Un condominio in pandemia, seconda parte: E nonostante il virus, venne Pasqua

Pagina creata da Sabrina Mariotti
 
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Un condominio in pandemia,
seconda parte: E nonostante il
virus, venne Pasqua

Pasqua era appena trascorsa, e con lei un insolito lunedì di
pasquetta senza gite fuori porta o pranzi con gli amici.
Per quanto Elodie e Joan non avessero particolarmente a cuore la
festività, decisero di rendere la giornata speciale organizzando
un privatissimo brunch per due, con soffici pancakes, salmone,
avocado, frutta in abbondanza, succo d’acero, grandi tazze di
caffè e il più costoso uovo di cioccolato che fossero riusciti a
trovare. Ormai si erano abituati a tirare tardi la sera, in
compagnia di un film o di un libro, o, magari, giocando a carte
con il mazzo che avevano trovato quella notte in cui, avvinazzati
e colmi di un estemporaneo e genuino buonumore, si erano ritrovati
a rovistare in camera del loro padrone di casa; e il sabato prima
di Pasqua non era stato da meno.

Così, quella domenica, fu un piacere svegliarsi tardi per dedicare
le ore a cavallo tra la mattina e il pomeriggio a preparare,
mangiucchiare, sorseggiare pigramente dai loro capienti mug e
chiacchierare controllando le ultime notizie sui numerosi
quotidiani online che le loro conoscenze linguistiche rendevano
accessibili. Fu una domenica diversa dal solito, che ebbe il
merito di allontanarli per un po’ dai loro studi. Questi ultimi,
per quanto amati, specialmente in un momento in cui il mondo
concedeva poche occasioni di evasione fisica, generavano in loro
la costante angoscia di non essere sufficientemente produttivi,
per qualità e quantità, il che li induceva, di norma, a
comportarsi come se la loro scrivania fosse la postazione di una
immaginaria catena di montaggio di parole, a cui erano addetti
senza orari e con rare e incostanti pause. La Pasqua in
quarantena non sarà stata forse una rinascita per i due
ricercatori, non li avrà liberati di quelle inquietudini
accademiche ormai ben radicate, ma il pasto lento e gustoso,
consumato in pigiama dedicandosi solo a commentare le notizie, era
riuscito ad attenuare la routine giornaliera in cui erano stati
trascinati dalla loro stessa autodisciplina.

Guardando il cellulare, mentre sorseggiava la seconda o terza
tazza di caffè fumante, Joan trovò una notizia che lo fece
sussultare “Elodie, pare che da martedì in Italia riapriranno le
librerie!”, lei rispose con un gridolino di felicità e un sorriso
che le illuminò in un istante il viso tondo e candido e lui,
guardandola in tutta la sua spontaneità, si sentì attraversare
nuovamente da quelle emozioni che già lo avevano colto di sorpresa
qualche giorno avanti, quella stessa sera in cui avevano scovato
il mazzo di carte. Per loro che amavano rifugiarsi nella carta
stampata per esplorare epoche e luoghi lontani, era liberatorio
pensare che presto avrebbero potuto riprendere l’acquisto di
romanzi, uno dei riti settimanali che più li appagava: da impilare
sul comodino, iniziare, abbandonare e poi riaprire a tempo debito,
per lei; da divorare ferocemente e quasi senza interruzioni, per
lui. Nell’ultimo mese avevano compensato tentando scambi
reciproci, rivelatisi di scarso successo, essendo i loro gusti in
fatto di narrativa irrimediabilmente diversi, e acquistando un
paio di e-book, ma senza entusiasmo.

Erano pienamente consapevoli che un giorno, tutti quei libri
accumulati avrebbero potuto rappresentare un vero e proprio peso.
Ma, ignorando gli ammonimenti di amici e colleghi, avevano deciso
di rimandare la questione a quando si sarebbe concretamente
presentata, sperando, in cuor loro, che non succedesse mai. Erano
entrambi stanchi di quella vita errante, perennemente alla ricerca
di una formazione sempre migliore o di un’esperienza più
stimolante, e l’accumulazione di ingombranti pile di volumi
difficilmente gestibili in caso di traslochi transnazionali
rappresentava, in maniera non pienamente conscia, il loro bisogno
di stabilità, fisica, ancor prima che emotiva.

