Occuparsi di ambiente, territorio e città al tempo del coronavirus: alcune riflessioni per agire, su natura, vulnerabilità e Green Deal di fronte ...

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Occuparsi di ambiente, territorio e città al tempo del coronavirus:
alcune riflessioni per agire, su natura, vulnerabilità e Green Deal di
fronte alle nuove crisi1
Gabriele Bollini

In questo momento diventa importante cominciare seriamente a riflettere su ciò che potremo
attenderci e che dovrà cambiare. È adesso che serve l'indicazione di una prospettiva per quando
si riprenderà. Servono indicazioni che partano dalla presa d'atto del collasso in corso e dalla
riformulazione di capisaldi del modello di sostenibilità che stavamo mettendo a punto. Si tratta
di mettere a punto una cassetta degli attrezzi che ci consenta di avere elementi utili per agire
nella ripresa post emergenziale, puntando sull’anti-fragilità, riattivando e rafforzando il
metabolismo delle nostre città e dei nostri territori.
Intorno alla pandemia causata dal nuovo coronavirus si sta sviluppando un intenso dibattito sugli
aspetti sanitari. Anche nel campo delle scienze sociali, per l’impatto che il virus sta avendo sulle
nostre abitudini e stili di vita, si stanno producendo riflessioni e analisi. Si è sviluppato solo
parzialmente, invece, un dibattito sul rapporto che intercorre tra le condizioni ambientali e
l’insorgenza di un’epidemia. Iniziamo provando a dare un breve contributo per colmare questo
vuoto e poi fornire spunti per una riflessione a tutto tondo.
Una premessa
Sulla base della capacità di carico si può misurare la capacità rigenerativa del pianeta. Nel caso
della popolazione umana si parla di «impronta ecologica», un indicatore dell’insostenibilità dei
nostri stili di vita. L’Earth Overshoot Day indica il giorno in cui il consumo delle risorse supera la
produzione che la Terra mette a disposizione per quell’anno. Per il 2019 questo giorno è stato il
29 luglio. Significa che in sette mesi abbiamo esaurito tutte le risorse che il pianeta rigenera in
un anno. Dagli anni ’80 ad oggi si è determinato, a causa dell’eccesso di consumo di risorse, un
deficit ecologico che comporta un esaurimento delle risorse biologiche e, nello stesso tempo,
produzione di rifiuti, effetto serra, alterazione della biodiversità, con squilibri che sono alla
base di una forte vulnerabilità e dell’insorgenza di molte malattie.
Quanto più si superano i limiti della disponibilità del territorio e si altera l’ambiente, tanto
maggiore sarà la frequenza con cui si manifestano carestie, guerre, epidemie. Il rapporto del
1972 su “I limiti della crescita” anticipava molte delle questioni attuali.
Qualcosa sui virus e la loro origine2
La ricerca dell’origine del Coronavirus non deve impedirci di vedere che la nostra crescente
vulnerabilità alle pandemie ha una causa più profonda: la distruzione sempre più veloce da parte
dell’uomo degli habitat naturali. Il virus è la malattia di un pianeta stressato.
Alcuni dati sui virus “questi sconosciuti”. La maggior parte dei virus patogeni (60%) è di origine
animale. Alcuni provengono da animali domestici o da allevamento; più di due terzi da animali
selvatici.

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 a cura di Gabriele Bollini raccogliendo spunti e riflessioni varie
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 da un articolo di Sonia Shah su Le Monde Diplomatique, marzo 2020. Sonia Shah è una giornalista, autrice di
Pandemic: Tracking Contagions, from Cholera to Ebola and Beyond, Sarah Crichton Books, New York 2016 e di The
Next Great Migration: The Beauty and Terror of Life on the Move, Bloomsbury Publishing, Londra, pubblicazione
prevista per giugno 2020.
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Questi ultimi in realtà non c’entrano nulla. A dispetto degli articoli che, con tanto di corredo
fotografico, indicano la fauna selvatica come il punto di partenza di epidemie devastanti, è un
errore credere che questi animali siano particolarmente infestati da agenti patogeni letali pronti
a contagiarci. In realtà, la maggior parte di questi virus vive al loro interno senza far loro alcun
male.
Scrive Danilo Russo3, è vero che i pipistrelli possono ospitare una notevole diversità di virus: il
loro sistema immunitario ha contratto con essi un ''patto di non belligeranza'', mitigando le
reazioni infiammatorie che i virus producono in altre specie, uomo incluso, in modo che il
pipistrello non si amali e il virus abbia vita facile. Si ritiene che questa particolare reazione sia
un effetto collaterale dell’adattamento fisiologico al volo, che, causando forte stress cellulare,
indurrebbe violentissime reazioni infiammatorie in assenza di adattamenti specifici. Per i
pipistrelli, che coprono parecchi chilometri in volo ogni notte e in diversi casi migrano per
centinaia di chilometri come gli uccelli, questo sarebbe un problema serissimo.
