi da qualsiasi percorso.
       Il giudizio finale viene rimandato a settembre, allorché lo
       studente, dopo aver studiato durante l’estate, ha la possibilità di
       riparare nelle materie in cui si era mostrato insufficiente,
       sostenendo prove scritte e orali.
       E via a verbalizzazioni, giudizi sintetici inattaccabili, notifiche
       alle famiglie, convocazioni, la predisposizione delle verifiche, la
       correzione, il colloquio orale, poi le operazioni di scrutinio, i
       dibattiti – a malapena necessari – fra docenti favorevoli barra
       contrari alla promozione, la prevedibile promozione, ancora
       verbalizzazioni, le notifiche…
       Ma non è tutto. Se alle prove di riparazione lo studente dovesse
       ancora risultare insufficiente, gli si accorda un aiutino, il
       cosiddetto Voto di consiglio, grazie al quale un 5, un 4, un 3,
       vengono passati a 6, per decisione del consiglio di classe.
       “Un Falso in ufficio!”, mi ha fatto notare un collega svedese.
       Tutto questo – che in qualsiasi paese moderno sarebbe definito
       una folie collective – trova la sua logica in apparati più
       tradizionali, particolarmente attenti alla forma.
       Il recupero fittizio di uno studente, pur con tali discutibili
       modalità, sarebbe ragionevole, non creasse dubbi di credibilità

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       per l’intero sistema scuola, nonché problemi di rispetto per il
       lavoro dei docenti – subito sfiduciati dagli alunni.
       – “Prof! Ha messo 6 a Riccardo, e a me… solo 7?”
       Come dargli torto? Perché impegnarsi, se tutti vengono promossi
       e tutti possono proseguire gli studi in modo indifferenziato? Il
       segnale che si invia è devastante, eppure, nonostante certe
       serissime implicazioni, si preferisce procedere in tal senso,
       incidendo pesantemente sul carico di lavoro del personale
       docente e amministrativo. In nessun altro paese è osservabile una
       simile fiaccante procedura, e presto vedremo perché.
       Certo, non si tratta di amore per il teatro. Sotto sotto, deve covare
       qualcos’altro che giustifichi la messa in scena, poiché il rituale è
       troppo dettagliato e non mostra alcunché di casuale.
       È un fatto che il voto di consiglio certifica competenze
       inesistenti, e che il beneficiario di tale ambiguo credito è
       destinato a pagare un prezzo molto alto: illegittime aspettative,
       una svalutazione del suo titolo di studio… e le conseguenti
       disconferme nel mondo del lavoro.
       Per induzione, subiscono un’inflazione anche i diplomi degli
       studenti più bravi. Avendo dato un 6 a Riccardo, la tentazione è
       forte di passare tutti i legittimi 6 a 7, e l’8 di Chiara a 9.
       Non appena Chiara accetta il 9 – e indubbiamente lo farà –, il
       cerchio si chiude e, dal ministro ai funzionari ministeriali,
       passando per i dirigenti regionali, quelli scolastici, i docenti, fino
       all’alunno, il patto di complicità è perfezionato. Una prassi
       apparentemente insignificante si trasforma in uno strumento di
       educazione al garbuglio.
       Nel frattempo, i giovani osservano e registrano tutto.
       Risultato: gli studenti italiani occupano gli ultimi posti nelle
       graduatorie mondiali per competenze in materie matematiche,
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       scientifiche e linguistiche. La dispersione scolastica tocca da
       alcuni anni quote allarmanti, e chi sono i principali indiziati?...
       Gli insegnanti!
       È un pensiero che, forse, farei anch’io, se non fossi nella scuola.
       In qualche modo, l’equivoco scaturisce da una certa fede, da
       parte di molti, nelle trasfusioni di conoscenza, in un meccanico
       travaso di sapere dal docente al discente. Si rimuove il principio
       secondo cui la scuola, fondamentalmente, fornisce risorse umane
       e strumenti per procurarsi il sapere, non, in automatico, il sapere.
       Ogni studente deve entrare a scuola provvisto di spirito di
       sacrificio e consapevolezza su ciò che vuole fare e conquistare
       da grande. Il maestro entra in scena solo quando l’allievo è
       pronto a ricevere, e tale felice predisposizione deve essere
       generata in famiglia. È questo il primo e più congeniale ambiente
       in cui i ragazzi devono imparare ad affrontare le responsabilità e
       ad apprezzare il valore del proprio percorso formativo. Allora,
       solo allora, la scuola può inserirsi con successo nella formazione
       di uomini e donne che, di lì a qualche anno, sosterranno
       l’economia del paese. Quello della scuola non può che essere un
       lavoro di fino: creare opportunità, favorire il confronto
       intellettuale e relazionale, ed elevare la qualità della vita. La
       scuola e gli insegnanti non creano prodotti di qualità dal nulla.
       Nessuno si domanda: - “Ma che cosa rende tanti altri paesi più
       efficaci e più efficienti in materia di istruzione? Cos’hanno
       quelle culture che a noi manca? Che fine ha fatto la grande Italia
       che è stata faro di civiltà e magnificenza per il mondo intero?”
       Naturalmente, sono molti i soggetti e le dinamiche chiamati in
       causa per il fallimento scolastico, ma raramente lo si attribuisce
       al dilagante vuoto educativo genitoriale; all’incapacità di
       concentrarsi, impegnarsi e sacrificarsi da parte di molti studenti,