Chi invece si era aggrappata a una vita stabile e routinaria da
quando ne avesse memoria era Elisa. La ragazza del mezzanino aveva
trascorso le sue due giornate libere (e consecutive!) sul divano
in compagnia della sinuosa Lilli, come c’era da aspettarsi. Il
giorno di Pasqua aveva acceso la televisione sulla messa del Papa
e, seguendo le rigide tradizioni di famiglia, aveva accuratamente
posizionato davanti al televisore un uovo lesso, così che venisse
benedetto. Non che credesse con consapevolezza in resurrezioni o
benedizioni, era più la forza dell’abitudine che la spingeva a
certi gesti. D’altra parte, mai si sarebbe detta atea. Lei era
cattolica, perché questo le era stato insegnato, come ti insegnano
che la forchetta si impugna con la sinistra e il coltello con la
destra o che a un “grazie” si risponde con un “prego”. Così, la
mattina di Pasqua, prendeva messa e dato che non poteva andare in
chiesa, perché persino i luoghi di culto dovevano restare chiusi
in quei giorni, l’avrebbe presa tramite quell’apparecchio che già
tante volte le era venuto in soccorso. Se la messa a distanza era
stata una buona soluzione per sua nonna negli ultimi anni di vita
o per sua mamma, quando la preparazione del pranzo la costringeva
in casa la domenica mattina, sarebbe stata un’alternativa
altrettanto valida per lei.

Oltretutto, i seppur minimi risvolti socializzanti a cui la
costringeva l’andare in Chiesa non le erano mai interessati.
Tuttavia, per quanto fosse poco incline ai rituali sociali, non
poter passare il pranzo domenicale con il padre le suscitava una
certa amarezza. E, forse, per la prima volta, si rendeva davvero
conto della portata di quello che stava accadendo. La sollevava
l’idea che almeno lui sarebbe stato in compagnia, trascorrendo il
giorno di Pasqua con i vicini, in un pic-nic improvvisato nel
campo che separava le due grandi abitazioni. Tanto per stare meno
soli, seppur distanti.

Anche le amiche cominciavano a mancarle. Quelle tre amiche così
diverse da lei, ma certamente affezionate, che si era fatta alle
superiori e che in rare occasione riuscivano a convincerla ad
uscire dalla sua nicchia e abbandonare le sue fantasie, per
condividere un aperitivo o una pizza; sebbene avesse sempre
considerato anche queste attività un po’ come un sacrificio, dopo
un mese di distanziamento sociale iniziava a pensare che, in fin
dei conti, le piacevano più di quanto credesse.
Con le colleghe non aveva mai legato, avevano costruito solo un
rutinario rapporto superficiale, fatto di sguardi al cielo, quando
parlava il loro superiore, o di sguardi complici e maliziosi,
quando dalla cassa passava un bell’uomo. Ora però il clima era
cambiato, una strana tensione aleggiava tra le quattro pareti di
cemento che delimitavano il grande supermercato. Gli sguardi erano
diventati preoccupati, le risposte taglienti, persino nei sui
confronti, che cercava sempre di stare in disparte e non
disturbare nessuno. I tentativi per lo più fallimentari di
mantenere il distanziamento non facevano altro che amplificare la
pressione psicologica che lei e i colleghi erano costretti a
subire.

Aveva aspettato che finisse la messa per mangiare il suo ovetto
benedetto, proseguendo la giornata sul divano, spilluzzicando
colomba tutto il giorno, facendo zapping, guardando serie tv e
preparandosi svariati caffè, più che altro per il piacere di
sentirne il profumo. Nel tardo pomeriggio, suoni inattesi
l’avevano smossa dal suo torpore. Un’energica bussata alla porta
era stata immediatamente seguita dalla concitata voce della
badante del primo piano che, con il suo consueto tono
spropositatamente alto, le faceva presente che le avrebbe lasciato
un po’ di coniglio ripieno sul pianerottolo, che la Sig.ra Devoti
aveva insistito e che anche a lei faceva tanto piacere, non
facesse complimenti ora, che per loro era una gioia condividere il
pranzo di Pasqua. Quella ragazza magrolina, sempre sola, aveva
proprio bisogno di un mangiare qualcosa di buono. Ma questo non lo
disse, si limitò a pensarlo risalendo i pochi scalini che la
riportavano a casa. Intanto Riccardo stava scendendo: “certo, che
bell’uomo”, pensò chiudendo la porta.

