Quegli strani lavoratori precari chiamati agenti di commercio - Il Blog di Mauro

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Quegli strani lavoratori precari chiamati agenti di commercio - Il Blog di Mauro
Quegli   strani lavoratori
precari chiamati agenti di
commercio.

Davvero non è chiaro perché ci si indigna spesso per tutte
quelle persone che non godono di una collocazione lavorativa
stabile, tanto da essere definiti precari, mentre non accade
lo stesso con il profilo degli agenti di commercio.
E nascono addirittura movimenti spontanei per tutelare quelle
fasce di popolazione che non hanno garanzie per il futuro del
loro lavoro.

Per gli agenti di commercio no.

Chi è un precario?
È   colui   che    ha un  lavoro   soggetto   a  termini
temporali/contingenti e con scarse tutele previdenziali e
sociali.
Quegli strani lavoratori precari chiamati agenti di commercio - Il Blog di Mauro
Sembra la definizione dell’agente di commercio.
Ma nessuno penserebbe mai d’identificare l’agente in questa
visione, sol perché, quando si pensa a questa figura, si dà
per scontato che egli debba essere essenzialmente legato alla
produzione (finché dura) e non ad altro.
Peccato, però, che la produzione sia fortemente influenzata
dalle politiche dell’azienda mandante, dai listini da essa
proposti, dalla qualità di quello che si deve vendere, dalla
comunicazione e promozioni messe in atto, etc..
Un agente è, per sua stessa natura, una figura talmente ibrida
da non poter avere nessuno dei vantaggi del lavoratore
subordinato e nessuno dei vantaggi dell’imprenditore reale.
Ma paga le tasse per tutte e due le figure: ritenute di cassa
previdenziale di settore e ritenute per la cassa previdenziale
nazionale.
Non è un lavoratore subordinato perché non ha uno stipendio
fisso e non è un imprenditore perché non decide praticamente
nulla di quello che è il motivo del suo guadagno, prodotto o
servizio che sia.

Per anni ci è stato menato il ritornello per il quale “se
dessimo lo stipendio all’agente di commercio non sarebbe
stimolato a vendere”, con il quale ci si è giustificati del
fatto che si “assumeva” una risorsa a “parametro zero”.
Non mi è chiaro, però, cosa stimoli un ragioniere, un
impiegato qualsiasi a lavorare, visto che lo stipendio lui ce
l’ha…
Fosse vero, saremmo circondati di aziende piene di fancazzisti
e tutte sul lastrico.

In realtà non ci può essere nulla di meglio di avere una
minima garanzia di sopravvivenza quando si deve essere
“splendidi e splendenti” davanti ad un potenziale cliente o ad
una trattativa.

Bene fanno quelle aziende che hanno ormai compreso che la
figura dell’agente è cambiata.
Se egli è una risorsa dell’azienda, va pagata come tale e se
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porta valore aggiunto gli va riconosciuto il bonus percentuale
sulla crescita generata.
Ecco perché sostengo, da anni, che la figura dell’agente debba
orientarsi sempre più verso quella del cosiddetto “account”.
Con evidenti vantaggi per mandanti e mandatari.
Maggiore possibilità di controllo sulle azioni svolte “in
libertà” dal tipico agente, con conseguente maggiore
fidelizzazione del rapporto, oltre a migliori stimoli per
l’agente/account.
Se sai che il tuo stipendio è comunque subordinato alla tua
azione sul campo, farai di tutto per mantenerlo.
Al contrario della visione di convenienza sostenuta da molti
imprese, che vogliono l’agente privo di qualunque garanzia
economica reale.
Non è una novità che le aziende che si sono orientate verso
questa impostazione siano quelle che ottengono di più dalla
loro rete vendite.
Un agente della Ferrero (sì, quella della Nutella) potrebbe
campare dignitosamente anche solo con le provvigioni dovute
alle vendite di un prodotto che si vende da solo e invece gli
viene assegnato un portafoglio clienti da seguire e uno
stipendio fisso, legando le performance richieste
all’incremento che verrà generato su quel portafoglio e sui
bonus che sono funzionali a quell’incremento.

D’altro canto è ora di smetterla di pensare che creare rete
vendita è difficile perché “non ci sono più i venditori di una
volta” o perché non si è grado di trovare i managers giusti
che la creino.

La verità è che diviene difficile perché questo lavoro, quello
del venditore, viene visto sempre più come un lavoro
maggiormente precario di altri.

Quando non offri nulla, se non le provvigioni, ma chiedi in
cambio abnegazione, chilometri, costi, dedizione, sacrificio,
entusiasmo, competenza e iniziativa (ma anche presenza alla
riunioni aziendali, rispetto delle gerarchie, obbligo di
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raggiungimento obiettivi, …), fai fatica a trovare un giovane
che, magari con una laurea in tasca, decida di lavorare a
queste condizioni.

E allora si preferisce diventare “schiavi” di qualche
multinazionale dell’e-commerce o della consegna a domicilio
perché sai che almeno un minimo certo lo porti a casa.
Non perché ti diano lo stipendio fisso, ma perché sai che hai
certezza della “vendita” e di conseguenza la certezza di
quelle poche provvigioni.

A questo punto, quando reclutiamo agenti, delle due una: o ci
orientiamo verso il rilascio di un portafoglio clienti
dignitoso che generi guadagno certo che permetta la
sopravvivenza (cosa che non tutte le mandanti possono fare,
specie se all’inizio della loro attività commerciale con rete
vendite) o riconosciamo uno stipendio base.
Si chiama account.
Poi, se sei bravo, guadagnerai anche in percentuale sugli
incrementi, sennò vai a casa (un periodo di prova, a stipendio
ridotto, potrebbe maggiormente cautelare anche la mandante…).

Importante diverrebbe davvero la selezione iniziale a
differenza di adesso, dove molte aziende reclutano “cani e
porci” perché tanto “che ci perdo?”.

Questo è un ragionamento sano di un’azienda che vuole crescere
investendo sulla rete vendite.
Il resto è solo sfruttamento da parte di chi pensa che i furbi
stiano solo da un lato e che gli scemi stiano dall’altro.
Che poi scemi non sono ma piuttosto disperati.
Ma non si può basare la propria crescita solo sui disperati.

Tutto questo non fa bene alla categoria che si sta svalutando
sempre più e sempre più considerata al ribasso perché
accostata al disperato, anche nel caso di quei professionisti
veri che lo fanno da anni con soddisfazione.

Purtroppo so benissimo che tutto ciò resta solo utopia, in
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quanto non vi è categoria più disunita degli agenti di
commercio, i quali mai hanno saputo affrontare vere battaglie
sindacali e mai lo sapranno fare, così ripiegati su sé stessi
e alla perenne ricerca di “sbarcare il lunario”, senza
rendersi conto che ogni tanto è necessario fermarsi e
ragionare.

Uniti, possibilmente.