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       ma anche all’impossibilità per molti di loro di esprimere le reali
       attitudini personali, a causa di un’offerta formativa confusa e
       pasticciona (penso alle quotidiane collisioni fra attività
       progettuali e lezioni canoniche). Spesso è la logistica a essere
       inadeguata; non sempre laboratori e tecnologie sono bastanti e
       accessibili. L’amministrazione, di stampo burocratico, impone
       protocolli che rubano sempre più tempo ed energie ai docenti.
       Se dopo 50 anni di riforme in successione la situazione nella
       scuola è precipitata, allora occorre resettare il sistema. Si
       impone una svolta radicale nell’approccio al problema. Per
       ottenere qualcosa che non abbiamo mai avuto, dovremo pur
       iniziare a fare qualcosa che non abbiamo mai fatto.
       Partiamo da una questione che è centrale e, per antonomasia,
       discriminante fra buone e cattive scuole.
       Una società che non ponga solide basi sulla meritocrazia disegna
       una parabola fatalmente discendente e crea, a caduta, mediocrità,
       incompetenza, corruzione, fragilità democratica, instabilità
       economica, criminalità spicciola e organizzata – tutti elementi a
       noi familiari, distintivi della nostra giovane repubblica.
       Ma, la meritocrazia, laddove sia riscontrabile, non arriva dallo
       spazio, né attecchisce fortuitamente. Si pianta con sistema e si
       coltiva a partire dalla famiglia e dalla scuola. È uno stile di vita,
       una abitudine, come spazzolarsi i denti. Oscurare questo
       principio porta una società alla rovina, immancabilmente, poiché
       ignorandolo, quella società attiva uno strumento di selezione al
       contrario che porta in posizioni di responsabilità persone non
       sufficientemente competenti e, a seguire, determina inefficienza
       e mal funzionamento.
          “Comincia a delinearsi il motivo principe della vittoria della
          corruzione sulla Costituzione.”
          (Gherardo Colombo in conferenza a Brindisi, giugno 2015).
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       Ma non voglio dipingere scenari drammatici senza cercare una
       soluzione. Se le soluzioni non superassero i problemi, in numero
       e qualità, l’essere umano si sarebbe estinto da tempo.
       Quasi ovunque in Italia, pur facendo le cose giuste, si prova la
       sensazione di stare a sbagliare tutto. I risultati arrivano a fatica. È
       come iniziare ad abbottonarsi la camicia partendo dall’asola
       sbagliata. L’abbottonare, in sé, è corretto, ma il risultato finale è
       che si deve ricominciare tutto daccapo.
       Lavorando all’estero, ho provato la sensazione di iniziare ad
       abbottonarmi a partire dall’asola giusta e, come per magia, tutto
       comincia a quadrare, i conti tornano, l’impegno porta risultati e
       soddisfazione. Le aspettative si trasformano in progetti reali,
       realizzabili in un tempo ben definito, e la differenza sta tutta
       nell’impostazione: quasi un dettaglio. Non è vero che in Italia si
       lavori meno, al contrario, si lavora di più, ma male.
       Osservando gli apparati scolastici di successo, è subito possibile
       intravedere le tre mosse particolari che produrrebbero migliorie
       consistenti nell’arco di pochi anni.
       Tutto quanto segue, tengo a precisare, non è una mia utopistica
       visione. Accetto il merito di aver raccolto idee e procedure per
       descrivere modelli già esistenti e funzionanti, che hanno
       consentito a paesi del terzo mondo, come Ghana e Camerun, di
       superarci in quanto a conoscenze e competenze
       Prima di procedere, vorrei chiedere al paziente lettore ancora un
       piccolo sforzo, una prova di coraggio: facciamo insieme, solo
       per dieci minuti, un bagno di umiltà, come se nulla sapessimo di
       scuola, per incuriosirci e cercare di scoprire se e come sia
       possibile evitare quell’estenuante procedere per tentativi ed
       errori – tali si sono dimostrate tutte le riforme della scuola –
       sperimentando sulla pelle dei nostri giovani e sulla nostra stessa.

                                                                                                9
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                                        Prima mossa
       Ammissione all’anno di corso successivo, senza debiti, di tutti
       gli studenti, assegnando loro i voti realmente maturati.
       Al termine del corso di studi, come già anticipato, chi non
       presenti buone valutazioni in discipline umanistiche e sociali,
       non può concorrere per l’ammissione a facoltà come Lettere,
       Storia, Filosofia, Diritto, Scienze della formazione, ecc..
                                           Benefici
       a) Tale scrematura, operata dall’istituto di provenienza, rende
       meno significativo l’Esame di Stato, che potrebbe placidamente
       essere abolito (in Europa, oltre all’Italia, solo la Francia conserva
       il Baccalaureat, titolo equipollente). L’esame di stato costa ogni
       anno 200 milioni di Euro, che si potrebbero usare diversamente
       (solo un candidato su cento viene bocciato).
       Tuttavia, mi sforzerò di non parlare di soldi, ma solo di
       meccanismi, principi e valori fondanti dell’istituto scuola.
       Quando un principio viene adottato perché fa anche risparmiare
       o guadagnare, si può essere sospettosi sulla sua effettiva validità.
       Una buona scuola costa, e non potrebbe essere diversamente.
       b) Si accede all’università direttamente per titoli e meriti di vario
       tipo, senza ricorrere ai molto chiacchierati test d’ingresso, da noi
       fonte di polemiche, oltre che dall’incerto valore selettivo.
       c) La selezione dell’università tiene anche conto della tipologia
       dei crediti lavorativi accumulati durante i congedi estivi, le
       vacanze invernali o i fine settimana. Il valore educativo di questo
       aspetto extrascolastico è inestimabile.
       Nei paesi a cui mi riferisco è considerata una equazione
       matematica: un adolescente che non sia impegnato regolarmente
       in attività extrascolastiche costruttive (associazioni benemerite,
       sport, lavoretto, ecc.), intraprende attività – anche distruttive –

                                                                                                10
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       che minano o rallentano la strutturazione della sua personalità.
       Non vi sono dubbi sull’affidabilità dei giovani che lavorano – se
       al chioschetto, in fabbrica, da un artigiano, in un magazzino o in
       un pub, poco importa. È generalmente più naturale per quei
       ragazzi estendere il senso di responsabilità a tutti gli altri
       momenti della loro vita sociale. La scuola non è considerata
       onnipotente poiché il concetto di formazione si sviluppa, a
       complemento, anche al di fuori di essa.
       La selezione per titoli e competenze maturate sul campo viene
       giudicata più affidabile, quella che meno si presta a clamorose
       sviste o manipolazioni.

                                       Seconda mossa
       A partire dal primo anno di liceo, offrire una scelta nelle varie
       discipline, fra corsi A (specializzanti) e corsi B (nozioni
       generali), secondo le ambizioni e i progetti del singolo studente.
       Il corso A privilegia l’analisi, e richiede approfondimenti a casa,
       compiti e relazioni da consegnare e dibattere in classe.
       In un corso B si pone l’accento sulle nozioni, ed è sufficiente
       essere partecipi e attenti a scuola. Verifiche frequenti, del tipo a
       scelta multipla, rappresentano sia un mezzo per apprendere e
       rinforzare, sia uno strumento di valutazione.
       Ma attenzione, non vi sono insegnanti di serie A o serie B. Ogni
       insegnante si occupa di tutte le tipologie di corsi, i quali
       richiedono una diversa gestione del quadro orario settimanale:
       gli studenti si separano e si ricongiungono secondo il corso
       prescelto (immagino lo sgomento dei colleghi che si occupano
       dello schema orario). In alcuni paesi, tutti gli iscritti allo stesso
       anno di corso sono un’unica classe allargata.

