Quegli strani lavoratori precari chiamati agenti di commercio - Il Blog di Mauro
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Quegli strani lavoratori precari chiamati agenti di commercio. Davvero non è chiaro perché ci si indigna spesso per tutte quelle persone che non godono di una collocazione lavorativa stabile, tanto da essere definiti precari, mentre non accade lo stesso con il profilo degli agenti di commercio. E nascono addirittura movimenti spontanei per tutelare quelle fasce di popolazione che non hanno garanzie per il futuro del loro lavoro. Per gli agenti di commercio no. Chi è un precario? È colui che ha un lavoro soggetto a termini temporali/contingenti e con scarse tutele previdenziali e sociali.
Sembra la definizione dell’agente di commercio. Ma nessuno penserebbe mai d’identificare l’agente in questa visione, sol perché, quando si pensa a questa figura, si dà per scontato che egli debba essere essenzialmente legato alla produzione (finché dura) e non ad altro. Peccato, però, che la produzione sia fortemente influenzata dalle politiche dell’azienda mandante, dai listini da essa proposti, dalla qualità di quello che si deve vendere, dalla comunicazione e promozioni messe in atto, etc.. Un agente è, per sua stessa natura, una figura talmente ibrida da non poter avere nessuno dei vantaggi del lavoratore subordinato e nessuno dei vantaggi dell’imprenditore reale. Ma paga le tasse per tutte e due le figure: ritenute di cassa previdenziale di settore e ritenute per la cassa previdenziale nazionale. Non è un lavoratore subordinato perché non ha uno stipendio fisso e non è un imprenditore perché non decide praticamente nulla di quello che è il motivo del suo guadagno, prodotto o servizio che sia. Per anni ci è stato menato il ritornello per il quale “se dessimo lo stipendio all’agente di commercio non sarebbe stimolato a vendere”, con il quale ci si è giustificati del fatto che si “assumeva” una risorsa a “parametro zero”. Non mi è chiaro, però, cosa stimoli un ragioniere, un impiegato qualsiasi a lavorare, visto che lo stipendio lui ce l’ha… Fosse vero, saremmo circondati di aziende piene di fancazzisti e tutte sul lastrico. In realtà non ci può essere nulla di meglio di avere una minima garanzia di sopravvivenza quando si deve essere “splendidi e splendenti” davanti ad un potenziale cliente o ad una trattativa. Bene fanno quelle aziende che hanno ormai compreso che la figura dell’agente è cambiata. Se egli è una risorsa dell’azienda, va pagata come tale e se
porta valore aggiunto gli va riconosciuto il bonus percentuale sulla crescita generata. Ecco perché sostengo, da anni, che la figura dell’agente debba orientarsi sempre più verso quella del cosiddetto “account”. Con evidenti vantaggi per mandanti e mandatari. Maggiore possibilità di controllo sulle azioni svolte “in libertà” dal tipico agente, con conseguente maggiore fidelizzazione del rapporto, oltre a migliori stimoli per l’agente/account. Se sai che il tuo stipendio è comunque subordinato alla tua azione sul campo, farai di tutto per mantenerlo. Al contrario della visione di convenienza sostenuta da molti imprese, che vogliono l’agente privo di qualunque garanzia economica reale. Non è una novità che le aziende che si sono orientate verso questa impostazione siano quelle che ottengono di più dalla loro rete vendite. Un agente della Ferrero (sì, quella della Nutella) potrebbe campare dignitosamente anche solo con le provvigioni dovute alle vendite di un prodotto che si vende da solo e invece gli viene assegnato un portafoglio clienti da seguire e uno stipendio fisso, legando le performance richieste all’incremento che verrà generato su quel portafoglio e sui bonus che sono funzionali a quell’incremento. D’altro canto è ora di smetterla di pensare che creare rete vendita è difficile perché “non ci sono più i venditori di una volta” o perché non si è grado di trovare i managers giusti che la creino. La verità è che diviene difficile perché questo lavoro, quello del venditore, viene visto sempre più come un lavoro maggiormente precario di altri. Quando non offri nulla, se non le provvigioni, ma chiedi in cambio abnegazione, chilometri, costi, dedizione, sacrificio, entusiasmo, competenza e iniziativa (ma anche presenza alla riunioni aziendali, rispetto delle gerarchie, obbligo di
raggiungimento obiettivi, …), fai fatica a trovare un giovane che, magari con una laurea in tasca, decida di lavorare a queste condizioni. E allora si preferisce diventare “schiavi” di qualche multinazionale dell’e-commerce o della consegna a domicilio perché sai che almeno un minimo certo lo porti a casa. Non perché ti diano lo stipendio fisso, ma perché sai che hai certezza della “vendita” e di conseguenza la certezza di quelle poche provvigioni. A questo punto, quando reclutiamo agenti, delle due una: o ci orientiamo verso il rilascio di un portafoglio clienti dignitoso che generi guadagno certo che permetta la sopravvivenza (cosa che non tutte le mandanti possono fare, specie se all’inizio della loro attività commerciale con rete vendite) o riconosciamo uno stipendio base. Si chiama account. Poi, se sei bravo, guadagnerai anche in percentuale sugli incrementi, sennò vai a casa (un periodo di prova, a stipendio ridotto, potrebbe maggiormente cautelare anche la mandante…). Importante diverrebbe davvero la selezione iniziale a differenza di adesso, dove molte aziende reclutano “cani e porci” perché tanto “che ci perdo?”. Questo è un ragionamento sano di un’azienda che vuole crescere investendo sulla rete vendite. Il resto è solo sfruttamento da parte di chi pensa che i furbi stiano solo da un lato e che gli scemi stiano dall’altro. Che poi scemi non sono ma piuttosto disperati. Ma non si può basare la propria crescita solo sui disperati. Tutto questo non fa bene alla categoria che si sta svalutando sempre più e sempre più considerata al ribasso perché accostata al disperato, anche nel caso di quei professionisti veri che lo fanno da anni con soddisfazione. Purtroppo so benissimo che tutto ciò resta solo utopia, in
quanto non vi è categoria più disunita degli agenti di commercio, i quali mai hanno saputo affrontare vere battaglie sindacali e mai lo sapranno fare, così ripiegati su sé stessi e alla perenne ricerca di “sbarcare il lunario”, senza rendersi conto che ogni tanto è necessario fermarsi e ragionare. Uniti, possibilmente. Mauro Quelli che… Non ti aspettare complimenti! Ci sono capi, imprenditori, managers, clienti o soltanto mariti, mogli, amici, … che sanno essere prodighi quando si tratta di dire la loro su qualunque cosa, cercando peli e
cavilli per criticare (a volte anche costruttivamente, per carità…) e cercare di incidere su quello che dici o che fai (la stragrande maggioranza delle volte, costoro lo fanno più per la voglia di incidere, in quanto tale, che per un motivo sostanziale vero… purtroppo…) ma che poi non sanno essere altrettanto generosi in termini di gratificazioni e complimenti, quando ne sia il caso. Probabilmente anche per poca sicurezza in sé stessi, timidezza, ignoranza, poca intelligenza, imbarazzo, … Ma se fai il capo di qualcosa o di qualcuno – ma anche se devi avere rapporti costanti con qualcuno con cui devi condividere interessi comuni – devi saper essere in grado di riconoscere meriti e competenze. E non con il generico apprezzamento sul saper fare qualcosa, ma entrando nello specifico del riconoscimento delle singole azioni ben fatte. Anche per le cose che possano sembrarti piccole o ininfluenti. A volte sembra che cercare la critica a tutti i costi o vedere sempre quello che manca, anziché quello che c’è (un po’ come dire “il bicchiere mezzo vuoto”…), in queste persone , soddisfi il desiderio di egocentrismo a tutti i costi che assume caratteri estremamente opposti quando, in maniera altrettanto schietta bisogna riconoscere dei meriti. Quello che non risulta chiaro a molti è che la gratificazione, non è solo gradita a chi la riceve ma, è estremamente utile anche a chi la fa. In ambito lavorativo, soprattutto, ma non solo. Gratificare non significa necessariamente enfatizzare oltremisura un merito, ma, banalmente, saper dire anche una semplice parola di apprezzamento. Il “bravo” serve. Genera o rigenera quell’entusiasmo nelle persone che condividono un percorso con te.
