La vita è una questione di relazioni, di sguardi e di speranza - communitylacroce.it
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La vita è una questione di relazioni, di sguardi e di speranza La vita è una questione di relazioni, di sguardi e di speranza di Davide Vairani “In tanti anni di carriera in ospedale non mi è mai capitato di vedere 30 poliziotti davanti alla stanza di un bimbo di 23 mesi, credo non sia capitato a nessuno in Europa. E’ una vicenda clinica complicata quella di Alfie Evans, come dimostrano gli sviluppi delle ultime ore”. Non sono parole del primo che passa per strada, ma quelle di un medico, Matilde Leonardi, pediatra e neurologa dell’Irccs Besta di Milano, direttore del “Coma Research Centre”. Mi confortano. Non sono un medico, non sono un “tecnico”, sono un uomo qualunque. Sbigottito e senza parole di fronte alle immagini di uno spiegamento tale di forze dell’ordine nemmeno ci fosse ricoverato un boss della mafia o un pericolosissimo terrorista. Ogni vicenda che abbia a che fare con la vita e la morte è complicata. Non solo sul piano clinico. E lo sarà sempre di più, visto l’aumento progressivo e vertiginoso da una parte
delle biotecnologie e dall’altra di una aspettativa di vita sempre più lunga (alla quale non sempre corrisponde una qualità maggiore della vita). Ogni vicenda è complicata, perchè è sempre più complicata la vita: la sofferenza e il dolore sono sempre più potentemente scomodi compagni di viaggio per lunghe (a volte dannatamente lunghissime) fasi della vita terrena di ciascuno di noi. E ci affidiamo alla medicina con aspettative sconfinate: ci attendiamo – anzi pretendiamo – che ci tolga il dolore, ci prenda con amore tra le sue braccia e non ci lasci fino a quando non possiamo essere certi di potere tornare a vivere con dignità. Certi che sarà di nuovo e sempre pronta – la medicina – a riaccoglierci tra le sua braccia materne ogni qualvolta saremo senza fiato e disperati. Ma – forse – ci accontenteremmo anche di molto meno: avere la certezza che la medicina anzitutto e prima di tutto ci curi e che non attenda il momento, al contrario, di celebrare il rito abbreviato della nostra morte. Chiedo troppo? Probabile. Quelle immagini dei poliziotti schierati davanti all’Alder Hey di Liverpool non sono che l’evidenza plastica di qualcosa di grosso che è scappato di mano a troppi. I cui esiti – vita o morte di piccolo cucciolo di 22 mesi cerebroleso per cause sconosciute – riguarda ciascuno di noi, piaccia o meno. “Un’unica certezza: l’alleanza terapeutica tra la famiglia di un bambino grave e i medici si è rotta – commenta sempre Matilde Leonardi in una intervista -. Prima di tutti i problemi diagnostici e terapeutici, si è spezzata la relazione con i genitori. A che punto e cosa è successo per arrivare a questo tipo di conflitto? Forse la domanda da porsi è quando Alfie da bambino è diventato un caso. Trattato bene – senza segni di sofferenza, e la prova è che è ancora qua – ma da caso”. Alfie da bambino è diventato un “caso”: questa la verità nuda e cruda. E questo è il problema nodale. Come è accaduto prima
