Se tutto è mafia, niente è mafia. La mafia silente - Filodiritto

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Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752
                                              Direttore responsabile: Antonio Zama

        Se tutto è mafia, niente è mafia. La mafia silente
                    If everything is mafia, nothing is mafia. The silent mafia
                                                  13 Gennaio 2021
                                                   Maria Brucale

Articolo pubblicato nella sezione Le mafie e la loro considerazione giurisprudenziale del numero
1/2021 della Rivista "Percorsi penali".

Abstract
L’associazione mafiosa ha subito nel tempo mutamenti di contesto e di azione ma rimane immutabile nelle
sue note tipizzanti: capacità di intimidazione, uso della violenza, finalità di commettere una pluralità di
reati.
The mafia association has undergone changes in context and action over time but remains unchanging in
its typifying notes: ability to intimidate, use of violence, purpose of committing a plurality of crimes.

Sommario
1. L’art. 416-bis c.p.: caratteristiche immutabili di una fattispecie normativa madre dell’emergenza
2. La mafia silente: ipotesi di conflitto giurisprudenziale

Summary
1. Art. 416-bis of the italian penal code: immutable characteristics of an emergency legislation
2. The silent mafia: hypothesis of jurisprudential conflict.

   Occorre, allora, muovere da ciò che la mafia è, per arrivare a
   definire ciò che mafia non è.
"La mafia - si legge nel libro "Cose di Cosa Nostra", che raccoglie la voce del più noto e rimpianto del
Magistrati antimafia, Giovanni Falcone - si caratterizza per la sua rapidità nell' adeguare valori arcaici
alle esigenze del presente, per la sua abilità, nel confondersi con la società civile, per l'uso
dell'intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità
a essere sempre diversa e sempre uguale a sé stessa. È necessario distruggere il mito della presunta nuova
mafia pronta a soppiantare quella vecchia.
Frank Coppola, appena arrestato, così rispose alla domanda che cos'è la mafia? 'Signor giudice, tre
magistrati vorrebbero oggi diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo
gode dell'appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la
mafia signor giudice'.
La mafia è razionale, vuole ridurre al minimo gli omicidi. Se la minaccia non raggiunge il segno passa a
un secondo livello, riuscendo, a coinvolgere intellettuali, uomini politici, parlamentari, inducendoli a
sollevare dubbi sull'attività di un poliziotto o di un magistrato ficcanaso, o esercitando pressioni dirette a
ridurre il personaggio scomodo al silenzio. Alla fine, ricorrere all'attentato. Gli uomini d’onore sono in
Sicilia probabilmente più di 5000, scelti dopo durissima selezione, obbedienti a regole severe, veri
professionisti del crimine. Anche quando si definiscono soldati sono in realtà dei generali o meglio
cardinali di una chiesa molto meno indulgente di quella cattolica. Le loro scelte di vita sono intransigenti.
Cosa nostra costituisce un mondo a sé che va compreso nella sua globalità con riferimento soprattutto al
principio di rispetto della verità vitale per l'organizzazione.
Appena la presenza dello Stato s'indebolisce, il livello di scontro si alza. Il mafioso diventa più sicuro di
sé, più convinto della propria impunità. Il dialogo Stato-mafia, con gli alti e bassi dei due ordinamenti,
dimostra chiaramente che Cosa Nostra non è un antistato ma piuttosto un'organizzazione parallela che
vuole approfittare delle storture dello sviluppo economico agendo nell'illegalità e che, appena si sente
veramente contestata e in difficoltà, reagisce come può, abbassando la schiena. Non dimentichiamo che la
mafia è l'organizzazione più agile, duttile e pragmatica che si possa immaginare rispetto alle istituzioni e
alla società nel suo insieme. […] La mafia si alimenta dello Stato e adatta il proprio comportamento al
suo. In quanto prodotto della sicilianità, la mafia, al pari dei siciliani in genere, si sente ferita dal
disinteresse dello Stato e dagli errori perpetrati dalle istituzioni a danno dell'isola. E quanto più lo stato si
disinteresserà della Sicilia e le istituzioni faranno marcia indietro, tanto più aumenterà il potere
dell'organizzazione"[2].