Mauro

Quelli che… Non ti aspettare
complimenti!

Ci sono capi, imprenditori, managers, clienti o soltanto
mariti, mogli, amici, … che sanno essere prodighi quando si
tratta di dire la loro su qualunque cosa, cercando peli e
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cavilli per criticare (a volte anche costruttivamente, per
carità…) e cercare di incidere su quello che dici o che fai
(la stragrande maggioranza delle volte, costoro lo fanno più
per la voglia di incidere, in quanto tale, che per un motivo
sostanziale vero… purtroppo…) ma che poi non sanno essere
altrettanto generosi in termini di gratificazioni e
complimenti, quando ne sia il caso.

Probabilmente anche per poca sicurezza in sé stessi,
timidezza, ignoranza, poca intelligenza, imbarazzo, …
Ma se fai il capo di qualcosa o di qualcuno – ma anche se devi
avere rapporti costanti con qualcuno con cui devi condividere
interessi comuni – devi saper essere in grado di riconoscere
meriti e competenze.
E non con il generico apprezzamento sul saper fare qualcosa,
ma entrando nello specifico del riconoscimento delle singole
azioni ben fatte.

Anche per le cose che possano sembrarti piccole o ininfluenti.
A volte sembra che cercare la critica a tutti i costi o vedere
sempre quello che manca, anziché quello che c’è (un po’ come
dire “il bicchiere mezzo vuoto”…), in queste persone ,
soddisfi il desiderio di egocentrismo a tutti i costi che
assume caratteri estremamente opposti quando, in maniera
altrettanto schietta bisogna riconoscere dei meriti.

Quello che non risulta chiaro a molti è che la gratificazione,
non è solo gradita a chi la riceve ma, è estremamente utile
anche a chi la fa.

In ambito lavorativo, soprattutto, ma non solo.
Gratificare non significa necessariamente enfatizzare
oltremisura un merito, ma, banalmente, saper dire anche una
semplice parola di apprezzamento.

Il “bravo” serve.

Genera o rigenera quell’entusiasmo        nelle   persone   che
condividono un percorso con te.
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Conosco persone che sono addirittura talmente tanto distanti
da questo modo di intendere i rapporti da preferire porre da
subito degli strani paletti: “non ti aspettare complimenti!”.
È come dire: “qualunque cosa fai per me è dovuta”.
O come se il marito alla moglie dicesse: “non ti aspettare che
ti dica che ti amo!”.
E che c@@zo di matrimonio è?!?
Anche nei rapporti tra persone o per lavoro è lo stesso.
Ci sono quelli ancora più perversi che se la cavano con “tanto
lo sai che ti amo!”.
Come dire: “che te lo dico a fare?!?”.
Peccato che sentirselo dire serva e sia gradito, nonché
doveroso.

Anche sul lavoro ci sono quelli che se ne escono con “ma lo
sai che sei bravo, che ti devo dire?”.
Denota una pochezza che difficilmente è accostabile alle
necessarie peculiarità di un capo, un imprenditore, un
manager, …

E tutto questo vale anche per i rapporti tra imprenditori e
clienti: anche i clienti dovrebbero saper gratificare, al
momento giusto, quello che hanno ricevuto a seguito di una
trattativa commerciale – aiuterebbe a farli vivere come
“clienti graditi” con le conseguenze del caso – così come
anche l’imprenditore dovrebbe saper gratificare il cliente,
dimostrandogli quanto è orgoglioso di averlo con sé…
Anche questo ha conseguenze altamente positive.

Ogni tanto, ci vuole.

Diverso il caso, ancora peggiore, in cui non si riconoscono
meriti e gratificazioni per propria pochezza personale: “non
saprei fare quello che fai tu, come lo fai tu e quindi evito
di riconoscertelo”; quasi ad ammettere una propria limitatezza
o addirittura invidia, competizione, anche quando nella scala
gerarchica dei rapporti il tuo ruolo non dovrebbe risentirne.
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Saper gratificare, quando se ne prospetta l’eventualità, è un
modo molto attento e direi anche molto “furbo” di gestire i
rapporti.

Creare la giusta sintonia di una squadra, ad esempio, passa
anche da questo.
Nessuno, in fondo, vuole un capo che sia capace solo di fare
“cazziate”, dando per scontato tutto ciò che è ben fatto.
Risulterebbe un capo limitato e non poco sgradito. Un po’
“c@@aca@zo” per dirla in linguaggio parlato!
Può una squadra avere lunga vita con presupposti di questo
genere?
Io dico di no.

Ciò non significa non essere legittimati alle critiche ma con
una capacità paritaria       di   generare   anche   i   giusti
riconoscimenti.
L’espresso gradimento genera nel ricevente una scarica di
endorfine che aiutano a continuare anche incarichi gravosi o
non graditi e aumenta l’autostima nelle persone che, in fondo,
tutte cercano l’approvazione da parte di chi li circonda, con
evidenti benefici per il proseguimento del loro incarico e a
vantaggio della squadra.

Ma la gratificazione morale deve essere sentita e non figlia
di una recita: avrebbe un effetto deleterio e opposto allo
scopo.
Per questo è importante comprendere il contesto in cui certe
azioni meritevoli avvengono e saperle riconoscere.

In fondo, come per tutto, ci vuole cultura…
Non ci si immagina quante volte una semplice “pacca sulla
spalla” possa contribuire a stemperare tensioni e
incomprensioni…

E tu che imprenditore sei?

Mauro
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Ma tanto adesso c’è il ueb,
mi faccio un sito icommers e
faccio i soldi subito subito!

Sei imprenditore? O ci metti i soldi o ci metti il lavoro, o
tutti e due.
O investi in formazione, per te stesso, o paghi consulenze
esterne.

Sono solo alcune delle considerazioni che dovrebbero animare
ogni serio imprenditore, degno di tale nome.
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Non si può pretendere di non fare nulla, non sapendo o non
volendo far nulla, pensare che i problemi te li risolva sempre
qualcun altro, che magari paghi pure due lire, mentre tu stai
a fare il capo alla cassa!
Se nulla sai fare o nulla vuoi fare, almeno mettici i denari!

Per molti pseudo-imprenditori internette è stato una sciagura:
visto da tanti sprovveduti come attività “tutto ora e subito”
e con un approccio mentale quasi “predatorio”.
Non investo nulla e mi deve tornare tutto (è come coloro che
pensano di creare rete-vendite senza investire nulla, ma solo
a scapito dei venditori di turno… ma questo è un altro tema
che ho dibattuto spesso in precedenza…).
E comunque bello sarebbe!

La verità è che avviare e far decollare un’attività in rete è
difficile e faticoso al pari di aprire un attività
fisica/reale (forse pure di più, proprio perché non sta nel
dna di molti, come invece la cultura del negozietto di
quartiere…).