Elisa ne era felice, dovette ammetterlo; dopo aver ringraziato
educatamente, senza riuscire a mostrare troppo entusiasmo, aspettò
qualche minuto prima di aprire, e quando rientrò in casa, con il
piattino tra le mani e Lilli che le si strusciava sulle gambe,
sovraeccitata dall’appetitoso odorino, stava sorridendo e
d’improvviso, un’inattesa e piccolissima lacrima le scese sulla
guancia destra, se la asciugò con la manica e con un insolito
entusiasmo chiamò il padre. Parlarono per un’ora, forse due,
mentre lei si gustava il coniglio e lui le raccontava cosa avrebbe
voluto piantare quest’anno. La mattina di pasquetta, un’altra
sorpresa la attendeva davanti alla porta: un sacchettino di
biscotti fatti in casa stava adagiato con cura su un bigliettino
tagliato a forma ovoidale, quest’ultimo pieno di frasi affettate,
intente ad esprimere un – fin troppo – caloroso augurio di buona
Pasqua. Firmato: “La famiglia del quarto piano”. Se non fosse
dovuta uscire per buttare via l’immondizia se ne sarebbe accorta
solo il giorno dopo, tornando a lavoro.

I biscotti erano arrivati a tutti i condomini, rigorosamente
corredati dai loro bigliettini, la cui forma tentava – goffamente
– di ricordare la ricorrenza che si celebrava in quei giorni. Si
sarebbe detta l’idea di una bambina, e invece era frutto della
mente instancabile della mamma di Luca e Domenico. Il giorno di
Pasqua al quarto piano era stato da manuale (per quanto
possibile), con tanto di Skype mattutino con gli zii, i nonni e
persino una cugina della mamma, che Luca e Domenico erano sicuri
di non aver mai né visto, né sentito nominare, a dispetto di
quanto sostenesse lei.

Il trasporto che i genitori provavano nei confronti
dell’informatizzazione della vita era disarmante per i due
ragazzi, non perché le loro vite fossero meno connesse e
telematizzate, tutt’altro. Da adolescenti figli della loro
generazione avrebbero potuto benissimo evitare di uscire di casa
per molto tempo ancora, avendo una vera e propria vita, sociale,
ludica e, ormai, anche educativa tra il pc e il cellulare.
Tuttavia, se di norma le videochiamate dei genitori non li
riguardavano, stavolta erano stati fatalmente coinvolti o, meglio,
una volta cascati nel tranello di fare un saluto ai nonni, che
infondo mancavano anche a loro, si erano ritrovati intrappolati in
una serie interminabile di videochiamate a raffica con i
summenzionati parenti. Attività che, neanche a dirlo, si sarebbero
risparmiati con piacere.

Dopo l’abbondante pranzo iniziato con antipasti vari e proseguito
con tagliatelle fatte in casa (male) e condite con ragù
vegetariano (abbruciacchiato), agnello (stopposo) e patate arrosto
(stranamente dignitose), per concludersi con colomba artigianale
(fortunatamente non fatta in casa), non restava altro da fare che
spiaggiarsi su divani e poltrone in attesa che l’apparato
digerente facesse il suo dovere e il corpo ripigliasse vita. Ma
mentre tutti prendevano le loro postazioni in un inconsueto
momento conviviale, e il padre faceva posto sul divano perché ci
entrasse comodamente anche la moglie, lei si era già lanciata in
frazionamenti degli avanzi e energiche pulizie di ogni più
nascosto angolo della cucina. Finita l’opera igienizzante e deciso
che si stava annoiando tremendamente, si accomodò accanto la
marito, che, però, era già fin troppo sazio di quella
socializzazione domestica e, prontamente, si alzò per tornare nel
suo studio. Il tempo di sfogliare una vecchia rivista, fare
domande fuori contesto ai figli che le rispondevano grugnendo, e
aveva già deciso che avrebbe dovuto trovare qualcosa da fare per
non annoiarsi: “biscotti! Farò biscotti anche per i vicini!”,
affermò entusiasta tornando ai fornelli.