Conosco persone che sono addirittura talmente tanto distanti da questo modo di intendere i rapporti da preferire porre da subito degli strani paletti: “non ti aspettare complimenti!”. È come dire: “qualunque cosa fai per me è dovuta”. O come se il marito alla moglie dicesse: “non ti aspettare che ti dica che ti amo!”. E che c@@zo di matrimonio è?!? Anche nei rapporti tra persone o per lavoro è lo stesso. Ci sono quelli ancora più perversi che se la cavano con “tanto lo sai che ti amo!”. Come dire: “che te lo dico a fare?!?”. Peccato che sentirselo dire serva e sia gradito, nonché doveroso. Anche sul lavoro ci sono quelli che se ne escono con “ma lo sai che sei bravo, che ti devo dire?”. Denota una pochezza che difficilmente è accostabile alle necessarie peculiarità di un capo, un imprenditore, un manager, … E tutto questo vale anche per i rapporti tra imprenditori e clienti: anche i clienti dovrebbero saper gratificare, al momento giusto, quello che hanno ricevuto a seguito di una trattativa commerciale – aiuterebbe a farli vivere come “clienti graditi” con le conseguenze del caso – così come anche l’imprenditore dovrebbe saper gratificare il cliente, dimostrandogli quanto è orgoglioso di averlo con sé… Anche questo ha conseguenze altamente positive. Ogni tanto, ci vuole. Diverso il caso, ancora peggiore, in cui non si riconoscono meriti e gratificazioni per propria pochezza personale: “non saprei fare quello che fai tu, come lo fai tu e quindi evito di riconoscertelo”; quasi ad ammettere una propria limitatezza o addirittura invidia, competizione, anche quando nella scala gerarchica dei rapporti il tuo ruolo non dovrebbe risentirne.
Saper gratificare, quando se ne prospetta l’eventualità, è un modo molto attento e direi anche molto “furbo” di gestire i rapporti. Creare la giusta sintonia di una squadra, ad esempio, passa anche da questo. Nessuno, in fondo, vuole un capo che sia capace solo di fare “cazziate”, dando per scontato tutto ciò che è ben fatto. Risulterebbe un capo limitato e non poco sgradito. Un po’ “c@@aca@zo” per dirla in linguaggio parlato! Può una squadra avere lunga vita con presupposti di questo genere? Io dico di no. Ciò non significa non essere legittimati alle critiche ma con una capacità paritaria di generare anche i giusti riconoscimenti. L’espresso gradimento genera nel ricevente una scarica di endorfine che aiutano a continuare anche incarichi gravosi o non graditi e aumenta l’autostima nelle persone che, in fondo, tutte cercano l’approvazione da parte di chi li circonda, con evidenti benefici per il proseguimento del loro incarico e a vantaggio della squadra. Ma la gratificazione morale deve essere sentita e non figlia di una recita: avrebbe un effetto deleterio e opposto allo scopo. Per questo è importante comprendere il contesto in cui certe azioni meritevoli avvengono e saperle riconoscere. In fondo, come per tutto, ci vuole cultura… Non ci si immagina quante volte una semplice “pacca sulla spalla” possa contribuire a stemperare tensioni e incomprensioni… E tu che imprenditore sei? Mauro
Ma tanto adesso c’è il ueb, mi faccio un sito icommers e faccio i soldi subito subito! Sei imprenditore? O ci metti i soldi o ci metti il lavoro, o tutti e due. O investi in formazione, per te stesso, o paghi consulenze esterne. Sono solo alcune delle considerazioni che dovrebbero animare ogni serio imprenditore, degno di tale nome.
