AUSTRALIA - Chiesa di Cusano
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AUSTRALIA Un Suv le uccide 3 figli. Lei perdona e dice: “Sono in Cielo” Ermes Dovico www.lanuovabq.it, 06-02-2020 Sidney, sabato sera: l’auto di un guidatore ubriaco finisce sul marciapiede e uccide quattro piccoli tra i 9 e i 13 anni, di cui tre fratelli. La madre dei tre, cattolica, chiede che la corte sia giusta, ma pronuncia parole di perdono. E spiega: «Ho il cuore spezzato, ma sono in pace perché so che i miei figli si trovano in un posto migliore». Educati all’amore per Gesù e Maria, i suoi bambini recitavano il Rosario. Una famiglia che, di fronte al dolore, mostra al mondo qual è la Via. Si può solo lontanamente immaginare cosa significhi per dei genitori perdere un figlio, figuriamoci se si tratta di doverne piangere tre in una volta sola: tre figli appena bambini o nella prima adolescenza, travolti un sabato sera da un automobilista ubriaco. È quanto è successo l’1 febbraio a Oatlands, un sobborgo di Sidney, in Australia, ai coniugi Leila Geagea e Danny Abdallah, originari del Libano e di tradizione cattolico-maronita, che si sono visti così portare via tre dei loro sei figli, vale a dire Anthony, 13 anni, Angelina, 12, e Sienna, 9. Insieme a loro è morta anche la cuginetta Veronique Sakr, 11 anni, mentre sono rimasti feriti 1
altri tre giovanissimi amici, tra cui un undicenne portato in ospedale in condizioni critiche e un’altra figlia degli Abdallah. L’incidente è avvenuto verso le 20, mentre i sette fanciulli investiti, alcuni a piedi altri in bici, stavano andando a comprare un gelato. Alla guida del veicolo, secondo quanto riporta 7News, si trovava un ventinovenne, che a quanto pare sarebbe passato con il semaforo rosso. Al momento dell’incidente il livello di alcol nel sangue dell’uomo era di tre volte il limite: adesso pendono su di lui 20 capi d’accusa, tra cui quattro per omicidio colposo. Poco prima dell’impatto letale il suo Suv era stato colto da una telecamera oltre il limite di velocità e, come riferisce 9News, alcuni istanti più tardi ha finito la sua corsa sul marciapiede dove si trovavano i sette piccoli. Di fronte a un dolore tanto improvviso e grande, che spesso si accompagna a rabbia e disperazione, Leila, la mamma dei tre fratellini uccisi e zia di Veronique (descritta dalla famiglia come piena di amore e di vita e più matura della sua età), ha chiesto preghiere e si è aperta al perdono, senza che questo equivalga a un gesto facile o slegato dalla giustizia. «Conosco il ragazzo… guidava ubriaco in queste strade. Adesso non riesco a odiarlo. Non voglio vederlo, [ma] non lo odio. Penso che nel mio cuore io lo perdoni, ma voglio che la corte sia giusta», ha detto Leila lunedì sul luogo dell’incidente, rispondendo, con voce rotta e la coroncina del rosario in mano, alle domande di 7News. Ribadendo poi: «Lo perdono». La donna non ha nascosto il suo stato d’animo, ma ha fatto capire quale grande conforto le derivi dalla fede e dall’aver trasmesso ai suoi figli l’amore per Gesù e Maria. L’educazione cattolica dei loro bambini è stata infatti ciò a cui lei e il marito hanno dato la priorità. «Abbiamo cercato di concentrarci sul lato spirituale più di ogni altra cosa. Abbiamo cercato di insegnare loro a pregare il Rosario, a leggere la Bibbia, a vivere la loro fede, a essere buone persone nella vita, e a mostrare il volto di Dio attraverso loro stessi». Perciò Leila aggiunge: «Sono triste, ho il cuore spezzato, ma sono in pace perché so che i miei figli si trovano in un posto migliore […]. Questi sono soldati di Dio, c’è vita nell’aldilà». Aldilà in cui, ricorda la signora, «non possiamo portarci il denaro, ma porteremo la nostra fede, la nostra religione, quanto abbiamo pregato, quanto abbiamo aiutato gli altri, quanto ci siamo amati gli uni gli altri…». Lungi dall’usare parole di circostanza, Leila parla del Paradiso per i suoi bambini perché i tre mostravano di aver fatto tesoro degli insegnamenti ricevuti in famiglia. «I miei figli hanno avuto una forte fede. Il giorno dell’incidente mio figlio era in chiesa, stava pregando il suo Rosario, quindi so che si trova in un posto sicuro. Mia figlia pregava con mio figlio in 2