Occorre però chiarire -per non criminalizzare il povero pipistrello- che in epidemie come quella
attuale, il pipistrello ha fatto da animale serbatoio, ospitando un virus inizialmente non
pericoloso per l’’uomo che è poi probabilmente passato ad altre specie (si ritiene nel pangolino,
ma siamo ancora ai primi studi) e infine all’’uomo.
Solo attraverso questo articolato percorso il virus ha potuto cambiare la sua struttura diventando
un pericolo per l’uomo. Queste trasformazioni sono tipicamente il risultato del nostro pessimo
rapporto con la natura: i ''laboratori di evoluzione virale'' nei quali si verificano, e questo pare sia
stato proprio il caso di Covid-19, sono mercati insalubri presenti in Oriente come in altre regioni
del mondo nei quali pipistrelli, pangolini, serpenti, e chi più ne ha più ne metta, sono macellati
senza alcuna precauzione e destinati a un opinabile e diffusissimo consumo umano. In talli
condizioni, l’artificiosa promiscuità di specie, l’innaturale prossimità all’’uomo, il contatto con
sangue e organi interni a cui lavoratori e acquirenti sono esposti, costituiscono un costante,
elevatissimo rischio biologico.
Il problema però e che con il dilagare della deforestazione, dell’urbanizzazione e
dell’industrializzazione, abbiamo dato a questi virus i mezzi per arrivare fino al corpo umano
(spillover) e adattarsi.
Un salto di specie di un virus da un animale all’uomo è sempre un evento preoccupante, sia che
si tratti del pipistrello (per il nuovo coronavirus) o dei polli e suini (per l’influenza aviaria e
suina), perché la popolazione è priva di difese immunitarie specifiche e il virus non trova
ostacoli (scrive Gianni Tamino su “l’ExtraTerrestre”, settimanale ecologista del manifesto).
Un legame tra l’insorgenza di epidemie e la deforestazione è stato stabilito anche per le
malattie trasmesse dalle zanzare, anche se in questo caso il problema non riguarda tanto la
perdita di habitat quanto la loro trasformazione. Con gli alberi, scompaiono anche le radici e le
foglie morte. Di conseguenza, l’acqua e i sedimenti scorrono più facilmente sul terreno, ormai
raggiunto anche dai raggi del sole, formando delle pozzanghere che favoriscono la riproduzione
delle zanzare portatrici della malaria.
La distruzione di habitat agisce anche alterando il numero degli individui appartenenti a
ciascuna specie, il che può aumentare il rischio di diffusione di un agente patogeno.

3
 Danilo Russo è professore associato di Ecologia all’’Università degli Studi di Napoli Federico IIII e specialista di
ecologia e conservazione dei chirotteri
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Lo stesso vale per le malattie trasmesse dalle zecche. Lo sviluppo urbano sta gradualmente
rosicchiando le foreste del nord-est degli Stati Uniti4, scacciando animali come gli opossum, che
contribuiscono a tenere sotto controllo le popolazioni di zecche, e consentendo allo stesso
tempo a specie molto meno efficaci al tal scopo, come il topo dai piedi bianchi e il cervo, di
prosperare. Risultato: le malattie trasmesse dalle zecche si diffondono più facilmente.
La riduzione delle terre coltivabili, la perdita di fertilità dei suoli, l’estensione delle
monocolture, l’inquinamento ambientale, sono alcuni dei fattori che incidono sulla disponibilità
di cibo. Il 70% della superficie agricola è destinata alla produzione di mangimi per animali. La
biomassa del miliardo e mezzo di bovini che viene allevato è molto di più della biomassa umana.
Inoltre, lo spreco alimentare, pari al 30% di tutta la produzione che si verifica nel corso di tutto
il processo produttivo e distributivo, aggrava la situazione.