per Charlie e per Isahaia. “Io sono un medico – dice sempre Matilde Leonardi in un’altra intervista: a me si rivolgono persone che stanno male, che hanno bisogno di aiuto e magari non possono dirlo. Non posso sottrarmi. Certo, oltre al mio, spesso hanno bisogno di altro supporto. Di una rete sociosanitaria che, purtroppo, spesso è carente: di questo si dovrebbe parlare. Di non lasciare solo nessuno”. D. In casi così complessi la linea tra assistenza e accanimento terapeutico non è sottile? “Dipende. Però ricordo che in Italia l’accanimento terapeutico è già vietato dalla legge. Per questo, quando un paziente che ha una patologia che porta alla morte si rivolge a me, come medico non devo accelerare quel momento. Ma non devo nemmeno fare un intervento ‘sproporzionato’ rispetto alla sua patologia. Devo cercare, piuttosto, di non farlo soffrire: la legge stabilisce che tutti hanno diritto a una morte senza dolore. Questo noi cerchiamo sempre di metterlo in atto, anche parlando chiaramente con i nostri pazienti. Posso farle un esempio?”. D. Prego. “Tutti i malati di Sla a un certo punto si trovano di fronte a una scelta: fare o meno la tracheostomia. Se accettano, respireranno grazie a una macchina. In caso contrario, andranno incontro a una morte per soffocamento. Si tratta di una scelta dalla quale, per legge, non si può tornare indietro. Io, come medico, cerco di spiegare per bene le due opzioni. Evitando di condizionare il malato nel dire sì, e assicurandogli supporto anche nel caso in cui decida di non farla. Dicendogli che quando arriverà il momento, lo sederò per non farlo soffrire. Ma non lo ucciderò”. Matilde Leonardi conosce da vicino il “caso” Alfie. Come Besta era stata contattata dai legali dei genitori di Alfie per una
‘second opinion’, richiesta per la mancanza di una diagnosi definitiva sulla condizione del piccolo. “L’epilessia mioclonica progressiva è una sindrome che può avere diverse eziologie e su questo fronte ci era stato chiesto un contributo, sulla comprensione della causa della patologia”. L’Irccs “ha dato da subito piena disponibilità, nell’ambito di un ragionamento scientifico per poter arrivare a una diagnosi corretta che è un diritto del paziente, prima di ogni decisione. Lo abbiamo fatto vista anche la richiesta del Bambino Gesù di Roma per un approfondimento, e si è reso disponibile anche il Gaslini. C’è stata un’attivazione importante, in piena collaborazione con i colleghi inglesi su una patologia complessa la cui manifestazione clinica è difficile da prevedere, come si è visto”. Ora, continua Leonardi, “seguo da spettatrice quello che sta accadendo nelle ultime ore e mi lascia perplessa. Probabilmente il fatto che Alfie sia sopravvissuto al distacco dal respiratore mostra che non si era in un caso di accanimento terapeutico ma di sostegno vitale e la differenza è ben nota. La mancanza di approfondimento ulteriore forse porta al problema che stiamo vedendo adesso”. Ma l’aspetto su cui insiste Leonardi è quello dell’alleanza terapeutica: “Colpisce leggere che il padre del bambino dice di chiedere l’ossigeno e non gli viene dato. In un ospedale. Non è la morte il problema. In una malattia grave si è messo in conto, si arriva a dire che non si può fare altro. Lo dico da medico che si occupa di casi molto gravi, in un istituto in cui abbiamo fatto tutte le diagnosi possibili. Ma non bisogna mai smettere di parlare con i genitori. La prima domanda è: cosa decidiamo insieme di fare. E’ difficile da accettare per una mamma e un papà che venga tolta voce in capitolo sul fine vita del proprio figlio”. Un’altra riflessione riguarda “le parole che si sono dette sulla futilità di una vita. Inaccettabile definire tale l’esistenza di chi non è autosufficiente. Senza nessun tipo di