Se pensi sia facile non ci provare nemmeno…
Non si capisce perché quando apri bottega, al centro del tuo
comune, tu sia disposto ad anticipare per licenze,
ristrutturazione locali, cauzioni, mensilità di affitto,
acquisto arredi, carico di magazzino, commessi alla vendita,
bollette utenze, … mentre se pensi di fare lo stesso “in
virtuale” credi che debba solo essere guadagno che entra!
E questo a prescindere dal fare dropshipping o avere un
magazzino proprio (che già delinea altre necessità logistiche
aggiuntive…).

Partiamo dal presupposto che se vuoi decollare nel web devi
investire e a prescindere dal sito web (che è solo un pre-
requisito).
Non sei mai da solo a fare quello che fai e quindi per
emergere devi spendere: sui motori di ricerca, sulla
promozione in rete, sui social, etc., …
E farlo pure bene! Con cognizione!
Se lo fai per un negozio fisico, con quelle cagate di
cartelloni pubblicitari in strada, lo reputi giusto, se ti
chiedono di farlo investendo in indicizzazione per il tuo sito
allora… ti sembrano soldi rubati e non va più bene!
Eh ma io vendo servizi!
E cosa cambia?!? Se dovessi aprire un ufficio fisico per
quegli stessi servizi, quanto spenderesti all’avvio?

In realtà c’è molta ignoranza in materia e quando proponi un
investimento per advertising in rete, a chi si picca di fare
business sul web, ti trovi ostacoli mentali che metà bastano!
E c’è di più.
Anche quando hai maturato la necessità di fare quegli
investimenti sul web, devi capire che esistono dei “tempi
tecnici di resa”: non puoi pensare di investire due soldi per
un mese e aver svoltato.
E come coloro che fanno la classica pubblicità sul quotidiano
cartaceo locale e comprano una pagina intera una volta nella
vita… Cosa sperano di ottenere con una apparizione fugace,
seppur di grandi dimensioni?
Sarebbe più furbo fare un quadrotto accanto alla testata ma
farlo per un anno di uscite del giornale.
E forse si spenderebbe pure di meno di una pagina intera una
tantum…
La comunicazione è un venticello che deve insinuarsi nella
testa delle persone in maniera strategica (mai sentito parlare
di brand-positioning?!?)…
Lo stesso sul web, cambia solo il percorso per arrivare allo
scopo: se investi in indicizzazione il tuo contraltare è il
motore di ricerca.
E non entro nemmeno nella qualità di quello che vendi o i
prezzi a cui lo vendi…
O in temi come affidabilità, professionalità, post-vendite,
assistenza, … che dovrebbero essere un must!

Ma internet è una livella, come diceva il grande Totò per
altri versi…
Stiamo assistendo ad una selezione naturale in cui anche i
grandi players stanno giocando al rialzo e se te lo puoi
permettere ci puoi stare dentro, altrimenti…
Anche Google cambia periodicamente i propri algoritmi per
alzare l’asticella dell’investimento di chi vuole
“galleggiare” in rete…
La strada delineata è quella per la quale solo chi è vero
imprenditore, con una certa capacità di investimento e la
mentalità giusta per metterlo adeguatamente in atto potrà
reggere, gli altri… Amen!

Ciò detto, sembra facile riempirsi la bocca con la parola
“azienda” o “faccio icommers”, quando la verità è che non
esiste alcuna azienda a investimento zero, men che meno quelle
che vorrebbero operare sul web.

Mauro.

Interventista o attendista?
Tutto fa brodo purché non ti
fermi! Vuoi fare tutto tu?
Vedo    tante
realtà imprenditoriali nelle quali nascono idee e progetti
che, in oltre il 90% dei casi, non vedono mai la concreta
realizzazione e nemmeno l’avvio.
Molti dei quali sono anche decisamente sensati e non
necessariamente strampalati o figli dell’improvvisazione.
Se per i progetti e le idee che presuppongono investimenti più
o meno onerosi (a qualunque titolo: tempo, soldi, energie, …)
risulta comprensibile un certo tentennamento alla
realizzazione, tale per cui, poi, si possa decidere di non far
proprio nulla, non comprendo le esitazioni rispetto a idee e
iniziative che nella peggiore delle ipotesi potrebbero
semplicemente non portar nulla e risultare ininfluenti mentre,
nella migliore delle ipotesi, potrebbero portare soltanto
fatturato aggiuntivo: ciò a fronte del fatto che esse sono
spesso a costo pressoché vicino allo zero.
Parlo di iniziative come la messa in atto di pagine dedicate
sul sito web aziendale, azioni di contatto mirate, anche
banalmente a mezzo email (quando, per esempio, risulta utile
contattare associazioni di categoria o albi professionali
vari…), piuttosto che azioni di creazione di promo commerciali
basate su “operazioni fedeltà” (il cui costo è sempre
paragonabile a zero, stante che induci un cliente a ricomprare
– sebbene con lo sconto – un qualcosa che magari non avrebbe
comprato o ricomprato a breve e probabilmente non da te…).
In genere, includo anche tutto ciò che attiene alla
comunicazione a mezzo web.

Personalmente sono un interventista.
Non mi piacciono le “riunioni fiume” in cui ci si spertica a
farsi notare dagli astanti come colui competente a tutti i
costi su qualunque argomento e per questo arrabattarsi con
inutili analisi di convenienza, fattibilità e presunte rese…
Ci sono cose che vanno fatte. Punto.
E vanno fatte subito, perché è l’unico modo per capire se si è
sulla giusta strada.
Ribadisco: ciò vale quando non si tratta di iniziative onerose
che non presuppongano stravolgimenti aziendali.
E invece vivo quotidianamente un atteggiamento di paralisi a
dir poco imbarazzante.
Molti imprenditori sono portati alla troppa analisi prima
dell’azione.
Intendiamoci: non sono affatto fautore delle cose fatte “alla
ca@@o di cane” o senza pensarci, cosiddette “di pancia”, anzi
tutt’altro, ma parto sempre dal presupposto che “la troppa
analisi porti alla paralisi”.
Ho imparato che, nel lavoro, è sempre necessario “smuovere le
acque” poiché “le acque troppo stagnanti prima o poi puzzano”…

Proprio a fronte di ciò, soffro fisicamente quando vedo realtà
che per “fare le cose” perdono mesi in discussioni
praticamente inutili quando, intanto, i loro concorrenti
corrono…