In questi mesi stiamo affrontando una pandemia virale, ma il futuro potrebbe riservarci
pandemie causate da batteri resistenti ad ogni trattamento farmacologico. Negli allevamenti
intensivi, a causa dell’elevata concentrazione di animali e del massiccio impiego di antibiotici, si
creano le condizioni favorevoli allo sviluppo di ceppi batterici resistenti. Se una salmonella o un
ceppo di Escherichia coli sviluppassero resistenza agli antibiotici, si determinerebbe una
situazione drammatica perché non saremmo in grado di controllare il contagio.5
Fortunatamente, non volendo essere vittime passive di questo processo, possiamo però fare
molto per ridurre il rischio di emergenza di simili virus. Possiamo proteggere gli habitat selvatici
per far sì che i virus degli animali restino al loro interno senza trasmettersi all’uomo, come sta
facendo diversi movimenti ecologisti. Possiamo monitorare da vicino gli ambienti in cui i virus
animali hanno maggiori probabilità di mutare in agenti patogeni umani, cercando di eliminare
quelli che mostrano segni di adattamento al nostro corpo prima che causino epidemie. Possiamo
-dobbiamo- soprattutto ridurre la vulnerabilità del nostro sistema ambientale, sociale ed
economico.
Come ha dichiarato l’epidemiologo Larry Brilliant, «i focolai di virus sono inevitabili, le
epidemie no». Ma le epidemie ci saranno risparmiate solo se saremo tanto determinati a
cambiare le nostre politiche quanto lo siamo stati a sconvolgere la natura e la vita animale.
Mai come oggi sono evidenti le relazioni tra degradazione ambientale e diffusione delle
malattie. La più grande parte delle malattie infettive più pericolose per la nostra specie è di
origine animale (zoonotiche). Si tratta di virus in grado di compiere un "salto di specie"
(trasferimento di patogeni tra specie diverse: spillover). La loro progressiva comparsa e
virulenza (Lassa, Ebola, HIV, influenza aviaria, febbre del Nilo, Sars, influenza suina, solo per
citare le più note) non sono castighi divini, nè calamità naturali come lo possono essere le
eruzioni vulcaniche o i terremoti, ma sono il portato di un tipo di sviluppo economico impazzito,
"la conseguenza del nostro impatto sugli ecosistemi naturali" (WWF,Pandemie, l'effetto
boomerang, marzo 2020). Scrive un grande esperto di queste malattie: "Là dove si abbattono gli
alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a vagare in giro come polvere che si alza
dalle macerie. Un parassita disturbato nella sua vita quotidiana e sfrattato dal suo ospite
naturale" si cerca una "nuova casa (...). Dunque [i virus] non ce l'hanno con noi, siamo noi a
essere diventati molesti, visibili e assai abbondanti" (David Quammen, Spillover, p.44, 2014). Le
cause antropiche delle malattie virali sono dunque: l'abbattimento e gli incendi delle foreste
tropicali, il consumo e l'uso del suolo, le attività minerarie, l'estensione dei terreni agricoli, gli

4 N.B. In Europa tutto questo è accaduto tanto tempo fa che non ci ricordiamo neanche più le vulnerabilità e gli effetti che questo
ha comportato.
5 Gianni Tamino, “l’ExtraTerrestre”, settimanale ecologista de “il manifesto”, numero 13, anno III

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allevamenti intensivi, la caccia, il commercioo e il consumo di fauna selvatica, il
sovraffollamento e gli inquinamenti delle città le cui molecole di particolato inalabile possono
funzionare anche da veicoli dei virus.
Virus e inquinamento
Ma perché pressocché nessuno, né i medici, né il ministro della Sanità, né i soliti commentatori
televisivi, esperti su tutti i temi emergenti, né i giornalisti, tentano di abbozzare una risposta
alla domanda, che ormai tutti si pongono: perché tanta mortalità in Lombardia, in Emilia-
Romagna e in Veneto?
Un interrogativo al quale per la verità qualcuno (WWF, Il Sole 24ore, alcuni ricercatori
dell’Università di Bologna, ecc.) in rete, comincia a dare risposte nell’unico senso plausibile: le
condizioni ambientali e il livello di inquinamento della Pianura padana.
È solo per il cronico analfabetismo ecologico degli intellettuali italiani, per la cultura tutta
politica o politico-economica dei giornalisti, per la ghettizzazione storica degli specialismi
medici, che dai tempi di Cartesio sono stati separati (per tutti i secoli della modernità, salvo
parentesi italiane degli studiosi della malaria) il corpo dell’uomo e le sue malattie dagli habitat
in cui vivono? O è per non mettere in discussione l’assetto economico su cui è stato edificato il
benessere sociale di quelle regioni? Si chiede Piero Bevilacqua in un articolo su “il manifesto”
del 20 marzo us.
