IL GATTOPARDO: DAL ROMANZO DI TOMASI DI LAMPEDUSA AL FILM DI VISCONTI

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IL GATTOPARDO: DAL ROMANZO DI TOMASI DI LAMPEDUSA AL FILM DI VISCONTI
IL GATTOPARDO: DAL ROMANZO DI TOMASI DI
LAMPEDUSA AL FILM DI VISCONTI
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IL GATTOPARDO: DAL ROMANZO DI TOMASI DI LAMPEDUSA AL FILM DI VISCONTI
SOMMARIO

IL ROMANZO
 •   Genesi, breve riassunto e definizione del genere
 •   I personaggi
 •   I luoghi
 •   Il punto di vista del narratore

IL FILM
 •   La realizzazione e i protagonisti
 •   Breve riassunto
 •   Il punto di vista del regista

IL ROMANZO E IL FILM
 •   Somiglianze e differenze:

        -   i contenuti
        -   il capitolo I e la sua trasposizione cinematografica
        -   il tempo del romanzo e il tempo del film
        -   la resa del tema principale: il presentimento della morte

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IL GATTOPARDO: DAL ROMANZO DI TOMASI DI LAMPEDUSA AL FILM DI VISCONTI
IL ROMANZO

Genesi, breve riassunto e definizione del genere
Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896 - 1957), scritto in pochi mesi tra il giugno
1955 e il 1956 (un tempo breve, considerata l’ampiezza, ma certamente a seguito di una lunga
meditazione interiore, confermata dalla testimonianza della vedova, secondo la quale il marito
aveva già manifestato l’intenzione di comporre qualcosa diciotto anni prima di iniziare la stesura
del Gattopardo!), fu proposto dall’autore alla Casa Editrice Einaudi, e per conto di questa rifiutato
da Elio Vittorini. Fu invece pubblicato, nel 1958, per Feltrinelli, a cura di Giorgio Bassani: esso
divenne un vero e proprio caso editoriale, perché ebbe un clamoroso successo di vendite (più di un
milione di copie solo in Italia in pochi anni e ben quindici traduzioni all’estero) e di critica, che
Tomasi però non conobbe, perché morì un anno prima della pubblicazione.

Il romanzo, strutturato in otto capitoli (o "parti", come riporta il manoscritto), ciascuno dei quali
introdotto da una breve didascalia riassuntiva, racconta una vicenda, ambientata in Sicilia, che
comincia nel 1860 e che ha per protagonista il principe Fabrizio Corbera di Salina. La storia si
sviluppa sullo sfondo dell'impresa dei Mille, momento cruciale del Risorgimento, di cui si mettono
in evidenza i limiti: essa, infatti, determinò l'unità d'Italia, ma non realizzò una radicale
trasformazione della struttura economica e sociale del Paese, anche perché in Sicilia il trasformismo
della classe dirigente favorì l'immobilismo, dal momento che i nuovi potenti (la borghesia), che
avevano deposto i vecchi (l’aristocrazia), non avevano alcuna intenzione né di migliorare né di
cambiare la società, ma solo di impedire che i loro privilegi potessero essere toccati.
Nel maggio 1860, dunque, dopo lo sbarco dei garibaldini in Sicilia, Don Fabrizio, principe di
Salina, un aristocratico di antica nobiltà molto colto (è dedito agli studi di astronomia), assiste con
distacco e con malinconia alla fine del suo ceto, perché ha compreso che la supremazia degli
aristocratici è ormai inevitabilmente avviata ad un inesorabile declino, dal momento che gli
amministratori e i mezzadri approfittano della nuova situazione politica per tentare la scalata al
potere. Infatti quando, come tutti gli anni, il principe si reca con la famiglia nella residenza estiva di
Donnafugata, scopre che il nuovo sindaco del paese è Don Calogero Sedara, un borghese arricchito
di umili origini che ha fatto carriera in campo politico: è proprio lui il simbolo della nuova classe
dirigente che prende il posto della vecchia aristocrazia. Altrettanto significativo è l’arrivo a
Donnafugata di un funzionario piemontese, Aimone Chevalley di Monterzuolo, che offre a Don
Fabrizio la nomina a senatore del nuovo Regno, nomina che il principe rifiuta sentendosi legato al
"mondo vecchio" e immobile della sua Sicilia e non credendo nella possibilità di un progresso
storico.
Il prediletto nipote Tancredi, invece, un giovane esuberante ed entusiasta, aperto alle idee liberali,
non la pensa così: egli, che in precedenza aveva corteggiato Concetta, la figlia maggiore del
principe, rivolge ora le sue attenzioni ad Angelica, figlia di Don Calogero, che sposa, attratto non
solo dalla sua vistosa bellezza, ma anche dal suo notevole patrimonio.
La vita del principe continua sempre più monotona e sconsolata: la morte lo coglie in un’anonima
stanza di albergo nel 1883, di ritorno da un viaggio a Napoli, intrapreso per sottoporsi a delle visite
mediche. Nella sua casa resteranno, infelici custodi di inutili memorie, le tre figlie nubili, incattivite
da un’esistenza chiusa e solitaria.

