MARX, WALL STREET E LA LOTTA DI CLASSE

Pagina creata da Nicolo' Garofalo
 
CONTINUA A LEGGERE
MARX, WALL STREET E LA LOTTA DI CLASSE
      di RICCARDO CAVALLO

       Da poco è apparsa l’ultima fatica di Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia
politica e filosofica1 che, muovendosi controcorrente rispetto alla vulgata liberista imperante, si
sofferma su uno dei nodi problematici più significativi dell’opus marx-engelsiano: la teoria della
lotta di classe. Si tratta di un ulteriore tassello che va inserirsi nel ventennale percorso di ricerca del
filosofo urbinate che, oltre a stilare un vero e proprio cahier de doléance sui misfatti dell’Occidente
liberal-capitalista, intende intervenire nelle ferite ancora aperte della tradizione marxista
mettendone in evidenza luci ed ombre.

        1. What would Marx Think? Questo interrogativo campeggia sulla copertina della versione
europea del Time del febbraio 2009, cioè nel momento clou della crisi finanziaria che partita
dall’esplosione del sistema dei mutui subprime originatasi negli Stati Uniti, stava per dilagare
anche nel resto del mondo. Non è un caso allora che il prestigioso magazine decida di dedicare la
propria cover story ad un possibile ritorno alle tesi marxiste nell’epoca di Wall Street. Così il
celebre ritratto del filosofo di Treviri diviene immagine pop, dai pixel giallo-oro che scorre al posto
dei valori dei titoli azionari sul rullo della Borsa cui si accompagnano altre frasi fluorescenti che
rimandano alla necessità di elaborare nuove idee per uscire dalla crisi e allo spauracchio del ritorno
della povertà. Tutto insomma lascia presagire che le tesi di Marx, prima fra tutte quella sulla lotta
di classe, siano più che mai da riprendere in considerazione come utile strumento per evitare il
baratro generato dalla voracità autodistruttiva dei mercati. Malgrado le apparenze, nel suo articolo
intitolato Rethinking Marx2, l’editorialista Peter Gumbel è ben lungi dal voler inneggiare ad un
ritorno del marxismo, cercando anzi di evidenziare come le idee di Marx, seppur profetiche e a
tratti geniali, abbiano nella pratica miseramente fallito. A tale scopo Gumbel intraprende una sorta
di itinerario nei luoghi simbolo della vita del filosofo, ovvero le tre città che hanno avuto un ruolo
determinante durante la sua esistenza: Treviri, sua città natale, Parigi dove aveva trovato rifugio per
un po’ di tempo e infine Londra, in cui trascorse gli ultimi trentaquattro anni della sua vita e dove
tuttora è possibile visitare la sua tomba su cui è scolpita la sua nota citazione, impressa con lettere
dorate: «The philosophers have only interpreted the world in various ways. The point however is to
change it». Tuttavia quello che può sembrare un nostalgico tour in realtà sembra avere ben poco
l’intento di auspicare un ritorno a Marx traducendosi, al contrario, in un netto rifiuto delle sue
teorie. Alla fine del viaggio di Gumbel ciò che rimane è una visione del marxismo strettamente
legata alle sue realizzazioni concrete e più o meno fedeli, nell’Ex Unione Sovietica e nei paesi
dell’Est Europa. Un panorama piuttosto desolante in cui l’unica via è, nonostante la crisi, non
rinunciare ad un modello economico di tipo capitalistico. Ma l’accostamento tra l’opera di Marx e
la situazione di impasse generata dalla crisi già alla fine del 2008 aveva inspirato diversi articoli,
tra cui quello pubblicato sul settimanale The Economist3 che si chiedeva cosa Marx avrebbe
pensato e teorizzato di fronte alla crisi e quello, ancora più eloquente, intitolato Booklovers turn to
Karl Marx as financial crisis bites in Germany. Qui senza mezzi termini Kate Connolly,
corrispondente da Berlino per la nota testata inglese The Guardian, inizia il proprio articolo4 con la
seguente lapidaria affermazione: «Karl Marx is back», per poi dilungarsi sui motivi del successo
editoriale delle opere di Marx, specie tra i giovani studenti universitari tedeschi, alla ricerca di
risposte illuminanti in tempi bui e soprattutto di alternative valide al dominio dell’Occidente
liberal-capitalistico. Oltre all’impennata di vendite de Il Capitale fino a sfiorare numeri da best
seller, testimoniata dalle stesse parole del responsabile di uno dei maggiori editori specializzati in
testi accademici in Germania, la Karl-Dietz-Verlag, ciò che è apparso ancora più sorprendente è