                                                                                                11
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       In questo opuscolo descrivo aspetti generali, trasversali fra i
       sistemi di istruzione in nord Europa, i quali hanno però,
       ciascuno, caratteristiche e aspetti singolari.
       Nei paesi anglosassoni non esistono differenti istituti di
       istruzione superiori, come da noi, a indirizzo liceale, tecnico o
       professionale, a loro volta suddivisi per tipologie più specifiche.
       Vi è una sola ed unica scuola secondaria superiore.
       Come già accennato, materie fondamentali come Matematica e
       fisica, chimica, madrelingua, ecc. vengono insegnate a due e,
       talvolta, più livelli di approfondimento, (per es. Advanced,
       Normal, Basic), e gli studenti fluttuano attraverso i vari livelli in
       base alla loro predisposizione. Ne consegue che la matematica,
       la chimica, la filosofia, la madrelingua, ecc., non risultano più
       facili o più difficili in una scuola piuttosto che in un’altra
       (mentre da noi, non offrendo scelta fra corsi A o B, si sviluppa,
       quasi in automatico, una matematica del liceo scientifico, una
       del liceo artistico, una del professionale, ecc. – per non parlare
       delle differenze che possono emergere fra liceo e liceo, sia nel
       territorio, sia nel confronto nazionale).
       Una omogeneità di valutazione viene garantita da verifiche
       standard obbligatorie (prove INVALSI) nelle principali materie –
       in quei paesi assolutamente vincolanti per un docente ai fini
       della valutazione che andrà a esprimere su ogni studente. Un
       voto finale significativamente più alto o più basso di quello
       ottenuto nelle prove standard, va motivato per iscritto al
       dirigente scolastico e, eventualmente, a un ispettore didattico (la
       questione del merito è di importanza centrale in quei sistemi).
       Ciascun istituto introduce nella sua offerta formativa una miriade
       di corsi complementari – i quali generano anche un sensibile
       incremento delle cattedre (fotografia, falegnameria, disegno,
       igiene e cura di un animale domestico, lingue europee e orientali,

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       tessitura, agronomia, economia domestica, cucina e pasticceria,
       tornitura, saldatura, meccanica applicata, ecc.). Questi corsi
       costituiscono una vera attrazione per i giovani meno avvezzi allo
       studio e, una strada, finiscono per trovarla tutti, poiché c’è
       chiarezza di idee e non si lesina sull’istruzione.
       I paesi leader di oggi sono tali in quanto hanno capito da tempo
       che la qualità dell’offerta formativa non è mai un costo, e che la
       non-qualità, invece, lo è sempre. L’intera società è chiamata a
       pagare un conto molto salato in termini di crescita e benessere.
       Il numero di materie viene via via ridotto negli ultimi anni, e gli
       studenti si focalizzano sulle materie richieste per uno specifico
       percorso universitario.
       In ogni caso, nessuna strada è preclusa ad alcuno. Chiunque sia
       in possesso del solo livello B in una materia divenuta decisiva
       per un nuovo percorso, può integrare il livello mancante
       successivamente, seguendo corsi ad hoc e superando i singoli
       esami, tenuti ciclicamente in istituti accreditati.
       I coetanei europei dei nostri ragazzi, a 15/16 anni, non sono più
       brillanti, ma occupano nei loro paesi una posizione prominente.
       Le società anglosassoni hanno, per lunga tradizione, considerato
       prioritaria la spesa destinata all’istruzione. Persino in piena crisi
       bellica, mentre la Germania si accingeva a invadere l’Inghilterra,
       il consiglio dei ministri inglese propose a Winston Churchill di
       dirottare i fondi dell’istruzione sui necessari armamenti.
       Il Premier diede una risposta lapidaria: “Togliere i soldi ai nostri
       ragazzi e alle scuole? E per cosa stiamo combattendo, allora?
       I giovani, in quei paesi, sono più sostenuti dei nostri, hanno più
       scelta e più risorse. In una parola, sono più importanti.
       L’offerta formativa, in Italia, non regge il confronto. Nulla di
       strano in altri paesi i ragazzi siano ben disposti verso la scuola,
       più lucidi sull’ambito professionale in cui andranno ad operare.

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                                           Benefici
       a) Ogni studente può concentrarsi nelle materie che ritiene più
       aderenti al suo progetto personale. Diviene consapevole della
       strada per lui/lei più congeniale e persegue obiettivi realistici.
       b) Differenziando e allargando l’offerta, si ottiene un’azione
       didattica di qualità.
       c) Non si organizzano corsi di recupero, poiché ogni studente si
       è già ritagliato il livello del suo impegno.
       d) Il voto è unico per tutte le materie. La verifica orale, tuttavia,
       è raramente utilizzata, poiché oltre a essere troppo carica di
       suggestioni soggettive, non lascia traccia materiale misurabile.
       e) I docenti non devono più fare acrobazie inverosimili per
       adattare il corso ad un amalgama di studenti troppo differenziato
       per capacità, ambizioni e motivazioni: come proporre a tutta la
       classe l’inglese di Chaucer, Shakespeare e Milton, sapendo che
       solo un paio di studenti in una classe riescono appena a
       decifrarli? È evidente che il resto del gruppo ha fame di General
       English – in cui i nostri ragazzi sono notoriamente carenti. Lo
       stesso vale per qualsiasi altra materia.
       f) Cresce il rispetto per l’istituto; gli studenti si sentono più
       legati alla loro scuola; i docenti, più investiti di responsabilità.
       g) La valutazione del singolo docente è l’unica attendibile.
       h) Non si riscontrano problemi disciplinari di rilievo. Il registro
       di classe non contempla neanche la voce Note disciplinari.
       Marinare la scuola è uno stratagemma goliardico poco diffuso.
       Docenti e studenti marcano il cartellino all’ingresso e all’uscita,
       e non è richiesta alcuna giustifica.
       La dispersione scolastica è uguale a zero: i ragazzi più brillanti
       possono alimentare le loro ambizioni; i meno predisposti allo
       studio provano la sensazione di farcela, di non venire esclusi.
       Nessuno giunge a credere che la scuola – e la società – siano
                                                                                                14
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       entità ostili. In tal modo, vengono meno anche le premesse di
       devianze potenzialmente pericolose.
       i) I genitori si sentono chiamati in causa in modo naturale, per
       valutare periodicamente sia l’andamento didattico, sia le attività
       extrascolastiche dei figli.
       Dunque, l’insolvenza di un percorso scolastico ha le sue origini
       in idee confuse sui principi e sulle procedure fondanti di una
       moderna conduzione didattica. Inoltre, le ambizioni poste sui
       contenuti sono inadeguate, sproporzionate e talvolta obsolete:
       come se i vertici stessi del MIUR ben poco sappiano di
       istruzione, o non abbiano mai neanche messo piede in una scuola
       negli ultimi dieci anni. Secondariamente, appare subito come le
       risorse assegnate all’istruzione, già gravemente non conformi al
       resto d’Europa, siano spese in modo a dir poco arbitrario.