La caratterizzazione e la tipizzazione che si colgono dal breve passo riportato rimandano alla mafia
siciliana ma danno indicazioni precise nell'individuazione di un fenomeno delinquenziale del tutto
peculiare che trae sostanza della sua specificità dalla sua grave offensività, dal pericolo concreto per
l'ordine pubblico che scaturisce da una capacità di insediamento nel tessuto sociale, nel commercio,
nell'agroalimentare, nel turismo, in ogni settore, nella gestione dei rifiuti, nella sanità; dalle potenzialità di
destabilizzazione degli equilibri, di destituzione, perfino, della potestà statale nel governo di realtà
territoriali. E, ancora, dalla capacità di produrre consenso con l'esercizio di un potere che trae forza dalla
disponibilità di ingenti somme di denaro da cui scaturiscono variegati fenomeni di corruttela che
cementano nuove relazioni trasversali e aggregano in una zona grigia dove il confine tra legalità e illegalità
è sempre più sfumato e meno marcato.
Non esiste più una mafia, quella siciliana, ma ne esistono tante, come codificato dal legislatore quando ha
introdotto nell'art. 416 bis c.p. organizzazioni aventi la stessa natura e le medesime caratterizzazioni
comunque localmente denominate e le 'mafie straniere'; come verificato dai giudici di legittimità che, nel
tempo, hanno affermato la possibilità di individuare 'piccole mafie' o ‘mafie silenti’ che dell'associazione
mafiosa riproducono i tratti salienti.
"Bisogna avere un minimo di visione storica e prospettica
    , ammonisce, però, il dott. Giuseppe Pignatone. Il 416 bis è stato
    introdotto nel 1982, come frutto di elaborazioni sociologiche e
    giudiziarie palermitane. Oggi abbiamo mafie piccole, mafie
    grandi, mafie grandissime. Le unifica il metodo mafioso. È
    pacifico che oggi le mafie si danno alla corruzione, usano la
    finanza globale, sono usate dalla finanza globale. Stiamo attenti,
    però, a non perdere la specificità delle mafie e della mafia, quella
    delle tre grandi mafie tradizionali in particolare. Dimentichiamoci
    in questo momento di moldavi, rumeni, ostiensi, eccetera. Stiamo
    attenti in queste analisi così larghe che hanno la loro validità, a
    dimenticare quella che è la specificità delle mafie: la disponibilità
    della violenza, il metodo mafioso, che è quella specificità che
    giustifica un trattamento particolare, che giustifica delle sanzioni
    particolari, che giustifica un regime processuale particolare e che
    è accettato da tutti, in Italia dalla società italiana e dall’Europa,
    cosa non marginale, giustificato perché quelle mafie sono un
    pericolo per la democrazia e per l’economia globale".[3]
L'aspetto evidenziato dall'ex capo della Procura romana è fondamentale. Si fa presto a dire mafia,
rinvenendo in qualunque tessuto delinquenziale i tratti della violenza e della programmazione di molteplici
reati-fine ma guai a perdere di vista la semantica di quel fenomeno che ha in sé, quale connotazione
strutturale, una potenza di infiltrazione e di contaminazione connaturata al metus, all'omertà, all'impatto
inquinante e distruttivo su intere comunità. Da qui scaturiscono e si stratificano istituti giuridici di
protezione sociale generalmente accettati sebbene compromettano e mortifichino i diritti dell'accusato e le
garanzie del giusto processo.
Riguardo ai reati associativi, vige nel nostro ordinamento il c.d. “sistema del doppio binario”. I reati di
mafia e quelli ad essi connessi (i c.d. reati - fine commessi con metodi mafiosi e aggravati ex art. 7 d.l. 152
del ’91) sono oggetto di un trattamento normativo che li diversifica dagli altri reati per molteplici aspetti,
sia in punto di indagini e di metodi di accertamento del fatto, sia in punto di rigore del trattamento
sanzionatorio, sia in punto di afflittività della esecuzione della pena.
Due aspetti speculari ed interdipendenti pongono a confronto beni di valenza costituzionale: sicurezza
pubblica, da un lato; libertà, connotata da tutti gli aspetti che la caratterizzano - il diritto alla difesa e ad un
giusto processo, a una vita dignitosa, a una morte dignitosa - dall’altro.