Il lunedì, di buona mattina, corse per le scale eccitata all’idea
di farli trovare ai suoi vicini, in tempo per la colazione.
Mentre la sera prima la mamma progettava di svegliarsi alle sei
per recapitare con tempismo la sua ultima opera dolciaria, Luca
entrava in camera di Domenico e gli chiedeva se secondo lui avesse
senso farle presente che, con grande probabilità, nessuno avrebbe
aperto la porta appena sveglio, perché non avrebbe avuto senso e,
sicuramente, nessuno avrebbe avuto il neanche più lontano sentore
che qualcuno avesse potuto lasciare sul pianerottolo qualcosa da
mangiare per colazione e che, quindi, avrebbe potuto svegliarsi a
un’ora normale, fare yoga con calma e poi iniziare la
distribuzione. Il fratello fu perentorio, ma anche saggio, a modo
suo: “Scordatelo. Come minimo se glielo dici, si mette a chiamare
tutti ora per avvertirli”. Luca abbassò il capo e annuì
mestamente, mentre l’altro non lo guardava già più. Con la
lentezza che lo caratterizzava, si trascinò in camera sua
ciabattando rumorosamente e pensando che Domenico aveva senza
dubbio ragione, con lei era così: non c’era verso di farla
ragionare e se smuovevi qualcosa, potevi stare tranquillo che era
sempre per il peggio.

Nonostante il perenne scetticismo dei figli, i biscotti erano
stati accolti con grande piacere da tutti, o quasi. L’avvocato del
piano di sopra e la ragazza indiana le avevano persino fatto
trovare un bigliettino di ringraziamento sotto la porta e la
Sig.ra Devoti l’aveva prontamente chiamata: “che signora
educata!”, squittì chiudendo la telefonata. Dall’altra parte del
cavo, la vecchietta sogghignava pensando a quella volta in cui
Luca, incontrandola per strada, le aveva chiesto una sigaretta,
pregandola di non dire nulla alla madre. Che ragazzo ingenuo,
fortuna che aveva trovato la complice giusta.
Anche Stella aveva ricevuto il pensiero, ma, in netta
controtendenza, ne era rimasta tutt’altro che piacevolmente
colpita, ritendendolo un gesto imprudente e poco igienico, che mai
si sarebbe aspettata da quella signora tanto elegante, che le
sembrava sempre così pulita, in ordine e certamente più saggia di
una ragazzina sconsiderata che si diverte a regalare biscotti
fatti in casa, dato che “IL virus potrebbe rimanere su qualsiasi
superfice!”, soprattutto quelle lisce, come aveva letto su qualche
social. E il sacchetto incriminato era visibilmente liscissimo.

Quando li aveva portati in casa, Riccardo aveva temuto la reazione
della moglie, sperando fortemente di sbagliarsi. E, invece, il
presentimento era corretto: i tratti del viso le si erano
prontamente irrigiditi e senza esitare un secondo lo aveva
ammonito di gettare immediatamente tutto. La deriva di Stella
sembrava essere quasi inarrestabile. Nelle settimane appena
trascorse, in effetti, le paure che avevano fatto capolino nei
primi giorni di quarantena non avevano fatto che aumentare, così
come la sua massa di capelli ormai informe, che tormentava con
forcine e mollette. Così che, quando Riccardo rientrava dopo aver
portato Pongo a passeggio, neanche si accorgeva del lungo tempo
trascorso e, tantomeno, dell’aria appagata del marito, tanto era
concentrata a impedire al cane di entrare prima che lei gli
pulisse le zampe con disinfettanti vari, con grande disperazione
del povero Pongo, che tra le lunghe uscite con quell’omone poco
simpatico, le visite da una sconosciuta e gli odori sintetici che
si ritrovava sulle zampe, stava vivendo una piccola crisi
d’identità, a cui reagiva con una passività inattesa.