                                        Terza mossa
       Semplificare, apprezzare e incentivare il lavoro del docente.
       Questa terza mossa, sprona naturalmente ogni insegnante a dare
       il meglio di sé, e trova automatica attuazione in conseguenza
       delle due mosse precedenti.
       Un insegnante, in Italia, fatica di più rispetto ai suoi colleghi
       d’oltralpe, tuttavia, subisce spesso atteggiamenti allusivi di
       sottovalutazione, talvolta di aperto disprezzo. Pochi sono al
       corrente delle proibitive condizioni in cui si trova ad esprimere
       la sua professionalità.
       Nell’immaginario collettivo, grazie al cinema o a ricordi
       scolastici di chissà quali tempi, ricorre la figura del prof che
       assegna compiti e legge il giornale in classe, che se la spassa
       tutta l’estate, e angoscia i giovani. Coesiste anche l’immagine di
       studenti seduti composti, che pendono dalle labbra del docente,

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       intenti a cogliere il massimo da quella fonte di sapere così
       imperturbabile, alienata da qualsivoglia contaminazione esterna.
       Come spiegare ai non addetti ai lavori che nella realtà non esiste
       nulla di tutto ciò? Chi insegna in Italia, oggi, è divenuto un
       parafulmine sociale, con il compito improbo di aiutare giovani
       confusi sulla propria identità e sulle sfide che li aspettano; la cui
       principale certezza è l’assoluta incertezza del futuro, più
       propensi ad appassionarsi ai sogni dettati dai media che ai loro
       propri; giovani poco avvezzi, per educazione o abitudini
       familiari, alla lettura, al lavoro e alla disciplina come strumenti
       funzionali a risolvere problemi, a migliorare la qualità della vita.
       Tutti gli sforzi pedagogici degli ultimi 30 anni, hanno posto
       l’accento su “come” educare – tipico di un impianto autoritario,
       che deve spiegare ai sottoposti come operare. Non rimane molto
       spazio per i perché. Se qualcosa va storto, è perché una direttiva
       – per assunto infallibile – è stata disattesa.
       Un sistema piramidale riserva i perché al discernimento dei
       quadri dirigenti. I perché sono un’arma a doppio taglio:
       definiscono la messa a fuoco, individuano nessi e fanno giungere
       a conclusioni. Possono ribaltare un intero punto di vista e,
       soprattutto, inchiodano i veri responsabili di un défault.
       Ma chiunque sia veramente interessato a migliorare un certo
       stato di cose, è costretto a ripartire dal semplice, e ripensare il
       “perché” della sua azione, risalendo alle cause di un disagio,
       ovunque esse si annidino. Ma esiste una volontà vera di farlo?
       Sorge sempre più insistente il dubbio che a qualcuno interessi
       conservare questa situazione caotica e inconcludente, del tutto
       anacronistica e perdente nel confronto europeo.
       Da quando il pensiero democratico ha cominciato ad operare
       realmente, modificando alla radice i rapporti fra i sessi e le
       generazioni, le premesse su cui fondare un corresponsabile