Nel nostro ordinamento, in virtù della pervasività riconosciuta al fenomeno mafioso, è accordata una
stridente prevalenza di tutela al bene sicurezza a discapito del bene libertà, con una pedissequa
menomazione del diritto di difesa e della possibilità di accesso alle garanzie del soggetto, indagato,
imputato o in stato di detenzione.
Fin dalla fase delle indagini, momento sottratto per legge alla cognizione dell’indagato e del suo difensore,
ampissime sono le libertà di investigazione del potere inquirente, con conseguente menomazione della
sfera privata, attraverso la pregnanza e la durata della facoltà di intercettare ad esempio, ma ancor di più e
con effetti di più immediata pregnanza lesiva, attraverso l’escussione di collaboratori di giustizia.
È dato alla Procura sentire in totale segretezza il propalante disponendo di una visione generale delle sue
cognizioni offerta dal primo c.d. “verbale riassuntivo”, nel quale, almeno in teoria, il collaboratore riversa
in maniera sintetica tutti gli elementi di cognizione in suo possesso.
Concluse le indagini, i verbali utilizzati per pervenire alla richiesta di rinvio a giudizio, vengono depositati
con consistenti parti oscurate (omissis) e, dunque, sottratte alla verifica della difesa perché afferenti a
posizioni o situazioni ancora in attesa di accertamento.
Tale metodo, che risponde ad esigenze di preservazione della segretezza, costituisce, comunque, una
menomazione del diritto dell’indagato di avere, per il tramite del suo difensore, compiuta contezza del
contenuto del verbale.
Risulta evidente come l’escussione in segreto del dichiarante da parte del p.m. costituisca, in sé, una
lesione effettiva della garanzia difensiva.
Il p.m., infatti, mentre interroga ha e persegue una sua tesi di accusa e può, anche del tutto in buona fede,
offrire delle suggestioni che un collaboratore tende spesso ad assecondare per fin troppo evidenti ragioni di
utilità personale.
Non solo. La vistosa disparità di poteri e di azione tra accusa e difesa, continua ad esprimersi nella c.d.
“attività integrativa di inchiesta”, per tutta la durata del giudizio durante il quale permane la possibilità che
il pubblico accusatore senta, assente il difensore, i collaboratori.
Ancora: la legge ammette che vengano acquisiti agli atti di un processo, verbali dibattimentali di
dichiarazioni rese dai collaboratori nell’ambito di altri giudizi tesi all’accertamento di fatti diversi, assente
l’imputato e il suo difensore cui è, dunque, negata la possibilità di contestare, nella oralità del dibattimento,
gli elementi di accusa portati.
Le verità offerte dai collaboratori nei primi 180 giorni di collaborazione possono essere dilatate ed
amplificate sine die.
La nota regola, infatti, che costringerebbe il dichiarante ad esprimere il proprio patrimonio cognitivo entro
180 giorni, tesa ad evitare un progressivo arricchimento dei ricordi tutt’altro che genuino, è stata di fatto
del tutto vanificata.
Una giurisprudenza ormai solida, infatti, ammette pacificamente l’ingresso, quale prova, di dichiarazioni su
fatti nuovi, emersi ben oltre i 180 giorni, a volte anche a distanza di molti anni, purché ciò accada in
dibattimento, nel contraddittorio delle parti.
E’ fin troppo evidente come ciò dia vita al rischio di prove che si costruiscono nel tempo attraverso
aggiustamenti progressivi e contaminazioni - a volte anche involontarie, degli elementi di conoscenza del
collaboratore - che assai spesso originano dalla lettura di giornali, di atti giudiziari, ovvero dalla
partecipazione a molteplici processi, anche in veste di imputati, nel corso dei quali il collaboratore assiste
al giudizio ed entra in possesso degli elementi di conoscenza portati da altri dichiaranti.
È un aspetto di definitiva pregnanza se si pensa che la dichiarazione di accusa rivolta ad un soggetto da due
propalanti, in apparente autonomia, per un fatto criminoso specifico, conduce ad una pronuncia di
condanna che, nella materia dei reati associativi, è una condanna a pene estremamente aspre, anche
all’ergastolo.
Gli imputati assistono molto spesso al giudizio in video conferenza, privati, di fatto, della possibilità di
intervenire in tempo utile nel corso della escussione del propalante. La tempestività dell’intervento,
fondamentale nel corso di un esame dibattimentale, è, infatti, preclusa dalla collocazione in una saletta
blindata dell’imputato che deve, a mezzo dell’assistente di udienza, chiedere il permesso di prendere la
parola o di interloquire telefonicamente con il proprio difensore in aula.