L’alcool, necessario per pulire le zampe di Pongo e molto altro,
era una fonte di non indifferenti diatribe domestiche. Preda di
un’incontrollabile irrazionalità, quando il marito le assicurava
che non ne aveva trovato da nessuna parte, lei reagiva strillando
che non era possibile e che lui le mentiva. Ma davvero non le
mentiva. Almeno, non su questo. Nonostante le sporadiche diatribe
con il marito, Stella si stava meravigliosamente abituando alla
reclusione casalinga. Lei non “restava a casa”, lei “viveva
esclusivamente in casa”, e ne era felice, o, almeno, era questo il
sentimento che credeva di provare. Così, passarvi anche i giorni
di Pasqua e pasquetta non le sarebbe pesato affatto. Le era
rimasto solo un fratello che abitava lontano e se non ci fosse
stata l’epidemia, a Pasqua sarebbero andati, come loro solito, dai
parenti di lui. Una compagnia che aveva sempre considerato
detestabile, accettata solo in nome dei voti coniugali.

Pasquetta non sarebbe andata meglio: si sarebbero ritrovati a
pranzo con i vecchi amici di Riccardo e le loro briose mogli o
compagne, insieme agli immancabili figli indiavolati, in qualche
trattoria situata a troppi chilometri di distanza, in cui lei si
sarebbe sentita troppo grassa, troppo lenta, troppo timida, troppo
poco simpatica. Non si accorgeva che il suo sorriso luminoso, i
suoi grandi occhi chiari sul nasino all’insù e quell’andatura
ancora sinuosa, la rendevano comunque piacente e le altre donne la
trovavano amabile, nonostante l’invidia che provavano per le sue
molte qualità estetiche, rimaste intatte.

Anche il giorno di Pasqua, come qualsiasi altro giorno, Riccardo
uscì dopo aver fatto colazione, per “portare fuori Pongo”. Appena
si trovò sul pianerottolo, sentì che qualcuno stava scendendo.
Anche Mario si era accorto dell’incontro imminente, arrestandosi
con un piede ancora per aria, appena aveva sentito aprirsi la
porta poco più giù. I due, salutatisi senza enfasi, si infilarono
rapidamente le mascherine, che entrambi avevano lasciato penzolare
da un orecchio, con l’intento di indossarle solo una volta in
strada. Proseguirono verso l’uscita, tenendosi a distanza e
riempiendo lo spazio fisico rimasto tra loro con frasi fatte e
commenti sconsolati sull’evidente stato di abbandono in cui
versavano le scale condominiali da quando non veniva più l’impresa
di pulizie. I due frequentavano la stessa palestra, prima che
chiudesse a causa dell’epidemia, e si erano sempre rivolti parole
cordiali e battute di spirito. Ric, in particolare, era sempre
stato amichevole con Mario, sia perché un simile atteggiamento gli
era naturale, sia perché pensava che essere in buoni rapporti con
un avvocato fosse sempre un’ottima idea.

Usciti dal portone del palazzo si divisero. Svoltando a sinistra,
Riccardo pensava alla moglie e si augurava che potessero tornare
presto alla loro routine, poiché si rendeva conto che questa
situazione stava guastando l’equilibrio, già precario, di Stella.
Può darsi che non l’amasse più, ma certamente le voleva bene e non
avrebbe voluto vederla preda di paure irrazionali. La parola
“depressione” passò come un lampo tra i suoi pensieri, ma Pongo
aveva finito di fare i bisogni e questo significava che era il
momento di andare a fare gli auguri di Pasqua a Carolina. Il breve
altruistico momento di riflessione era sfumato in un lampo,
l’eccitazione aveva già preso il sopravvento e Riccardo si diresse
a passo spedito verso la sua migliore distrazione.