Il Gattopardo è un testo troppo introspettivo - psicologico per essere considerato semplicemente un
romanzo storico, ma troppo documentato sull'epoca dei fatti per essere ritenuto solo un romanzo
psicologico. Lo stesso Tomasi in alcune lettere ad un amico, Guido Lajolo, si poneva il problema
del genere della sua opera. Nella lettera del 31 marzo 1956 l’autore sottolinea che il suo romanzo “è
di argomento storico: senza rivelare nulla di sensazionale cerca di indagare le reazioni sentimentali

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e politiche di un nobiluomo siciliano alla spedizione dei Mille e alla caduta del regno borbonico. Il
protagonista è il Principe di Salina, tenue travestimento del principe di Lampedusa mio bisnonno. E
gli amici che lo hanno letto dicono che il Principe di Salina rassomiglia maledettamente a me
stesso. Ne sono lusingato perché è un simpaticone. Tutto il libro è ironico, amaro e non privo di
cattiveria. Bisogna leggerlo con grande attenzione perché ogni parola è pesata ed ogni episodio ha
un senso nascosto. Tutti ne escono male: il Principe e il suo intraprendente nipote, i borbonici e i
liberali, e soprattutto la Sicilia del 1860.” E ancora, nella lettera del 2 gennaio 1957: “Non vorrei
però che tu credessi che fosse un romanzo storico! Non si vedono né Garibaldi né altri: l'ambiente
solo è del 1860; il protagonista, Don Fabrizio, esprime completamente le mie idee, e Tancredi, suo
nipote, è Giò [il figlio adottivo di Tomasi]”.
Insomma, all'interno del romanzo scorrono insieme tempo storico e tempo dell’esistenza di un
uomo: se la componente storica non deve essere sottovalutata, la ricostruzione delle vicende della
famiglia Salina nel contesto degli anni che vanno dal 1860 al 1910 non rappresenta però certamente
il fine dell'opera. Il romanzo, infatti, concede poco all'oggettivismo documentario e naturalistico,
perché prevalgono la ricostruzione familiare e autobiografica, la ricerca psicologica, i valori
simbolici, quasi sempre legati alla figura del protagonista, col quale il narratore instaura un rapporto
di identificazione, che induce a considerare il Gattopardo un romanzo storico sui generis, già
pronto ad inaugurare la narrativa psicologica moderna.

I personaggi
Il personaggio attorno al quale ruota la storia del romanzo é Don Fabrizio. Egli è un
quarantacinquenne molto alto, dalla pelle bianchissima, gli occhi chiari e i capelli biondi,
caratteristiche dovute alle sue origini tedesche. E' un uomo molto forte: nel primo capitolo ci viene
detto che le sue dita sanno accartocciare come carta velina le monete da un ducato e che le posate
necessitano frequentemente di riparazioni a causa della sua ira trattenuta, che gli fa piegare
forchette e cucchiai. Le sue dita, però, sanno anche accarezzare, perché Don Fabrizio non è né
cattivo né crudele, ma orgoglioso, autoritario e rigido nella morale, tutti comportamenti in antitesi
con quelli della società in cui vive, che pecca di scarsa coerenza morale sia nelle nuove componenti
(la borghesia arrivista che cerca il successo con ogni mezzo) sia nelle vecchie (la classe aristocratica
palermitana, che non ha la stessa coerenza e onestà morale e intellettuale del principe).
Non solo: Don Fabrizio è dotato, a differenza di molti nobili, di un’ottima cultura e ha una spiccata
propensione per le scienze matematiche, che applica all'astronomia traendone prestigiosi
riconoscimenti pubblici. L'astronomia è molto importante per il principe perché riesce non solo a
distoglierlo dalle occupazioni quotidiane, ma anche ad elevare il suo spirito ad una visione
rasserenante dell'universo, facendogli dimenticare gli aspetti più meschini della vita e le
preoccupazioni per la rovina del suo ceto, che egli osserva con rassegnazione. La consapevolezza
dell’inevitabile e ormai avviata dissoluzione del suo mondo lo rende infatti scettico, di uno
scetticismo che si manifesta in un gusto dissacratore delle cose, capace però anche di compassione:
"il suo disgusto” dice il narratore “cedeva il posto alla compassione per tutti questi effimeri esseri
che cercavano di godere dell'esiguo raggio di luce accordato loro fra le due tenebre, prima della
culla, dopo gli ultimi strattoni. Come era possibile infierire contro chi, se ne è sicuri, dovrà
morire?”.

Intorno al principe si possono individuare due mondi diversi: il primo è quello della vecchia
aristocrazia, di cui fa parte la sua famiglia (la moglie Maria Stella, le figlie Concetta, Caterina,
Carolina e il figlio Paolo); il secondo è quello della nuova borghesia, a cui appartengono il sindaco
di Donnafugata, Don Calogero Sedara, e la figlia Angelica.
Tancredi, che ha uno stretto rapporto di affetto e di stima con il principe Fabrizio, che lo preferisce
ai suoi sette figli, fa da tramite tra le famiglie Salina e Sedara: egli infatti riesce, con il suo

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matrimonio, ad unire due classi sociali differenti. All’immobilismo della visione del mondo del
principe corrisponde, uguale e contrario, il comportamento di Tancredi: egli infatti, appena
Garibaldi sbarca in Sicilia, corre ad arruolarsi con i garibaldini, nonostante la sua famiglia sia legata
alla monarchia borbonica, perché capisce chi sarà il vincitore e vuole essere dalla sua parte. Ma
anche questo spregiudicato pragmatismo appare, a ben guardare, la manifestazione esteriore di uno
scetticismo molto simile a quello del vecchio principe.

