TOMMIE SMITH E JOHN CARLOS
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Olimpiadi a Città del Messico, il 16 ottobre 1968 Finale dei 200 metri: la vince Tommie Smith in 19”83 (il primo a scendere sotto i 20”) davanti a Norman (20’06”) e Carlos (20’10”). Questo record resisterà 11 anni e sarà battuto da Pietro Mennea che firmerà il suo celebre 19″72, durante le Universiadi del 1979, proprio sulla stessa pista.
Nel ‘67 viene fondato l’Ophr, Olympic program for human rights. L’idea è che gli atleti neri boicottino i Giochi, ma è difficile da realizzare. Chi aderisce porta il distintivo, una sorta di coccarda, ed è libero di manifestare la sua protesta come crede. Carlos e Smith ne fanno parte Decisero di correre alle Olimpiadi nonostante il 4 aprile Martin Luther King fosse stato assassinato (e molti altri atleti avessero deciso di non partecipare). Il 16 ottobre 1968 si trovano sul podio dei 200 metri alle Olimpiadi a Città del Messico, con i pugni alzati, i guanti neri (simbolo del black power), i piedi scalzi (segno di povertà), la testa bassa e una collanina di piccole pietre al collo (“ogni pietra è un nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato”).
Nel sottopassaggio che va dagli spogliatoi al podio Norman assiste ai preparativi dei due americani..Smith e Carlos spiegano. E Norman dice: «Datemi uno dei distintivi, sono solidale con voi. Si nasce tutti uguali e con gli stessi diritti». Così anche Norman sistema la coccarda sulla sinistra della tuta. C’è un problema, Carlos ha dimenticato i suoi guanti neri al villaggio, mentre Smith ha con sé quelli comprati da Denise, sua moglie. «Mettetevene uno tu e l’altro tu», consiglia Norman. Così fanno. Smith alza il pugno destro e Carlos il sinistro.
. Il gesto destò grande scalpore. Molti lo considerarono fuori luogo ritenendo che la politica dovesse rimanere estranea ai Giochi olimpici. Molti lo deprecarono, ritenendo che avrebbe messo in cattiva luce l'intera rappresentativa statunitense e recato danno alla nazione americana. Altri, invece, espressero solidarietà ai due atleti, encomiando il loro coraggio. Per decisione del CIO, Smith e Carlos con la motivazione di “vilipendio alla bandiera e ai Giochi Olimpici” furono espulsi dalla squadra nazionale e addirittura banditi dal villaggio olimpico
Appena giù dal podio la loro carriera sarà finita, bruciata, e la vita un inferno. Tornati in patria, i due atleti subirono altre ritorsioni, fino a ricevere addirittura minacce di morte. Smith e Carlos prosegirono la loro carriera agonistica nel football americano
Anche l’australiano Peter Norman subirà le conseguenze di quel 16 ottobre 1968. Sarà ostracizzato dai media australiani e non verrà fatto partecipare alle Olimpici di Monaco di Baviera 1972, nonostante avesse tutte le carte in regola per farlo. Nel giorno del suo funerale, nel 2006, saranno proprio Smith e Carlos a portare la sua bara.
Inizia fin da piccola ad allenarsi e i primi risultati li ha nel 1987 ai Giochi Panamericani di Indianapolis, schierandosi sui 100 m. dove si aggiudica la gara, e viene presa in considerazione per i giochi olimpici di Seul (1988) L'atleta americana da tempo non si sente bene, ma parte comunque per la Corea, schierata sui 100 hs. La malattia si fa sentire per la velocista americana, la quale riesce a superare la prima fase eliminatoria ma non la semifinale, dove finisce la propria gara in 13″51. Al ritorno dalla Corea passa improvvisamente da 56 a 39 kg; i medici gli prescrivono un lungo periodo di riposo e, dopo quasi due anni di analisi e il rischio di perdita di un piede, le viene diagnosticato il morbo di Graves, una rara disfunzione tiroidea che dà forti mal di testa, perdita progressiva della vista e dei capelli, difficoltà nel dormire e nell’articolare il linguaggio.