1
  D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari, 2013.
2
  http://www.time.com/time/specials/packages/article/0,28804,1873191_1873190_1873188,00.html
3
  http://www.economist.com/node/20019767
4
  http://www.guardian.co.uk/books/2008/oct/15/marx-germany-popularity-financial-crisis
stato il giudizio espresso da più della metà dei cittadini dell’ex Germania dell’Est che hanno
dichiarato di essere fortemente delusi dal capitalismo che inizialmente li aveva abbagliati con le sue
armi seducenti e ingannevoli mentre un’altra buona parte di loro addirittura spera in un ritorno del
socialismo. Tale sondaggio riportato da un altro giornalista della Reuters in un suo report5 del 2008
costituisce il punto di partenza per un interrogativo più che legittimo: perché nonostante gli orrori e
le storture del regime sovietico della DDR nascoste dietro un’apparenza di giustizia sociale e
miseramente svelati al mondo intero dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989 i cittadini della
Germania dell’Est rimpiangono il socialismo e disprezzano le ‘gioie del capitalismo’? Se il volto
del socialismo è stato a tratti spietato quello del capitalismo si rivela persino peggiore: come un
killer dai modi di fare ammalianti e cortesi ha prima sedotto la prima vittima con promesse tanto
allettanti quanto irrealizzabili e poi l’ha attaccata e uccisa nel peggiore dei modi. È allora
inevitabile che, nel momento in cui in tanti si accorgono del volto mostruoso del capitale, si
riscopra il valore delle teorie marxiste, specie quelle sulla lotta di classe, sia pure rivisitate, o
meglio di un Marx reloaded, come ha affermato con un abile gioco di parole che richiama un noto
film di fantascienza, il ‘pedagogista critico’ Ramin Farahmandpur un paio di anni addietro in un
saggio che si interroga proprio sulla necessità di far studiare l’opera marxista nelle scuole
pubbliche per contrastare l’inarrestabile (quanto deleteria) avanzata della sfrenata società
capitalistica6.