Infine, nell’esecuzione della pena, i meccanismi preclusivi di cui agli artt. 4 bis e 58 ter O.P., impediscono,
di fatto, l’accesso ai benefici penitenziari a chi non abbia collaborato utilmente con la giustizia. Il detenuto
per reati di mafia perde il diritto al silenzio e subisce una coazione all’autoaccusa ed all’accusa di altri che,
sola, gli può offrire un’ipotesi di accesso alla restituzione in società. Ciò che è inalveato concettualmente
nel contenitore - stigma del sodalizio mafioso sarà, dunque, verificato, processato e sanzionato con il rigore
che si correla ad un reato di massima offensività.
Contrazioni dei diritti ammesse da molti, tollerate da quasi tutti, contrastate soltanto da chi vorrebbe non
esistessero in nessun caso zone di cedevolezza del sistema di tutela delle garanzie difensive.
Occorre, allora, contrastare la tendenza, ormai affermatasi negli ultimi anni nel solco di una cultura del
diritto penale del nemico e della immanente emergenza, di ampliare a dismisura i caratteri di
un'associazione che la storia ha disegnato per la sua tipica offensività radicata non soltanto nella violenza
ma, assai di più, nella pervasività, nella capacità di invadere qualunque settore della vita pubblica, di
permeare l'economia, di confondersi e di mescolarsi con il lecito, di entrare nei posti di potere statale, nelle
pubbliche amministrazioni, nei tribunali perfino. La mafia si pone solo in astratto come antistato e si nutre
dell'incapacità dello Stato di offrire alle comunità servizi sociali adeguati, lavoro, abitazione, sanità,
istruzione, sussidi educativi e formativi. Nelle maglie del disagio la mafia trova terreno fertile per
introdurre le sue trame, per catturare consenso, per creare sudditi, per assumere potere. Consenso e potere
costituiscono strumenti per rapportarsi con lo Stato divenendone interlocutori, condizionandone l'operato.
Mafia non è allora e non può essere un fenomeno delinquenziale comune, una banda anonima di criminali
pur feroci e violenti. Non è sufficiente che tre o più persone si riuniscano con finalità delinquenziali e che il
loro agito sia caratterizzato dalla violenza perché si possa parlare di una fattispecie di reato inquadrabile nei
canoni di cui all'articolo 416 bis c.p.. Mafia è contaminazione di un territorio, instillazione tra le persone
della paura, della consapevolezza che chi appartiene a un determinato sodalizio incarna un potere,
costituisce una minaccia, assume il volto della morte. La mafia, allora, per essere tale deve essere
riconoscibile.
“L’associazione mafiosa esiste, dicono i giudici della sesta sezione della Corte di Cassazione, nella nota
pronuncia del processo conosciuto come ‘mafia capitale', se il sodalizio possiede e i sodali sfruttano un
prestigio criminale derivante dal vincolo associativo e da una pregressa consuetudine di violenza che
consente di infiltrarsi sfruttando una succubanza diffusa e limitandosi se del caso a lanciare avvertimenti
anche simbolici o indiretti in ambiti politici, amministrativi, imprenditoriali: in tutti quei luoghi e contesti
insomma dove è possibile entrare e moltiplicare profitti economici agendo in maniera organizzata[4] .
“La capacità intimidatrice del metodo mafioso deve essere attuale,
   effettiva, deve avere necessariamente un riscontro esterno. Non
   può essere limitata ad una mera potenzialità astratta; deve,
   piuttosto, trovare conforto in elementi oggettivi che possano
   consentire all’interprete di affermare che l'azione riferibile a un
   determinato gruppo organizzato di persone, strutturato secondo le
   connotazioni tipiche degli organismi di matrice mafiosa, sia
   anche effettivamente in grado di permeare - per l' assoggettamento
   e l' omertà provocati e correlati alle concrete iniziative illecite
   poste in essere - l'ambiente territoriale economico, sociale, politico
   di riferimento, deviando ne le dinamiche e spiegandone ai propri
   scopi l' ordinato assetto. […] Il cosiddetto metodo mafioso deve
   necessariamente avere una sua esteriorizzazione quale forma di
   condotta positiva richiesta dalla norma con il termine avvalersi;
   esteriorizzazione che può avere le più diverse manifestazioni
   perché si traduca in atti concreti, riferibili ad uno o più soggetti,
   suscettibili di valutazione, al fine dell’ affermazione, anche in u
   nione con altri elementi che li corroborano, dell'esistenza della
   prova del metodo mafioso” [5].