Non si può pretendere di non fare nulla, non sapendo o non volendo far nulla, pensare che i problemi te li risolva sempre qualcun altro, che magari paghi pure due lire, mentre tu stai a fare il capo alla cassa! Se nulla sai fare o nulla vuoi fare, almeno mettici i denari! Per molti pseudo-imprenditori internette è stato una sciagura: visto da tanti sprovveduti come attività “tutto ora e subito” e con un approccio mentale quasi “predatorio”. Non investo nulla e mi deve tornare tutto (è come coloro che pensano di creare rete-vendite senza investire nulla, ma solo a scapito dei venditori di turno… ma questo è un altro tema che ho dibattuto spesso in precedenza…). E comunque bello sarebbe! La verità è che avviare e far decollare un’attività in rete è difficile e faticoso al pari di aprire un attività fisica/reale (forse pure di più, proprio perché non sta nel dna di molti, come invece la cultura del negozietto di quartiere…). Se pensi sia facile non ci provare nemmeno… Non si capisce perché quando apri bottega, al centro del tuo comune, tu sia disposto ad anticipare per licenze, ristrutturazione locali, cauzioni, mensilità di affitto, acquisto arredi, carico di magazzino, commessi alla vendita, bollette utenze, … mentre se pensi di fare lo stesso “in virtuale” credi che debba solo essere guadagno che entra! E questo a prescindere dal fare dropshipping o avere un magazzino proprio (che già delinea altre necessità logistiche aggiuntive…). Partiamo dal presupposto che se vuoi decollare nel web devi investire e a prescindere dal sito web (che è solo un pre- requisito). Non sei mai da solo a fare quello che fai e quindi per emergere devi spendere: sui motori di ricerca, sulla promozione in rete, sui social, etc., …
E farlo pure bene! Con cognizione! Se lo fai per un negozio fisico, con quelle cagate di cartelloni pubblicitari in strada, lo reputi giusto, se ti chiedono di farlo investendo in indicizzazione per il tuo sito allora… ti sembrano soldi rubati e non va più bene! Eh ma io vendo servizi! E cosa cambia?!? Se dovessi aprire un ufficio fisico per quegli stessi servizi, quanto spenderesti all’avvio? In realtà c’è molta ignoranza in materia e quando proponi un investimento per advertising in rete, a chi si picca di fare business sul web, ti trovi ostacoli mentali che metà bastano! E c’è di più. Anche quando hai maturato la necessità di fare quegli investimenti sul web, devi capire che esistono dei “tempi tecnici di resa”: non puoi pensare di investire due soldi per un mese e aver svoltato. E come coloro che fanno la classica pubblicità sul quotidiano cartaceo locale e comprano una pagina intera una volta nella vita… Cosa sperano di ottenere con una apparizione fugace, seppur di grandi dimensioni? Sarebbe più furbo fare un quadrotto accanto alla testata ma farlo per un anno di uscite del giornale. E forse si spenderebbe pure di meno di una pagina intera una tantum… La comunicazione è un venticello che deve insinuarsi nella testa delle persone in maniera strategica (mai sentito parlare di brand-positioning?!?)… Lo stesso sul web, cambia solo il percorso per arrivare allo scopo: se investi in indicizzazione il tuo contraltare è il motore di ricerca. E non entro nemmeno nella qualità di quello che vendi o i prezzi a cui lo vendi… O in temi come affidabilità, professionalità, post-vendite, assistenza, … che dovrebbero essere un must! Ma internet è una livella, come diceva il grande Totò per
altri versi… Stiamo assistendo ad una selezione naturale in cui anche i grandi players stanno giocando al rialzo e se te lo puoi permettere ci puoi stare dentro, altrimenti… Anche Google cambia periodicamente i propri algoritmi per alzare l’asticella dell’investimento di chi vuole “galleggiare” in rete… La strada delineata è quella per la quale solo chi è vero imprenditore, con una certa capacità di investimento e la mentalità giusta per metterlo adeguatamente in atto potrà reggere, gli altri… Amen! Ciò detto, sembra facile riempirsi la bocca con la parola “azienda” o “faccio icommers”, quando la verità è che non esiste alcuna azienda a investimento zero, men che meno quelle che vorrebbero operare sul web. Mauro. Interventista o attendista? Tutto fa brodo purché non ti fermi! Vuoi fare tutto tu?
Vedo tante realtà imprenditoriali nelle quali nascono idee e progetti che, in oltre il 90% dei casi, non vedono mai la concreta realizzazione e nemmeno l’avvio. Molti dei quali sono anche decisamente sensati e non necessariamente strampalati o figli dell’improvvisazione. Se per i progetti e le idee che presuppongono investimenti più o meno onerosi (a qualunque titolo: tempo, soldi, energie, …) risulta comprensibile un certo tentennamento alla realizzazione, tale per cui, poi, si possa decidere di non far proprio nulla, non comprendo le esitazioni rispetto a idee e iniziative che nella peggiore delle ipotesi potrebbero semplicemente non portar nulla e risultare ininfluenti mentre, nella migliore delle ipotesi, potrebbero portare soltanto fatturato aggiuntivo: ciò a fronte del fatto che esse sono spesso a costo pressoché vicino allo zero. Parlo di iniziative come la messa in atto di pagine dedicate sul sito web aziendale, azioni di contatto mirate, anche banalmente a mezzo email (quando, per esempio, risulta utile contattare associazioni di categoria o albi professionali vari…), piuttosto che azioni di creazione di promo commerciali basate su “operazioni fedeltà” (il cui costo è sempre paragonabile a zero, stante che induci un cliente a ricomprare – sebbene con lo sconto – un qualcosa che magari non avrebbe
comprato o ricomprato a breve e probabilmente non da te…). In genere, includo anche tutto ciò che attiene alla comunicazione a mezzo web. Personalmente sono un interventista. Non mi piacciono le “riunioni fiume” in cui ci si spertica a farsi notare dagli astanti come colui competente a tutti i costi su qualunque argomento e per questo arrabattarsi con inutili analisi di convenienza, fattibilità e presunte rese… Ci sono cose che vanno fatte. Punto. E vanno fatte subito, perché è l’unico modo per capire se si è sulla giusta strada. Ribadisco: ciò vale quando non si tratta di iniziative onerose che non presuppongano stravolgimenti aziendali. E invece vivo quotidianamente un atteggiamento di paralisi a dir poco imbarazzante. Molti imprenditori sono portati alla troppa analisi prima dell’azione. Intendiamoci: non sono affatto fautore delle cose fatte “alla ca@@o di cane” o senza pensarci, cosiddette “di pancia”, anzi tutt’altro, ma parto sempre dal presupposto che “la troppa analisi porti alla paralisi”. Ho imparato che, nel lavoro, è sempre necessario “smuovere le acque” poiché “le acque troppo stagnanti prima o poi puzzano”… Proprio a fronte di ciò, soffro fisicamente quando vedo realtà che per “fare le cose” perdono mesi in discussioni praticamente inutili quando, intanto, i loro concorrenti corrono… Esiste anche un altro motivo per cui spesso non si riescono ad avviare idee, progetti ed iniziative, anche se semplici e senza controindicazioni: l’incapacità di delega. Quando l’imprenditore è convinto del fatto che, in ultima istanza, debba necessariamente fare o rifare tutto lui, ecco che i processi rischiano di paralizzarsi. Una delle caratteristiche di un imprenditore vero è proprio quella di saper delegare le persone adeguate a compiti che