Eppure un po’ di attenzione ai problemi del nostro ambiente e dei livelli di inquinamento
avrebbe dovuto subito indirizzare le osservazioni nel verso giusto. Chi segue anche da dilettante
questi fenomeni sa che da anni una nube tossica sosta costantemente sul cielo della pianura
padana. Sono oramai conosciute (sulla stampa e sui social) le foto shock della pianura padana
con smog, vista dal satellite. La nostra più grande pianura ha condizioni meteo-climatiche e
geofisiche uniche in Europa; e gli inquinamenti dominanti sono dovuti agli allevamenti intensivi,
alla concimazione chimica dei campi, ai fumi delle fabbriche, alle emissioni dei motori a
scoppio: CO2, Ozono e polveri sottili (PM10 e PM5), le minute particelle che si depositano nei
polmoni dei cittadini padani ma non solo.
Mentre il primo focolaio del virus metteva a soqquadro Wuhan, i paesi europei guardavano con
distanza alla Cina, convinti che l’epidemia, non si sa bene perché, non avrebbe investito il
mondo occidentale. Ad esempio, meglio avrebbero fatto a studiare i dati epidemiologici
condivisi dalla Cina dal 7 gennaio (giorno della dichiarazione dell’epidemia) in poi. Avrebbero
capito che il mondo intero si sarebbe trovato coinvolto da Covid-19, in fasi diverse della stessa
evoluzione virale.
Sars-CoV2 ha fatto il salto di specie in un luogo imprecisato della città di Wuhan e da quel
momento attraversa inarrestabile, confini nazionali che la globalizzazione ha cercato di
smussare quanto più possibile negli ultimi decenni. E mentre tutto questo ci rammenta quanto
siamo interconnessi e interdipendenti su questa Terra, pur nelle nostre fragilità funzionali ed
esistenziali, il primo paradosso è che il multilateralismo esce a pezzi dai primi mesi di contagio
mondiale.
La comunità internazionale, che oggi si trastulla con gli impegni, sempre rimandati, dello
sviluppo sostenibile, non ha mai imparato nulla dai corrosivi segnali che le sono giunti dall’inizio
del millennio. La comunità internazionale non ha mai voluto imparare per rivedere a fondo
l’impianto estrattivo e inefficiente dell’economia planetaria, che divora l’ambiente e crea
ingiustizia. Inoltre, nell’era della conoscenza, non ha mai valorizzato quanto prodotto dalla
comunità scientifica, come ha scritto Nicoletta Dentico su “il manifesto”.
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Gli esperti dell’Oms annunciavano da anni una pandemia come la Grande Influenza del 1918 (la
“spagnola”). Il rapporto 2019 del Global Preparedness Monitoring Board della Banca Mondiale
riferiva di «un rischio molto reale di una pandemia veloce e altamente letale causata da un
patogeno in grado di colpire le vie respiratorie», tale da azzerare il 5% dell’economia globale.
Adesso che nella crisi ci siamo dentro, Sars-CoV2 ha tutta l’aria del virus che stavano
aspettando. Più difficile da contenere del primo coronavirus del secolo a fare il salto di specie,
la Sars in Cina nel 2003, Covid-19 ha già causato 10 volte più casi in un quarto del tempo.
Ma la comunità internazionale, che non lesina risorse e uomini nell’arte della guerra (il Governo
italiano ha confermato la spesa per gli F35; e la produzione di armi non è stata sospesa come
tutte le altre attività non essenziali), con cicli di esercitazioni e forze di intervento rapido, non
ha mai fatto nulla per prepararsi alle pandemie. Nulla. L’Europa non ha neppure uno straccio di
politica comunitaria sulla salute, sicché non esiste programma comune per un’emergenza
sanitaria. E per un’emergenza ambientale probabilmente la musica non cambierebbe.
I principi di solidarietà rischiano di essere un ricordo lontano, se pensiamo alle reazioni dei paesi
europei (come il resto del mondo) che si stanno facendo prendere da una forma virale di
sovranismo sanitario, spesso nel segno dell’inazione. E la vecchia ruvida tensione tra diritto alla
salute e logiche dell’economia, ancora una volta, continua a fare oscillare il pendolo dalla parte
del mercato.
Il post emergenza Covid-19 sarà come un dopoguerra, con le sue macerie e purtroppo con le sue
vittime. E con l’esigenza di ricostruzione. Ma abbiamo condizioni nuove e nuove consapevolezze
per ripensare politiche di un’Europa più forte perché più giusta e fondata sui contenuti
dell’eguaglianza. Nella sua sconvolgente e dolorosa apparizione sul continente il coronavirus
potrebbe essere, paradossalmente, la nostra unica chance, anche per l’emergenza climatica.