       2. In questo contesto va collocata l’ultima fatica di Domenico Losurdo La lotta di classe.
Una storia politica e filosofica7 che, muovendosi controcorrente rispetto alla vulgata liberista
imperante, si sofferma su uno dei nodi problematici più significativi dell’opus marx-engelsiano: la
teoria della lotta di classe. Si tratta di un ulteriore tassello che va inserirsi nel ventennale percorso
di ricerca del filosofo urbinate che, oltre a stilare un vero e proprio cahier de doléance sui misfatti
dell’Occidente liberal-capitalista, intende intervenire nelle ferite ancora aperte della tradizione
marxista mettendone in evidenza luci ed ombre.
       La domanda fondamentale da cui prende le mosse la riflessione di Losurdo può essere
riassunta nei termini seguenti: cosa intendono Marx ed Engels per lotta di classe? Per rispondere a
questo interrogativo occorre innanzitutto sapersi orientare nei labirinti marx-engelsiani alla ricerca
di quei frammentari luoghi teorici da cui emergono, nonostante l’evidente asistematicità, i principi-
cardine di tale teoria e rileggerli nel milieu in cui sono maturati. Operazione a dir poco ardua che
richiede, da un lato, una rigorosa analisi logico-filologica dei testi marx-engelsiani e, in modo
particolare, del Manifesto e, dall’altro, un’articolata disamina del contesto storico, non
dimenticando che la stessa lotta di classe – come sottolinea giustamente Losurdo  possa essere
usata in maniera strumentale dal potere dominante ed essere quindi inserita nell’ambito di un
progetto complessivo di segno conservatore e/o reazionario, com’è stato efficacemente dimostrato
di recente da Luciano Gallino8, il quale identifica l’offensiva, messa in atto specialmente
nell’ultimo trentennio, dalle classi dominanti per ‘rovesciare’ a proprio vantaggio, come una nuova
lotta di classe atta a scardinare ogni conquista ottenuta dal basso in seguito alle vecchie lotte
sociali. Perciò la seria e dettagliata ricostruzione losurdiana, seppure non sempre condivisibile, può
costituire indubbiamente un utile filo di Arianna per orientarsi nel dedalo marxiano della teoria
della lotta di classe che, agli occhi dell’Autore, si presenta come una teoria generale del conflitto
sociale, che operando una radicale rottura con le ideologie naturalistiche colloca tale conflitto sul
terreno della storia. La conseguenza è che le innumerevoli forme in cui esso si manifesta nella
realtà non possono essere non tenute in debito conto. Del resto, ciò di evince dalla scelta,
nient’affatto casuale, operata da Marx ed Engels di utilizzare non il singolare Klassenkampf ma il
plurale Klassenkämpfe. A partire da questa arguta precisazione, la lotta di classe non rinvia solo ed

5
  http://www.reuters.com/article/2008/10/16/us-financial-germany-capitalism-idUSTRE49F5MX20081016
6
   R. Farahmandpur, Teaching against Consumer Capitalism in the Age of Commercialization and
Corporatization of Public Education, in J.A. Sandlin, P. McLaren (a cura di), Critical Pedagogies of
Consumption, Routledge, London-New York, 2010, pp. 58-66.
7
  D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari, 2013.
8
  L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe. Intervista a cura di Paola Borgna, Laterza, Roma-Bari,
2012.
esclusivamente al conflitto tra la borghesia e il proletariato. Quest’ultimo pertanto non è l’unica
forma possibile della lotta di classe ma una delle possibili forme che essa può assumere
concretamente nelle diverse epoche storiche. Riconoscere la dimensione plurale della lotta di
classe significa almeno ammettere che le tre grandi lotte di classe emancipatrici sono: 1) la lotta per
l’emancipazione del proletariato; 2) la lotta per l’emancipazione delle nazioni oppresse; 3) la lotta
per l’emancipazione della donna.
       Collocarsi sul terreno della comprensione storico-sociale comporta però il rifiuto di ogni
spiegazione che enfatizzi, in modo unilaterale, elementi etnologico-razziali (esemplificati nella nota
opera di Arthur de Gobineau, Saggio sulla diseguaglianza delle razze umane) o psico-patologici (si
pensi alla Psicologia delle folle di Gustave Le Bon) sottese ai paradigmi dominanti nella cultura
borghese della seconda metà dell’Ottocento che, in molti casi, finiscono per intrecciarsi e
sovrapporsi. E proprio contro la reductio agli aspetti biologico-naturalistici degli appartenenti alle
classi subalterne, assimilati a barbari o addirittura a soggetti di rango inferiore e la conseguente
legittimazione dell’istituto della schiavitù, che viene elaborata la teoria della lotta di classe. Ma
quest’ultima, Losurdo non si stanca mai di ripeterlo, va intesa non in maniera grettamente
economicistica (lotta per la redistribuzione) ma anche e soprattutto come lotta contro i processi
disumani e coercitivi che caratterizzano la società capitalistica (lotta per il riconoscimento).
Innumerevoli sono le espressioni (anche forti) a cui ricorrono, molte volte, nei loro scritti i due
filosofi e militanti rivoluzionari per denunciare le condizioni miserrime del proletariato che vanno
ben al di là dell’angusto orizzonte economicistico (come vuole la tradizione liberale) coinvolgendo
anche ogni ostacolo all’affermazione dell’uomo in quanto tale e della sua dignità costantemente
calpestata. Qui i riferimenti filosofici a cui ricorre Marx sono piuttosto evidenti e sono rintracciabili
nel paradigma del riconoscimento di hegeliana memoria e, in particolare, nella dialettica tra servo e
padrone immortalata nelle celebri pagine della Fenomenologia dello spirito. Se per un verso Marx
sembra far tesoro della grande lezione hegeliana che considera l’individuo realmente libero solo
quando riconosce e rispetta l’altro quale individuo libero, per un altro la traspone dal piano
individuale a quello collettivo. La denuncia dell’antiumanesimo che pervade il sistema capitalistico
dunque non può ritenersi episodica o marginale ma rappresenta una sorta di Leitmotiv che
attraversa il pensiero di Marx ed Engels e non può essere affatto confusa con la retorica umanistica.
Ad incorrere in un siffatto errore è stato, com’è noto, Louis Althusser, il quale aveva parlato di una
rottura epistemologica nell’opera marxiana, laddove Losurdo al contrario scorge solo il passaggio a
un ordine diverso del discorso nell’ambito del quale «la condanna morale dei processi di
reificazione insiti nella società borghese e del suo antiumanesimo è espressa in modo più sintetico
ed ellittico»9.