I luoghi
La vicenda narrata nel romanzo si svolge in dimore private aristocratiche (i palazzi dei Salina - di
città, del suburbio, di Donnafugata -, il palazzo Ponteleone, i giardini dei due palazzi), in luoghi
pubblici (il palazzo reale, il convento di Santo Spirito, la chiesa e il palazzo del Municipio a
Donnafugata), in spazi urbani (il percorso fatto dal principe per raggiungere l’abitazione di
Mariannina; il breve tragitto da palazzo Lampedusa a palazzo Ponteleone; quelli di Donnafugata,
visti da Chevalley mentre raggiunge e lascia il palazzo), nella campagna desolata, attraversata negli
spostamenti da una dimora all'altra (da Palermo a Donnafugata) o durante la caccia.

I luoghi citati sono esistiti e, in parte, esistono ancora oggi: essi hanno il compito di contestualizzare
in modo realistico la narrazione, e, soprattutto, di agire e interagire con i personaggi, a cui
comunicano sensazioni o con cui condividono stati d’animo. Per esempio, il paesaggio assolato e
arido della Sicilia, che resta lo stesso “ieri, oggi e domani”, appare a Don Fabrizio un segno
premonitore di morte, rappresentativo del vuoto dell’uomo moderno e della sua solitudine. Egli
prova ad opporsi a questa sensazione attaccandosi morbosamente ai “suoi” luoghi, come la casa
natale: questo attaccamento simboleggia proprio la ricerca di qualcosa di stabile ed eterno, che
possa aiutare a sopportare meglio la realtà precaria ed effimera che circonda ogni uomo. Ma il fasto
del palazzo, ricco di affreschi, stemmi nobiliari, quadri, suppellettili preziose e finemente lavorate
non basta a ridare sicurezza nell’avvenire: tutte queste cose appaiono, piuttosto, come le tracce di
uno splendore consunto, le prove tangibili di un inarrestabile declino e di un’inesorabile e definitiva
decadenza.

Il punto di vista del narratore
Nel romanzo Tomasi adotta sia il punto di vista del narratore onnisciente, che dialoga con i lettori
e commenta gli avvenimenti con un atteggiamento critico, sia la focalizzazione interna: in questo
caso egli assume, di solito, il punto di vista del principe, di cui condivide la visione del mondo.
Ci limitiamo a citare un esempio particolarmente significativo per entrambe le focalizzazioni.
Durante un colloquio tra il principe e Don Ciccio Tumeo, l’organista di Donnafugata, il narratore si
distingue nettamente dai personaggi dimostrando la sua onniscienza con questa osservazione: "Don
Fabrizio non poteva saperlo allora, ma una parte della neghittosità, dell'acquiscenza per la quale
durante i decenni seguenti si doveva vituperare la gente del Mezzogiorno, ebbe la propria origine
nello stupido annullamento della prima espressione di libertà che a questo popolo si era mai
presentata". Al contrario, il narratore appare molto vicino a Tancredi quando, all’inizio del
romanzo, il giovane dà la sua valutazione politica dei "nuovi tempi": la focalizzazione interna lascia
avvertire la piena condivisione delle sue famose parole ("se vogliamo che tutto rimanga com'è,
bisogna che tutto cambi"), che si rivelano valide e vincenti perché, combattendo per Garibaldi e
sposando una borghese, Tancredi rinuncia definitivamente all’aristocrazia che c’è in lui (quella dei
Salina), ma fa anche in modo che essa conservi, seppur trasformata, la sua antica posizione di forza,
che impedisce a nuove forze (quelle del popolo) di andare al potere.

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IL FILM

La realizzazione e i protagonisti
Luchino Visconti (1906 – 1976), il regista del film, realizzò la sceneggiatura del Gattopardo con
la collaborazione di alcuni grandi registi e sceneggiatori: Suso Cecchi d'Amico, Pasquale Festa
Campanile, Enrico Medioli e Massimo Franciosa.

Il film, realizzato per la Titanus, è una coproduzione italo francese. Esso fu girato nel 1962 (ed uscì
nel 1963) con un sistema di ripresa chiamato Technirama, messo a punto dalla Technicolor negli
anni ’50; la pellicola è stata restaurata nel 1991, a cura della Cineteca Nazionale, con la
supervisione del maestro Giuseppe Rotunno.

I protagonisti del film sono Burt Lancaster (il principe Salina), Alain Delon (Tancredi) e Claudia
Cardinale (Angelica). Nei ruoli minori recitano altri grandi attori, come Paolo Stoppa, Rina
Morelli, Romolo Valli, Mario Girotti, Lucilla Morlacchi, Giuliano Gemma, Ottavia Piccolo.

Il film ha vinto numerosi premi: il David di Donatello 1962 – 1963 per i migliori produttori, la
Palma d’Oro al Festival di Cannes del 1963 e il Nastro d’Argento 1964 per la miglior fotografia a
colori.