2. Nell’ambito del processo noto come “Albachiara”, la Suprema Corte esplora l’ipotesi che una
neoformazione sodale che – “ben lungi da qualsivoglia atteggiamento di “autoreferenzialità” o
millanteria – nasca come effettiva articolazione periferica o “gemmazione” dell’organizzazione mafiosa
radicata nell’area tradizionale di competenza. In presenza di univoci elementi dimostrativi di un
collegamento funzionale ed organico con la casa madre, la cellula o aggregato associativo non potrà che
considerarsi promanazione dell’originaria struttura delinquenziale, di cui non può che ripetere tutti i tratti
distintivi, compresa la forza intimidatrice del vincolo e la capacità di condizionare l’ambiente circostante”
[6].
Il primo passo, dunque, in ogni caso, il primo segmento, anello di verifica, rimane l’esistenza di
un’aggregazione di soggetti, un insieme, un gruppo unitario che sia autonoma formazione di
un’associazione di natura mafiosa (o ‘ndranghetista, o camorristica) ovvero gemmazione di altra solida e
storicamente nota e definita realtà sodale.
Qualora l’organismo di cui sia comprovata l’esistenza risulti essere mera gemmazione – appendice della
“casa madre”, il passaggio di accertamento successivo è l’esistenza di uno stabile collegamento funzionale
tra la cellula nuova e l’associazione originaria.
Il collegamento stabile deve essere, appunto, “funzionale”: “il baricentro della prova deve spostarsi sui
caratteri precipui della formazione associativa e, soprattutto, sul collegamento esistente – se esistente –
con l’organizzazione di base” (Cass. Sez. V, sent. 31666/2015).
La “potenzialità”, infatti, se determina un arretramento della soglia di punibilità, richiede sempre un
accertamento in concreto; la “potenzialità” del pericolo deve essere (pena lo svuotamento dell’ipotesi
criminosa), insomma, attuale, concreta, e riconoscibile.
Coerentemente, d’altronde, le Sezioni Unite della Suprema Corte, sollecitate dalla Sezione Seconda Penale
alla verifica dell’esistenza di un contrasto interpretativo afferente alla specificazione degli elementi
costitutivi del reato associativo, hanno, con provvedimento del 28.04.2015, “restituito gli atti non
ravvisando il contrasto giurisprudenziale denunciato, convergendo le decisioni in materia nel principio
secondo cui “l’integrazione della fattispecie di associazione di tipo mafioso implica che un sodalizio
criminale sia in grado di sprigionare (pericolo astratto), per il solo fatto della sua esistenza, una capacità
di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di
piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti”.
Non può, dunque, sfiorare la sfera del penalmente rilevante, un fatto del tutto non riconoscibile, incapace di
rappresentare all’esterno la propria esistenza.
Atteggiamenti latamente evocativi di suggestioni mafiose, ‘ndranghetiste, camorristiche, non possono
assurgere alla tipizzazione della norma in discorso in assenza della concreta verificabilità probatoria e di un
consesso sodale individuabile (inteso come formazione localizzata composta da un certo numero di
soggetti avvinti da un legame sodale), e di condotte o di indici di condotta inquadrabili nella espressione
dell’agire mafioso – seppur potenziale – che riproduca o, comunque renda riconoscibile, quale
gemmazione di una associazione nota in un determinato territorio, anche per la sua stessa esistenza, il metus
tipico e tipizzante della societas scelerum.
La questione apparirebbe di facile soluzione muovendo dal dato normativo e dai presupposti tipizzanti
della fattispecie normativa.
“L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di
intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per
commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività
economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi
ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di
procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”.
Sono immediatamente individuabili delle condizioni solo al ricorrere delle quali il reato può dirsi integrato:
il vincolo, un legame tra persone accomunate dalle medesime finalità e dalla volontà di essere parte di un
consesso che trova nella realizzazione di crimini la finalità ultima della sua esistenza;
l’assoggettamento e l’omertà: i riflessi su una porzione della società che individua nel sodalizio una
condizione di pericolo, il metus;
la riconoscibilità: la possibilità per la comunità su cui impatta l’agire del gruppo delinquenziale, di
percepirne la capacità offensiva.