macchina. Un paio di volte ho trovato Angelina che dormiva con il rosario in mano. Mio figlio [Anthony] era solito pregare sant’Antonio [di Padova] ogni volta che perdeva qualcosa» e il santo francescano, che ha tra i molti questo particolare patrocinio, lo aiutava a ritrovare le cose perdute. «Potrei raccontarvi storie meravigliose sui miei figli e senza fermarmi. Angelina ha fatto un sogno su san Charbel e lui le ha detto che la ama e che la mia famiglia è benedetta». Certo, la madre confida che non pensava che i suoi figli le sarebbero stati portati via così presto e che tutto le «sembra davvero irreale» perché «sento che sono ancora con me, sto ancora aspettando che tornino a casa, posso ancora sentire che mi abbracciano […]. Mi mancano». Al tempo stesso vede in questo dolore che sta vivendo un segno d’unione con la Passione di Nostro Signore. «Tutti voi conoscete il cristianesimo, e tutti sapete come Gesù è morto sulla croce. E tutti sapete che il Venerdì Santo ci sono le stazioni della croce. E adesso, camminando lungo questa scena, sento che sto camminando per le stazioni della croce». Nel nostro mondo secolarizzato, in cui perfino ambienti della Chiesa pretendono un cristianesimo (e una salvezza) senza croce, la testimonianza di questa madre ci ricorda potentemente che è dal Calvario che passa la Resurrezione. E che Gesù, Dio fatto uomo, «proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente», recitava la seconda lettura domenicale all’indomani dell’incidente di Sidney, «è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Eb 2, 18). L’avevamo già ricordato a proposito della morte improvvisa di Kobe Bryant e della figlia Gianna Maria: tutto cambia se si vive cercando Dio, e il mistero della morte assume tutta un’altra prospettiva se vi si arriva in stato di grazia, perché Lui, Gesù Cristo, ha vinto la morte, liberandoci dalla schiavitù di Satana, e offrendoci di prendere parte alla gloria eterna. Anche il padre, Danny, ricordando commosso ognuno dei suoi figli, è certo che «sono andati in un posto migliore». E sempre lui ha voluto fare una raccomandazione: «Per favore, assicuratevi di aver amato i vostri cari. Soprattutto i vostri figli…», parole che ricordano quelle di una santa come Madre Teresa di Calcutta, che diceva così: «Se vuoi cambiare il mondo, vai a casa e ama la tua famiglia». E questa famiglia, vera piccola chiesa domestica, sta mostrando al mondo qual è la Via per cambiarlo. 3
INNO ALLA VITA Il “sacrificio” entra in scena al Festival di Sanremo Benedetta Frigerio www.lanuovabq.it, 07-02-2020 Sul teatro del politicamente corretto sale un rapper che colpisce Amadeus per la sua voglia di combattere pur inchiodato alla carrozzina con la Sla. Il giovane canta un inno alla vita, parlando della bellezza del sacrificio (l’amore dei suoi cari) e del Rosario che allontana il diavolo della disperazione. Chi soffre non può non essere rimasto colpito, e questo è sufficiente. È proprio vero che il cuore dell’uomo, anche quello di chi non lo sa, anche quello di chi cerca la morte come via di fuga o di chi implora il diritto alla morte per timore della sofferenza, è fatto per la vita. A dimostrarlo è stato addirittura il Festival di Sanremo che della volgarità, della violenza e del politicamente corretto ha fatto la sua casa. In quanto a volgarità basti pensare ad Achille Lauro che ha scimmiottato san Francesco d’Assisi, che si denudò per spogliarsi di ogni bene ed offrire tutto a Dio. In quanto a violenza si pensi alla presenza del rapper Junior Cally, i cui testi sono di una ferocia vergognosa. In quanto a politicamente corretto, ricordiamo le 4