possono essere demandati a terzi e che se ne possano occupare in maniera specifica come proprio compito precipuo. Ci sono quelli che, invece, devono metter bocca e mani su tutto e non avendo concretamente lo spazio temporale e fisico per farlo, lasciano che le cose “sedimentino a vanvera”. La capacità di delega è una delle caratteristiche essenziali di imprenditori e managers in qualunque ambito lavorativo, dal privato al pubblico. Non si cresce e non si performa se non con una reale capacità di delega. Ciò non significa non conoscere i processi delegati o quello che accade all’interno di essi e tra le persone che se ne occupano, ma essere capaci di coordinarli senza necessariamente conoscere i dettagli di tutto ciò che può essere oggetto di attenzione da parte di persone specificamente collocate allo scopo. Del resto “delega” significa pure “fiducia” e “gratificazione” per chi oggetto di delega e questo non può far altro che migliorare anche lo spirito aziendale. Saper delegare significa creare i presupposti per un corretto concetto di “squadra”, oltre ad accelerare i processi e le decisionalità che li sovraintendono. Volendo renderlo con una frase semplice: saper delegare equivale a saper comandare (delega vera e non solo quella per evitare scocciature…). In fondo, una volta, si diceva: “il manager vero è colui che conosce sempre meno cose di sempre più cose”. Mauro
Due son le cose che piacciono a me… Parafrasando un antico motivetto, dico che sono due i punti di riferimento FISSI che dovrebbero fare da bussola per chiunque e in qualunque circostanza di vita e non solo di lavoro: 1. OBIETTIVI 2. PRIORITÀ Quando TUTTE le tue azioni arriveranno ad essere animate, sempre e comunque, da questi due “fari” ti accorgerai del significato delle cose e della loro importanza. Vedo decine di persone che conosco, fare le cose per “pura esigenza di fare” ma con una visione praticamente assente delle due “colonne portanti dell’azione”. Se non capisci perché davvero fai le cose, come puoi pensare di comprendere le priorità delle fasi di quelle stesse cose? In un processo di vita o lavorativo ci sono cose che divengono più urgenti di altre se hai chiaro l’obiettivo finale (non quelli intermedi che sono figli e fasi di quello finale).
Anche le altre cose hanno la loro importanza ma, in una classifica “ragionata”, non stanno ai primi posti. Vanno fatte anch’esse ma possono aspettare rispetto alle prime. Certo, anche identificare le priorità può diventare arduo per chi non è abituato a ragionare secondo questi schemi ma, ribadisco, identificare davvero il VERO obiettivo delle cose aiuta ed anche tanto. Purtroppo, in molti uffici, trovo persone che non avendo alcuna visione (o alcun interesse) a questo fine, lavorano come i muli alla macina: girano sempre intorno allo stesso sasso. Il problema è che, pur non rendendosene conto, fanno male anche a se stessi: si spengono ogni giorno di più e perdono mordente. Se non vedi l’obiettivo ultimo per cui fai le cose, non potrai mai “apprezzarti” all’interno del processo: non potrai mai avere la cognizione di quanto importante tu possa essere davvero in quel medesimo processo (e del resto lo devi essere per forza, sennò non lo farebbero a te e a nessun’altro, se fosse un processo che non serva a nulla…). Certamente dovrebbe essere la peculiarità di ogni buon capo, quella di avere in dote i due “fari in testa” ma, spesso non è affatto così. E assisti a capi che sono spenti come una lampadina fulminata e fanno spegnere anche quei collaboratori che avrebbero di che agire… Che lavoro pensi di poter organizzare, gestire, delegare se non sai nemmeno tu che obiettivi e che priorità devi darti? Mi rendo conto che, un discorso fatto senza entrare in merito a fatti concreti, possa sembrare filosofia ma se ci si pensa bene ci si accorge che vale per tutte le cose della vita, senza bisogno di entrare nel merito specifico. Se vuoi conquistare una donna, hai chiaro in testa l’obiettivo e sai cosa devi fare prima e dopo: telefonate, messaggi,
inviti, cinema, viaggio, brillocco, e poi, … a seconda dei soggetti e della capienza della tasca. Inoltre, sai come presentare la tua immagine e la tua persona, che sarà, certamente, la cosa più lontana possibile da apatia e fiacca. Quando vai a fare un colloquio di lavoro conosci l’obiettivo e sai le priorità: “venderti” bene e presentarti al meglio… Ora, questi sono solo esempi banali ma chiariscono il concetto. È anche vero, però, che poco si farebbe se un capo non sapesse riconoscere competenze, attribuirne i meriti ai suoi possessori e provvedere alle giuste gratificazioni. In una parola, ci troveremmo di fronte ad un capo incapace di visione. Sarebbe la prima motivazione per la quale le persone che lo collaborano, avrebbero serie difficoltà ad identificare obiettivi e priorità. Perché il primo sarebbe lui a non saperlo fare. Mauro L’attitudine al comando.
Un vecchio adagio siciliano recita che “u cumannari è megghiu do futtiri” (per quelli di Bergamo Alta: “comandare è meglio di fare all’amore”), tanto viene ritenuto gratificante avere ruoli di autorità che ti permettano di impartire ordini e direttive su altri. Ed in effetti esiste un certo qualcosa di leggermente perverso nella visione del comando… C’è chi lo intende come un privilegio, chi come un onere e chi come entrambi. Tralascio chi lo vede solo come esercizio del potere: non serve a nessuno se non a sé stesso. La verità è che comandare significa, solitamente, assumersi responsabilità e spesso pagarne il prezzo. Si può essere capi “illuminati” e capi “fulminati”. Il capo “illuminato” è colui che ascolta e poi decide, quello “fulminato” è quello che decide e poi ne “giustifica” la decisione. Anche per fare il capo è necessario assumere informazioni. È un po’ come quando devi andare dal cliente e ti prepari alla visita, assumendo quante più informazioni possibili sulla sua attività.