Incredibilmente, in due anni di terapia e di ritrovati allenamenti, Yolanda riesce a tornare in forma, riuscendo oltretutto a strappare il pass per i mondiali di Tokyo del 1991 vincendo il titolo USA nei 100hs. La sua presenza a Tokyo è già successo per la velocista, che vince l'argento. Alle olimpiadi del 1992 a Barcellona, strappa l’oro e batte di un centesimo la giamaicana Juliet Cuthbert. Finalmente, la simpatica e sorridente velocista può gioire veramente, con l’oro olimpico al collo.
Negli anni successivi vince campionati mondiali indoor e outdoor, con molti record, il tutto coronato dal grande sorriso e le bizzarre unghie lunghissime.
Alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996 parte come favorita. La gara dei 100m la vince per pochi millesimi e un altro oro arriverà dalla staffetta 4×100, arricchendo ancora di più il medagliere della ragazza di Seattle. Nessuno riesce a fermare la velocista USA, che continua a mietere vittorie internazionali come se fosse imbattibile; Nel 2004, Yolanda Gail Davers decide di uscire dalle grandi competizioni internazionali, non prima però di aver partecipato alla sua quinta olimpiade, che si terrà ad Atene. Ad oggi, Yolanda Gail Davers continua a gareggiare per diletto, gestendo la sua fondazione per opere di carità, e dimostrando come, pur minati da gravi malattie, si possa riuscire ad ottenere risultati, grazie al duro lavoro e al sacrificio.
FRANCINA ELSJE KOEN 1918-2004
Fin da piccola pratica diversi sport come tennis, nuoto, ginnastica e pattinaggio su ghiaccio. All’alba dei suoi 17 anni, si introduce nel mondo dell’atletica, più che altro per un discorso di curiosità. Alla sua terza gara infila un inaspettato quanto grandioso 2’29″ negli 800 m, stabilendo così il nuovo record nazionale olandese; purtroppo questa disciplina non fa parte del programma olimpico, così la Koen decide di lasciare gli 800 e puntare ad altro, molto altro, infatti si prodiga in lunghi allenamenti di velocità, salto in alto e ostacoli. Il debutto olimpico avviene a Berlino nel 1936 dove giunge sesta nel salto in alto, valicando 1.55 e quinta con la 4×100.
Il 19 giugno 1938 ad Amsterdam nei 100m fa il primo di sedici record in otto discipline diverse: alto, lungo, pentathlon, 100 yards, 220 yards, 100 m, 80 m hs e 4×100; Sempre nel 1938 ottiene anche due importanti medaglie di bronzo ai campionati europei di Vienna. Durante tutto il conflitto mondiale riesce a gareggiare con continuità e con grande proficuità, mettendo in fila ben cinque record del mondo e “trovando il tempo” anche di far nascere una figlia, Fanny junior, facendo così nascere il soprannome di “mammina volante“. Nel 1946, qualche mese dopo la nasita del figlio, vince l’oro nella 4×100 e negli 80 hs ai campionati europei di Oslo.
Con la fine della guerra, si prepara per le Olimpiadi di Londra 1948 All’uscita dei regolamenti ufficiali, Fanny scopre che può prendere parte solamente a tre gare individuali, per cui sceglie di puntare tutto sulla velocità, iscrivendosi ai 100, 200 e 80 hs e vincendo 3 ori, aggiungendone un quarto nella 4x100 Il suo nome nel firmamento dell’atletica di tutti i tempi: è la prima e tutt’ora unica donna ad aver vinto quattro ori nella stessa Olimpiade, come Owens e Lewis
Nel 1950 il palmares della fortissima olandese si infoltisce ancor di più, mettendosi al collo tre ori e un argento agli europei di Bruxelles Questa sarà l’ultima uscita internazionale della mamma volante, che però continua a gareggiare in Olanda, il tutto fino al 1955, dove vince il suo ultimo oro e titolo nazionale nel lancio del peso, ovvero il suo 59 titolo, il secondo nel lancio del peso, dopo 13 nei 100, 11 negli 80 hs, 12 nei 200, 1 nel pentathlon e 9 nel salto in lungo.