Eppure, resiste nella giurisprudenza di legittimità, un indirizzo che sembra riconoscere l’ipotizzabilità di un
sodalizio mafioso mancante del carattere della c.d. “estrinsecazione del metus”.
In data 15 marzo 2019, la Sezione Prima della Suprema Corte ha trasmesso alle Sezioni Unite l’ordinanza
n. 15768 del 2019 con la quale ha richiesto la soluzione di un ravvisato conflitto interpretativo dell’art. 416
bis c.p. formulando il seguente quesito: “se sia configurabile il reato di cui all’art. 416 bis c.p. con
riguardo ad una articolazione periferica (c.d. “locale”) di un sodalizio mafioso, radicata in un’area
territoriale diversa da quella operativa dell’organizzazione “madre”, anche in difetto della
esteriorizzazione, nel differente territorio di insediamento, della forza intimidatrice e della relativa
condizione di assoggettamento e di omertà, qualora emerga la derivazione e il collegamento della nuova
struttura territoriale con l’organizzazione e i rituali del sodalizio di riferimento”.
Nel rimettere la questione, la Prima Sezione specificava di prediligere l’indirizzo che, nel rispetto dei
canoni costituzionali di materialità e di offensività di cui all’art. 25 Cost., oltre che di proporzionalità in
rapporto al rigore punitivo, “richiede sempre un’esteriorizzazione della capacità di intimidazione che
abbia attuali ricadute empiricamente percepibili”.[7]
Conforme a tale orientamento, la sentenza della Sez. I, n. 55359 del 17.06.2016, Pesce, ha affermato che
“anche per la ‘ndrangheta non può configurarsi la natura mafiosa della diramazione costituita fuori dal
territorio di origine quando la nuova formazione non manifesti in loco una forza intimidatrice che sia
effettiva e riscontrabile. Sicché la locale di Singen, in quella sede considerata, non poteva qualificarsi
come un’organizzazione mafiosa operante in Germania, in assenza della prova dell’esternazione in tale
territorio della metodologia mafiosa, ma sulla base soltanto dei collegamenti con esponenti della
‘ndrangheta calabrese e dell’adozione dei rituali tipici di questa” […] “il patrimonio di , lì dove si rivolga a zone che non hanno in precedenza vissuto neppure in
parte le condizioni di , va debitamente attualizzato e dimostrato in
concreto per potersi ritenere consumato il reato di cui all’art. 416 bis c.p.” (Cass. Sez. I, ord. 15768 del
2019, pag. 9).
D’altronde l’espressione “si avvalgono” “rende esplicita, ai fini della consumazione del reato, la necessità
che l’ente faccia un uso effettivo del metodo mafioso. Tale metodo costituisce il mezzo e il modo con cui
l’associazione può raggiungere gli scopi indicati dalla norma; sicché esso rivela il nesso di strumentalità
che manifesta all’esterno l’essenza stessa della fattispecie delittuosa rendendola empiricamente
individuabile sul piano oggettivo, conformemente ai principi di materialità e tassatività di cui alla’art. 25
Cost. Di qui l’impossibilità di prescindere dall’attualità e concretezza del requisito citato” (Cass. Sez. I,
ord. 15768 del 2019, pagg. 10-11; Cass., Sez. VI, sent. 50064 del 16.09.2015; Cass. Sez. II, sent. 34147 del
30.04.2015; Cass. Sez. VI, sent. 44667 del 12.05.2016).
L’indirizzo individuato come confliggente, ritiene configurabile
   il reato di cui all’art. 416 bis c.p., riguardo ad una nuova
   articolazione periferica (c.d. ‘locale’) di un sodalizio radicato
   nell’area di tradizionale competenza, “pur in difetto non solo
   della verifica di reati – fine (fatto in sé pacifico) ma anche della
   concreta esteriorizzazione della forza intimidatrice, qualora
   emerga un collegamento della nuova struttura con quella
    di riferimento ed il modulo organizzativo (distinzione
   di ruoli, rituali di affiliazioni, imposizione di rigide regole interne,
   sostegno ai sodali in carcere, ecc.) presenti i tratti distintivi di detto
   sodalizio, lasciando così concretamente presagire una già attuale
   pericolosità per l’ordine pubblico”[8].