Mario, andando in direzione opposta, osservava la strada deserta
mentre si avvicinava al panifico dove lo attendeva una colomba
pasquale formato famiglia, che contava di finire prima che fosse
arrivato il lunedì sera. Camminando senza fretta (del resto, aveva
poco per cui affannarsi…) si ricordò di quell’istrice che era
stato avvistato da qualche parte in città pochi giorni avanti:
chissà se era lo stesso che qualche settimana prima delle
restrizioni alcuni amici del quartiere avevano visto trotterellare
nei pressi del bar all’angolo. Passò dalla strada più lunga per
impiegare il tempo e cogliere l’occasione di fare due passi sotto
il tiepido sole d’aprile, immerso nel leggero venticello
primaverile. Su un marciapiede davanti a un piccolo slargo vide un
ragazzo dismesso, probabilmente un senza tetto, che non aveva mai
incontrato prima. Da quelle parti, i barboni e i tipi strani erano
conosciuti da tutti, giacché erano sempre i soliti ad aggirarsi
per le vie del quartiere, pronti a tornare a dormire nell’albergo
popolare poco distante, appena si fosse fatta l’ora. Le loro
stranezze era tanto note, quanto innocue e in molti avevano
imparato, se non ad apprezzarli, ad abituarsi al loro placido
vagabondare.

Mario era tra i pochi che ne gradiva la presenza, non perché non
fosse sensibile alle diseguaglianze sociali e neanche perché non
si rendesse conto delle difficoltà oggettive a cui erano
costretti, ma perché quell’umanità sincera, a tratti spietata, gli
comunicava un profondo senso di realtà. La realtà di una società
lontana dalle patinature, dalle buone maniere e dai benpensanti,
dove le contraddizioni e le asprezze della società non venivano
nascoste, ma restavano in bella mostra, perché non fossero
dimenticate. E poi erano persone. Persone spesso ricche di storie
affascinanti e non sempre verosimili. Un dettaglio, quest’ultimo,
irrilevante, per un incorreggibile sognatore come lui.

Un giorno offriva un cappuccino al bar, quello dopo allungava due
euro o faceva una battuta sul tempo e così facendo si era
conquistato la fiducia degli abituali frequentatori dei
marciapiedi e delle panchine della zona. Ma quella figura giovane,
con l’aria trasandata, che ora sedeva ricurva, spezzando pane a
favore di un nugolo di piccioni, gli era nuova. Chissà se avrebbe
avuto anche lui le mascherine gratuite del comune, chissà se
all’albergo popolare accoglievano ancora ospiti per la notte,
chissà se, come aveva letto sui giornali, avrebbero avuto il
coraggio di fargli una multa per mancato rispetto delle norme sul
contenimento della circolazione.
Facendosi questa ed altre domande e ripromettendosi di cercare
presto un contatto con quel nuovo abitante del quartiere, si
ritrovò in coda sul marciapiede davanti al negozio. Nell’attesa
che le 5 persone davanti a lui, tutte diligentemente distanziate,
defluissero, approfittò per fare il consueto giro di auguri su
whatsapp. Quest’anno il rituale si distingueva per la
sovrabbondanza di immagini che ritraevano uova di Pasqua con
indosso mascherine colorate o che ironizzavano sull’impossibilità
di Gesù di uscire dalla grotta e risorgere a causa delle
restrizioni. Era un’ironia che non gli apparteneva, ma con l’aiuto
delle emoji, chiunque avrebbe potuto simulare partecipazione e,
difatti, ne abusò.

Rientrando verso casa con la colomba sotto braccio, si accorse che
Prem aveva aperto anche oggi, sebbene sapesse che la famiglia
indiana non festeggiava le ricorrenze cattoliche, faceva ancora
fatica ad accettare che non gli pesasse lavorare in quei giorni.
In realtà, Prem il peso sullo stomaco ce l’aveva, ma certo non per
l’apertura Pasquale. Al contrario, confidava nel fatto che dato
che i supermercati erano chiusi, quel giorno avrebbe avuto qualche
cliente in più. Era quasi felice quella mattina, quando si era
svegliato per vestirsi, mangiare l’ottima colazione che gli
preparava sempre Gitka e andare a lavoro. Quasi come fosse una
giornata normale. Quasi come se fosse prima, prima che scoppiasse
la pandemia. Nel bel mezzo delle solite riflessioni tra il
realista e il pessimista, ricevette una foto da Gitka che ritraeva
i bambini sorridenti con in braccio tre coloratissime uova, e
senza rifletterci troppo su, le rispose con un grande cuore rosso,
distratto, ma sincero.
Intanto, salendo le scale, Mario si beava del delizioso profumo di
coniglio che veniva da uno degli appartamenti, immaginando che
provenisse da quello del primo piano. E così era: un conditissimo
coniglio ripieno era in cottura nella cucina della Sig.ra Devoti,
con sua immensa gioia. Assaporando l’attesa del pranzo, la signora
non immaginava neanche lontanamente di aver corso il rischio che
Marialucia si rifiutasse di cucinare per Pasqua.