Ambiente e Salute: “Green Health City”
L’epidemia ci mette di fronte ad un aspetto che, almeno nelle nostre società, non è più
presente nei nostri pensieri, dimenticato, se non ricordato da notizie di fatti riguardanti zone
remote da noi, o ricordi di accadimenti neanche troppo remoti o reminiscenze letterarie; il
“contagio” è sostanzialmente stato rimosso come questione della nostra vita di occidentale.
Il COVID-19 ci ha riportati alla realtà della specie e ci ha dimostrato che il degrado ambientale
che abbiamo causato, la globalizzazione dell’economia, l’interconnessione della società ci
rendono fragili e vulnerabili e ciò può facilitare la diffusione di agenti patogeni; e gli agenti
patogeni possono trovare condizioni favorevoli nella maggiore fragilità di strati vasti della
popolazione, fragilità alla quale come è noto la qualità dell’ambiente contribuisce in modo
significativo.
L’interconnessione, gli spostamenti caratteristici della nostra società possono dunque esser uno
dei fattori rilevanti, assieme alle strutture sociali (consuetudini) dei diversi paesi a determinare
la diffusione differenziata nei diversi paesi e territori.
Molto abbiamo già detto e sottolineato riguardo alla necessità di trovare un nuovo approccio sul
miglioramento della qualità ecologica delle città: Nature-Based Solutions (NBS), Green
Infrastructure (GI), rigenerazione, economia circolare, ecc. Grande impulso alla conoscenza e
diffusione delle GI e del loro ruolo positivo sull’ambiente urbano (in particolare) sono stati
determinati dalle politiche di mitigazione e adattamento promosse dall’UE o a livello mondiale.
Gli studi sull’efficacia delle GI sono noti e abbondantissimi.
Tutto ciò costituisce il punto di partenza.

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Possiamo proporre un punto di vista da aggiungere e implementare sempre con riferimento al
paradigma delle GI e NBS? Un campo di ricerca e applicazione con una prospettiva maggiormente
integrata? Certamente il COVID 19, la pandemia, ci suggerisce di sì. Possiamo allora sintetizzare
questo nuovo punto di vista in “Green Health City”.
Mai come oggi è evidente anche che le nostre difese immunologiche si sono indebolite (se non
compromesse) dallo stato dell'inquinamento atmosferico e delle acque, della cattiva
alimentazione, degli stili di vita stressanti, dalle condizioni abitative nelle megalopoli. Le
fragilità dovute alla rottura dei legami sociali sono in pauroso aumento. Non va dimenticato che
le morti premature causate da inquinamento atmosferico solo in Italia sono "abitualmente"
84.000 all'anno.
Ricordandosi però che uno dei principi della sanità pubblica (cfr. riforma sanitaria del 1978
portava a compimento concreto l'articolo 32 della Costituzione Italiana, che recita: "La
Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività
mediante il servizio sanitario nazionale") era l’idea di andare oltre l’ospedale come luogo
deputato alla sanità, alla cura, e di creare anche punti di riferimento diffusi e vicine per le
comunità. È necessario allora chiedersi: Come ripartire con questa idea di prossimità che negli
ultimi anni ha subito forti diminuzioni? In questa emergenza ci sarà un cambio? Come
accompagnare le prossime scelte della politica per tornare a presidiare il territorio?
Anche per questo sarà necessario lottare in qualsiasi modo per evitare ulteriori privatizzazioni
della sanità nel nostro paese, attivando/rafforzando un lavoro socio-sanitario dal basso.
Purchè l’emergenza non ci faccia perdere di vista la visione strategica sull’economia del
futuro.
L’attuale situazione rende alcune spese obbligate: da quelle urgenti per potenziare strutture e
personale sanitario a quelle di sostegno ad alcune necessità indifferibili della popolazione e di
molte imprese.
Per le altre, però, -come scrive Edo Ronchi, presidente della Fondazione Sviluppo Sostenibile e
Circular Economy Network, sul blog Huffington Post- quelle più strutturali necessarie contrastare
una recessione che si annuncia peggiore di quella avviata nel 2009, occorre fare uno sforzo
perché l’emergenza non annebbi la visione strategica della conversione ecologica. Resta ferma,
infatti, la necessità di puntare, anche con nuove misure di stimolo, sull’economia del futuro –
decarbonizzata, green e circolare – in sinergia con il Green Deal europeo.
Sarà necessario finanziare un vasto programma di rigenerazione urbana, secondo il modello delle
green city, per migliorare la qualità ecologica delle città, ridurre i consumi energetici degli
edifici, aumentare la produzione e l’uso di fonti rinnovabili, adottare misure di adattamento
climatico, rafforzare le infrastrutture verdi, fare fronte ai diversi fabbisogni senza consumare
nuovo suolo, ma riutilizzando aree dismesse, abbandonate e sottoutilizzate e realizzando
riqualificazioni e riusi del patrimonio edilizio esistente.
