Oltre la Libia. Il Nord Africa: nuovo hub del terrorismo

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Oltre la Libia.
                           Il Nord Africa: nuovo hub del terrorismo

                                                          di
                                               Michela Mercuri

I tre “archi di crisi” libici

Al fine di semplificare la complessità e le evoluzioni recenti della galassia jihadista in Libia è utile
individuare due “archi di crisi”: il revanscismo dello Stato islamico e le connessioni tra movimenti
jihadisti e gruppi della criminalità organizzata.

Per comprendere il futuro dello Stato islamico in Libia è necessario fare un passo indietro. La sconfitta
del Califfato nella sua ultima roccaforte di Sirte, nel 2016, non ha implicato la fine della presenza dei
miliziani affiliati a Isis nel paese. I combattenti presenti nella città, tra le 3.000 e le 5.000 unità
secondo la più parte delle stime1, non sono tutti morti. Molti sono fuggiti, soprattutto verso il sud, nel
Fezzan, luogo di traffici e santuario di organizzazioni terroristiche. L’area è divenuta un safe heaven
per i gruppi criminali operanti nel quadrante nordafricano e sahelo-sahariano, assumendo una valenza
strategica grazie alla possibilità di realizzare campi di addestramento, depositi di armi e mettendo a
disposizione lucrose rotte per il contrabbando. Già nei primi mesi del 2017 il livello di allerta era
piuttosto elevato. Da più parti giungevano notizie poco rassicurati sia sulla persistenza di miliziani
nel sud del paese sia sull’ingresso di nuovi arrivi dal Levante. Nell’agosto del 2017 lo Stato
islamico ha diffuso il suo primo video di propaganda dopo la sconfitta di Sirte, mostrando dei posti
di blocco presidiati dai suoi combattenti su una strada di Giofra. Secondo le stime dell’United States
Africa Command, agli inizi del 2017, erano presenti nell’ex Jamairiya circa 500 miliziani2. Tuttavia,
già allora, secondo molti, si trattava di “stime al ribasso”. I flussi di jihadisti sono ripresi con maggior
vigore già dal settembre dello stesso anno. Varie fonti parlavano di arrivi di nuova manovalanza dalla
Siria e dall’Iraq , grazie al sostegno del Qatar e alle porte aperte dalla Turchia3. A distanza di più di
un anno i fatti confermerebbero questa tesi. Secondo un recente Rapporto delle Nazioni Unite, del 27
luglio 2018, vi sarebbero tra i 3.000 e 4.000 combattenti dislocati per il paese. Il centro di comando
si sarebbe ricompattato nelle aree di Bani Walid, Sirte e Giofra e sarebbe guidato dall’iracheno Abu
Moaz al-Tikriti4, qualche tempo fa dato per morto, mentre molti altri miliziani hanno trovato rifugio
nel Fezzan. Accantonando il progetto di un “proto-Stato”, i combattenti hanno ripiegato verso il