       3. Ma l’elemento che più di ogni altra cosa emerge dal lavoro di Losurdo è la costante
attenzione riservata da Marx ed Engels alla questione nazionale che molti studiosi marxisti sulla
base del noto passaggio tratto dal Manifesto in cui si afferma che «gli operai non hanno patria»,
hanno liquidato in modo piuttosto frettoloso e superficiale. A smentire un siffatto assunto basta
sfogliare le numerose pagine delle loro opere, rinvenibili in ordine sparso, dedicate a tale questione
e, nello specifico, alla lotta del popolo irlandese contro il dominio degli inglesi da un lato e di
quello polacco contro il regime zarista dall’altro. Il significato politico-rivoluzionario di tali lotte,
al di là delle differenze, sta nel fatto che la questione sociale si presenta quasi sempre come
questione nazionale. In particolare, il caso irlandese viene visto da Marx con favore per la sua
potenzialità di divenire una sorta di detonatore in grado di far esplodere la rivoluzione anche
altrove; invece, quello polacco si presenta funzionale a fronteggiare la Russia zarista che all’epoca,
per il suo essere l’ultimo bastione della reazione in Europa, rappresentava la principale minaccia
verso la classe operaia e la democrazia. Non è un caso che quest’episodio rimanga impresso nella
memoria collettiva grazie alla lapidaria affermazione di Lenin: «la Russia era ancora addormentata
mentre la Polonia era in fermento». Allo stesso modo, come non dimenticare il trasporto con cui
Marx segue a più riprese le vicende dell’India definita, non a caso, l’Irlanda dell’Oriente, in cui
milioni di operai sono stati costretti a sacrificare la propria vita non per garantire un futuro migliore
al loro paese quanto piuttosto - per riprendere l’amara constatazione dello stesso Marx - «procurare