Dopo aver appeso le scarpette al chiodo (parecchie scarpe, visto la moltitudine di specialità praticate), Francina rimane nel mondo dell’atletica, precisamente come responsabile dell’atletica olandese, per una decade, dal 1958 al 1968. Nel 1999, insieme al collega Carl Lewis, viene eletta dalla IAAF ”atleta femminile del secolo”
ALEX ZANARDI 1966
Cominciò a correre su kart a 13 anni. Dalla fine del 1991 Zanardi cominciò a correre in Formula 1 Il 15 settembre 2001 a Lausitz, in Germania, stava disputando una delle sue migliori gare di sempre. Dopo un pit stop, stava rientrando in pista cercando di non perdere Zanardi perse immediatamente posizioni ma a causa di un colpo di entrambe le gambe e in pochi minuti acceleratore, si ritrovò di traverso in mezzo quasi tre quarti di tutto il suo sangue. alla pista. Un primo pilota riuscì ad evitarlo Dopo un primo soccorso in pista, in per poco, ma un altro pilota, subito dietro, ospedale i medici lo operarono per riuscì a vedere l’auto di Zanardi soltanto tre ore nel tentativo di chiudere le all’ultimo minuto, la colpi di fianco e tagliò ferite, e alla fine riuscirono a salvargli via il muso dell’automobile. la vita. Il pilota rimase incosciente per oltre una settimana.
Da quel giorno non si è più fermato, proponendosi d’innanzi mete sempre più ambiziose e traguardi per i più ritenuti impossibili. Ma forse per fare comprendere meglio lo spirito che anima lo Zanardi uomo prima ancora che il campione dobbiamo davvero usare le sue stesse parole: «Se uno non si crea alibi e ci prova, è più facile che le cose che vuole accadano».
Appena dopo l’incidente Zanardi disegnò da solo un paio di nuove gambe artificiali, con l’obiettivo di tornare a gareggiare. Ci riuscì appena due anni dopo l’incidente, nel 2003, proprio sulla pista che nel 2001 lo aveva quasi ucciso. La prova lo convinse a tornare a correre e diventò un pilota della BMW, utilizzando un’auto modificata apposta per poter essere guidata senza gambe. Corse cinque campionati, dal 2004 al 2009 ottenendo diverse vittorie e annunciando poi il suo ritiro
Dal 2007 ha cominciato a praticare la handbike, la bicicletta con tre ruote che viene spinta con le braccia. Dopo soltanto 4 settimane di allenamento, proprio nel 2007, arrivò quarto alla maratona di New York nella divisione handbike. Si presenta alle paralimpiadi di Londra 2012 dopo l’argento mondiale a Roskilde, in Danimarca, del 2011, ottenuto nella corsa a cronometro. Ottiene nella handbike due ori individuali e un argento nella staffetta mista a squadre. La delegazione italiana per la chiusura dei giochi paralimpici, ha voluto che fosse proprio lui il nostro portabandiera.