                                                                                                16
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       progetto educativo sono cambiate. L’autorità automatica su cui
       un insegnate o un dirigente potevano contare fino a 10 anni fa,
       proveniente dall’alto, viene ora rimpiazzata dall’autorevolezza,
       un riconoscimento che parte dal basso. Il rispetto dello studente
       non è più incondizionato, ne’ può manifestarsi a senso unico.
       In Italia non siamo ancora preparati a cambiamenti di tale
       portata, che esigono di pensare in modo diverso: è il percorso di
       ogni giovane apparato democratico, qual è quello italiano.
       Nel frattempo, esplicite espressioni di sfida da parte di ragazzi e
       ragazze sono sempre più frequenti, e possono toccare pericolosi
       picchi di fisicità, mentre i genitori negano l’evidenza e faticano a
       credere che i loro figlioli siano capaci di tali atteggiamenti.
       Quando infine giungessero ad accettarlo, invece di collaborare
       per risolvere un problema comportamentale, si arrampicano sugli
       specchi, cercano scusanti nell’approccio sbagliato dei professori.
       Il timore di passare per cattivi genitori prevale sulla necessaria
       disponibilità al dialogo.
       E si delinea una nuova sfida: aiutare i genitori a essere educatori
       più attenti. E quale agenzia pubblica avrebbe maggiori
       possibilità di successo in questo compito, della stessa scuola?
       Mai come in questi ultimi anni i docenti devono far fronte a sfide
       educative considerate ardue anche dai professionisti dei disturbi
       da apprendimento. Ciononostante, mai sono stati così additati
       come i principali responsabili di ogni tipo di fallimento.
       Inspiegabilmente, i successi passano inosservati: i promossi
       costituiscono l’80% dei frequentanti, ma non piovono elogi.
       Cosa può spingere tanti soggetti, anche all’interno della scuola, a
       ignorare questo dato straordinario? Possibile che dietro questo
       disfattismo vi sia un disegno preciso? Se sì, quale?
       Torniamo al dato di fatto: moltissimi ragazzi, semplicemente,
       non trovano motivazioni sufficienti per seguire le lezioni, per
                                                                                                17
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       lasciarsi incuriosire, partecipare. Perché? La dirigenza raramente
       se lo chiede, anzi sembra del tutto disinteressata alla questione.
       Anno dopo anno, i docenti si trovano costretti ad abbassare
       ancora un poco l’asticella, e si è ora giunti a lavorare su livelli B.
       Eppure, ancora, si cerca testardamente fra i soli professori la
       causa principale di questa regressione.
       Tale atteggiamento, oltre a essere ingiustificato, sleale e
       pesantemente offensivo, distrae da una più rigorosa analisi delle
       reali cause del declino – perché indagare ulteriormente se il
       responsabile è già stato individuato? Trattasi di un suicidio
       didattico operato dalla stessa scuola.
       Nulla di strano che tanti docenti si sentano a disagio di fronte ai
       test dell’INVALSI. Potrebbe essere un ulteriore strumento di
       critica nei confronti del loro operato. Solo in un clima più sereno
       e obiettivo questi test standard avrebbero la legittima,
       fondamentale importanza che ricoprono nei paesi in cui gli
       insegnanti non sono messi alla gogna.
       Una persona estranea all’ambiente scolastico non può sapere
       cosa significhi entrare in una classe, oggi, e trovare 25 paia di
       occhi puntati addosso: sguardi critici, scettici o, peggio, vuoti e
       indifferenti. Quanti percepiscono il lavoro sottile da compiere
       per mettere un filo di luce in quegli occhi? – pur sapendo che
       quella apertura non è a tempo indeterminato, che quel lampo si
       attiverà quel giorno, ma non si può mai darlo per acquisito.
       I giovani vivono in un mondo divenuto parallelo, che gli adulti,
       genitori inclusi, ignorano completamente. Mentre i colleghi
       docenti europei possono contare su un incondizionato sostegno
       da parte delle famiglie, della società e dei dirigenti scolastici, in
       Italia, mentre si insegna la matematica, l’inglese, l’italiano, ecc.,
       si rendono necessari interventi straordinari per instillare principi
       e valori fondamentali, altrove già profondamente radicati.
                                                                                                18
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       Ci si ritrova a dover spiegare perché è importante essere
       impegnati in una buona causa, in attività sportive, nello sviluppo
       di talenti e atteggiamenti che portino un contributo alla
       comunità. Ancora, provare a infondere nei ragazzi fiducia nella
       società e motivarli a battersi contro la corruzione; con un certo
       imbarazzo, indurli all’onestà, alla laboriosità – mentre l’iniquità
       di politici e amministratori è quotidianamente manifesta,
       impunita e ben remunerata.
       Nel frattempo, la scuola della forma annega nelle carte, nelle
       statistiche, in interminabili adempimenti liturgici; tiene uno
       sterile conteggio delle ore di assenza degli studenti, ma rimuove
       il perché di quelle rigeneranti fughe; si inquieta per il calo degli
       iscritti, entra in concorrenza con le scuole limitrofe e si affanna
       per ottenere più visibilità nel territorio, in cui l’alunno è divenuto
       il cliente da accontentare, non il cittadino da formare.
       La scuola della forma è una maniaca del controllo, spia l’operato
       dei docenti e la quantità dei contenuti – ma non si sofferma sulle
       ricadute negative di una organizzazione obsoleta sull’ambiente
       di lavoro, e di certe procedure sulla didattica e sulle competenze
       degli studenti; si domanda come fare per portare a termine un
       programma, sebbene Popper abbia spiegato che vi sono mille
       strade per giungere alla meta, tutte percorribili se si diviene
       consapevoli del perché.
       Il come – e la stessa metodologia –, per qualsiasi docente dotato
       di buon senso, ne diviene naturale conseguenza, e giunge spesso
       come un’illuminazione: proprio nell’ambito di questa piccola
       magia viene esercitata la libertà e la professionalità del prof.
       I ragazzi di oggi sono molto diversi da quelli di 20 anni fa. Il
       contesto sociale muta così radicalmente e rapidamente da una
       generazione alla successiva, che ogni anno è necessario acquisire
       nuove chiavi comunicative d’accesso.

                                                                                                19
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       Fatta eccezione per poche scuole d’élite, popolate da giovani ben
       guidati dalle famiglie e ben scolarizzati, prima ancora di iniziare
       a fare lezione, un docente deve tener conto di una moltitudine
       inimmaginabile di variabili che mettono a dura prova sia la sua
       competenza, sia le sue più intime convinzioni personali. Solo per
       questo, il suo lavoro dovrebbe essere riconosciuto e premiato.
       Quanto sopra costituisce da circa un ventennio il pane quotidiano
       di ogni docente, al punto da far sorgere il dubbio che possa
       esistere un qualsivoglia corso teorico che insegni ad insegnare,
       poiché l’oggetto del suo lavoro non è statico e prevedibile come
       può esserlo un organismo semplice, ma un elemento in continuo
       divenire: il comportamento di giovani in crescita.
       Non è come puntare ad un bersaglio immobile, bensì come
       cercare di colpire un proiettile con un altro proiettile. Premendo
       il grilletto, ti accorgi che l’obiettivo non solo si è già spostato,
       ma è anche mutato nella sua sostanza: è diventato qualcos’altro.
       E diviene necessario cambiare approccio: tutto da rifare!
       Ogni cittadino deve sapere che oggi, più di ieri, il lavoro
       dell’insegnante non è una questione di quantità, calcolabile in
       mesi, giorni o ore; ma è più esattamente definibile in pochi,
       intensi minuti di alta qualità, alla ricerca del momento propizio
       per trovare con 20/30 ragazzi unici e particolari quell’intesa che
       rende attuabile un piano di lavoro in squadra: mi riferisco al
       momento in cui le loro menti riescono a ignorare i telefonini che
       vibrano negli zaini, e si accorgono che puoi tornare utile; che la
       possibilità di sentirsi realizzati dipende da quello che sono
       disposti a fare oggi, lì, in quell’aula.
       E all’improvviso sanno come si scrive una relazione, come va
       fatta una ricerca, come si svolge un determinato esercizio, che
       tipo di impegno profondere: intuiscono tutto ciò senza sforzo
       apparente, appena dopo aver capito perché ne valga la pena.