Cosa distingue coloro che sanno fare i capi e sanno di saperlo fare, dagli altri? Fondamentalmente la politica dei “no”. Il capo ha la capacità di argomentare i “no” in quanto a dire “sì” ce la fanno tutti. È un po’ come la filosofia che anima le vendite: tutta la formazione sulle tecniche di vendita verte sul “no” del cliente, su come contrastarlo, su come superarlo. Se fossero tutti “sì” staremmo a fare tutti i venditori e saremmo tutti ricchi. Per sostenere i “no” bisogna avere motivazioni concrete e dimostrabili. Saper dire “no” (motivati) costituisce uno dei primi presupposti affinché la squadra senta fortemente la presenza di colui che conduce la baracca, riconoscendone il ruolo. Abbiamo delineato, quindi, alcune caratteristiche chiare dell’attitudine al comando e del capo “illuminato”: 1. Ascolta la squadra; 2. Assume informazioni; 3. Gestisce adeguatamente le sue scelte dei “no”; 4. Non ha timore ad andare controcorrente se ha delle motivazioni concrete per farlo. Potremmo inserire tante altre caratteristiche che possano identificare un capo, ma l’idea non è quella di elencarne gli aspetti caratteriali (per quello basta la vasta letteratura che troviamo sulla rete e per la quale non serve ripetersi in questa sede), ma analizzare alcuni parametri che spesso sfuggono ad una superficiale analisi dell’attitudine al comando. Soprattutto se stiamo parlando di capi riconosciuti e non imposti a tutti i costi. Un capo riconosciuto (c’è chi dice leader…) è colui il quale, sebbene abbia una forte personalità priva di timori decisionali, riesce a farsi apprezzare dai suoi uomini che, anzi, ne ricercano le competenze, la presenza, il conforto.
C’è chi dice che un vero capo è sempre solo. Ed in effetti questa affermazione ha la sua logica. Non puoi avere amicizie sul lavoro se sei un capo, ma solo rapporti amichevoli. Perché accade ciò? Per il semplice motivo che un rapporto di amicizia genererebbe compromissioni difficili da gestire. Non che non si possa andare a cena insieme con le rispettive famiglie, ma chi comanda, difficilmente è avulso da critiche: viene criticato quando fa le cose per bene figuriamoci se sbaglia… Proprio per questo, quando i rapporti di lavoro finiscono, è praticamente impossibile che restino amicizie. Perché è scientificamente provato che i migliori capi abbiano estrazioni umanistiche? Perché hanno una diffusa capacità di agire in linea introspettiva sviluppata sin dai tempi dei loro studi. Quella capacità della comprensione dell’animo altrui che è determinate quando gestisci esseri umani e non macchine, con la consapevolezza che l’animo umano è variabile. Non che questa caratteristica non la si possa trovare anche presso chi non ha studi umanistici alle spalle, ma è certamente caratteristica più presente nel primo caso. Studiare filosofia o diritto aiuta. Poi, però, c’è chi nasce capo. Ne ho incontrato alcuni. Sono persone che danno sicurezza. Ecco un’altra caratteristica che spesso viene trascurata. In una squadra, avere il capo che infonde sicurezza nei confronti delle strade intraprese è una valenza importante. Ma la sicurezza non si inventa. A volte è un atteggiamento figlio dell’esperienza, laddove la si interpreta per motivare la squadra, a volte è consapevolezza di aver valutato correttamente tutte le alternative possibili.
A questo serve ascoltare le opinioni della squadra. Creare quel contesto di analisi che agevoli le scelte. Poi o si è interventisti o si è attendisti. Personalmente sono per la prima visione. “Chi mangia fa molliche” dice il proverbio ma chi non mangia resta morto di fame pur se con la sterile consolazione di “non aver fatto molliche” (quindi di non aver sbagliato). Ma la troppa analisi porta alla paralisi e quindi un buon capo si distingue anche per questo. Il decisionismo non è un difetto quando esercitato con piena consapevolezza di aver assunto tutte le informazioni possibili finalizzate ad una scelta. L’alternativa è dare l’impressione di “una barca priva di nocchiero”. Nessuno dirà mai di un capo “che bravo, fa decidere tutto a me”, ma piuttosto dirà “che cavolo lo pagano a fare se devo decidere tutto io?”. Mauro. Quando il “pesce puzza dalla coda” (sarà vero?)!!!
A parte gli immigrati, l’altro grande tema che, a convenienza, è sempre più spesso sulla bocca di chi “vuol farsi bello” è quello del clima e del surriscaldamento globale. Ultimamente leggo tanto e ascolto varie voci sul tema, non ultime quelle di tanti politici ed ex politici che a fronte delle loro recenti fatiche editoriali hanno voluto affrontare il tema nei loro scritti (è pur sempre un argomento, devo dire, che fa sempre molta tendenza…). Confesso che la cosa che mi è andata parecchio “di traverso” è stata l’affermazione di qualcuno secondo cui vale il sempiterno adagio per il quale “cosa può fare ognuno di noi?”. Un cavolo (e non sono il solo a pensarla così…)! … Al di là di ogni retorica e di ogni formalismo da benpensante! Sono, onestamente, un po’ stufo di questo stile “politically correct” da accademia del “pollo fritto”! Quando mi si dice che prendere un aereo equivale ad incrementare l’inquinamento globale o che accendendo il climatizzatore, nelle torride notti dei nostri periodi estivi,
significa non essere sensibili sufficientemente alle necessità che il tema impone, sono tentato da due differenti sentimenti contrastanti tra loro: da un lato, tali atteggiamenti, mi comportano una certa ilarità, dall’altro mi stizziscono non poco. È sempre la solita storia: far passare il messaggio che la colpa è comunque di tutti noi… Del popolo fatto dalle persone comuni (astrattismo delle colpe…)… Ma un popolo acquisisce le abitudini che gli sono concesse. Sarà per questo che i tedeschi quando arrivano a Roma fanno i pediluvi in piazza Navona e in patria stanno “con due piedi in una scarpa”! Come in tante altre cose… Vedasi evasione fiscale, spending review e sprechi vari, qualità del lavoro, livello culturale del Paese, … Ci vogliono instillare l’idea che, difformemente dalla verità sancita dal proverbio storico, il pesce, adesso, puzzi dalla coda! Se esiste una società organizzata democraticamente, tale per cui si eleggono dei rappresentanti per affrontare (e magari risolvere…) ciò che è reputato necessario per il benessere comune, mi sembra davvero offensivo (per la mia media intelligenza…) continuare a menarla dicendoci che ognuno di noi deve cambiare abitudini. Non si può chiedere al popolo (entità parecchio astratta, per come si accennava in precedenza…) di non far propria la tecnologia che migliora la vita quotidiana, né, tantomeno, si può pensare che a fermare un certo tipo di progresso tecnologico (non ecosostenibile) possa essere il comune cittadino. Se vuoi che quest’ultimo adotti uno stile di vita consono all’esigenza del pianeta, devi realizzare le condizioni
affinché sia l’unico stile che egli possa adottare. Certamente ho insegnato a mio figlio a non sprecare l’acqua o ad evitare di usare troppe bottigliette di plastica (anche se non ce n’era affatto bisogno perché su certi temi è più sensibile di me…), ma strumentalizzare tutto al fine di generare un facile alibi all’inattivismo dei governi, solo per far ricadere la responsabilità sulle abitudini quotidiane di ognuno… È davvero troppo! Si parla spesso dell’inquinamento delle città dovuto alle polveri sottili generate dai motori a scoppio dei veicoli (se ne parla da decenni) ma invece di centrare l’attenzione sulle vere e concrete alternative per la produzione di energia pulita, si preferisce chiudere periodicamente i centri storici all’accesso dei mezzi di locomozione, o adottare le targhe alterne. Misure che non servono praticamente a nulla se non a tamponare temporaneamente il problema e mandare “fumo negli occhi” della popolazione (con la chiusura al traffico le polveri sottili diminuiscono leggermente solo dopo qualche giorno di chiusura – tradotto in disagi al cittadino -, salvo ritornare ai livelli precedenti alla riapertura della normale viabilità). Anche l’elettrico, di cui si fa un gran parlare, è più un esercizio di stile che la ricerca di vera alternativa. Un modo per creare un nuovo business a vantaggio di pochi, dando l’illusione che si sta lavorando per cercare fonti di energia alternative ai carburanti fossili da locomozione. E intanto si fanno dei bei soldi con la Formula “E” che gira per Roma (sponsors, biglietti, diritti televisivi, …). Nessuno dice qual è il problema vero: smontare il sistema di business che gira attorno ai combustibili fossili è un’impresa titanica.