1
  Alcune stime parlavano addirittura di 6.000 unità. Vedi: Department of defense, Briefing by Gen. David M. Rodriguez,
7 aprile 2016. Altre di “sole” 3.000 unità vedi: H. Morajea e E. Cunningham, Libyan gains may offer Isis a base for new
attacks, in «Washington Post», 6 giugno 2015.
2
  F. Wehrey, When the Islamic State came to Libya, in «Atlantic», 10 febbraio 2018.
3
 Riportato dal sito Islam media analysis che cita il quotidiano emiratino Al-Ittihad, in:
https://www.alittihad.ae/article/62389/2017/, 23 ottobre 2017.
4
  Il Rapporto può essere consultato al seguente link: http://undocs.org/S/2018/705.
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rafforzamento di una sorta di “rete terroristica clandestina”, trovando nel sud libico l’habitat ideale
per sopravvivere, sfruttando i traffici illeciti e le connessioni con altri gruppi presenti nel paese, come
Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi). Inoltre, hanno ampliato le zone di influenza stringendo
rapporti con gruppi armati del Sudan, del Ciad e del Mali. Si tratta di alleanze a geometria variabile,
catalizzate su reciproci vantaggi economici piuttosto che su comunanze ideologiche: sfruttando i
porosi confini del failed State libico i miliziani partecipano ai traffici di armi, droga e esseri umani e
attraggono nuove reclute. La galassia dell’Isis in Libia, dunque, appare quanto mai fluida e in
movimento tanto che nell’ultimo anno gli americani ne hanno bombardato più di 10 postazioni. Una
evidenza confermata, forse un pò tardivamente, anche da Ghassan Salamé, inviato dell’Onu per la
Libia che, in una intervista rilasciata al quotidiano italiano “Il Mattino” lo scorso settembre, ha
ammesso come i recenti attentati compiuti dai miliziani dello Stato islamico siano indice di un
fenomeno allarmante che rende bene l’idea di quanto sia pericolosa la capacità di queste
organizzazioni terroristiche di sapersi rigenerare in un territorio già a rischio come quello libico. In
sintesi, i rischi sono molteplici. In primo luogo la Libia sta diventando sempre di più un hub per i
miliziani dei paesi dell’area e dunque un connettore di gruppi terroristici sempre più vicino all’Italia;
in secondo luogo, sfruttando il caos che negli ultimi due mesi ha investito l’area di Tripoli e dintorni,
i combattenti dell’Isis, ma anche di altre organizzazioni jihadiste, potrebbero avanzare verso la costa
ovest mettendo ulteriormente a rischio qualunque processo di stabilizzazione del paese, prova ne sia
che i miliziani dello Stato islamico hanno rivendicato l’attentato terroristico al quartier generale della
National oil corporation (Noc) a Tripoli dello scorso settembre che ha causato due vittime.
Per debellare l’Isis e le altre organizzazioni terroristiche dal teatro libico non basteranno i
bombardamenti mirati americani ma sarà necessario riattivare una politica di controllo dei confini che
potrà realizzarsi solo con una stabilizzazione del quadro politico e di sicurezza. Per farlo sarà
necessario operare quel “salto di paradigma” che fin qui nessun tentativo di mediazione internazionale
è stato in grado di fare: includere nel dialogo quanti più attori locali possibili: milizie, sindaci, capi
tribù e soggetti della società civile. Solo in questo modo, ascoltando le varie istanze, si potrà proporre
una bozza serie e condivisa per un programma di disarmo, per la creazione di un esercito regolare
utile per la messa in sicurezza del paese, per porre le basi per una seria riforma economica e
soprattutto per un processo politico capace di condurre a elezioni nel paese.

Il secondo “arco di crisi” riguarda la connessione tra la criminalità organizzata e le organizzazioni
terroristiche, specie nell’area del Fezzan. Un legame di interdipendenza e di vantaggi reciproci ormai
consolidato che ha giovato dell’assenza di controllo del sud libico, una sorta di “terra di mezzo” in
cui si strutturano le reti criminali e i gruppi jihadisti impegnati nel contrabbando di armi, droga e
petrolio e nel traffico di esseri umani, spesso con la connivenza di alcune componenti di tribù locali.
D’altra parte quest’area è sempre sfuggita al duro controllo centralizzato del rais, restando
sostanzialmente autonoma e caratterizzata dalla pressoché completa assenza di influenza sulle realtà
tribali che, di fatto, controllavano i porosi confini meridionali e quindi i traffici e i loro proventi. Dal
2011 il venir meno del già labile controllo governativo e l’aumento dell’illegalità hanno quasi
distrutto l’economia della depressa zona meridionale. Se durante il regime di Muammar Gheddafi il
contrabbando valeva circa il 40 % dell’economia locale, oggi è salito al il 90%, tanto che pare essere
divenuto un lavoro più che un crimine. Il calo degli introiti derivanti dal traffico di esseri umani,
conseguente alle politiche restrittive messe in campo nell’ultimo anno dal governo italiano, ha
costretto i gruppi terroristici a ricercare nuove fonti di reddito, tra le quali spiccano il contrabbando
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di petrolio e di droga, “settori” in cui appare ormai consolidato il rapporto privilegiato tra gruppi
jihadisti e crimine organizzato. Il traffico illegale di greggio si basa su reti piuttosto articolate e sfrutta
numerosi hub. Un’ indagine del 2017 realizzata dalla Guardia di finanza di Catania -la cosiddetta
operazione Dirty oil - ha ricostruito il modello di una triangolazione tra Libia, Malta e Italia che ha
permesso in meno di un anno a un’organizzazione criminale di immettere illecitamente sul territorio
italiano oltre 82 milioni di chilogrammi di gasolio per un valore stimato di 50 milioni di euro.
Altrettanto complesso e lucroso è il business della droga che sfrutta la rotta mediterranea e coinvolge
anche la Libia: si parla di introiti che raggiungono i 400 milioni di euro l’anno. La “connection” tra
semplice criminalità organizzata e gruppi della galassia jihadista è declinabile in diverse forme,
alcune milizie offrono protezione armata ai contrabbandieri altre, tra cui quelle appartenenti allo Stato
islamico, sfruttando anche i “vecchi contatti” del Levante, sono coinvolte direttamente nel
contrabbando, come ad esempio quello di cannabis dall’Iraq, che passa attraverso la Siria e la Turchia.
In “tempi di magra”, dunque, i terroristi si sarebbero concentrati sul traffico di droga come modalità
di micro-finanziamento5, uno schema, peraltro già utilizzato nei teatri levantini.
E’ evidente come una reale politica atta a debellare le organizzazioni jihadiste dal teatro libico non
possa prescindere dalla presa di coscienza che il problema è bicefalo e riguarda anche le
organizzazioni criminali. Pensare di indebolire le reti terroristiche senza combattere o limitare i
traffici illegali vorrebbe dire, nella migliore delle ipotesi, tagliare solo una delle due teste di un mostro
che, però, continuerà a restare in vita. Per questo sarà necessario favorire la ripresa dell’economia,
specie nel sud del paese, dotando le tribù e alcune milizie di fonti di finanziamento alternative. Questo
potrebbe avvenire solo con una necessaria riflessione sui meccanismi di redistribuzione della rendita
derivante dai proventi degli idrocarburi e riavviando ad una “redistribuzione controllata” dei salari
alle popolazioni, magari facendo perno sulle municipalità e sul loro ruolo di controllo e gestione6.