afflato vitalistico, io non mi permetterei mai di esprimere un giudizio. E non ha nulla a che vedere con l’essere cattolici o no. C’è un bambino che ha una malattia che lo porterà alla morte. Detto questo, come si affronta? Magari lasciando liberi i genitori di andare in un hospice, o a casa. E’ un rapporto basato sulla sincerità: sappiamo che il paziente morirà, che ci sono bambini che non guariscono. La fine non è una scelta, ma puoi avere qualcosa da dire sul fatto che non muoia così. Mi spaventa l’incapacità di dialogo”. “Ci sono stati elementi non corretti, a mio avviso nella gestione della relazione – conclude Leonardi tornando alla vicenda di Alfie – E io mi chiedo: data drammaticamente per certa l’inguaribilità della malattia, il suo quadro è così incontrollabile sul piano delle cure palliative che la morte è più accettabile della sopravvivenza? La soluzione proposta dall’ospedale inglese e dai giudici rischia di essere sproporzionata all’obiettivo. Non sto riflettendo solo io su questi temi, ma tanti altri“, dice la specialista, che fra gli altri cita il pediatra Angelo Selicorni. “Se guardiamo alla logica costo-beneficio dovremmo avere un economista sanitario nei pronto soccorso a determinare l’opportunità o meno di un intervento medico per ogni codice rosso che entra. E’ un paradosso, una provocazione su cui riflettere. Se un dibattito va affrontato, al di là del caso singolo, si parli della fatica e della sofferenza della malattia. Io la vedo tutti i giorni nelle famiglie che seguo e non è un valore negativo, è qualcosa che può accadere e dobbiamo chiederci cosa fare come società”. Già. “Si parli della fatica e della sofferenza della malattia:non è un valore negativo, è qualcosa che può accadere e dobbiamo chiederci cosa fare come società”. Di questo dovremmo – tutti – dibattere, banalmente perchè ci riguarda o ci riguarderà o riguarderà i nostri cari o i nostri figli. Riguarda da vicino che società vogliamo scegliere di avere.
Non mi importa in questo momento indagare sul perchè e come si è arrivati a trasformare Alfie in un “caso” e quali ragioni vere o presunte si nascondano. La domanda angosciosa che – ora, adesso – mi pongo è: morta e sepolta l’alleanza terapeutica tra la famiglia di Alfie e i medici, come se ne esce? Riformulo: quando per mille ragioni va a pallino anche una minima possibilità di alleanza, chi deve decidere? “È giusto che sia dei genitori l’ultima parola sulla sorte dei propri figli, in vicende come quelle di Alfie Evans, e prima ancora, di Charlie Gard? Oppure è bene che, se genitori e medici sono in disaccordo, siano dei giudici a decidere? Sono queste le domande su cui si dibatte, in questi giorni drammatici per il piccolo Alfie” – scrive Assuntina Morresi su “Avvenire” (“Non «chi» decide ma «cosa» si decide”, 26 aprile 2018) Qualsiasi genitore farebbe infatti di tutto per “salvare” il proprio figlio, anche a costo di passare sopra e andare oltre ad ogni evidenza medica. Non è però sempre detto che la decisione di un genitore sia la migliore decisione, nel “best interest” del proprio figlio. “E allora qual è la differenza con il sistema inglese? – si chiede la Morresi -. Il problema non si pone su ‘chi’ decide, ma su ‘cosa’ viene deciso. È evidente che in un contenzioso fra due parti – genitori e medici, ma anche due genitori uno contro l’altro – debba decidere un terzo applicando la legge, cioè un giudice. Ma il problema si pone se quel giudice, e cioè lo Stato, è chiamato a decidere della vita o della morte di quel minore. Per Alfie i tribunali britannici sono stati chiamati a decidere se continuare a far vivere o lasciar morire un bambino. La giustizia si pone cioè la domanda su quale sia il massimo interesse del piccolo, a prescindere da chiunque altro, genitori compresi, ma fra le varie risposte è inclusa anche la morte, come se vivere o morire avessero lo stesso valore”.