Breve riassunto
Mentre nel palazzo di Don Fabrizio Salina la famiglia riunita recita il rosario, giunge la notizia dello
sbarco di Garibaldi e dei suoi Mille in Sicilia. Il principe Salina cerca di salvaguardare la propria
posizione sociale mettendosi dalla parte dei vincitori: approva l'arruolamento del nipote Tancredi
nelle file dei garibaldini, vota a favore dell’annessione allo stato sabaudo durante il plebiscito,
favorisce il matrimonio di Tancredi con Angelica, figlia di Don Calogero Sedara, un borghese,
arricchito di recente e con loschi affari, che avvia la propria ascesa sociale e politica sostenendo in

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ogni modo (anche manipolando i risultati del plebiscito!) il nuovo Regno d'Italia; egli rifiuta, però,
il seggio di senatore che gli viene offerto, perché è impossibile per lui, uomo del passato, credere
nel futuro e operare in esso.
Durante un ballo a Palermo, Don Fabrizio presagisce la propria morte e la fine del mondo
aristocratico a cui appartiene, ormai inevitabilmente sopravanzato dalla nuova classe borghese.
Dopo la rivoluzione, l'ordine è tornato: fuori campo si sentono gli spari delle fucilazioni degli ultimi
garibaldini ribelli, che tranquillizzano e mettono di buon umore Don Calogero e Tancredi, perché le
spinte al rinnovamento sono state ancora una volta soffocate, ma che lasciano indifferente Don
Fabrizio, che si allontana a piedi, sparendo nel buio di un vicolo.

Il punto di vista del regista
Il regista è “costretto” ad usare la focalizzazione esterna, perché l'occhio della macchina da presa è
quello dello spettatore che assiste alla vicenda: eppure mai come nel Gattopardo Visconti riesce a
proporre il punto di vista del protagonista letterario, sposandone a pieno la visione della vita e
della storia. Il racconto cinematografico è infatti interamente dominato dallo sguardo con cui il
principe vede la realtà che lo circonda, forse ancor più di quanto accade nel romanzo, in cui il
narratore finisce per interferire spesso nella narrazione con commenti che esprimono il suo punto di
vista.
La piena coincidenza tra l’occhio della macchina da presa e quello del principe si nota in modo
particolarmente evidente nella sequenza in cui viene mostrato il corpo del soldato morto nel
giardino di villa Salina o in quella in cui il principe si trasferisce con la famiglia a Donnafugata: in
entrambe il racconto della vicenda da oggettivo diventa soggettivo e lo spettatore ha la netta
sensazione di vedere le cose esattamente come le vede il principe, che è più infastidito che
intimorito dalla scoperta del cadavere (egli, infatti, non teme la morte, anzi la desidera come il
termine delle sue ansie e della sua fatica esistenziale) e si sofferma, nel paesaggio che percorre, solo
su segni e presagi di morte.
Ne è una riprova anche la decisione del regista di non presentare i fatti successivi alla morte del
principe, che sono invece narrati nel romanzo: per Visconti la storia della famiglia Salina non
merita di essere raccontata con uno sguardo diverso da quello di Don Fabrizio.

Tutti gli aspetti più importanti del film passano, dunque, attraverso gli occhi del protagonista o
risentono del suo modo di concepire la vita. Il mondo aristocratico, per esempio, viene
rappresentato nella fissità dei suoi rituali (la recita del rosario, la vestizione, la caccia, la lettura, il
pranzo, la cena…) e nei fasti dei palazzi e degli intrattenimenti (celeberrima la sequenza del ballo),
ricostruiti con grande rigore storico. In questi contesti la figura del nuovo ricco, di cui costituisce
un chiaro esempio Don Calogero Sedara, viene proposta come una stonatura: egli, anche se è in
grado di fornire alla figlia una dote principesca, si presenta in casa Salina con un frac troppo stretto,
segno della sua mancanza di gusto e di stile. Don Fabrizio, consapevole della necessità di stabilire
un'alleanza tra vecchia aristocrazia terriera in declino e nuova classe borghese in ascesa, favorisce il
matrimonio tra Tancredi e Angelica, ma non ascolta neppure don Calogero che, senza alcuna
discrezione, magnifica i beni e le proprietà che donerà agli sposi. Il principe, insomma, fa
razionalmente e laicamente i conti con la storia e viene a patti con la borghesia emergente (il
matrimonio di Tancredi) e con lo stato nascente (il sì al Plebiscito), ma senza personali
coinvolgimenti (il rifiuto dell'offerta di Chevalley), consapevole dell’inutilità degli sforzi di coloro
che pensano di poter agire sulla storia.

Don Fabrizio, Tomasi e Visconti si fanno portavoce dell'interpretazione pessimista del
Risorgimento elaborata dalla storiografia democratica di Gobetti, Salvemini e Gramsci, che lo
intendono come una "rivoluzione mancata": i personaggi, pur esprimendo punti di vista reazionari,

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denunciano in che modo distorto la classe dirigente piemontese e i suoi alleati in Sicilia portassero
avanti il "nuovo" servendosi unicamente degli strumenti piú menzogneri del "vecchio", come la
malafede, la sopraffazione e l'inganno. Questo concetto si concretizza nella sequenza in cui il
principe Salina e don Ciccio Tumeo commentano i risultati del plebiscito: 312 votanti, 312 sì. Ma
don Ciccio sa di aver votato no, memore dei benefici ricevuti dal regime borbonico: su quali basi si
fonda, dunque, il consenso al nuovo Stato?