Le ricadute nel contesto regionale: Egitto, Tunisia e Algeria

 L’instabilità libica e la conseguente recrudescenza del terrorismo non è solo un problema di ordine
interno, ma rischia di aprire o acutizzare ulteriori fronti di crisi negli Stati vicini, a iniziare dall’Egitto.
Le rivolte del 2011, la fragilità del sistema che ne è conseguita e il fallimento della proposta islamista
della fratellanza musulmana hanno alimentato il rafforzamento o la creazione di alcuni movimenti
jihadisti nel paese e la porosità dei confini ha reso più agevoli le infiltrazioni da e nel territorio
egiziano. Stime governative hanno riferito di almeno una trentina di organizzazioni terroristiche
presenti nel paese, alcune collegate con gruppi jihadisti con base a Gaza, altre emanazione diretta di
Al Qaeda o dello Stato islamico7. Le principali formazioni sono attive tra la penisola del Sinai e il
canale di Suez ma ne sono state individuate altre anche al confine con la Libia. La presenza di
organizzazioni terroristiche in territorio libico rischia di aprire un ulteriore fronte, oltre a quello del
Sinai, per l’ingresso di miliziani nel paese: l’Egitto condivide con la Libia un confine lungo quasi
1.000 km e uno sconfinamento dei gruppi jihadisti anche dall’ovest spingerebbe il Cairo in una morsa

5
  C. P. Clarke, Isis is so desperate it's turning to the drug trade, Rand corporation, 25 luglio 2017.
6
  Nell’assenza di una chiara leadership centrale, queste hanno assunto le sembianze di vere e proprie “città-Stato”, con
una propria autonomia politica e militare, oltre che amministrativa. B. Mikaïl, Security and stability in Libya: The way,
forward, Konrad-Adenauer-Stiftung, Regional program political dialogue south mediterranean, n. 2, 2017.
7
  G. Dentice, L’evoluzione della minaccia terroristica nel Sinai, in «Osservatorio di politica internazionale», 5 novembre
2015.
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infernale. La recente cattura da parte delle forze fedeli al generale Khalifa Haftar del jihadista egiziano
Hisham Ashmawy, prima capo dell’ala militare del gruppo Ansar al-Maqdis (trasformatosi nella
branca egiziana dell’Isis nel Sinai nel 2014) e poi leader del gruppo al-Murabitun, affiliato ad Al
Qaeda, è solo l’ultimo esempio di quello che potremmo definire una sorta di “jihad andata e ritorno”
tra la Libia e l’Egitto. La sponda del presidente al-Sisi con Haftar, che controlla l’est libico, è
funzionale per bloccare possibili infiltrazioni jihadiste. Anche per questo il Cairo non lesina nell’invio
di armi - soprattutto di provenienza russa e francese- al generale della Cirenaica. Inoltre, non va
dimenticato che l’Egitto è una delle culle del madkhalismo. Le relazioni intessute dalla salafia
egiziana con i notabili del Golfo derivano da una vicinanza a livello dottrinale che si è spesso
articolata in rapporti interpersonali molto stretti. Basti pensare che molti salafiti egiziani hanno avuto
la possibilità di assistere alle lezioni di importanti giurisperiti sauditi tra cui anche Rabi al-Madkhali,
già direttore del dipartimento di studi sulla tradizione islamica all’università di Medina. Il rischio di
una diffusione della corrente madkhalita in Egitto appare, dunque, più che una semplice ipotesi.