Questo programma va adeguatamente finanziato e reso operativo snellendo le procedure e
assicurando anche il finanziamento delle progettazioni complete. Servono misure consistenti per
decarbonizzare i trasporti, incentivando l’acquisto di nuovi autobus elettrici e a biometano,
finanziando la realizzazione di nuove corsie preferenziali, l’aumento dell’elettrificazione dei
servizi di sharing mobility e rafforzando gli interventi che scoraggiano l’uso dell’auto privata
nelle città.
Gli stessi obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu, pur fatti proprio dalla Commissione europea con il
Green Deal, sembrano scomparsi dal dibattito pubblico sull’onda dell’emergenza Covid-19.
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Racconta Enrico Giovanni -portavoce dell’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile (ASViS), su
HuffingtonPost- “prima della crisi del 2008-2009, in Ocse avevamo provato a convincere molti
governi ad adottare la logica di andare “oltre il Pil” nella misurazione dello stato di una società.
La crisi fu il killer di questa discussione. Quando alcuni anni dopo chiesi ad Alan Krueger, advisor
di Obama che pure faceva parte della commissione Stiglitz, perché non fosse stata colta
l’occasione per cambiare paradigma, mi rispose che la priorità assoluta era creare posti di
lavoro, non importa quali. Ecco, il rischio è che oggi si commetta lo stesso errore”.
È chiaro che la preoccupazione per lo shock economico, accanto a quello sanitario, è molto
elevata ed è giustissima. Ma il rischio vero è di usare le risorse per far ripartire attività
economiche a qualunque costo, perdendo di vista la necessità di pensare al futuro e riorientare
il sistema economico e produttivo nella direzione dell’economia circolare -che tutti auspicavano
solo poche settimane fa- tdi una maggiore sostenibilità ambientale e una maggiore equità
sociale.
I governi, ma anche l’Ue potrebbero istituire, accanto all’unità di crisi, quella che Enrico
Giovannini, portavoce di ASviS, chiama “unità di resilienza trasformativa”, cioè un gruppo di
soggetti, persone, istituti, esperti che ci facciano capire come “rimbalzare avanti” e non
indietro.
Occorre anche attuare il nuovo Circular Economy Action Plan europeo, aumentando e orientando
gli investimenti del Programma Industria 4.0 verso la progettazione circolare dei prodotti,
modelli circolari di consumo e degli acquisti pubblici, il rafforzamento del riciclo e interventi
avanzati per la decarbonizzazione di settori strategici come l’agroalimentare, l’acciaio, il
cemento e la chimica.
Non ci piace l’utilizzo della metafora ”economia di guerra”, soprattutto quando ha il suo sbocco
nel “Piano Marshall”; ribadiamo che secondo noi ha senso un solo piano della comunità europea,
quel nuovo patto insito nel “Green New Deal”, indispensabile anche per affrontare la prossima
emergenza, quella climatica.
Forme e pratiche della vita quotidiana: lo capiamo di ora in ora, di giorno in giorno, che
nulla sarà come prima
Anche quando l’onda del Covid-19 si sarà ritirata, le forme e le pratiche della vita quotidiana,
l’organizzazione del lavoro, i processi produttivi e della distribuzione, le interconnessioni globali
e le relazioni geopolitiche, forse anche le nostre forme di vita, l’affettività, e chissà che altro
non potranno ritornare allo stato antecedente.
Ci sono almeno tre terreni di lavoro importante per chi si occupa di ambiente, territorio e città,
di sviluppo ambientalmente, socialmente ed economicamente sostenibile -come sostiene
Gabriele Pasqui, Politecnico di Milano, su “Gli stati generali”.
Il primo riguarda la comprensione degli effetti del virus nei diversi territori, e il modo in cui i
territori forniscono al virus prese o resistenze. Il virus in Italia appare per ora più aggressivo nei
luoghi dello sviluppo spesso insostenibile del nostro Paese nel ciclo lungo della crescita
economica e insediativa: città medie, urbanizzazioni periurbane e diffuse e campagne abitate.
Dunque, è importante che la nostra lettura dei territori e dei paesaggi metta al lavoro una
comprensione dei nessi tra il virus, i divari territoriali, le dinamiche dello sviluppo, le forme di
vita all’intersezione tra spazio e società. Capire la dimensione spaziale e territoriale di un
agente invisibile è difficile, ma è insieme indispensabile per ragionare sugli effetti.