Qualche giorno prima, verso le 4 di pomeriggio, mentre
sonnecchiava sulla poltrona del salotto, la Signora sentì sbattere
energicamente la porta e il rumore la svegliò di soprassalto:
“Marialu! Che è stato?”. Marialucia, con fare sommesso e ansimando
appena, rispose rapidamente: “niente signora, niente, ho solo
messo fuori la spazzatura”, ma non fece in tempo a finire la frase
che la vecchietta era già schizzata in corridoio, dove aveva
trovato la bugiarda abbracciata a tre enormi uova di Pasqua. Capì
che era uscita e fu il putiferio. Marialucia sapeva bene che non
doveva andare al supermercato e non importava se era andata in un
negozio di alimentari, era la stessa cosa, senza mascherina poi
(il condominio era ancora in attesa che venissero consegnate
quelle del comune e le signore non erano riuscite a procurarsele).
Avevano tutto quello che serviva e domani sarebbe arrivata la
spesa solidale, con la colomba, proprio come aveva tanto
desiderato. Era visibilmente alterata, quella testona la faceva
sempre preoccupare. Ma tutto d’un tratto i rimproveri si
arrestarono, riprese fiato e simulando clama, con la voce che si
faceva roca, disse soltanto: “ma, poi, che ci fai con tre uova? Oh
non s’era detto che sei diabetica?”.

Marialucia si sentì scoperta, braccata, sapeva che la Signora non
avrebbe gradito l’idea di regalare un simbolo pasquale ai bambini
indiani. E, difatti, come aveva correttamente predetto, una volta
condiviso il suo piano, quella cominciò: “cara, lo sai che loro
non festeggiano Pasqua, se volessero le uova gliele darebbero i
genitori, un regalo simile potrebbe dare l’impressione che non
accettiamo il loro credo, che non rispettiamo le differenze
culturali, è come se qualcuno ti imponesse di tenere un Corano in
camera o di indossare il sari” e allargando le braccia con fare
leggermente spazientito concluse: “Insomma, Marialucia, questa è
proprio un’imposizione culturale!”. Fu l’innesco finale, la
placida Marialucia non si tenne più e, come raramente accadeva,
guardando la Signora negli occhi, urlò: “ma insomma, io regalo a
bambini cioccolata e faccio impostazione culturale?”.

Di norma, aveva un tono di voce piuttosto alto e spesso credeva
che occorresse alzarlo ulteriormente, quando non ve ne era affatto
bisogno, ma una cosa è certa: Marialucia non si alterava mai con
nessuno e tantomeno con la Sig.ra Devoti. E, infatti, un attimo
dopo, per lo stress accumulato sin dal momento della progettazione
del misfatto, scoppiò a piangere. Fu breve il tempo che ci volle
all’altra, più colta, più informata, ma meno libera da
sovrastrutture, meno istintiva, per capire che stavolta aveva
sbagliato, forse aveva persino ragione Marialucia, che ora stava
seduta sulla sedia di cucina, stringendo tra le mani un fazzoletto
bianco ricamato. Come faceva ad essere un brutto gesto (che fosse
imposizione o impostazione era irrilevante) quello di regalare
della cioccolata a dei bambini in quarantena? Ad ogni modo, chi
avesse torto o ragione poco importava, certamente non era una
questione per cui far soffrire qualcuno così. Si scusò, e mentre
Marialucia singhiozzava, ancora intenta a torturare il malcapitato
fazzoletto, con gli occhi lucidi e le gote che le si erano fatte
di un rosso innaturale, ammise dolcemente che, in effetti, era
stata un’ottima idea.