Esiste anche un altro motivo per cui spesso non si riescono ad
avviare idee, progetti ed iniziative, anche se semplici e
senza controindicazioni: l’incapacità di delega.
Quando l’imprenditore è convinto del fatto che, in ultima
istanza, debba necessariamente fare o rifare tutto lui, ecco
che i processi rischiano di paralizzarsi.
Una delle caratteristiche di un imprenditore vero è proprio
quella di saper delegare le persone adeguate a compiti che
possono essere demandati a terzi e che se ne possano occupare
in maniera specifica come proprio compito precipuo.
Ci sono quelli che, invece, devono metter bocca e mani su
tutto e non avendo concretamente lo spazio temporale e fisico
per farlo, lasciano che le cose “sedimentino a vanvera”.
La capacità di delega è una delle caratteristiche essenziali
di imprenditori e managers in qualunque ambito lavorativo, dal
privato al pubblico.
Non si cresce e non si performa se non con una reale capacità
di delega.
Ciò non significa non conoscere i processi delegati o quello
che accade all’interno di essi e tra le persone che se ne
occupano, ma essere capaci di coordinarli senza
necessariamente conoscere i dettagli di tutto ciò che può
essere oggetto di attenzione da parte di persone
specificamente collocate allo scopo.
Del resto “delega” significa pure “fiducia” e “gratificazione”
per chi oggetto di delega e questo non può far altro che
migliorare anche lo spirito aziendale.
Saper delegare significa creare i presupposti per un corretto
concetto di “squadra”, oltre ad accelerare i processi e le
decisionalità che li sovraintendono.
Volendo renderlo con una frase semplice: saper delegare
equivale a saper comandare (delega vera e non solo quella per
evitare scocciature…).
In fondo, una volta, si diceva: “il manager vero è colui che
conosce sempre meno cose di sempre più cose”.

Mauro
Due son le cose che piacciono
a me…

Parafrasando un antico motivetto, dico che sono due i punti di
riferimento FISSI che dovrebbero fare da bussola per chiunque
e in qualunque circostanza di vita e non solo di lavoro:

   1. OBIETTIVI
   2. PRIORITÀ

Quando TUTTE le tue azioni arriveranno ad essere animate,
sempre e comunque, da questi due “fari” ti accorgerai del
significato delle cose e della loro importanza.
Vedo decine di persone che conosco, fare le cose per “pura
esigenza di fare” ma con una visione praticamente assente
delle due “colonne portanti dell’azione”.

Se non capisci perché davvero fai le cose, come puoi pensare
di comprendere le priorità delle fasi di quelle stesse cose?
In un processo di vita o lavorativo ci sono cose che divengono
più urgenti di altre se hai chiaro l’obiettivo finale (non
quelli intermedi che sono figli e fasi di quello finale).
Anche le altre cose hanno la loro importanza ma, in una
classifica “ragionata”, non stanno ai primi posti.
Vanno fatte anch’esse ma possono aspettare rispetto alle
prime.
Certo, anche identificare le priorità può diventare arduo per
chi non è abituato a ragionare secondo questi schemi ma,
ribadisco, identificare davvero il VERO obiettivo delle cose
aiuta ed anche tanto.
Purtroppo, in molti uffici, trovo persone che non avendo
alcuna visione (o alcun interesse) a questo fine, lavorano
come i muli alla macina: girano sempre intorno allo stesso
sasso.
Il problema è che, pur non rendendosene conto, fanno male
anche a se stessi: si spengono ogni giorno di più e perdono
mordente.

Se non vedi l’obiettivo ultimo per cui fai le cose, non potrai
mai “apprezzarti” all’interno del processo: non potrai mai
avere la cognizione di quanto importante tu possa essere
davvero in quel medesimo processo (e del resto lo devi essere
per forza, sennò non lo farebbero a te e a nessun’altro, se
fosse un processo che non serva a nulla…).

Certamente dovrebbe essere la peculiarità di ogni buon capo,
quella di avere in dote i due “fari in testa” ma, spesso non è
affatto così.
E assisti a capi che sono spenti come una lampadina fulminata
e fanno spegnere anche quei collaboratori che avrebbero di che
agire…

Che lavoro pensi di poter organizzare, gestire, delegare se
non sai nemmeno tu che obiettivi e che priorità devi darti?
Mi rendo conto che, un discorso fatto senza entrare in merito
a fatti concreti, possa sembrare filosofia ma se ci si pensa
bene ci si accorge che vale per tutte le cose della vita,
senza bisogno di entrare nel merito specifico.
Se vuoi conquistare una donna, hai chiaro in testa l’obiettivo
e sai cosa devi fare prima e dopo: telefonate, messaggi,
inviti, cinema, viaggio, brillocco, e poi, … a seconda dei
soggetti e della capienza della tasca.
Inoltre, sai come presentare la tua immagine e la tua persona,
che sarà, certamente, la cosa più lontana possibile da apatia
e fiacca.
Quando vai a fare un colloquio di lavoro conosci l’obiettivo e
sai le priorità: “venderti” bene e presentarti al meglio…
Ora, questi sono solo esempi banali ma chiariscono il
concetto.

È anche vero, però, che poco si farebbe se un capo non sapesse
riconoscere competenze, attribuirne i meriti ai suoi
possessori e provvedere alle giuste gratificazioni.
In una parola, ci troveremmo di fronte ad un capo incapace di
visione.
Sarebbe la prima motivazione per la quale le persone che lo
collaborano, avrebbero    serie   difficoltà   ad   identificare
obiettivi e priorità.
Perché il primo sarebbe lui a non saperlo fare.

Mauro

L’attitudine al comando.
Un vecchio adagio siciliano recita che “u cumannari è megghiu
do futtiri” (per quelli di Bergamo Alta: “comandare è meglio
di fare all’amore”), tanto viene ritenuto gratificante avere
ruoli di autorità che ti permettano di impartire ordini e
direttive su altri.
Ed in effetti esiste un certo qualcosa di leggermente perverso
nella visione del comando…
C’è chi lo intende come un privilegio, chi come un onere e chi
come entrambi.
Tralascio chi lo vede solo come esercizio del potere: non
serve a nessuno se non a sé stesso.
La verità è che comandare significa, solitamente, assumersi
responsabilità e spesso pagarne il prezzo.
Si può essere capi “illuminati” e capi “fulminati”.
Il capo “illuminato” è colui che ascolta e poi decide, quello
“fulminato” è quello che decide e poi ne “giustifica” la
decisione.

Anche per fare il capo è necessario assumere informazioni.
È un po’ come quando devi andare dal cliente e ti prepari alla
visita, assumendo quante più informazioni possibili sulla sua
attività.
Cosa distingue coloro che sanno fare i capi e sanno di saperlo
fare, dagli altri?
Fondamentalmente la politica dei “no”.
Il capo ha la capacità di argomentare i “no” in quanto a dire
“sì” ce la fanno tutti.
È un po’ come la filosofia che anima le vendite: tutta la
formazione sulle tecniche di vendita verte sul “no” del
cliente, su come contrastarlo, su come superarlo.
Se fossero tutti “sì” staremmo a fare tutti i venditori e
saremmo tutti ricchi.
Per sostenere i “no” bisogna avere motivazioni concrete e
dimostrabili.
Saper dire “no” (motivati) costituisce uno dei primi
presupposti affinché la squadra senta fortemente la presenza
di colui che conduce la baracca, riconoscendone il ruolo.
Abbiamo delineato, quindi, alcune caratteristiche chiare
dell’attitudine al comando e del capo “illuminato”:

   1. Ascolta la squadra;
   2. Assume informazioni;
   3. Gestisce adeguatamente le sue scelte dei “no”;
   4. Non ha timore ad andare controcorrente se ha delle
     motivazioni concrete per farlo.