I problemi, però, non riguardano solo Il Cairo, ma anche Tunisia e Algeria .

 E’ noto che Aqmi ha basi operative in Algeria. D’altra parte l’organizzazione è nata dalla guerra
civile algerina degli anni novanta e poi, spinta dalle forze di sicurezza fuori dai confini, si è rivolta
verso il Sahel ed è oramai ben radicata anche in Tunisia. Evidentemente una delle aree più a rischio
è quella al confine con la Libia: qui, secondo il ministero della difesa algerino, nel 2017, sono stati
uccisi più di un centinaio di miliziani affiliati ad Aqmi. Inoltre, per la sua posizione geografica e la
ricchezza del sottosuolo, potrebbe essere il territorio ideale anche per i miliziani dello Stato islamico.
Già nel 2015 l’Interpol aveva trasmesso alle autorità algerine una lista di 1.500 terroristi, molti dei
quali affiliati a Isis, che cercavano di eludere il sistema di controllo delle frontiere con il semplice
utilizzo di passaporti falsi8. Se, come già menzionato, dopo la sconfitta di Sirte molti combattenti si
sarebbero recati nel sud libico, accogliendo qui altri membri della diaspora post-Raqqa, ora le
maggiori attenzioni della comunità internazionale, impegnata contrastare il flusso dei migranti dalla
Libia, potrebbe essere un ulteriore viatico per la proiezione algerina dei flussi di jihadisti. Così come
è avvenuto nell’ex Jamairiya, anche in Algeria l’Isis sta realizzando un sistema di alleanze con gruppi
jihadisti locali: tra questi il Jund al-Khilafah9, attore “storico” della galassia locale nato durante la
guerra civile degli anni novanta per iniziativa di Abdelmalek Droukdel, leader di Al Qaeda nel
Magreb islamico. Inoltre, con le coste libiche più controllate, i vari trafficanti, in parte invischiati con
varie sigle terroristiche, stanno cercando nuovi lidi da dove far partire i propri barconi. Il paese
nordafricano, per la sua posizione geografica, potrebbe rappresentare un possibile crocevia per il
flusso dei migranti dai paesi dell’Africa centrale verso il Mediterraneo, divenendo il nuovo hub di un
business molto remunerativo ma che attualmente sta vivendo un momento di flessione. Non è un caso
se nell’ultimo anno sono aumentati gli sbarchi di migranti partiti dalle coste algerine e diretti in
Spagna e Sardegna. Secondo i dati dell’Unchr, nel 2017, sarebbero sbarcate nell’isola italiana oltre
1.550 persone provenienti dall’Algeria, nel 2016 erano state poco più di 600. Il dato sembra destinato
ad aumentare anche in conseguenza dei possibili mutamenti della situazione interna legati alla sorte
dello storico leader Bouteflika, molto malato. Il vuoto di potere che lascerebbe nel paese potrebbe

8
  Middle east monitor, Algeria receives list of 1,500 Isis fighters, 7 maggio 2015.
9
    E’ quanto emerge dal Country report on terrorism 2017 del dipartimento             di Stato   americano,
in:https://www.state.gov/j/ct/rls/crt/2017/282844.htm.
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rendere ancora più critica la questione legata alle infiltrazioni jihadiste e alla proliferazione di reti
criminali.