Un secondo terreno riguarda le politiche per il dopo-virus. È decisivo che le azioni che verranno
intraprese, a emergenza finita, siano in grado di porsi congiuntamente tre obiettivi di carattere

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generale: favorire la ripartenza dell’economia; promuovere attraverso investimenti di carattere
strutturale un nuovo modello di sviluppo centrato sulla conversione ecologica dell’economia,
sostenibile sotto il profilo ambientale e sociale e sensibile alla transizione climatica, evitando
con ogni mezzo che gli investimenti per la ripresa reiterino un modello di sviluppo largamente
insostenibile per il nostro Paese e per l’Europa; utilizzare la programmazione per ridurre i divari
tra le diverse parti del paese, tra macroregioni, tra i differenti territori fragili, all’interno di
esse e nell’ambito di ogni territorio, ivi comprese le aree urbane, ponendo come obiettivo
prioritario il sostegno dei gruppi e dei ceti sociali più marginalizzati e più penalizzati dalle
conseguenze dell’epidemia in corso.
Infine, dobbiamo immaginare anche effetti più profondi e pervasivi, che riguardano le pratiche
quotidiane nello spazio, le forme di vita, i modelli di interazione localizzata, l’esercizio
dell’affettività. Si tratta del tema più incerto, più inquietante. Ma si tratta di un tema intorno al
quale, ancora una volta, lo spazio conta. E con esso l’architettura e l’urbanistica.
Come fronteggeremo questi mutamenti di immaginario, che sicuramente la pandemia indurrà in
larghi strati della popolazione? Quanto peseranno nelle dinamiche già in atto di auto-
immunizzazione e di separazione (delle popolazioni, degli spazi, e anche dentro le residenze)?
Quanto si ridefinirà la regolazione pubblica dello spazio?
Attenzione però, perché, dal punto di vista sociale, nessuno deve restare indietro per colpa
del coronavirus6
Partiamo da un assunto che riteniamo imprescindibile, sostiene Fabrizio Barca del Forum
Disuguaglianza Diversità: questa crisi non deve creare nuove disuguaglianze e far crescere rabbia
e risentimento nelle persone, deve accrescere non ridurre la coesione sociale. Bisogna tutelare
ogni persona a rischio, sia i garantiti, sia gli esclusi. Questo significa fare a un tempo cose
diverse: salvaguardare i posti di lavoro, ogni volta che sia possibile; assistere chi perde
l’occupazione; attenuare gli effetti che derivano dal temporaneo cambio di vita. Agire solo a
tutela di alcune categorie d’individui, magari di quelli che hanno una voce più forte, sarebbe
profondamente errato e ingiusto. Secondo requisito cruciale è che le misure adottate siano di
attuazione semplice e tempestiva: intervenire senza effetti certi e immediati, infatti, sarebbe
fatale.
Il Governo sembra intenzionato a contrastare la creazione di nuove disuguaglianze e ad agire con
tempestività. La partita si gioca, dunque, sulla definizione degli interventi da mettere in campo.
L’esperienza internazionale ci offre importanti spunti, invitandoci da subito ad adottare un
approccio universale, rivolto a tutte le persone, e a raggiungere l’obiettivo utilizzando e
adattando strumenti già a disposizione, che consentono sia l’identificazione e il supporto
immediati dei beneficiari sia la possibilità di differenziare le risposte in base alle diverse
esigenze di ognuno.
Le proposte che il Governo sta per sottoporre in queste ore al Parlamento e al paese potranno
essere valutate alla luce di due criteri. Primo, abbracciare con lo sguardo l’intera popolazione e
distinguere al suo interno le diverse categorie di persone colpite: da un lato, minori, inoccupati
e pensionati, a seconda delle differenti condizioni di partenza di ciascuno; dall’altro, gli
occupati, ma cogliendo anche qui i loro assai diversi gradi di vulnerabilità.
Secondo, per ognuna di queste categorie, individuare gli strumenti di welfare esistenti più
adatti, modificandoli ed espandendoli in modo da adattarli alla situazione emergenziale.

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    Forum Disuguaglianza Diversità
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In tanta preoccupazione e cupezza, questo atto rappresenterebbe una rottura positiva, in linea
con l’orgoglio che il paese sta mostrando per la scelta compiuta di mettere la salute al primo
posto. Sarebbe un segnale che lo stesso Stato che ti “chiude in casa” è davvero consapevole
delle conseguenze che ne derivano per la tua vita ed è attrezzato ad aiutarti ad affrontarle.
Chiunque tu sia.