9
    D. Losurdo, La lotta di classe, cit., p. 91.
al milione e mezzo di operai, occupati in Inghilterra nella medesima industria, tre anni di prosperità
su dieci»10. Ciò nonostante - Losurdo non manca di rilevarlo - in molti settori del movimento
comunista prevale una sorta di internazionalismo dai tratti utopistici che mira a liquidare come falsi
miti le identità nazionali. Un esempio emblematico di tale forma mentis è l’atteggiamento cinico e
sprezzante dell’anarco-socialista francese Pierre-Joseph Proudhon reo, a detta di Marx ed Engels,
di aver irriso e condannato le aspirazioni nazionali dei popoli oppressi. Già da queste brevi
notazioni si scorge come la loro passione verso l’emancipazione delle nazionalità oppresse sia
inscindibile da quella per l’emancipazione del proletariato. Del resto, la vittoria della Rivoluzione
di Ottobre non si può comprendere - per parafrasare Walter Benjamin - omettendo la rilevanza del
sentimento nazionale che il bolscevismo aveva sviluppato in tutti i russi senza distinzione di sorta e
che Losurdo ritiene essere addirittura una delle cause (rectius: la causa) della disgregazione
dell’impero sovietico. In ultima analisi, eludere la questione nazionale vuol dire rovesciare il
preteso cosmopolitismo o internazionalismo in una sorta di sciovinismo acritico e settario.
        Un ulteriore aspetto che Losurdo sembra avere a cuore e sul quale si sofferma nelle pagine
conclusive consiste nella messa in guardia dalla ricorrente tentazione populista che, al di là delle
sue diverse varianti, si basa sulla credenza mitologica del valore salvifico del popolo. Credenza
oggi ancora più pressante a causa della crisi teorica che investe la dottrina marxista. In realtà, si
tratta di un fenomeno per niente inedito, in quanto la semplicistica lettura binaria del conflitto la si
ritrova, per esempio, già durante la rivoluzione bolscevica, laddove l’emergere di un rozzo
egualitarismo e un altrettanto grossolano ascetismo universale è ciò che sembra accomunare, al di
là delle differenze, non solo il fervente cristiano Pierre Pascal e l’operaio belga Lazarević ma molti
altri seguaci del bolscevismo, tra cui lo stesso Lenin come si desume dal tenore letterale di alcuni
discorsi pronunciati in questo periodo. Come non rammentare allora le taglienti parole di Antonio
Gramsci che, nel noto scritto La Rivoluzione contro il Capitale, si scaglia contro il collettivismo
della miseria e della sofferenza? Essa si ripresenta, in modo ancor più accentuato, negli scritti di
Simone Weil che tende a ridurre la lotta di classe alla riscossa degli umili e dei reietti e che
Losurdo, malgrado l’empatia che la filosofa prova nei confronti del movimento operaio, rigetta
ricorrendo a diversi esempi storici (tra cui la Comune di Parigi e la guerra di secessione americana)
che dimostrano con estrema chiarezza la sua inadeguatezza, vista la diversità dei soggetti che, a
seconda delle situazioni concrete, possono incarnare le istanze rivoluzionarie. Losurdo sembra qui
tenere ben a mente il celebre ammonimento marxiano: «non c’è nulla di più facile che dare
all’ascetismo cristiano una mano di vernice socialista». Da ultimo, una forma più o meno latente di
populismo riemerge sia in alcuni lavori di Slavoj Žižek che non esita a qualificare l’approccio di
Weil, secondo cui solo i mendichi e reietti sono in grado di dire la verità, come «semplice e
toccante», sia negli scritti di Antonio Negri e Michael Hardt, in cui il conflitto tra l’impero e la
moltitudine assume anch’esso un’intonazione di tipo moralistico soprattutto quando si celebra
l’eccellenza morale insita nella figura del ribelle che rimane tale solo fino a quando si tratta di
liberare un popolo oppresso ed umiliato ma viene meno nel momento in cui esso si dismette di tali
panni.