                                                                                                20
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       I docenti italiani non sono né migliori, né peggiori dei loro
       colleghi nel resto del mondo occidentale, ma sono certamente i
       meno aiutati, i meno apprezzati, i meno pagati, quelli più oberati
       dalla burocrazia. Numerose indagini confermano che la categoria
       docente in Italia è fra quelle a maggiore rischio di burn out.
       Come se non bastassero le difficoltà oggettive, laddove un
       insegnante operi in contesti che rendono il suo compito quasi
       proibitivo, i successi hanno del prodigioso e vengono ottenuti
       nonostante – non grazie al – sistema.
       I docenti fanno fatica ad applicare le ordinarie strategie
       educative, poiché esperienza e metodologia vengono vanificate
       da basilari problemi di impostazione, di organizzazione e di ruoli
       male interpretati, a partire da quello del dirigente scolastico,
       sinapsi fisica fra amministrazione e corpo docente, una figura
       considerata dai prof sempre più avulsa dalla realtà didattica.
       Se la nostra scuola non recupera i perché e i motivi per cui val la
       pena di investire nei giovani, diventerà il mezzo più improbabile
       per acquisire competenze spendibili nella società, e nessuna
       riforma potrà mai definirsi tale finché non porrà mano a
       elementari questioni di impostazione e organizzazione didattica.
       Qualcuno potrebbe darmi del malpensante, ma dopo molti anni
       mi sono fatto convinto, che gli insegnanti siano divenuti
       progressivamente il capro espiatorio da immolare allo scopo di
       liberare un sistema macchinoso da ogni responsabilità.
       Se si trattasse anche di preservare un tornaconto, allora possiamo
       esser certi che quel sistema non farà passi indietro, e sempre di
       più vorrà annientare chiunque minacci la sua conservazione.
       Un vecchia storia, insomma, che un numero crescente di docenti
       non è più disposto a tollerare. Chi è così stolto da credere che,
       dando addosso agli insegnanti, si possa creare una buona scuola?

                                                                                                21
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       Cito l’assennata dichiarazione dell’ex ministro dell’istruzione, il
       prof. Tullio De Mauro:
          “200 giorni di scuola in Danimarca, Paesi Bassi e Italia; 185 in
          media negli altri paesi europei. Chi blatera sugli insegnati sfaccendati
          e privilegiati dalle troppe vacanze, non solo dice sciocchezze ma,
          contribuendo ad abbassarne la stima sociale, concorre alla loro
          demotivazione e danneggia quindi l’intero sistema dell’istruzione.”
       Tuttavia, si delineano netti i criteri con cui scegliere pubblici
       rappresentanti, dirigenti e funzionari. Voci sempre più insistenti
       si domandano:
       - Sono interessati davvero, questi signori e queste signore nei
       palazzi dei bottoni, a introdurre equità e meritocrazia?
       - Quanto stanno investendo nella scuola e nei nostri figli?
       - Quali controlli stanno adottando a tutela della trasparenza?
       È evidente che vi sono soggetti che non vogliono cittadini
       accorti e competenti. Una buona scuola è incompatibile con un
       sistema egemone corrotto, poiché istruzione, legalità e
       democrazia sono figlie di una igiene mentale meritocratica.
       Che cos’è? Cominciamo a definire cosa non è.
          “Una infinità di inchieste hanno già appurato, con condanne
          definitive, che la funzione pubblica viene spesso interpretata da un
          dirigente o da un funzionario come un mezzo per ottenere privilegi
          per sé e per coloro che fanno parte del sistema, trascurando
          completamente l’interesse di tutta la comunità.”
          (Gherardo Colombo in conferenza a Brindisi, giugno 2015)
       Senza giungere a pensare a corruzione, concussione o turbative
       d’asta, ciò include spesso l’abuso di potere e l’abuso d’ufficio.
       La magistratura ha già accertato che tutte le mafie e tutte le
       amministrazioni corrotte vedono la cultura del merito come
       fumo negli occhi.

                                                                                                22
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Una riforma della scuola in tre mosse, Messaggi invisibili, di Ugo Libardo, Stupor Mundi 2005

          “Perché la cultura fa tanta paura? Perché ti indica la strada per la
          libertà, della scelta, ti insegna a pensare, a non essere gregge. Uno
          stato dittatoriale la prima cosa che uccide è la scuola.” (Primo Levi)
       La questione assume connotazioni non solo antropologiche ma
       anche politiche che, come le questioni economiche e finanziarie,
       non mi sento all’altezza di trattare – pur confidando che altri se
       ne occuperanno nelle sedi adeguate. Sono certo, tuttavia, che il
       lettore comprenderà i motivi che mi spingono a farvi cenno, vale
       a dire al puro scopo di evidenziare l’ampiezza e la portata che
       una vera riforma dovrebbe avere.
       Un apparato leale che aspiri a migliorarsi, non cerca capri
       espiatori, non piagnucola, ma guarda avanti, ci mette la faccia, si
       pone domande e cerca vere soluzioni; certamente, non punta il
       dito su un singolo anello della catena – i docenti –, i più esposti
       alla critica, in quanto sempre in prima linea. Gli insegnanti, nel
       senso più lato, costituiscono evidentemente l’ultima delle
       preoccupazioni del nostro sistema di istruzione.
       Un dispositivo democratico divergente – come vorrebbe essere
       la nostra scuola nelle migliori, teoriche intenzioni – non
       ubbidisce al motto di regime: “Tutti sono utili, nessuno è
       indispensabile”, una parafrasi del concetto “Adeguati al sistema,
       se no guai a te”. Piuttosto, afferma il pensiero: “Tutti sono
       indispensabili, in quanto socialmente e reciprocamente utili”.
       Ma è impossibile avere un’immagine completa del mondo
       dell’istruzione senza spendere qualche parola su una figura
       centrale della scuola che, come i docenti, la occupa in modo
       altrettanto intensivo ed estensivo: il dirigente scolastico – una
       funzione divenuta alquanto complessa e controversa, descritta in
       un articolo di Anna Maria Bellesia, ne La tecnica della scuola.
       Per motivi di spazio, mi permetto di stralciarlo, sforzandomi
       però di rispettarne il senso e lo spirito:

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Una riforma della scuola in tre mosse, Messaggi invisibili, di Ugo Libardo, Stupor Mundi 2005

          “Con la riforma proposta da Renzi, i dirigenti scolastici credono di
          poter trarre grande vantaggio dalle nuove norme per rafforzare
          ulteriormente il loro ruolo. Credono di poter avere esclusiva
          competenza sull’organizzazione del lavoro e sulle modalità di
          utilizzazione del personale, che prima rientravano nella
          contrattazione integrativa.
          Particolari interpretazioni – alquanto forzate – delle norme,
          esautorano il collegio docenti dal deliberare il piano annuale delle
          attività. Già appare chiaro che il collegio dei docenti si sta
          trasformando in un collegio del preside.
          Una buona scuola non può prescindere da buoni, anzi, eccellenti
          dirigenti scolastici. Ma chi valuta il loro lavoro? Loro stessi! Pur
          dicendo debolmente di voler essere valutati, sono sempre riusciti a
          guizzare via da ogni forma di valutazione, e quindi dalla
          responsabilità di risultato.
          Eppure questi dirigenti esigono che i docenti siano valutati, e
          vogliono essere loro stessi a farlo, ad attribuire le premialità, e
          perfino a scegliersi i docenti migliori. Nel bel Paese del nepotismo,
          clientelismo, raccomandazioni e corruzione, nessuna persona
          assennata scommetterebbe un centesimo che questa sia la strada
          giusta per migliorare la scuola.”