Potremmo inserire tante altre caratteristiche che possano
identificare un capo, ma l’idea non è quella di elencarne gli
aspetti caratteriali (per quello basta la vasta letteratura
che troviamo sulla rete e per la quale non serve ripetersi in
questa sede), ma analizzare alcuni parametri che spesso
sfuggono ad una superficiale analisi dell’attitudine al
comando.
Soprattutto se stiamo parlando di capi riconosciuti e non
imposti a tutti i costi.
Un capo riconosciuto (c’è chi dice leader…) è colui il quale,
sebbene abbia una forte personalità priva di timori
decisionali, riesce a farsi apprezzare dai suoi uomini che,
anzi, ne ricercano le competenze, la presenza, il conforto.
C’è chi dice che un vero capo è sempre solo.
Ed in effetti questa affermazione ha la sua logica.
Non puoi avere amicizie sul lavoro se sei un capo, ma solo
rapporti amichevoli.
Perché accade ciò?
Per il semplice motivo che un rapporto di amicizia genererebbe
compromissioni difficili da gestire.
Non che non si possa andare a cena insieme con le rispettive
famiglie, ma chi comanda, difficilmente è avulso da critiche:
viene criticato quando fa le cose per bene figuriamoci se
sbaglia…
Proprio per questo, quando i rapporti di lavoro finiscono, è
praticamente impossibile che restino amicizie.

Perché è scientificamente provato che i migliori capi abbiano
estrazioni umanistiche?
Perché hanno una diffusa capacità di agire in linea
introspettiva sviluppata sin dai tempi dei loro studi.
Quella capacità della comprensione dell’animo altrui che è
determinate quando gestisci esseri umani e non macchine, con
la consapevolezza che l’animo umano è variabile.
Non che questa caratteristica non la si possa trovare anche
presso chi non ha studi umanistici alle spalle, ma è
certamente caratteristica più presente nel primo caso.
Studiare filosofia o diritto aiuta.

Poi, però, c’è chi nasce capo.
Ne ho incontrato alcuni.
Sono persone che danno sicurezza.
Ecco un’altra caratteristica che spesso viene trascurata.
In una squadra, avere il capo che infonde sicurezza nei
confronti delle strade intraprese è una valenza importante.
Ma la sicurezza non si inventa.
A volte è un atteggiamento figlio dell’esperienza, laddove la
si interpreta per motivare la squadra, a volte è
consapevolezza di aver valutato correttamente tutte le
alternative possibili.
A questo serve ascoltare le opinioni della squadra.
Creare quel contesto di analisi che agevoli le scelte.
Poi o si è interventisti o si è attendisti.
Personalmente sono per la prima visione.
“Chi mangia fa molliche” dice il proverbio ma chi non mangia
resta morto di fame pur se con la sterile consolazione di “non
aver fatto molliche” (quindi di non aver sbagliato).
Ma la troppa analisi porta alla paralisi e quindi un buon capo
si distingue anche per questo.
Il decisionismo non è un difetto quando esercitato con piena
consapevolezza di aver assunto tutte le informazioni possibili
finalizzate ad una scelta.
L’alternativa è dare l’impressione di “una barca priva di
nocchiero”.
Nessuno dirà mai di un capo “che bravo, fa decidere tutto a
me”, ma piuttosto dirà “che cavolo lo pagano a fare se devo
decidere tutto io?”.

Mauro.

Quando il “pesce puzza dalla
coda” (sarà vero?)!!!
A parte gli immigrati, l’altro grande tema che, a convenienza,
è sempre più spesso sulla bocca di chi “vuol farsi bello” è
quello del clima e del surriscaldamento globale.

Ultimamente leggo tanto e ascolto varie voci sul tema, non
ultime quelle di tanti politici ed ex politici che a fronte
delle loro recenti fatiche editoriali hanno voluto affrontare
il tema nei loro scritti (è pur sempre un argomento, devo
dire, che fa sempre molta tendenza…).

Confesso che la cosa che mi è andata parecchio “di traverso” è
stata l’affermazione di qualcuno secondo cui vale il
sempiterno adagio per il quale “cosa può fare ognuno di noi?”.

Un cavolo (e non sono il solo a pensarla così…)! … Al di là di
ogni retorica e di ogni formalismo da benpensante!

Sono, onestamente, un po’ stufo di questo stile “politically
correct” da accademia del “pollo fritto”!

Quando mi si dice che prendere un aereo equivale ad
incrementare l’inquinamento globale o che accendendo il
climatizzatore, nelle torride notti dei nostri periodi estivi,
significa non essere sensibili sufficientemente alle necessità
che il tema impone, sono tentato da due differenti sentimenti
contrastanti tra loro: da un lato, tali atteggiamenti, mi
comportano una certa ilarità, dall’altro mi stizziscono non
poco.

È sempre la solita storia: far passare il messaggio che la
colpa è comunque di tutti noi… Del popolo fatto dalle persone
comuni (astrattismo delle colpe…)…

Ma un popolo acquisisce le abitudini che gli sono concesse.
Sarà per questo che i tedeschi quando arrivano a Roma fanno i
pediluvi in piazza Navona e in patria stanno “con due piedi in
una scarpa”!

Come in tante altre cose… Vedasi evasione fiscale, spending
review e sprechi vari, qualità del lavoro, livello culturale
del Paese, …

Ci vogliono instillare l’idea che, difformemente dalla verità
sancita dal proverbio storico, il pesce, adesso, puzzi dalla
coda!

Se esiste una società organizzata democraticamente, tale per
cui si eleggono dei rappresentanti per affrontare (e magari
risolvere…) ciò che è reputato necessario per il benessere
comune, mi sembra davvero offensivo (per la mia media
intelligenza…) continuare a menarla dicendoci che ognuno di
noi deve cambiare abitudini.

Non si può chiedere al popolo (entità parecchio astratta, per
come si accennava in precedenza…) di non far propria la
tecnologia che migliora la vita quotidiana, né, tantomeno, si
può pensare che a fermare un certo tipo di progresso
tecnologico (non ecosostenibile) possa essere il comune
cittadino.

Se vuoi che quest’ultimo adotti uno stile di vita consono
all’esigenza del pianeta, devi realizzare le condizioni
affinché sia l’unico stile che egli possa adottare.

Certamente ho insegnato a mio figlio a non sprecare l’acqua o
ad evitare di usare troppe bottigliette di plastica (anche se
non ce n’era affatto bisogno perché su certi temi è più
sensibile di me…), ma strumentalizzare tutto al fine di
generare un facile alibi all’inattivismo dei governi, solo per
far ricadere la responsabilità sulle abitudini quotidiane di
ognuno… È davvero troppo!