Ma, dal momento che il Gattopardo non è solo un romanzo storico, nella trasposizione
cinematografica Visconti lascia un notevole spazio anche all’espressione dell’intreccio tra vitalismo
(inteso come attaccamento alla vita e capacità di goderne tutti gli aspetti gratificanti) e
presentimento della morte che domina lo stato d'animo di Don Fabrizio: queste due pulsioni non
sono tra loro in antitesi ma in un rapporto complesso, che fa del principe un personaggio quasi
leopardiano. Per Don Fabrizio la vita è il desiderio e la continua aspirazione ad una serie infinita di
appagamenti della più diversa natura, accomunati dal fatto che procurano la felicità; la morte,
invece, è la fuga da un mondo che non solo delude queste aspirazioni ma dà, al loro posto, dolore,
sofferenza e angoscia. Dunque quando l’uomo comprende che le sue aspirazioni sono destinate ad
avere un appagamento rapido, fugace e saltuario, quando la sofferenza comincia ad avere la meglio
sul piacere, appare naturale desiderare la morte e lasciare che ad illudersi siano i giovani, che ancora
non hanno fatto questa tragica scoperta. Non è certo un caso che l'immagine di Tancredi appaia, per
la prima volta, riflessa nello specchio posto davanti al principe, che nel nipote rivede un se stesso
più giovane, ancora pieno di belle speranze. Lo specchio diventa infatti, nel film, lo strumento che
permette di comunicare allo spettatore i pensieri del personaggio, che altrimenti resterebbero
sconosciuti, giacché nella narrazione cinematografica, a differenza di quella romanzesca, non vi è
un narratore in grado di svelarli al lettore. Per fare in modo di trasformare il codice verbale in
codice visivo, all’inizio del film, in più di una scena, Visconti fa parlare zio e nipote in un gioco di
specchi, in cui l’uno vede riflesso il volto o la figura dell’altro: in questo modo egli vuol far capire
allo spettatore che i due personaggi sono complementari e inscindibili l’uno dall’altro. Il viso di
Tancredi riflesso nello specchio in cui il principe si guarda mentre è intento a radersi sembra
sostituirsi a quello di Don Fabrizio, come un presagio della sostituzione che avverrà sia nella
vicenda personale dei due personaggi sia in quella che ciascuno dei due rappresenta nella storia:
Tancredi è infatti il giovane Salina che sostituisce il vecchio Salina e l'uomo nuovo, il prototipo del
trasformismo delle giovani generazioni dell'aristocrazia che si accingono a sostituire quelle vecchie,
di cui il principe è uno degli ultimi baluardi.

Nella scena del ballo questa sovrapposizione di volti scompare definitivamente: quando Don
Fabrizio balla con Angelica, di cui anch’egli, come il nipote, avverte il fascino e la sensualità, si
sostituisce per l’ultima volta al nipote, perché mentre per Tancredi il ballo è una speranza di
avvenire felice, per il principe esso costituisce una sorta di definitivo addio ai piaceri della vita.

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Nel finale del film, infatti, sullo sfondo del grande ballo, Salina appare sempre piú isolato:
contemplando un quadro che rappresenta La morte del giusto, egli sente la premonizione della
propria fine e il declino di un'epoca. La commozione si legge nel suo volto riflesso in uno specchio;
poi, con un movimento di macchina, Visconti segue il principe, isolato nella vastità del salone, che
si allontana sul terrazzo, verso l'incerta luce dell'alba.

In questo film, come già in Senso (1954), Visconti arricchisce il proprio stile registico con
molteplici richiami alla tradizione del melodramma, per esempio inserendo nella colonna sonora
diversi brani di Giuseppe Verdi (tra cui il celebre valzer - fino ad allora inedito - della sequenza del
ballo, diretto dal maestro Nino Rota). La colonna sonora musicale ha un’importanza notevole: essa,

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che ha il compito di sostituire i monologhi e i dialoghi del romanzo, scandisce, infatti, il ritmo della
narrazione e carica le atmosfere di suggestioni particolarmente intense.

Interessante anche il ruolo assegnato alla scenografia e alle luci: la prima, che presenta un
arredamento dai toni caldi e severi, esalta e mette in rilievo le figure dei protagonisti, le seconde
sottolineano le espressioni e i gesti degli attori, aumentandone la forza espressiva.

IL ROMANZO E IL FILM

Somiglianze e differenze
Visconti si ispirò spesso a testi letterari, che utilizzava, per lo più, come semplici canovacci,
allontanandosene sia nella struttura che nel senso. Il Gattopardo costituisce, in questo senso, una
vera e propria eccezione: Visconti fu infatti relativamente fedele, sia nei contenuti specifici che
nella visione del mondo, al romanzo di Tomasi. Proprio questa fedeltà rende particolarmente
significative le differenze: proviamo dunque ad analizzarle in dettaglio.