       Secondo La buona scuola i docenti devono essere valutati.
       Giusto! Assolutamente doveroso. Ma perché partire proprio dai
       docenti? Vi sono almeno una dozzina di elementi ben più urgenti
       da vagliare, e riguardano soprattutto le procedure, i protocolli, i
       fondi insufficienti – delle cui insolvenze divengono naturali
       bersagli proprio i dirigenti scolastici.

       Questi sono posti costantemente nella posizione di dover
       difendere l’indifendibile, e per un solo banale motivo: se non lo
       facessero sarebbe il caos e la struttura si accartoccerebbe su se
       stessa. Il loro primo compito è salvaguardare la correttezza
       formale di ogni attività. Ancora una volta, la sostanza non
       sembra essere la priorità, ma un fastidioso ronzio che interferisce
       con le procedure. Chi a malincuore, chi votato al prestigioso
                                                                                                24
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Una riforma della scuola in tre mosse, Messaggi invisibili, di Ugo Libardo, Stupor Mundi 2005

       compito, ubbidiscono tutti alla lettera, raramente all’intento
       ultimo della legge. Ma troppo spesso si rendono colpevoli, per
       partito preso, di un grave errore: pur conoscendo le dure
       condizioni di lavoro dei docenti, le rimuovono o le ignorano.

       Ho osservato nel corso di tanti anni questa prodigiosa
       metamorfosi in decine di colleghi divenuti irriconoscibili una
       volta diventati presidi – pur con certe lodevoli eccezioni.

       La Riforma, proprio, non riesce a mettere mano, neanche per
       caso, ad alcuna misura migliorativa di un sistema che, se non
       cade in pezzi, è solo grazie all’impegno degli insegnanti.
       Praticamente nessun articolo o comma della nuova legge mette il
       dito nelle vere piaghe della nostra scuola. Sono rivelati
       l’incoerenza e il raffazzonato patchwork di misure e direttive
       privi di qualsiasi logica. Solo toppe su toppe, nell’evidente
       sforzo di trovare un equilibrio inesistente.

       Al contrario, traspaiono prepotenza e aggressività, indicatori
       inequivocabili di sostanziale debolezza e insicurezza di un
       apparato decadente. Se riflettiamo sulle modalità con cui il
       lavoro di un docente dovrebbe essere giudicato, rimaniamo
       sconcertati: il comitato di valutazione è composto, fra gli altri,
       dal dirigente scolastico, da un genitore e da uno studente.
       Ma che senso ha? Cosa ne sa di problematiche e contingenze
       didattiche il più giudizioso dei ragazzi o ragazze, o qualsiasi
       genitore. Il lavoro di un docente è divenuto straordinariamente
       complesso e articolato, e spazia trasversalmente fra una miriade
       di competenze – antropologia, pedagogia, metodologia, meta-
       comunicazione: sono infinite le variabili, troppo differenziata
       l’utenza, troppo problematico trovare il baricentro su cui
       impostare una lezione. Come si può valutare onestamente il

                                                                                                25
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Una riforma della scuola in tre mosse, Messaggi invisibili, di Ugo Libardo, Stupor Mundi 2005

       lavoro di un falegname che non abbia una officina adeguata, gli
       attrezzi necessari, il legname appropriato?
       Secondo la stessa logica sconnessa, un medico dovrebbe essere
       valutato da un infermiere, un paziente e un familiare; un
       impiegato di Equitalia da una coppia di debitori; un architetto da
       un muratore e un carpentiere; ministro, sottosegretari e dirigenti
       scolastici… da due insegnanti, appunto! (Lucia Fantauzzi)
       Questo criterio di valutazione è una tale forzatura, sostenuto da
       idee così confuse, che non trova pari nel mondo. In nessun paese
       civilizzato è osservabile un simile delirio di norme incongruenti.
       E immagino che presto si convertiranno in presidi anche i
       politici mancati... Ho percepito più volte l’ipotesi sottesa di far
       partecipare al concorso da dirigente chiunque, e non solo chi
       abbia almeno 5 anni di ruolo da docente. La Bellesia continua:
          “La scuola non è un’azienda e, per la sua stessa natura di comunità,
          necessita di una governance partecipativa e non verticistica. Persino
          all’epoca di Berlusconi-Gelmini-Brunetta non fu toccato l’art. 25 del
          D. ivo 165/2001 sui dirigenti scolastici, che devono confrontarsi con
          le competenze degli organi collegiali. Non solo nella scuola, ma in
          tutta la pubblica amministrazione, l’attuale linea di tendenza a livello
          dei Paesi OCSE più evoluti va verso una governance inclusiva e
          partecipativa, che rende accessibile e cooperativo il processo
          decisionale, favorendo corresponsabilità e capacità civica.

          Invece di puntare sulla funzione di coordinamento ed esercitare una
          leadership fondata su processi trasparenti, inclusivi, aperti e
          democratici, i dirigenti scolastici hanno scelto di concentrarsi sul
          monocratico, depotenziando le funzioni decisionali degli stessi
          organi collegiali competenti per legge. Hanno mortificato il corpo
          docente e tenuto ai margini le altre componenti. Famiglie e studenti
          hanno continuato ad essere considerati “destinatari”, e l’unica
          “centralità” pervicacemente perseguita è stata quella focalizzata sul
          capo. Non c’è da meravigliarsi se la percezione della dirigenza è
          stata sentita sempre più come antagonista e poco adatta alla scuola.
          Ma a chi risponde del suo operato? Chi controlla e garantisce dagli
                                                                                                26
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          abusi? Tutto questo va contro il Testo Unico della P.A., che prevede
          valutazione e retribuzione di risultato come caratteristica intrinseca
          ed ineludibile della qualifica dirigenziale. Ma anche contro l’esito
          della consultazione, da cui è emerso che nella scuola deve prevalere
          il clima collaborativo, non la competizione e il conflitto permanenti.”