polemiche che hanno accusato di sessismo Amadeus per aver parlato di Francesca Sofia Novello, fidanzata di Valentino Rossi, voluta dal presentatore «perché vedevo... intanto la bellezza, ma la capacità di stare vicino a un grande uomo stando un passo indietro malgrado la sua giovane età». Ma allora che c’entra la celebrazione della vita in tutto questo? C’entra perché, nonostante fosse stato scartato alle selezioni, Paolo Palumbo è stato poi voluto sul palco dell’Ariston proprio da Amadeus. E Palumbo non è un rapper qualunque, perché è anche il più giovane malato di Sla d’Europa, che, oggi ventiduenne, si ammalò a diciassette anni. Ma sopratutto Palumbo non è un rapper qualunque perché, paralizzato e aiutato a respirare dalla tracheotomia, non solo canta la forza e la bellezza della vita, ma è riuscito a portare oltre il sipario di una cultura ormai mediamente ribelle a qualsiasi sofferenza la parola “sacrificio”. Spiegando il valore della rinuncia per ottenere qualcosa di più grande. Facendo cantare l'esistenza come una battaglia e dimostrando cosa significhi vivere virilmente. Così, inchiodato ad una carrozzina, Palumbo ha ricordato all’uomo l'altezza della sua natura. E lo ha fatto prima scrivendo nella sua canzone così: «Nella vita di ognuno di noi c’è un sogno da realizzare, dicono però per avere ciò che vuoi devi lottare, non me la sento proprio di lasciarmi andare perché se esiste una speranza ci voglio provare». Successivamente, aiutato da un comunicatore vocale che leggeva i movimenti dei suoi occhi, ha spiegato che suo fratello «Rosario (che ha lasciato tutto per aiutarlo, ndr) e la mia splendida famiglia mi hanno insegnato cosa significa la parola sacrificio, dedicandomi la loro vita senza chiedermi nulla in cambio, se non di rimanere qui con loro». A dire che vale la pena fare fatica per vivere un’esistenza riempita dalla presenza di chi amiamo e che vale la pena soffrire i dolori della malattia per godere del bene più grande dei propri cari. Ma Palunbo sfugge anche all’interpretazione relativista che solitamente inserisce questi testimoni fra un fenomeno da baraccone e l’altro, facendo così credere che ognuno possa scegliere indifferentemente di interpretare il personaggio che vuole. «Grazie al loro amore - ha continuato il giovane - ho scoperto una forza interiore che non sapevo di avere e che vorrei trasmettervi, perché sono convinto che ce l’abbiamo tutti, anche se non ce ne rendiamo conto». A dire che non c'è malato che abbia bisogno di chi lo voglia "compassionevolmente" eliminare, ma solo di essere sostenuto per scoprire la sua forza. Di qualcuno che appunto gli dica “tu vali le mie lacrime" e a cui lui possa rispondere “tu vali la mia pena”. Infatti Palumbo ha tirato un’altra steccata alla cultura della morte che usa il termine “accanimento terapeutico” per abbandonare i malati e non rianimarli: «Poco più di un mese fa ho affrontato un momento difficile, una crisi respiratoria. Se non fosse stato per la bravura dei medici e il sostegno di tutti quelli che sono accanto a me, oggi non ci sarei. Quando mi sono risvegliato dalla rianimazione ho riflettuto sulla fortuna di essere vivi». Perciò il cantautore ha ricordato che il male più diffuso e grave non è quello che affligge il corpo, ma l’anima con l’egoismo: «Se abbiamo bisogno di un cambiamento è soprattutto nella mente, dove stagnano le disabilità più pericolose come la mancanza di empatia e tolleranza». Per questo nella sua canzone condanna chi giudica da fuori i malati o chi pronuncia frasi come “se fossi in quella condizione preferirei morire": «Vedermi con la sedia a rotelle ti ha infastidito? - dice la sua canzone - Questa malattia fa paura vista fuori», invece «do speranza ad ogni malato». 5
Alla fine del testo il ragazzo ha voluto dire cosa sostiene tutto questo amore, sacrificio e vita. Cosa, in poche parole, lo fa essere lieto: «Credo e recito il Rosario ed è proprio lui a tenere lontano il mio sicario», il tentatore che ci fa pensare il contrario: che il sacrificio sia più grande di ciò per cui vale. Conclusa la performance il pubblico si è alzato in piedi ad applaudire commosso. Certo, può anche essere che per molti la testimonianza di Palumbo sia passata come un puro spettacolo, come un'emozione suscitata da un giovane che ha fatto una sua scelta. Resta però sicuro che chi soffre non può non aver visto una luce. E questo, per il Festival di Sanremo, è più che sufficiente. 6
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