L’Ironman World Championship è il Triathlon più duro al mondo: si nuota per 3.86 chilometri, si pedala per 180.2, si corre la maratona con i tradizionali 42,195 chilometri. Tutti quelli completano le tre frazioni entro il tempo massimo di 17 ore diventano Ironman. You are an Ironman è la frase che ti accoglie sul traguardo A Kona taglia il traguardo in 9.47:14. (1h e 30 in più del primo). Su 2.187 partenti si classifica 273esimo assoluto. È una prova durissima per il fisico e per la mente. Affascinante e durissima la sfida di Zanardi. Corre fra i normodotati nella categoria dei coevi (45-49 anni), alterna il nuoto alla corsa ciclistica e alla maratona che corre, rispettivamente, con la sua handbike iridata e la carrozzina olimpica
https://www.youtube.com/watch?v=IKhs0Unn4rE
STEVEN BRADBURY 1973
https://www.youtube.com/watch?v=rYQXDn0lYa4
Steven Bradbury oggi ha 40 anni, è australiano ed è stato un atleta professionista di pattinaggio short track. Diventato celebre improvvisamente grazie alla vittoria nei 500 metri alle Olimpiadi Invernali di Salt Lake City, nel 2002, fuu la prima medaglia d’oro nella storia dell’Australia alle Olimpiadi Invernali e la vinse in modo pazzesco e fortunoso. Qualcuno, negli anni, si è addirittura chiesto se quella di Bradbury sia stata «la vittoria più fortunata alle Olimpiadi» MA E' DAVVERO SOLO FORTUNA?
All’inizio della sua carriera, Bradbury era considerato un pattinatore piuttosto promettente. Poi, nel 1994, durante una gara di Coppa del Mondo, ebbe un gravissimo incidente con altri pattinatori durante la gara: come raccontò lui stesso, «uno dei loro pattini mi trapassò il quadricipite da parte a parte. Mi dovettero mettere 111 punti, e persi quattro litri di sangue».
Si riprese, tornò a buoni livelli e gareggiò alle Olimpiadi del 1998. Andò male: fu coinvolto in scontri con altri pattinatori nelle batterie dei 500 e 1000 metri individuali e uscì subito; Due anni dopo, nel settembre del 2000, Bradbury ebbe un altro incidente, stavolta in allenamento: batté la testa contro il bordo della pista, si ruppe il collo e due vertebre. Alle Olimpiadi di Salt Lake City, nel 2002, Bradbury arrivò da atleta praticamente finito, con due gravissimi infortuni alle spalle e anni di risultati mediocri. Si iscrisse comunque a tutte e quattro le gare per atleti di short track: staffetta a squadre, 500, 1000 e 1500 metri individuale.
“Speravo soltanto di trovare un’energia inaspettata nelle mie gambe, ma ero piuttosto scettico a riguardo: ero il più vecchio di tutta la competizione. Devi correre quattro gare in due ore e ti fanno fare solo mezz’ora di pausa. Non era realistico, per me, fare quattro gare in quel lasso di tempo. Non ero più nel fiore degli anni. Non avevo più le capacità di recupero di un tempo” “me ne stavo fuori dal gruppo, aspettando che gli altri facessero degli errori. Speravo di ottenere una medaglia” “Non ero sicuro se avessi dovuto festeggiare oppure andare a nascondermi in un angolo”. Nelle interviste date poco dopo alla gara, Bradbury insistette sul fatto di considerarsi «l’uomo più fortunato del pianeta» e di «avere sentimenti contrastanti riguardo l’aver vinto in questo modo». Moltissimi media internazionali parlarono di lui e della sua storia.
Nel frattempo “doing a Bradbury” è diventata un’espressione gergale, in Australia e nel linguaggio sportivo più esteso: secondo Urban Dictionary significa «vincere in seguito a circostanze miracolose». Più in generale, Bradbury è diventato oggetto di una strana ammirazione e popolarità, sia fra quelli che credono sia stato una sorta di “vincitore per caso” sia fra quelli che lo ammirano per “non avere mollato mai” . “Tra chi ha successo nel suo campo, nessuno appare un paio di settimane prima di ottenere un grande risultato. Non esiste. Vale anche per me. L’ho già detto in passato: non ho accettato la medaglia d’oro per quel minuto e mezzo di gara, ma per i dodici anni di carriera che mi hanno portato fino a quel minuto e mezzo”
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