Si parla spesso dell’inquinamento delle città dovuto alle
polveri sottili generate dai motori a scoppio dei veicoli (se
ne parla da decenni) ma invece di centrare l’attenzione sulle
vere e concrete alternative per la produzione di energia
pulita, si preferisce chiudere periodicamente i centri storici
all’accesso dei mezzi di locomozione, o adottare le targhe
alterne.

Misure che non servono praticamente a nulla se non a tamponare
temporaneamente il problema e mandare “fumo negli occhi” della
popolazione (con la chiusura al traffico le polveri sottili
diminuiscono leggermente solo dopo qualche giorno di chiusura
– tradotto in disagi al cittadino -, salvo ritornare ai
livelli precedenti alla riapertura della normale viabilità).

Anche l’elettrico, di cui si fa un gran parlare, è più un
esercizio di stile che la ricerca di vera alternativa.

Un modo per creare un nuovo business a vantaggio di pochi,
dando l’illusione che si sta lavorando per cercare fonti di
energia alternative ai carburanti fossili da locomozione.

E intanto si fanno dei bei soldi con la Formula “E” che gira
per Roma (sponsors, biglietti, diritti televisivi, …).

Nessuno dice qual è il problema vero: smontare il sistema di
business che gira attorno ai combustibili fossili è un’impresa
titanica.
Non dimentichiamoci che si sono combattute guerre per queste
storiche risorse e che si sono compiuti omicidi più o meno
palesi…

Quando qualcuno (in Italia e non) ha tentato di rendersi
autonomo dalla schiavitù del petrolio acquistato dai “soliti
noti”, cercando, come conseguenza, di renderne autonomo il
proprio Paese, o è morto ammazzato o è scomparso nell’oblio
della delegittimazione.

Serve fare nomi? Non credo. Basta studiare la storia…

La realtà è che non c’è la vera volontà di smontare questo
sistema anche se ci si è resi conto che il petrolio non durerà
in eterno.

E poi nascono le perversioni.

Per far decollare l’elettrico dovresti fare in modo che chi
guida un’auto elettrica abbia necessità di recarsi alla
stazione di servizio per una qualche necessità: ricaricare le
batterie ad esempio.

E tutto pur di mantenere viva la rete di stazioni che
diversamente potrebbe chiudere per sempre.

Ed allora ecco che si fanno “ricerca e sviluppo orientati” a
generare un elettrico che sarebbe difficilmente ricaricabile a
casa (ci vorrebbe troppo tempo con la tecnologia delle odierne
vetture elettriche) rendendo conveniente andare alla solita
stazione di servizio.

Ma poi c’è da chiedersi: “se l’elettrico si diffondesse
davvero, avremmo tutta l’energia necessaria a ricaricare tutte
le auto in circolazione?”… Boh!!!

Ma intanto è solo per pura affaristica perversione che si
continua ad alimentare un sistema di business che arricchisce
solo qualcuno, per quanto obsoleto esso possa essere.
Che poi, parliamoci chiaro, non è neanche l’elettrico la
soluzione vera (ma è quello che ci vogliono far credere… per
adesso…) in quanto il motore ad idrogeno (la cosiddetta “fuel
cell”) potrebbe vedere un motore che si autoalimenti una volta
generata la reazione di partenza (quella che lo farebbe
avviare).

Immaginate un motore    che   potrebbe   autoalimentarsi   solo
aggiungendo acqua?!?

Con residui nocivi pari a zero (appena un po’ di vapore acquo…
E magari con questo residuo ci crei anche altra energia…).

E invece è un progetto che non deve decollare perché non
converrebbe al “sistema”.

Se un giorno se ne parlerà ancora sarà perché per innescare la
reazione all’accensione dovranno esserci         le   batterie
elettriche… Capito il meccanismo?!?

O il nucleare. Immaginate un motore che con un pillola di
uranio cammina per 25 anni!!!

Non è fantascienza, ci hanno già provato con successo!

Per il cambiamento ci vuole coraggio (da parte dei politici
preposti allo scopo) e grande consenso di popolo (governi
sostenuti da larghe maggioranze che siano legittimati a
imporre il cambiamento anche contro il “sistema” di business
vigente).

E non è chiedendo al povero cittadino di non prendere l’aereo
o l’auto che si risolve il problema.

Tantomeno dicendogli di morire dal caldo e non accendere il
climatizzatore.

Anche Greta Thumberg spera di far breccia sui governi ed anche
quando, in maniera simbolica, dice di non prendere l’aereo o
l’auto, lo fa come provocazione, sapendo che non si risolve
così il problema (o almeno spero che lo faccia per questo,
perché sennò è davvero una povera illusa!).

Altro tema del tipo “pesce-testa-coda” che mi fa pensare e che
mi lascia esterrefatto è quello del livello culturale del
nostro Paese (che, in qualche modo, è intrinseco alla
strumentalizzazione politica delle “colpe”, di cui abbiamo
parlato).

“Ci sono pochi laureati” e gran parte di questi si laureano in
discipline che ne faranno “i nuovi disoccupati”.

Proviamo a chiederci perché (discorso simile si potrebbe fare
anche per le poche nascite nel nostro Paese: quando fai delle
scelte, è tutto commisurabile alle aspettative che immagini di
avere…).

Da tempo sappiamo, ormai (ahimè) che questo Paese può offrire
poco o niente ai nostri giovani e ciò comporta che lo
scoramento regni sovrano.

“Perché devo anche fare la fatica di laurearmi se tanto
resterò disoccupato?”. È la domanda che molti si fanno, già
sapendo che se intendessero percorrere un percorso
universitario (con i costi e i sacrifici, anche della famiglia
d’origine, che questo comporterebbe…), dovrebbero essere
disposti, quasi certamente, ad andar via dalla propria terra.

Quelli che comunque si laureano e restano nel “proprio
paesello”, di solito conseguono titoli di laurea cosiddetti
“più semplici”, perché tra non fare nulla e iscriversi ad una
facoltà (magari facile…) probabilmente scelgono la seconda
possibilità… Fin quando (sempre in attesa di collocazione)
capita anche che si laureino!

Forse è anche per questo che ci sono più laureati al Sud!

In buona sostanza:

     “mi laureo con la concreta possibilità che debba
andarmene”;

oppure

        “non mi laureo e resto in patria, poiché anche con la
        laurea, ove decidessi comunque di restare, rimarrò pur
        sempre disoccupato”.

Ovviamente è un’estremizzazione del problema ma aiuta a
comprenderlo…

Poi assisti ad episodi deleteri come il “baronato” nelle
università, le cattedre “a simpatia”, i concorsi “truccati”
per i ricercatori e vedi come distruggi un certo tipo di credo
e di speranza di chi ne ha già poca.