I contenuti
Visconti articola la narrazione in quattro blocchi narrativi (a Palermo, verso Donnafugata, a
Donnafugata, il ballo) che corrispondono perfettamente a quelli del romanzo: alcuni episodi, però,
pur essendo presenti nel romanzo, sono stati esclusi dal film, mentre altri sono innovazioni del film.

Tra gli episodi omessi ci sono, per esempio, la visita di Padre Pirrone (il cappellano di casa Salina)
al suo borgo nativo, San Cono, e le sue conversazioni politiche con i villani, in cui egli definisce il
concetto di aristocrazia (cap.V): di questo episodio sopravvivono solo alcuni frammenti
dell’incontro con i contadini (che viene però trasportato in un’osteria sulla strada di Donnafugata)
perché Visconti non vuole allontanare troppo l’attenzione dello spettatore dal vero oggetto del suo
interesse, la figura del principe. Nel film sono eliminati anche la sua morte (cap.VII) e gli episodi ad
essa successivi: questa esclusione, dovuta, come anticipato, alla volontà di non raccontare le cose
senza l’occhio del principe, non attenua il profondo senso di morte che percorre il film, anzi, lo
potenzia e lo rafforza, lasciandolo come una minaccia incompiuta e latente che incombe sulla vita
del protagonista.

Al contrario sono invece introdotte delle immagini che descrivono la battaglia dei garibaldini e
della popolazione contro i borbonici nelle vie di Palermo; sono presenti alcune allusioni alle
fucilazioni dei disertori dell'esercito regio passati dalla parte di Garibaldi. Con questi motivi
rivoluzionari e guerreschi, assenti nel romanzo, Visconti intende dare una maggiore concretezza
allo sfondo storico del film, anche se gli episodi hanno un carattere evocativo - simbolico più che
documentario.

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Ma l’aspetto più significativo è senza dubbio l’ampliamento della scena del ballo palermitano a
palazzo Ponteleone, presente nel romanzo ma non nelle proporzioni assunte nel film: essa dura, da
sola, più d’un terzo (46' su 181’) dello spettacolo (Visconti stesso, in un'intervista, parlò di
"dilatazione iperbolica" dell’episodio). Questo accade perché il regista affida a questa scena il
compito di concludere il film, ricomponendo i diversi motivi del romanzo (nel gran ballo, che
allude alla vita, si muovono circolarmente, in un perpetuo movimento che non ha principio né fine,
Pallavicino, Tancredi e Sedara, che rappresentano la Storia, Angelica, che incarna il fascino della
giovinezza, e Don Fabrizio, che ricorda l’incombere della morte) ed anticipando con inquietanti
segnali il corso futuro degli eventi (la relatività di tutto ciò che riguarda la vita dell’uomo di fronte
all’inesorabile scorrere del Tempo).

Il capitolo I e la sua trasposizione cinematografica
Se si confrontano le sequenze del I capitolo del romanzo e quelle del film, si può notare che, anche
in questo caso specifico, alcune sequenze del primo non compaiono nel secondo, che altre sono
state aggiunte e che altre ancora occupano un posto diverso rispetto all'ordine in cui sono presentate
nel romanzo.

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Il romanzo                                        Il film
                                                  Titoli di testa e palazzo dei Salina

Il rosario. Presentazione del principe            Il rosario. Voci dal giardino

                                                  Il principe riceve la notizia dello sbarco dei
                                                  Garibaldini (11 maggio). Crisi di pianto della
                                                  principessa

Il principe, passeggiando in giardino con il
suo cane, Bendicò, ricorda che un mese
                                             In giardino: ritrovamento del soldato morto
prima è stato trovato il cadavere di un
soldato, morto per il re
Il principe ricorda le udienze reali a cui ha
partecipato

Cena a villa Salina; ritratto della famiglia e
ricordo di Giovanni, il figlio assente

Viaggio verso Palermo del principe
                                                  Viaggio verso Palermo del principe accompagnato
accompagnato da padre Pirrone, che lo invita
                                                  da padre Pirrone, che lo invita a indurre a maggiore
a indurre a maggiore prudenza il nipote
                                                  prudenza il nipote Tancredi; un posto di blocco; la
Tancredi; un posto di blocco; la casa della
                                                  casa della prostituta Mariannina in un ambiente
prostituta Mariannina in un ambiente
                                                  malfamato
malfamato
Il mattino dopo nella stanza da bagno:            Il mattino dopo nella stanza da bagno: dialogo tra il
dialogo tra il principe e Tancredi; Tancredi      principe e Tancredi; Tancredi annuncia che partirà
annuncia che partirà per la guerra contro         per la guerra contro Franceschiello: "Se vogliamo
Franceschiello: "Se vogliamo che tutto            che tutto rimanga com'è bisogna che tutto cambi".
rimanga com'è bisogna che tutto cambi". La        La vestizione del principe
vestizione del principe
                                                  Il commiato di Tancredi dai familiari, che assistono
                                                  alla partenza dalla terrazza; Concetta si commuove

Nello studio: colloquio del principe col
contabile e poi con Pietro Russo; in seguito il
principe medita sugli eventi in atto, "soltanto
un’ inavvertibile sostituzione di ceti"