Non dimentichiamoci che si sono combattute guerre per queste storiche risorse e che si sono compiuti omicidi più o meno palesi… Quando qualcuno (in Italia e non) ha tentato di rendersi autonomo dalla schiavitù del petrolio acquistato dai “soliti noti”, cercando, come conseguenza, di renderne autonomo il proprio Paese, o è morto ammazzato o è scomparso nell’oblio della delegittimazione. Serve fare nomi? Non credo. Basta studiare la storia… La realtà è che non c’è la vera volontà di smontare questo sistema anche se ci si è resi conto che il petrolio non durerà in eterno. E poi nascono le perversioni. Per far decollare l’elettrico dovresti fare in modo che chi guida un’auto elettrica abbia necessità di recarsi alla stazione di servizio per una qualche necessità: ricaricare le batterie ad esempio. E tutto pur di mantenere viva la rete di stazioni che diversamente potrebbe chiudere per sempre. Ed allora ecco che si fanno “ricerca e sviluppo orientati” a generare un elettrico che sarebbe difficilmente ricaricabile a casa (ci vorrebbe troppo tempo con la tecnologia delle odierne vetture elettriche) rendendo conveniente andare alla solita stazione di servizio. Ma poi c’è da chiedersi: “se l’elettrico si diffondesse davvero, avremmo tutta l’energia necessaria a ricaricare tutte le auto in circolazione?”… Boh!!! Ma intanto è solo per pura affaristica perversione che si continua ad alimentare un sistema di business che arricchisce solo qualcuno, per quanto obsoleto esso possa essere.
Che poi, parliamoci chiaro, non è neanche l’elettrico la soluzione vera (ma è quello che ci vogliono far credere… per adesso…) in quanto il motore ad idrogeno (la cosiddetta “fuel cell”) potrebbe vedere un motore che si autoalimenti una volta generata la reazione di partenza (quella che lo farebbe avviare). Immaginate un motore che potrebbe autoalimentarsi solo aggiungendo acqua?!? Con residui nocivi pari a zero (appena un po’ di vapore acquo… E magari con questo residuo ci crei anche altra energia…). E invece è un progetto che non deve decollare perché non converrebbe al “sistema”. Se un giorno se ne parlerà ancora sarà perché per innescare la reazione all’accensione dovranno esserci le batterie elettriche… Capito il meccanismo?!? O il nucleare. Immaginate un motore che con un pillola di uranio cammina per 25 anni!!! Non è fantascienza, ci hanno già provato con successo! Per il cambiamento ci vuole coraggio (da parte dei politici preposti allo scopo) e grande consenso di popolo (governi sostenuti da larghe maggioranze che siano legittimati a imporre il cambiamento anche contro il “sistema” di business vigente). E non è chiedendo al povero cittadino di non prendere l’aereo o l’auto che si risolve il problema. Tantomeno dicendogli di morire dal caldo e non accendere il climatizzatore. Anche Greta Thumberg spera di far breccia sui governi ed anche quando, in maniera simbolica, dice di non prendere l’aereo o l’auto, lo fa come provocazione, sapendo che non si risolve
così il problema (o almeno spero che lo faccia per questo, perché sennò è davvero una povera illusa!). Altro tema del tipo “pesce-testa-coda” che mi fa pensare e che mi lascia esterrefatto è quello del livello culturale del nostro Paese (che, in qualche modo, è intrinseco alla strumentalizzazione politica delle “colpe”, di cui abbiamo parlato). “Ci sono pochi laureati” e gran parte di questi si laureano in discipline che ne faranno “i nuovi disoccupati”. Proviamo a chiederci perché (discorso simile si potrebbe fare anche per le poche nascite nel nostro Paese: quando fai delle scelte, è tutto commisurabile alle aspettative che immagini di avere…). Da tempo sappiamo, ormai (ahimè) che questo Paese può offrire poco o niente ai nostri giovani e ciò comporta che lo scoramento regni sovrano. “Perché devo anche fare la fatica di laurearmi se tanto resterò disoccupato?”. È la domanda che molti si fanno, già sapendo che se intendessero percorrere un percorso universitario (con i costi e i sacrifici, anche della famiglia d’origine, che questo comporterebbe…), dovrebbero essere disposti, quasi certamente, ad andar via dalla propria terra. Quelli che comunque si laureano e restano nel “proprio paesello”, di solito conseguono titoli di laurea cosiddetti “più semplici”, perché tra non fare nulla e iscriversi ad una facoltà (magari facile…) probabilmente scelgono la seconda possibilità… Fin quando (sempre in attesa di collocazione) capita anche che si laureino! Forse è anche per questo che ci sono più laureati al Sud! In buona sostanza: “mi laureo con la concreta possibilità che debba