L’orientamento da ultimo evidenziato si differenzia dal precedente sostanzialmente nell’escludere la
necessità che il metus tipizzante del sodalizio mafioso si manifesti all’esterno rendendosi effettivo e
riconoscibile anche in territori storicamente non permeati dalla criminalità organizzata.
Con ordinanza del 17 luglio 2019, le Sezioni Unite hanno restituito gli atti alla Sezione remittente non
ravvisando il conflitto interpretativo.
L’asse ermeneutico, avvertono le Sezioni Unite, si sposta sulla corretta valutazione delle emergenze
probatorie consistenti nella necessità di accertare le caratteristiche organizzative della cellula (devono,
dunque, esistere caratteristiche organizzative); i suoi rapporti con la casa madre nonché le forme di
esteriorizzazione del metodo mafioso che può anche manifestarsi in modo ‘silente’, senza ricorrere a forme
eclatanti (omicidi o stragi) “ma avvalendosi di quella forma di intimidazione, per certi aspetti più temibile,
che deriva dal non detto, dal sussurrato, dall’accennato, dall’evocazione di una potenza criminale cui si
ritenga vano resistere” (Cass. Sez. II, sent. 29850 del 2015), ribadendo la “necessità che l’associazione
abbia già conseguito, nell’ambiente in cui opera, un’effettiva capacità di intimidazione esteriormente
riconoscibile, che può discendere dal compimento di atti anche non violenti e non minatori che, tuttavia,
richiamino o siano espressione del prestigio criminale del sodalizio” (Cass. Sez. VI, sent. 44667 del
12.05.2016). La forza di intimidazione può essere desunta anche da circostanze obiettive idonee a
dimostrare la capacità attuale dell’associazione di incutere timore ovvero della generale percezione che la
collettività abbia della efficienza del gruppo criminale nell’esercizio della coercizione fisica.
“Pertanto, anche con riferimento alla articolazione territoriale del sodalizio mafioso costituita fuori dal
territorio di origine si richiede la prova della concreta manifestazione del metodo mafioso (Sez. 6, n.
44667 del 12/05/2016, Camarda) e, dunque, della sua capacità di sprigionare, per il solo fatto della sua
esistenza, una forza intimidatrice effettiva e riscontrabile […] che può promanare o dalla diffusa
consapevolezza del collegamento con l’organizzazione principale, oppure dall’esteriorizzazione in loco di
condotte integranti gli elementi previsti dall’art. 416 bis, comma 3, cod. pen. […].
In definitiva, il prisma rappresentato dai variegati arresti sul tema, può sostanzialmente ricondursi ad
unità là dove si considera il presupposto ermeneutico comune che anche nel caso della delocalizzazione
richiede, per potere riconoscere la natura mafiosa dell’articolazione territoriale, una capacità
intimidatrice effettiva e obiettivamente riscontrabile” (Cass. Sezioni Unite Penali, ordinanza del
17.07.2019).
Nessun conflitto, dunque, ad avviso delle Sezioni Unite che, però, sembrano offrire un suggerimento
all’interprete “per la corretta valutazione delle evidenze probatorie”.

   Un suggerimento che, si spera, trovi finalmente uniformità di
   condivisione e di applicazione. Diversamente ci si augura che le
   Sezioni Unite prendano atto di una difformità di lettura di una
   norma che rischia di disperdere i suoi confini con buona pace dei
   principi di legalità e di tipicità cui deve essere conformato il
   diritto penale.

[1] L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 1961, p. 168.
[2] G.Falcone, M.Padovani, Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, 1991
[3] Giuseppe Pignarone, Stati Generali della lotta alle mafie, Seconda Giornata, 24.11.2017
[4] Cass. Sez. VI, sent. 18125 del 16-22.10.2019, pag. 283
[5] Cass. Sez.VI, sent. n. 50064 del 16.09.2015
[6] Cass. Sez. V, sent. 31666/2015
[7] Cass. Sez. I, ord. 15768 del 2019, pag. 13
[8] Cass. Sez. I, ord. 15768 del 2019, pag. 11

TAG: Percorsi penali, mafia, mafia silente

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