Nell'osservatorio    con    padre     Pirrone: Nell'osservatorio con padre Pirrone: considerazioni
considerazioni di carattere morale e politico di carattere morale e politico
Il pranzo. Il principe intuisce le
preoccupazioni di Concetta per Tancredi, ma
ritiene che Tancredi "debba mirare più in
alto, intendo dire più in basso". Simbologie
culinarie (il "torrione minaccioso" della
gelatina al rhum)
Di nuovo in amministrazione: il principe

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controlla i "carnaggi" che gli ricordano il
soldato trovato in giardino
Colloquio tra il principe e il primogenito
Paolo a proposito della scelta di Tancredi
La lettera del cugino Màlvica sullo sbarco dei
piemontesi
Il Rosario
                                                 Scontri a Palermo

Il I capitolo del romanzo si apre e si conclude, in modo circolare, con la recita del rosario;
all'interno di questo momento rituale, la vita si svolge sempre uguale a se stessa, con un’unica
trasgressione, la visita alla prostituta Mariannina, che non a caso si situa al di fuori dello spazio
della casa.

La corrispondente sezione del film si apre invece con la descrizione, a piani sempre più ravvicinati,
della villa Salina, per chiudersi con gli scontri di Palermo, allargando così lo sguardo dalla storia
della famiglia (rappresentata dal palazzo solitario e dignitoso) alla storia in senso lato.

Le motivazioni di questi cambiamenti sono facilmente deducibili: nel film, che ha tempi e spazi
narrativi più stretti di quelli del romanzo, hanno mantenuto la loro posizione di rilievo i protagonisti
(il principe, Tancredi e Padre Pirrone), mentre gli altri personaggi sono stati messi in secondo piano
o addirittura esclusi; allo stesso modo sono state eliminate le scene che riguardano l'attività del
principe (i contatti con gli amministratori e i controlli delle merci portate dai contadini), che deve
apparire subito nel suo aspetto di uomo tormentato da oscuri presentimenti e non come un nobile
impegnato in faccende quotidiane.

Il tempo del romanzo e il tempo del film
Il tempo del film comprende gli anni 1860 – 62: rispetto al romanzo sono escluse sia la morte del
principe (che avviene nel 1883) sia le vicende conclusive (che sono riferibili al 1910). L'omissione
è compensata dal significato che il regista attribuisce alla lunga sequenza del ballo: è il ballo infatti
che, consacrando i mutamenti storici avvenuti (come ha correttamente sottolineato il critico Emilio
Cecchi, il ballo tra il principe e Angelica è "una simbolica investitura, una sorta di testamento
cavalleresco che consacra un passaggio di poteri, il nascere di un nuovo mondo"), anticipa quelli
futuri (la solitudine del principe, nonostante egli sia immerso nella folla dei ballerini, prepara il
distacco definitivo della morte).

Gli eventi storici hanno maggiore rilievo nel film che nel romanzo, dove sono raccontati con delle
analessi (per esempio il ritrovamento del cadavere del soldato morto, il plebiscito…): essi, però,
entrano nel film con forti stacchi, come vicende esterne di scarsa significatività narrativa, perché il
fulcro del racconto è il privato del principe, che implica l’attenzione sulla sua casa e sulla sua
famiglia. Gli eventi hanno dunque una funzione evocativo – simbolica, che li rende poco attendibili
dal punto di vista storico: il racconto che ne fa chi vi ha partecipato è infatti impreciso e tendenzioso
(per esempio quello di Tancredi sulla battaglia di Palermo e quello di Pallavicino sulla battaglia di
Aspromonte e la figura di Garibaldi). L’ironia che accompagna taluni episodi (per esempio quello
del plebiscito) mette in rilievo questa concezione critica e disincantata della storia.
Anche nel film le ellissi temporali sono forti e il passare del tempo inavvertito: se Pallavicino
non parlasse del “fattaccio” dell'Aspromonte, sarebbe difficile datare l'episodio del ballo.

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La resa del tema principale: il presentimento della morte
Tra i pensieri più ricorrenti del principe c'è la morte, che non è avvertita dal protagonista né come
un totale annullamento della persona né come un passaggio nell'oltretomba cristiano (anche se nel
momento del trapasso del principe non manca il prete con le ultime preghiere rituali): essa viene
infatti percepita come uno sgretolarsi della personalità legato ad un vago presagio di una vita non
terrena, che finalmente porrà termine alle noie, alle angosce e alle inquietudini dell’esistenza.

Il tema della morte è senza dubbio il più importante sia nel romanzo (in particolare nel settimo
capitolo, intitolato "La morte del Principe") che nel film, ma, a causa dei diversi codici utilizzati
dalle due forme narrative, esso viene affrontato con differenti simbologie ed espedienti.

La morte entra per la prima volta nel romanzo e nel film con la scoperta, nel giardino della villa dei
Salina, del cadavere di un soldato ucciso: la descrizione del ritrovamento avviene, nel primo
capitolo del romanzo, per mezzo di un flashback, ma risulta particolarmente forte e brutale perché
volutamente contrapposta alla precedente descrizione del giardino, di cui si esaltano la vitalità e la
bellezza. Nella sequenza del film, invece, la morte fa un ingresso meno violento: il corpo del
ragazzo, a differenza di quanto accade nel romanzo, è compostamente steso a terra, perché
l’immagine del cadavere ha più forza della sua descrizione, che proprio per questo viene accentuata
negli aspetti più macabri.