andarmene”; oppure “non mi laureo e resto in patria, poiché anche con la laurea, ove decidessi comunque di restare, rimarrò pur sempre disoccupato”. Ovviamente è un’estremizzazione del problema ma aiuta a comprenderlo… Poi assisti ad episodi deleteri come il “baronato” nelle università, le cattedre “a simpatia”, i concorsi “truccati” per i ricercatori e vedi come distruggi un certo tipo di credo e di speranza di chi ne ha già poca. Siamo un Paese che non sa premiare il merito e non sa punire le colpe… Siamo eredi di un provincialismo diffuso che non ci permetterà di crescere. Parentopoli e campanili vari, familismi e sotterfugi di ogni genere e in ogni campo, non aiutano a creare le condizioni per credere all’investimento che i giovani dovrebbero poter fare in questo Paese… Ma la colpa è che ci sono pochi laureati… Ah ma allora è tutto chiaro! Sarà per questo che l’Italia è ferma da 25 anni!!! La colpa è dei giovani che non si laureano! E come la colpa di chi non fa figli! O di chi non crea nemmeno famiglia… Quindi la colpa è sempre “della coda” non “della testa” che non ha saputo gestire il Paese e renderlo migliore… È sempre colpa degli ultimi se sono e siamo ultimi. Ma, nel frattempo, “i primi” dove stavano?!? Mauro
Quelli con la “testa d’ariete”. Avere una rete vendita a propria disposizione è una di quelle cose più semplice a dirsi che a farsi. Posto che tu sia bravo a veicolare il tuo messaggio di ricerca, a fare i colloqui selettivi, a fare il corso di preparazione, poi dovrai necessariamente confrontarti con la gestione reale quotidiana di questa rete appena creata e “messa in pista”. E qui, solitamente, cominciano i problemi. Non solo di natura gestionale, in senso stretto, ma anche di etica in relazione alla collaborazione. Spiego meglio. Ci sono imprenditori convinti che i venditori siano
quell’entità che, per connotazioni direttamente collegate all’attività che vanno ad espletare, abbiano a tutti i costi la vocazione al sacrificio imposto dal mestiere, ove se le soddisfazioni esistono è perché “sono io imprenditore che ti ho dato modo di averle” mentre se i problemi accadono “è perché sei tu che sbagli” (dice il medesimo imprenditore). La convinzione che aleggia, anche se difficilmente dichiarata, è quella per cui «quello che l’agente porta è “tanto di guadagnato” ma io mi muovo come meglio credo» (pensa l’imprenditore di prima…). Ciò comporta il verificarsi di dinamiche che solo a raccontarle fanno arricciare (e non poco) il naso: la mandante che diviene concorrente diretta dei propri agenti. Mi sono trovato non poche volte ad assistere a fenomeni nei quali si riservano all’agente le trattative più rognose e meno redditizie avocando all’azienda quello che è più congruo ed immediato, anche se figlio di trattative e acquisizioni precedenti da parte dello stesso agente. Cioè, fondamentalmente accade che l’azienda usi l’agente come mera “testa d’ariete” per fargli “aprire un mercato” e che poi non gli riconosca il beneficio che da ciò ne deve conseguire nel tempo della collaborazione successiva. L’altro giorno parlavo con un amico attivo come agente di commercio per una storica azienda che lo vede collaborare da oltre 20 anni, il quale mi raccontava: “… hanno iniziato a fare così: prima mi hanno fatto acquisire dei clienti che non riuscivano a conquistare e dopo il primo ordine li hanno indirizzati all’acquisto diretto online sul portale e-commerce aziendale, per il quale, come previsto da mandato, non mi riconoscono provvigioni!”. Va da sé che trattasi di cialtroneria bella e buona!
Premesso che potrebbe divenire oggetto di contenzioso legale, è certamente un atteggiamento deprecabile e davvero infame. Alla stessa stregua di ribassare le provvigioni (credetemi, accade anche questo…) a seguito del primo ordine procacciato con determinati clienti, facendo così in modo che il secondo ordine generi più convenienze per la mandante che per l’agente che deve concretamente seguire quei clienti (costi trasferta, tempo, energie). O come tagliare le zone anche in presenza di valida attività svolta (ove le indennità allo scopo sono spesso una chimera…). Avere una rete vendite in azienda è da intendersi come un asset dall’importante valore assoluto e come tale non può essere bistrattata a piacimento: non va considerata solo come “testa d’ariete” ma come risorsa “vera”. Se non hai capito questo ha poco senso che ti lamenti del turn-over. Anche quell’amico mio, dopo oltre 20 anni di collaborazione, nel momento in cui l’azienda ha cominciato a comportarsi così, sta provvedendo a valutare opportunità altrove… E probabilmente quell’azienda perderà una risorsa sulla quale aveva investito per anni (con un buon rapporto reciproco, fin lì…) e contro la quale si dovrà scontrare nel momento in cui passerà alla concorrenza. È facile “sfasciare” per mera avidità quello che si è creato in anni, quando non si comprende che il guadagno che sottrai al tuo venditore è del tutto effimero poiché ne spenderai molto di più nel momento in cui dovrai ricostruire la tua rete vendite. Certo, bisogna anche capire “l’orizzonte temporale” che si traguarda: se pensi di chiudere l’azienda da lì a poco o di liquidare la tua rete vendite è un conto, ma se davvero pensi
di far crescere i tuoi guadagni con questi espedienti pur volendo mantenere la rete… Ne hai da imparare cara azienda! Mauro L’Italia finisce a Roma. Assisto alle polemiche gradite ai sanremofili con un misto di stupore ed indignazione, ma anche con una sana sensazione di ilarità per quanto comiche esse siano. Mentre il Paese s’interroga sul futuro della nostra economia e sulle ripercussioni di scelte quantomeno discutibili, assurge alle cronache la disquisizione sul perché abbia vinto l’uno o l’altro, nella speciosa volontà di farne un caso politico.