In conclusione
Mai come oggi è evidente che se volessimo trarre qualche insegnamento dalla immane tragedia
della pandemia in corso dovremmo trasformare in radice il sistema socioeconomico dominante
nella direzione di una Green, Just end Global Transition, volta a ridurre l'impronta ecologica
del genere umano sul pianeta, aumentare la funzionalità degli ecosistemi e fermare la perdita di
biodiversità; ridurre l'estrazione di materiali vergini (minerali, combustibili fossili, biomasse,
metalli); restituire alla natura vergine almeno il 50% del suolo e del mare (oggi è stato
modificato il 75% dell'ambiente terrestre e il 66% di quello marino); fermare il riscaldamento
globale (a non più di 1°C entro la fine del secolo); de-globalizzare i centri di decisione
economici e de-mercificare l'utilizzo delle risorse e dei patrimoni naturali (commons pool
resources); conferire alle comunità locali il potere di decidere i propri itinerari di sviluppo;
riconoscere il diritto delle donne di scelta riproduttiva. Ma non basta proclamare queste
esigenze (peraltro in gran parte contenute tra gli stessi Obiettivi per lo Sviluppo sostenibile
dell'Onu, nell'Accordo di Parigi, nella Laudato si' di Papa Bergoglio e in altre "carte" e trattati
internazionali - peraltro senza alcun successo), ma di cominciarle a declinarle e praticare nel
concreto delle situazioni di vita e di lavoro: forme di economie altre equosolidali, standards
urbanistici, welfare di prossimità e medicina di comunità, garanzia di reddito anche nella
"quarantena", formazione permanente, accesso ai beni comuni.

Epilogo - L’Alfabeto Pandemico. Come cambiano le parole, adesso e dopo.7
Come sta cambiando la percezione dello spazio comune dallo stato di sospensione domestica in
cui ci troviamo? E cosa diventano gli spazi del comune quando il contatto dei corpi non è
possibile? Quali parole abbiamo per costruire nuovi immaginari? Insieme, lanciando nuove reti
che colleghino i punti, spogliandoci di identità per acquisirne di nuove. Collettive, aperte,
condivise.
Come costituenda rete “Lo Stato dei Luoghi” -rete italiana di luoghi e spazi rigenerati–
vorremmo lanciare una riflessione comune, su quello che stiamo vivendo e su come cambieremo
quando tutto questo sarà finito. Lo facciamo a partire da ciò che siamo, dal nostro essere
gestori di spazi e attivatori di luoghi, donne e uomini che per lavoro facilitano relazioni tra
persone, creano occasioni di socialità e aggregazione, si nutrono di comunità e costruiscono
nuova cultura.
Stiamo già vivendo una profonda risemantizzazione di alcune parole e questi nuovi significati
forse si avvicinano di più a ciò che già "prima" sentivamo come necessità da affermare nei nostri
luoghi rigenerati: una diversa modalità di aggregazione attraverso un diverso sentire della
cultura, per un nuovo welfare culturale Potremmo uscirne più forti e consapevoli, oppure più
stremati e irresponsabili. Quando torneremo alla normalità - e dobbiamo chiedercelo cosa vorrà
dire normalità - vogliamo farlo con un vocabolario nuovo.

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    https://www.lostatodeiluoghi.com/alfabeto-pandemico/
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Chiediamo quindi parole che definiscano i metri che ci dividono, che ci raccontino dello ‘stato
dei metri’, ma che sappiano guardare oltre e, attraverso un diario collettivo, immaginare una
nuova “normalità”.
Abbiamo la consapevolezza che ci sarà un prima e un dopo che segnerà il nostro modo di
pensare e di agire. Abbiamo cominciato da un alfabeto e da alcune parole che talvolta sono
ossimori, talaltra contraddizioni. Ognuna di esse ha un significato ma potrebbe acquisirne un
altro. La I di incertezza si lega alla D di dubbio. Perchè non sappiamo come saremo, dopo.
Avere le parole, dopo, significherà avere nuovi strumenti di lettura del reale, nuovi immaginari
e nuove azioni. Serve a non dimenticare questa effervescenza di pensiero di questi giorni, a non
perdere le intuizioni, le visioni, a tenerle strette ed essere pronti ad affermare posizioni
radicali. Serve a non tornare indietro senza cambiare.
Sentiamo l’esigenza di pensare, collettivamente. Di prefigurare scenari aperti. Di abbattere i
confini delle piccole patrie, delle piccole reti per disegnare, insieme, una costellazione di
domande che ci guidi quando dovremo costruire risposte e nessuno di noi basterà. C di
cooperazione, C di complicità. Perché abbiamo bisogno di diventare complici nel disegnare un
mondo nuovo. Per mobilitarci, collettivamente. Questo abbiamo imparato, questo vogliamo
praticare.

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