Infine la Tunisia. L’eccezione felice nel prisma compativo fallimentare delle rivolte arabe, come da
più parti appellata, se da un lato dopo la caduta di Ben Ali ha dimostrato una certa “maturità”
nell’accettazione delle procedure democratiche, dall’altro si trova a fare i conti con una perdurante
stagnazione economica e con la proliferazione di fenomeni di matrice jihadista. Il governo di Tunisi
deve preoccuparsi soprattutto del terrorismo di ritorno visto che, come ben noto, è il paese che ha
esportato il maggior numero di foreign fighters nei teatri operativi levantini, tra i 4.000 e i 5.000
secondo la più parte delle stime. Alla base della radicalizzazione dei giovani tunisini c’è spesso il
sentimento di marginalizzazione a cui le politiche dei governi che si sono succeduti alla guida del
paese non hanno saputo fornire risposte adeguate. Non è un caso se un numero altissimo di
combattenti tunisini, oltre che dalle storiche roccaforti di Ben Gardane, Bizerte e Tunisi sia partito
dalla piccola e povera città periferica di Remada che “vanta“ 90 foreign fighters su una popolazione
totale di 11.000 persone10. I combattenti, arruolatisi anche a causa delle condizioni di fragilità
economica e sociale, stanno tornando in patria da militari radicalizzati ed esperti miliziani, con tutti i
rischi ne derivano. Secondo uno studio del Soufan center nel 2017 erano circa 800 i foreign fighters
rientrati in Tunisia dopo la sconfitta di Raqqa, ma la tendenza per il 2018 è quella di un ulteriore
aumento11 . La vicinanza del failed State libico rende il quadro ancora più a tinte fosche. Gli autori
materiali dell’attentato al Museo del Bardo del 18 marzo 2015, costato la vita a 24 persone, e l’assalto
al Riu Imperial Marhaba Hotel di Port el-Kantaoui del 26 giugno 2015, ad esempio, avrebbero
trascorso un periodo di training in campi di addestramento in Libia prima di rientrare nel paese e
compiere le carneficine. Un dato confermato anche da uno studio del Tunisian center for research and
studies on terrorism che evidenzia come il 70% dei tunisini arrestati per jihadismo nel solo 2017
hanno ricevuto addestramento in Libia, in particolare nei campi di Derna (per gli affiliati ad Aqmi) e
Sabratha (per gli affiliati a Isis)12. E’ facile intuire come la piccola Tunisia possa tramutarsi in una
grande polveriera anche per l’Italia. Lo scorso anno sono giunti nel nostro paese dalle coste tunisine,
attraverso i cosiddetti “sbarchi fantasma”, circa 3.000 migranti di cui solo 400 identificati. L’Interpol
ha documentato 50 sospetti jihadisti arrivati tra luglio e settembre in Italia proprio attraverso questa
nuova rotta, notizia poi smentita dal governo italiano ma che per lo meno insinua qualche dubbio. Il
dato del 2018 è in calo, anche in conseguenza delle politiche restrittive che hanno fatto desistere molti
dal partire, ma il pericolo resta imminente.
Da quanto detto è facile intuire che la stabilizzazione della Libia è un tassello fondamentale per la
messa in sicurezza del quadrante nordafricano. Tuttavia, rappresenta solo il fulcro di un problema
che, a causa della colpevole assenza delle istituzioni internazionali, si è oramai radicato e diffuso nei
paesi vicini e da qui rischia di propagarsi in Italia e in Europa. La tardiva presa di coscienza delle
cancellerie internazionali sulla necessità di attuare una politica comune per la pacificazione della
Libia è, dunque, solo il primo, necessario, step di un’azione allargata a tutto il Nord Africa. Detta in

10
   F. Bobin, La Tunisie veut empêcher les jihadistes de l’EI de revenir de Syrte, in «Le Monde», 11 ottobre 2016,
11
   Nello stesso report si sottolineano anche i 760 combattenti rientrati in Arabia Saudita, i circa 900 in Turchia e i circa
400 in Russia. Vedi: R. Barret, Beyond the Caliphate: foreign fighters and the threat of returnees, 31 ottobre 2017, Soufan
Center.
12
   Dati in: A. Y. Zelin et. All, Foreign Fighters in Libya, The Washington Institute for Near east policy, Policy note 45,
gennaio 2018.

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altri termini, la “messa in sicurezza” dell’ex Jamiriya, laddove dovesse davvero avvenire, non basterà
più per porre fine al terrorismo.

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