       In tal modo, il dirigente scolastico si auto-esclude dalla comunità
       del popolo della scuola, qualificandosi piuttosto come un
       ulteriore ostacolo alla realizzazione di un progetto educativo
       corresponsabile.
       Per non parlare della controversa autonomia scolastica accordata
       a ogni singolo dirigente. Una simile idea di autonomia è
       introvabile in qualsiasi altro paese. La gestione e i protocolli
       guida di qualsiasi ente pubblico sono strettamente centralizzati e
       definiti. Il governo che consente discrezionalità di gestione è un
       governo debole o incapace di assumersi le sue responsabilità,
       scaricandole comodamente addosso ai dirigenti scolastici. La
       riforma appena passata in parlamento non fa che complicare la
       loro posizione. Nulla di strano che si siano così focalizzati sulla
       correttezza formale. Immagino che l’euforia iniziale di avere
       carta bianca su tante questioni sarà presto seguita dallo sgomento
       e da un insostenibile stress.
       Allo stesso tempo, la maggior parte dei dirigenti – a cui,
       scientemente, non si lesinano incentivi – pare non rendersi conto
       di entrare in una trappola. La categoria dirigente diviene via via
       talmente assuefatta a certi vantaggi, così dipendente dal sistema,
       che è disposta a combattere per difenderlo, pur riconoscendone
       pecche e contraddizioni.
       Dunque, prevedo grane per i dirigenti scolastici, che dovranno
       rispondere personalmente di ogni minimo errore di
       interpretazione di norme o codicilli – come se già non bastasse il
       gravoso compito loro imposto di dirigere più plessi/istituti.

                                                                                                27
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       Molti ritengono che la riforma 2015 sia un fallimento in partenza
       poiché troppo vulnerabile al cospetto di elementari e fondanti
       articoli della Costituzione, per non parlare delle note posizioni
       già passate in giudicato dalla Corte di Giustizia Europea di
       Strasburgo, che non potrebbe che respingere e, ancora,
       sanzionare quegli errori di interpretazione. Non sono pochi gli
       esperti in materia di legislazione scolastica che intravedono la
       possibilità di una class action. Per la prima volta nella storia
       della scuola tutti i sindacati, congiunti, hanno portato in tribunale
       il testo della riforma. Secondo Anna Maria Bellesia:
          “Non basterebbe neppure il 100% di bravi docenti… Per fare una
          buona scuola ci vuole un bravo dirigente. E col suo lessico da
          marketing lo dice pure La Buona Scuola: “il timoniere è essenziale”
          per cambiare rotta. Il bravo dirigente scolastico, come qualsiasi
          leader aziendale di successo, “coordina” e “valorizza” le risorse
          umane, “rispetta” le competenze degli organi collegiali, facendoli
          ben funzionare, punta al “benessere organizzativo”, è attento alla
          comunicazione, cura la qualità dei processi formativi, sapendo che
          deve misurarsi con diritti riconosciuti in Costituzione. Il bravo
          dirigente è capace di aiutare con la sua autorevolezza chi ha qualche
          difficoltà, di coinvolgere e guidare l’organizzazione verso gli
          obiettivi … Ma quale docente, dopo l’avvento dell’autonomia, non si
          è imbattuto in dirigenti che a scuola non ci dovrebbero stare?
          L’identikit del pessimo dirigente scolastico è presto fatto: un
          burocrate, non un leader. Per farsi ascoltare deve urlare, per farsi
          ubbidire deve minacciare, per comandare deve sanzionare. Per lui il
          confronto è un affronto. In collegio perde le staffe. Non lesina il
          sarcasmo, ma non tollera la battutina. La comunicazione è giurassica,
          benché arrivi online. I sindacati lo sanno bene. Mega collettori di
          quotidiane lamentele, riconoscono che oggi funzionano le scuole
          dove ci sono dirigenti scolastici autorevoli e di “buon senso”. Al
          contrario, regna un pessimo clima dove i dirigenti sono autoritari,
          con comportamenti spesso vessatori nei confronti dei docenti.
          (Anna Maria Bellesia, La tecnica della scuola)

                                                                                                28
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Una riforma della scuola in tre mosse, Messaggi invisibili, di Ugo Libardo, Stupor Mundi 2005

       Occupandomi fondamentalmente dei meccanismi dell’educare
       (ex ducere, accompagnare, condurre fuori), mi rendo conto che a
       questo opuscolo, già estremamente riassuntivo e incompleto,
       mancherebbe qualcosa di essenziale se non accennassi ai criteri
       di selezione normalmente adottati all’estero per scegliere
       insegnanti e dirigenti scolastici.
       Si è già accennato al fatto che solo in Italia si diventa docenti o
       dirigenti scolastici per concorso pubblico – un criterio selettivo
       spesso fonte di scandali, equivoci e irregolarità. All’estero, oltre
       alle competenze e alla laurea specifica nelle materie di
       insegnamento, il futuro insegnante deve vantare esperienze
       lavorative continuative in ambiti non-scolastici, deve aver
       assunto mansioni di gestione delle risorse umane per almeno 5
       anni (ass. sportive, aziende, servizio militare, enti benemeriti o di
       volontariato, Scout, ecc.). L’asticella è posta molto in alto.
       La sommatoria dei vari titoli e crediti porta alla selezione dei
       soggetti più idonei, i quali, prima di salire in cattedra, seguono
       un corso teorico-pratico di un anno in pedagogia e metodologia,
       affiancati, ciascuno, da un docente in servizio, che per un intero
       anno scolastico fa da Tutor nella programmazione didattica e
       nella conduzione di lezioni frontali, progetti, viaggi di istruzione
       e varie attività extrascolastiche. Periodicamente, e senza
       preavviso, un ispettore didattico osserva i candidati in azione e
       ne valuta l’impatto didattico. Nel mio anno di tirocinio teorico-
       pratico, in Svezia, in cui fui fortunosamente ammesso grazie alla
       mia esperienza di allenatore federale e grazie ad una quota parte
       destinata a candidati stranieri, tutti gli aspiranti alla cattedra
       hanno superato brillantemente il corso. Ma si possono avere
       dubbi in proposito, considerati i pre-requisiti? Trenta anni fa
       correva voce a Goteborg che fosse più facile diventare ministro
       che insegnate.

                                                                                                29
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