Sia nel romanzo che nel film il presentimento della morte si accompagna alla sensazione di
invecchiare: il narratore, osserva, nel romanzo, "un uomo di quarantacinque anni può sentirsi
ancora giovane fino al momento in cui si accorge di avere dei figli in età di amare. Il Principe si
sentì invecchiato di colpo...", pensiero che invece, nel film, è formulato dal principe stesso, durante
una conversazione con padre Pirrone, che gli rivela l’innamoramento della figlia Concetta per
Tancredi. Nel film l’insistenza sulla percezione della vecchiaia che avanza è facilitata dal
linguaggio visivo: il principe durante il ballo, dopo un giro fra le stanze del palazzo, si guarda allo
specchio e vede la sua immagine triste e in ombra; quando ormai il ballo sta per finire, egli,
avvicinandosi ad uno specchio nella sala da bagno, vede il suo volto rigarsi di lacrime.

Ma il tema della morte ha il suo momento più alto nell’episodio della contemplazione del quadro
nella biblioteca: in quest’episodio, infatti, la morte si mostra apertamente sia nelle immagini che
nelle parole di Don Fabrizio. Egli, durante il ballo, si ritira nella biblioteca per riposare un poco;
qui si mette ad osservare attentamente un quadro, La morte del giusto, di Greuze, un pittore
francese del Settecento. Poco dopo entrano anche Tancredi e Angelica, a cui egli parla della sua
morte: il principe immagina “le figlie al suo capezzale, ma con vesti più decenti di quelle delle
ragazze del quadro che sembravano addirittura essere loro il soggetto e non il vegliardo che stava
spirando nel letto". Don Fabrizio riflette a voce alta di fronte ai due giovani che non lo
comprendono del tutto, perché, come spiega più chiaramente il narratore nel romanzo, essi hanno
una conoscenza della morte puramente teorica: "La morte sì esisteva, senza dubbio, ma era roba ad
uso degli altri." Angelica e Tancredi sono così vivi e vitali perché rappresentano, più che la forza
dell’amore, quella del nuovo che avanza: ma anche il nuovo prima o poi diventerà vecchio e i due
capiranno le parole del principe…

Il presagio della morte imminente chiude il film, ma non il romanzo. Nel film il principe, al
termine del ballo, decide di tornare a casa a piedi. Durante il tragitto incrocia il sacerdote che porta
Viatico: il principe si inginocchia assorto nei suoi pensieri e pronuncia la frase conclusiva dell'intera
storia: "Stella, oh fedele stella, quando ti deciderai a darmi un appuntamento meno effimero,
lontano da tutto nella tua regione di perenne certezza?". Nel romanzo è invece il narratore a
descrivere in modo più ampio le sensazioni del protagonista, più sottili rispetto al film, date le

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possibilità della parola: "La verità era che voleva attingere un po' di conforto guardando le stelle. Ve
n'era ancora qualcuna proprio su, allo zenit. Come sempre, il vederle lo rianimò, erano lontane,
onnipotenti e nello stesso tempo tanto docili ai suoi calcoli; proprio il contrario degli uomini, troppo
vicini sempre, deboli e pur tanto riottosi." Il Principe osservando Venere, la sua stella prediletta
poichè sempre presente nelle sue uscite mattutine, pronuncia le parole che chiudono il capitolo V:
"Don Fabrizio sospirò. Quando si sarebbe decisa (Venere) a dargli un appuntamento meno
effimero; lontano dai torsoli e dal sangue nella propria regione di perenne certezza?". Il desiderio
che si coglie in questa domanda si concretizza nel momento del trapasso: il principe muore all'età di
68 anni e la morte gli si presenta con le sembianze della "creatura bramata da sempre", che gli si
avvicina con amore e che gli sembra ancora più bella di come l’aveva immaginata.

BIBLIOGRAFIA

Per il romanzo:

G.Buzzi, Tomasi di Lampedusa, Mursia, Milano, 1972.
S.Silvestroni, Tomasi di Lampedusa, La Nuova Italia, Firenze, 1973.
E.Carini, Giuseppe Tomasi di Lampedusa e il Gattopardo, Loescher, Torino, 1981.
Pagliaro - Giacovazzo, Il Gattopardo o la metafora decadente dell'esistenza, Milella, Lecce, 1983.
A.Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Sellerio, Palermo, 1987.
G.Masi, Il Gattopardo, Mursia, Milano, 1996.

Per il film:

Il film “Il Gattopardo” e la regia di L.Visconti, a cura di Suso Cecchi d’Amico, Cappelli, Bologna,
1963.
Letteratura e cinema, a cura di P. Brunetta, Zanichelli, Bologna, 1976.
R. Campari, Il racconto del film, Laterza, Bari, 1983.
Il Gattopardo di L.Visconti, a cura di L. Micciché, Electa editrice, Napoli, 1996.
Zuffi – Miraglia - Morosini, Oltre la parola, Einaudi scuola, Torino, 2000.

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