Le badanti che le era capitato di incontrare avevano sguardi duri
e cupi, modi di fare respingenti, anche quando cercavano di
mostrarsi gentili, gesti veloci e sbrigativi e, appena possibile,
si rifugiavano nella loro camera a parlare con amici e parenti
lontani. Non Marialucia, lei era genuinamente dolce, aveva lo
sguardo aperto, troppo onesto anche quando cercava di fare la
furba, le maniere gentili, come se fosse nata per fare la nonna e
anche quando la vita le aveva negato con violenza questa gioia,
non aveva abbandonato la sua naturale tenerezza. Amava stare in
cucina o in salotto, da sola o in compagnia, guardare la
televisione con la sua vecchietta e assecondarla in conversazioni
di cui non coglieva mai appieno il significato.

Fortuna che quel pomeriggio la Sig.ra Devoti si era ripresa in
tempo. Tra un lacrimone e l’altro Marialucia stava già valutando
di scioperare dalla cucina per protesta, del resto era stata
proprio lei a spiegarle che lo sciopero è un diritto. E chi lo
avrebbe cucinato il coniglio ripieno per il pranzo di Pasqua, che
la signora a fare certe preparazioni lunghe ormai si stancava
troppo? Per un soffio, si era evitata la tragedia e la domenica di
Pasqua era andata secondo i piani, anzi meglio, dato che si erano
fatte portare una buona bottiglia di vino, che, anche senza
esagerare nelle quantità versate, le aveva rallegrate quel tanto
che bastava perché finissero a duettare sulle canzoni di un
giovane Gianni Morandi.

Domenica mattina, prima di collegarsi con la messa del Papa,
Marialucia poté, con grande gioia, chiamare Gitka per dirle che
avrebbe lasciato delle uova di cioccolato sul pianerottolo, e
godersi i ringraziamenti che arrivavano a gran voce dall’altro
capo del telefono, insieme alle urla felici dei bambini.
L’allegria di quei tre resisteva dopo un mese di reclusione.
Incredibilmente, agli occhi della madre. Per giorni Gitika aveva
cercato di capire se fosse possibile portarli a fare una
passeggiata, le era incomprensibile come, mentre suo marito e
molte altre persone andavano regolarmente a lavoro, i bambini
dovessero essere costretti in casa 24 ore al giorno da settimane,
senza poter stare un po’ fuori e respirare aria fresca. Senza
alcun dubbio, chi aveva pensato certe restrizioni, se aveva figli,
doveva avere anche un giardino privato o, almeno, un terrazzo,
altrimenti si sarebbe accorto della gravità di una tale
privazione.

Appena sembrò che il Viminale avesse autorizzato le passeggiate
per i bambini, si fiondò fuori con i suoi tre piccoli, riuscendo
persino a convincere i carabinieri, incontrati quando era già
distante da casa, della legittimità della sua uscita, tanto ne era
convinta lei. Forse non erano neanche passati due giorni, quando
il Presidente del Consiglio chiarì, inequivocabilmente, che non
era stata autorizzata nessuna libera uscita per i bambini. E così
si limitò a fare quello che lui sembrava suggerire, ossia
portarseli dietro quando andava a fare la spesa. Ubbidiva sì, ma
rimaneva persuasa del fatto che il figlio del Presidente non
conoscesse la vita di cinque persone in poco più di 70 metri
quadri, senza balcone.

Quando Prem rientrò, come di consueto, raccontò alla moglie la sua
giornata e le elencò i condomini che erano passati dal negozio,
tra questi c’era anche quel ragazzo alto e pallido del piano di
sotto, che, visibilmente assonnato, con ancora indosso il pigiama,
mal nascosto sotto a un leggero k-way, cercava del succo d’acero.
Nei giorni che seguirono la Pasqua, circolavano numerose ipotesi
circa il futuro più prossimo e tutti i nostri condomini
aspettavano con ansia notizie certe, standosene ognuno nella
speranza che i propri desideri di ripresa o libertà venissero
esauditi e che, al contempo, i contagi diminuissero. Seppur Elodie
e Joan si informassero con più zelo e certamente in molte più
lingue, erano tra quelli che vivevano con meno partecipazione
emotiva l’attesa delle prossime notizie su come le chiusure e le
norme di distanziamento sociale si sarebbero evolute, essendo
altri, in realtà, i condomini maggiormente danneggiati, sia
economicamente, sia nelle loro abitudini quotidiane, da quello
stravolgimento globale.

                                                     *Teresa Ortis

Qui la prima parte
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