Siamo un Paese che non sa premiare il merito e non sa punire
le colpe…

Siamo eredi di un provincialismo diffuso che non ci permetterà
di crescere. Parentopoli e campanili vari, familismi e
sotterfugi di ogni genere e in ogni campo, non aiutano a
creare le condizioni per credere all’investimento che i
giovani dovrebbero poter fare in questo Paese…

Ma la colpa è che ci sono pochi laureati…

Ah ma allora è tutto chiaro! Sarà per questo che l’Italia è
ferma da 25 anni!!!

La colpa è dei giovani che non si laureano! E come la colpa di
chi non fa figli! O di chi non crea nemmeno famiglia…

Quindi la colpa è sempre “della coda” non “della testa” che
non ha saputo gestire il Paese e renderlo migliore…

È sempre colpa degli ultimi se sono e siamo ultimi.

Ma, nel frattempo, “i primi” dove stavano?!?

Mauro
Quelli    con                         la            “testa
d’ariete”.

Avere una rete vendita a propria disposizione è una di quelle
cose più semplice a dirsi che a farsi.

Posto che tu sia bravo a veicolare il tuo messaggio di
ricerca, a fare i colloqui selettivi, a fare il corso di
preparazione, poi dovrai necessariamente confrontarti con la
gestione reale quotidiana di questa rete appena creata e
“messa in pista”.

E qui, solitamente, cominciano i problemi.

Non solo di natura gestionale, in senso stretto, ma anche di
etica in relazione alla collaborazione.

Spiego meglio.

Ci   sono   imprenditori   convinti   che    i   venditori   siano
quell’entità che, per connotazioni direttamente collegate
all’attività che vanno ad espletare, abbiano a tutti i costi
la vocazione al sacrificio imposto dal mestiere, ove se le
soddisfazioni esistono è perché “sono io imprenditore che ti
ho dato modo di averle” mentre se i problemi accadono “è
perché sei tu che sbagli” (dice il medesimo imprenditore).

La convinzione che aleggia, anche se difficilmente dichiarata,
è quella per cui «quello che l’agente porta è “tanto di
guadagnato” ma io mi muovo come meglio credo» (pensa
l’imprenditore di prima…).

Ciò comporta il verificarsi di dinamiche che solo a
raccontarle fanno arricciare (e non poco) il naso: la mandante
che diviene concorrente diretta dei propri agenti.

Mi sono trovato non poche volte ad assistere a fenomeni nei
quali si riservano all’agente le trattative più rognose e meno
redditizie avocando all’azienda quello che è più congruo ed
immediato, anche se figlio di trattative e acquisizioni
precedenti da parte dello stesso agente.

Cioè, fondamentalmente accade che l’azienda usi l’agente come
mera “testa d’ariete” per fargli “aprire un mercato” e che poi
non gli riconosca il beneficio che da ciò ne deve conseguire
nel tempo della collaborazione successiva.

L’altro giorno parlavo con un amico attivo come agente di
commercio per una storica azienda che lo vede collaborare da
oltre 20 anni, il quale mi raccontava:

“… hanno iniziato a fare così: prima mi hanno fatto acquisire
dei clienti che non riuscivano a conquistare e dopo il primo
ordine li hanno indirizzati all’acquisto diretto online sul
portale e-commerce aziendale, per il quale, come previsto da
mandato, non mi riconoscono provvigioni!”.

Va da sé che trattasi di cialtroneria bella e buona!
Premesso che potrebbe divenire oggetto di contenzioso legale,
è certamente un atteggiamento deprecabile e davvero infame.

Alla stessa stregua di ribassare le provvigioni (credetemi,
accade anche questo…) a seguito del primo ordine procacciato
con determinati clienti, facendo così in modo che il secondo
ordine generi più convenienze per la mandante che per l’agente
che deve concretamente seguire quei clienti (costi trasferta,
tempo, energie).

O come tagliare le zone anche in presenza di valida attività
svolta (ove le indennità allo scopo sono spesso una chimera…).

Avere una rete vendite in azienda è da intendersi come un
asset dall’importante valore assoluto e come tale non può
essere bistrattata a piacimento: non va considerata solo come
“testa d’ariete” ma come risorsa “vera”.

Se non hai capito questo ha poco senso che ti lamenti del
turn-over.

Anche quell’amico mio, dopo oltre 20 anni di collaborazione,
nel momento in cui l’azienda ha cominciato a comportarsi così,
sta provvedendo a valutare opportunità altrove…

E probabilmente quell’azienda perderà una risorsa sulla quale
aveva investito per anni (con un buon rapporto reciproco, fin
lì…) e contro la quale si dovrà scontrare nel momento in cui
passerà alla concorrenza.

È facile “sfasciare” per mera avidità quello che si è creato
in anni, quando non si comprende che il guadagno che sottrai
al tuo venditore è del tutto effimero poiché ne spenderai
molto di più nel momento in cui dovrai ricostruire la tua rete
vendite.

Certo, bisogna anche capire “l’orizzonte temporale” che si
traguarda: se pensi di chiudere l’azienda da lì a poco o di
liquidare la tua rete vendite è un conto, ma se davvero pensi
di far crescere i tuoi guadagni con questi espedienti pur
volendo mantenere la rete… Ne hai da imparare cara azienda!

Mauro

L’Italia finisce a Roma.