Che cosa è in gioco ora, adesso, per Alfie? “È bene ricordare che non è più in gioco la sofferenza fisica, nel decidere – ricorda la Morresi -: sappiamo che può essere sempre controllata, farmacologicamente o chirurgicamente. Se di sofferenza si tratta è quella stessa di vivere, perché certe esistenze sono considerate invivibili di per sé”. Come ha dichiarato ieri lady Justice King, durante la drammatica udienza per Alfie “[…] è improbabile che abbia dolore, ma tragicamente tutto ciò che potrebbe dargli un apprezzamento della vita è irrevocabilmente distrutto”. E in nome di questo – cioè della sua dipendenza totale e della sua apparente incomunicabilità con l’esterno – il suo massimo interesse sarebbe morire. Tutta la nostra legge invece, finora, è stata orientata dal favor vitae. “Basti pensare alla fattispecie del suicidio. Un eventuale sopravvissuto al suicidio non viene punito, come invece lo sono coloro che istigano o aiutano a togliersi la vita. Si è liberi di togliersi la vita, ma chi collabora in qualche modo è sanzionato perché il suicidio è un disvalore, sempre, anche quando è una decisione pienamente consapevole: noi non tuteliamo qualsiasi scelta, purché libera e informata, perché non tutte le scelte hanno valore. Il problema quindi si pone quando è possibile includere la morte nelle opzioni possibili”. Dalla medicina mi aspetto che si prenda cura di me anzitutto e prima di tutto, indipendentemente dalla mia situazione clinica: si prenda cura. Ce lo ricorda con estrema lucidità Mario Melazzini proprio oggi. Melazzini – medico e malato di SLA – scrive una lettera sulle pagine di “Avvenire” (“La vita è incredibile la scienza può esserlo”, 26 aprile 2018). “Il verdetto che abbiamo appreso su questo piccolo paziente inglese è che ‘non ci sono speranze di migliorare la
condizione del bambino e ogni ulteriore tentativo costituirebbe un inutile accanimento’ – scrive Melazzini -. (…) Di fronte alla speranza, al diritto di vita di un bimbo, al desiderio di due genitori di curare il proprio figlio si può accettare il parere espresso da medici e giudici di staccare comunque la spina? E chiediamoci ancora: quanti Alfie ci sono nella quotidianità? Quante persone senza speranza di terapia e di guarigione?”. “Non si possono e non si devono creare le condizioni per l’abbandono di tanti malati e delle loro famiglie, che condividono quotidianamente con il loro congiunto il peso della malattia. In nessuno deve essere alimentato un sentimento di solitudine, bisogna contrastare la corrente di pensiero che ritiene che la vita, in certe condizioni, si trasformi in un accanimento e in un calvario inutile, dimenticando che un’efficace presa in carico e il continuo sviluppo della tecnologia consentono anche a chi è stato colpito da patologie gravi altamente invalidanti di continuare a guardare alla vita come a un dono ricco di opportunità. È qui che l’impegno della medicina e della scienza deve concretamente intervenire per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità, e per migliorare la loro qualità di vita, evitando ogni forma di accanimento terapeutico. Questo è un compito prezioso che conferma il senso della professione medica, non esaurito dall’eliminazione del danno biologico. Si dovrebbe guardare alla vita umana come mistero non riducibile al suo livello biologico e non manipolabile da nessuno“. E’ una posizione di fede? No. “È e deve essere una posizione ‘laica’ – sottolinea Melazzini -. Si deve garantire al malato, alla persona con disabilità e alla sua famiglia ogni possibile, proporzionata e adeguata forma di trattamento, cura e sostegno. Gli strumenti esistono, ma è necessario utilizzarli, fare in modo che le persone siano a conoscenza e che la classe medica li attui nel modo più corretto possibile.
Non solo nel nostro Paese, l’indipendenza e l’autonomia del medico, che è un cittadino al servizio di altri cittadini, dovrebbero garantire che le richieste di cura e le scelte di valore dei pazienti siano accolte nel continuo sforzo di aiutare chi soffre e ha il diritto di essere accompagnato con competenza, solidarietà e soprattutto amore durante tutte la fasi della malattia. Non può e non deve essere una questione di costi. E le scelte fallimentari del sistema sanitario inglese lo sta testimoniando”. La vita è una questione di relazioni, di sguardi e di speranza. E ciò che oggi si pensa non essere possibile, domani chissà? Alfie lo sta dimostrando: la vita è incredibile e anche la scienza.
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