Nel frattempo, però, siamo in recessione. Non voglio addentrarmi nelle motivazioni che hanno condotto a questa amara realtà, anche se tanto avrei da dire, perché non è imputando colpe a qualcosa o a qualcuno che si risolve il problema. Noto solo lo status quo. E tra le cose che noto ne esiste una che proprio non mi va giù. Il Salvimaio dimentica il Sud. Seguo con passione TG e programmi di approfondimento di natura socio-economico-politica e da quando l’attuale Governo è in carica sembra che il Sud di questo Paese non esista più. Se non fosse per qualche strumentale e faziosa notizia su mondezza e degrado, piuttosto che su tristi e atroci femminicidi, non si capisce che fine abbia fatto una parte del nostro Paese. E sembra ancor più strano se si riflette sul fatto che proprio questa zona d’Italia sia stata quella che maggiormente abbia generato il successo della maggiore forza di governo (o perlomeno lo era al momento del risultato elettorale…). Mentre per il Nord abbiamo assistito ad una grandissima bagarre per l’Expo di Milano (giusto per fare un esempio…), con tutte gli annessi e connessi (appalti, inchieste, procedure d’urgenza, commissari vari, …) e finanziato un’enorme massa di denaro, passa in totale anonimato quello che dovrebbe inorgoglire un paese normale. Matera è capitale della cultura 2019, ma finora tutto si è limitato alla mera propaganda del riconoscimento, fine a sé stesso, senza per questo dare vero spazio a Matera e alla Basilicata, alle sue bellezze alla sua gente, alle sue storie. Sembra di assistere all’espletamento di un atto dovuto ma di cui, in fondo, non importa a nessuno o, ancor peggio, si voglia non importi a nessuno. Chissà cosa sarebbe accaduto se fosse stata Milano. Ma il fenomeno rientra in un più grande problema di “pesi e misure”, ormai storico nella nostra penisola. E mentre si discute tanto del TAV o del raddoppio di qualche
autostrada o strada ferrata del Nord, a Matera non esiste il treno perché non c’è mai stata una linea ferrata (ed è “Capitale della Cultura 2019″… Sigh!). Da qualche parte “si raddoppia” da qualche altra non si programma nemmeno la prima… Ma è solo un esempio di quello che oggi stride di più per l’evento che vede Matera al centro dell’attenzione nel palcoscenico internazionale. Ma tutto il Sud ha problemi simili. Sono un fautore del ponte di Messina ma so che non verrà mai realizzato, ma non tollero che per andare da Catania a Trapani ci vogliano più di 11 ore in treno e tre cambi. Come non tollero che per raggiungere un patrimonio dell’Umanità come la Valle dei Templi di Agrigento, da Catania, sia necessario arrivare a Palermo ed effettuare un cambio per ritornare ad Agrigento. E non parliamo delle strade “statali” siciliane: quasi mai all’altezza della situazione, pericolose nella migliore delle situazioni, malandate e all’abbandono nella migliore. E mentre esiste tutto questo, si parla addirittura di spostare alcuni ministeri al Nord: per “renderli più vicini al centro nevralgico e produttivo del Paese”. Al di là dell’assurdità della cosa e della cattiveria, nonché egoismo intrinseco che sta dentro affermazioni del genere, vorrei capire che produttività avrebbe avuto Milano se non avesse avuto strade, ferrovie e aeroporti. Peccato però che quando si parli di opere pubbliche realizzate (al Nord) li abbiano pagate tutti, meridionali compresi. Sarà anche normale che le opere si facciano anche qui? E non regge l’alibi che gli appalti non si fanno al Sud perché si temono infiltrazioni mafiose. È come dire che non si dia più la pensione ai ciechi perché ci sono i falsi ciechi. E dove sta l’opera di uno Stato civile se non nell’agevolare lo sviluppo e perseguire reati e abusi? Risulta sin troppo facile dire che gli insegnanti delle scuole
del Sud debbano “impegnarsi di più” per elevare il livello di performance delle stesse scuole, peccato però che “senza soldi non si canta messa”! Se non hai i fondi necessari per l’ordinaria amministrazione di una scuola figurati se riesci a prevedere azioni straordinarie per didattiche d’avanguardia. Insegnare bene passa anche e soprattutto dal poter disporre di strumenti adeguati a ciò che si insegna. Sono temi che necessiterebbero di una molto più ampia trattazione e non è certo questa la sede. Lo sviluppo non può essere funzione della sola iniziativa personale ma, in uno Stato degno di tale nome è soprattutto funzione di azione agevolanti centralizzate (lo dice la Costituzione). Se davvero fossimo Stato… Se i fondi alle scuole e alle università li assegni in funzioni delle performance è normale che vadano al Nord: peccato che le diverse performance del Sud siano proprio originate da una faziosa, sbilanciata e colpevole attribuzione dei fondi. È come accade con le ferrovie: le si fanno e le si raddoppiano dove c’è un ritorno economico più alto e cioè dove si ha contezza di un maggiore traffico pagante. Sarà normale che dove non ci sono non ci può essere statistica di utilizzo o no?!? Perché non servono?!? O perché non ci sono?!? O quando ci sono è perché fanno pena e le loro condizioni tecnologiche riportano a quelle dei primi del Novecento, tale da renderle difficilmente utilizzabili. Senza Sud finisce l’Italia ma forse è proprio questo che si vuole. Non è federalismo (e ce ne sarebbe da dire…) è secessionismo. E non è vero che il Sud ha avuto tanti fondi: è leggenda metropolitana. I fondi assegnati sono sempre stati enormemente meno di quanto il Sud abbia sempre dato al resto d’Italia (e parlo di soldi
veri…). Sai quanti posti di lavoro avremmo creato al Sud facendo le opere pubbliche, anche solo quelle strettamente necessarie (o solo adeguando e completando quelle esistenti)? E forse non sarebbe nemmeno servito il reddito di cittadinanza. Uno Stato deve avere la capacità di progettare e programmare sviluppo e non rendere suddito chi è disoccupato, legandolo al vincolo di un reddito senza dignità. Cosa ben diversa dall’aiuto alla povertà, per il quale andrebbero fatte delle politiche di reddito diverse e sulle quali siamo tutti d’accordo. E intanto il Sud passa solo per brutto, sporco e cattivo, con buona pace di quel “simpaticone” del ministro Bussetti. Ma vaglielo a spiegare a quelli della Lega: sarebbe come dire che invece di parlare per slogan li costringeremmo a ragionare (o a studiare la storia…). Mauro Ma che cavolo di persone vuoi?!? Cinquanta o non cinquanta…
Ho 50 anni e me ne vanto. L’età, specie se motivo di intense esperienze vissute, è un privilegio. Mai un disagio. Sarebbe stato peggio se non avessi fatto nulla nel frattempo ma, invece, ho lavorato tanto, ho messo su famiglia e fatto un figlio (più sforzo di mia moglie che mio, questo è vero…), lo sto crescendo con amore mentre continuo a coltivare le mie passioni per la politica, per la storia della mia terra, per la comunicazione, per gli ambiti commerciali che hanno contraddistinto i miei ultimi 25 (e oltre) anni di vita. Spesso mi capita di leggere sui social specializzati in ambito lavoro (vedi LinkedIn) di alcune ricerche di personale che mirano al recruiting di figure manageriali o genericamente commerciali, per le quali ci si spertica in testi “civetta” che sembrano usciti dall’Accademia D’Arte Drammatica, del tipo: “Operiamo nella «Talent Acquisition» e non nel «Recruiting» perché pianifichiamo a lungo termine. Perseguiamo strategie e non tattiche.”
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