Assisto alle polemiche gradite ai sanremofili con un misto di
stupore ed indignazione, ma anche con una sana sensazione di
ilarità per quanto comiche esse siano.
Mentre il Paese s’interroga sul futuro della nostra economia e
sulle ripercussioni di scelte quantomeno discutibili, assurge
alle cronache la disquisizione sul perché abbia vinto l’uno o
l’altro, nella speciosa volontà di farne un caso politico.
Nel frattempo, però, siamo in recessione.
Non voglio addentrarmi nelle motivazioni che hanno condotto a
questa amara realtà, anche se tanto avrei da dire, perché non
è imputando colpe a qualcosa o a qualcuno che si risolve il
problema.
Noto solo lo status quo.
E tra le cose che noto ne esiste una che proprio non mi va
giù.
Il Salvimaio dimentica il Sud.
Seguo con passione TG e programmi di approfondimento di natura
socio-economico-politica e da quando l’attuale Governo è in
carica sembra che il Sud di questo Paese non esista più.
Se non fosse per qualche strumentale e faziosa notizia su
mondezza e degrado, piuttosto che su tristi e atroci
femminicidi, non si capisce che fine abbia fatto una parte del
nostro Paese.
E sembra ancor più strano se si riflette sul fatto che proprio
questa zona d’Italia sia stata quella che maggiormente abbia
generato il successo della maggiore forza di governo (o
perlomeno lo era al momento del risultato elettorale…).
Mentre per il Nord abbiamo assistito ad una grandissima
bagarre per l’Expo di Milano (giusto per fare un esempio…),
con tutte gli annessi e connessi (appalti, inchieste,
procedure d’urgenza, commissari vari, …) e finanziato
un’enorme massa di denaro, passa in totale anonimato quello
che dovrebbe inorgoglire un paese normale.
Matera è capitale della cultura 2019, ma finora tutto si è
limitato alla mera propaganda del riconoscimento, fine a sé
stesso, senza per questo dare vero spazio a Matera e alla
Basilicata, alle sue bellezze alla sua gente, alle sue storie.
Sembra di assistere all’espletamento di un atto dovuto ma di
cui, in fondo, non importa a nessuno o, ancor peggio, si
voglia non importi a nessuno.
Chissà cosa sarebbe accaduto se fosse stata Milano.
Ma il fenomeno rientra in un più grande problema di “pesi e
misure”, ormai storico nella nostra penisola.
E mentre si discute tanto del TAV o del raddoppio di qualche
autostrada o strada ferrata del Nord, a Matera non esiste il
treno perché non c’è mai stata una linea ferrata (ed è
“Capitale della Cultura 2019″… Sigh!).
Da qualche parte “si raddoppia” da qualche altra non si
programma nemmeno la prima…
Ma è solo un esempio di quello che oggi stride di più per
l’evento che vede Matera al centro dell’attenzione nel
palcoscenico internazionale.
Ma tutto il Sud ha problemi simili.
Sono un fautore del ponte di Messina ma so che non verrà mai
realizzato, ma non tollero che per andare da Catania a Trapani
ci vogliano più di 11 ore in treno e tre cambi.
Come non tollero che per raggiungere un patrimonio
dell’Umanità come la Valle dei Templi di Agrigento, da
Catania, sia necessario arrivare a Palermo ed effettuare un
cambio per ritornare ad Agrigento.
E non parliamo delle strade “statali” siciliane: quasi mai
all’altezza della situazione, pericolose nella migliore delle
situazioni, malandate e all’abbandono nella migliore.
E mentre esiste tutto questo, si parla addirittura di spostare
alcuni ministeri al Nord: per “renderli più vicini al centro
nevralgico e produttivo del Paese”.
Al di là dell’assurdità della cosa e della cattiveria, nonché
egoismo intrinseco che sta dentro affermazioni del genere,
vorrei capire che produttività avrebbe avuto Milano se non
avesse avuto strade, ferrovie e aeroporti.
Peccato però che quando si parli di opere pubbliche realizzate
(al Nord) li abbiano pagate tutti, meridionali compresi.
Sarà anche normale che le opere si facciano anche qui?
E non regge l’alibi che gli appalti non si fanno al Sud perché
si temono infiltrazioni mafiose.
È come dire che non si dia più la pensione ai ciechi perché ci
sono i falsi ciechi.
E dove sta l’opera di uno Stato civile se non nell’agevolare
lo sviluppo e perseguire reati e abusi?

Risulta sin troppo facile dire che gli insegnanti delle scuole
del Sud debbano “impegnarsi di più” per elevare il livello di
performance delle stesse scuole, peccato però che “senza soldi
non si canta messa”!
Se non hai i fondi necessari per l’ordinaria amministrazione
di una scuola figurati se riesci a prevedere azioni
straordinarie per didattiche d’avanguardia.
Insegnare bene passa anche e soprattutto dal poter disporre di
strumenti adeguati a ciò che si insegna.
Sono temi che necessiterebbero di una molto più ampia
trattazione e non è certo questa la sede.
Lo sviluppo non può essere funzione della sola iniziativa
personale ma, in uno Stato degno di tale nome è soprattutto
funzione di azione agevolanti centralizzate (lo dice la
Costituzione).
Se davvero fossimo Stato…
Se i fondi alle scuole e alle università li assegni in
funzioni delle performance è normale che vadano al Nord:
peccato che le diverse performance del Sud siano proprio
originate da una faziosa, sbilanciata e colpevole attribuzione
dei fondi.
È come accade con le ferrovie: le si fanno e le si raddoppiano
dove c’è un ritorno economico più alto e cioè dove si ha
contezza di un maggiore traffico pagante. Sarà normale che
dove non ci sono non ci può essere statistica di utilizzo o
no?!?
Perché non servono?!? O perché non ci sono?!?
O quando ci sono è perché fanno pena e le loro condizioni
tecnologiche riportano a quelle dei primi del Novecento, tale
da renderle difficilmente utilizzabili.

Senza Sud finisce l’Italia ma forse è proprio questo che si
vuole.
Non è federalismo (e ce ne sarebbe da dire…) è secessionismo.
E non è vero che il Sud ha avuto tanti fondi: è leggenda
metropolitana.
I fondi assegnati sono sempre stati enormemente meno di quanto
il Sud abbia sempre dato al resto d’Italia (e parlo di soldi
veri…).
Sai quanti posti di lavoro avremmo creato al Sud facendo le
opere pubbliche, anche solo quelle strettamente necessarie (o
solo adeguando e completando quelle esistenti)?
E forse non sarebbe nemmeno servito il reddito di
cittadinanza.
Uno Stato deve avere la capacità di progettare e programmare
sviluppo e non rendere suddito chi è disoccupato, legandolo al
vincolo di un reddito senza dignità.
Cosa ben diversa dall’aiuto alla povertà, per il quale
andrebbero fatte delle politiche di reddito diverse e sulle
quali siamo tutti d’accordo.
E intanto il Sud passa solo per brutto, sporco e cattivo, con
buona pace di quel “simpaticone” del ministro Bussetti.
Ma vaglielo a spiegare a quelli della Lega: sarebbe come dire
che invece di parlare per slogan li costringeremmo a ragionare
(o a studiare la storia…).

Mauro

Ma che cavolo di persone
vuoi?!?   Cinquanta o non
cinquanta…
Ho
50 anni e me ne vanto.
L’età, specie se motivo di intense esperienze vissute, è un
privilegio. Mai un disagio.
Sarebbe stato peggio se non avessi fatto nulla nel frattempo
ma, invece, ho lavorato tanto, ho messo su famiglia e fatto un
figlio (più sforzo di mia moglie che mio, questo è vero…), lo
sto crescendo con amore mentre continuo a coltivare le mie
passioni per la politica, per la storia della mia terra, per
la comunicazione, per gli ambiti commerciali che hanno
contraddistinto i miei ultimi 25 (e oltre) anni di vita.

Spesso mi capita di leggere sui social specializzati in ambito
lavoro (vedi LinkedIn) di alcune ricerche di personale che
mirano al recruiting di figure manageriali o genericamente
commerciali, per le quali ci si spertica in testi “civetta”
che sembrano usciti dall’Accademia D’Arte Drammatica, del
tipo: “Operiamo nella «Talent Acquisition» e non nel
«Recruiting» perché pianifichiamo a lungo termine. Perseguiamo
strategie e non tattiche.”
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