       4. La lettura del volume di Losurdo si rivela dunque utilissima quanto affatto consolatoria: lo
scenario che si presenta davanti ai nostri occhi è, a dir poco, inquietante se si pensa che la storia
occidentale è stata costellata da brutali episodi, da cui emerge in maniera costante la volontà di
ridurre l’altro in schiavitù, sia in forme più o meno palesi, sia in forme più o meno subdole.
Nonostante i facili trionfalismi diffusisi subito dopo la caduta del Muro di Berlino e la conseguente
dissoluzione dell’impero sovietico, nuove forme di colonialismo e di imperialismo da parte
dell’Occidente che, in realtà, ricordano molto da vicino le forme di schiavitù otto-novecentesche si
stanno sempre più affermando. Un’analoga riflessione suscita il riaffiorare, in molte metropoli, di
una figura, a lungo negletta, come quella del working poor appartenente a quella fascia di
lavoratori che, pur percependo un reddito, si avvicinano o si trovano al di sotto della soglia di
povertà. A dispetto di quanto si possa pensare, tale fenomeno non riguarda solo coloro che per
mancanza di qualifiche diventano ‘obsoleti’ rispetto ai lavoratori più qualificati o in linea con
l’avanzamento tecnologico, ma paradossalmente colpisce soprattutto i giovani in possesso di

10
     Ivi, p. 12.
rilevanti curricula costretti in molti casi a ‘nascondere’ i propri titoli, pur di svolgere lavori
sottopagati e privi di prospettive e adeguate garanzie. Tale triste scenario non fa altro che smentire
le rassicuranti litanie sulla fine della lotta di classe nella società novecentesca avanzate dal
sociologo Ralph Dahrendorf, il quale all’inizio degli anni Sessanta la riteneva un’anticaglia del
passato da cui bisognava, prima o poi, liberarsi o dal filosofo Jürgen Habermas che, invece, alcuni
decenni dopo, nel sottolineare, ancora una volta, che il superamento di tale conflitto era addirittura
risalente agli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale con l’avvento dello
Stato sociale, ometteva un particolare non trascurabile, cioè le lotte che avevano contribuito
all’edificazione di quest’ultimo. In realtà, già agli albori dell’Ottocento si era diffusa una corrente
di pensiero che sosteneva, dopo il tramonto dell’Ancien Régime e l’avvento della società borghese,
l’inesorabile tendenza verso il livellamento delle differenze e l’inutilità della lotta di classe. Ben
lungi dall’aver eliminato i conflitti di classe come pensavano John Stuart Mill e Alexis de
Tocqueville, la società borghese – come scrivono Marx ed Engels – in realtà non aveva fatto altro
che riproporli in forme nuove, acuendo, sia a livello nazionale che internazionale, le
diseguaglianze.
        La dura lezione che possiamo trarre da queste tragiche vicende, di cui Losurdo ripercorre sia
i passaggi più conosciuti e studiati, sia quelli dimenticati e condannati all’oblio, in cui le
innumerevoli lotte di classe, sviluppatesi a cavallo tra Otto e Novecento, assumono le sembianze
più disparate (guerre di resistenza o di liberazione nazionale, insurrezioni o rivoluzioni
anticoloniali) sta nel fatto che esse, al di là dei distinguo, sono accomunate dall’essere sempre state
lotte nazionali e vanno condotte non solo sul piano politico ma soprattutto su quello economico.
L’esempio paradigmatico, a cui ricorre più volte l’Autore, è quello della nascita di Haiti, a
proposito della quale vengono rievocate le gesta di Touissant Louverture che capeggiò la
rivoluzione degli schiavi avvenuta alla fine del Settecento a Santo Domingo e la cui eco andò ben
oltre i confini del piccolo paese sud americano, innescando un processo a catena di abolizione della
schiavitù. La grande vittoria politica ottenuta sconfiggendo uno degli eserciti più potenti del mondo
come quello napoleonico è stata tutt’altro che duratura, poiché il sistematico isolamento
diplomatico e la persistente offensiva economica da parte degli USA e degli altri paesi occidentali
hanno provocato il collasso del paese sud americano. Forse per evitare che la storia si ripeta,
Losurdo si concentra sul caso cinese e la sua ascesa nell’attuale scenario geopolitico globale che
segna, per molti versi, il tramonto dell’epoca colombiana contrassegnata da secoli di dominio
incontrastato dell’Occidente e la radicale messa in discussione della divisione internazionale del
lavoro imposta dal capitalismo.
        Lo spettro della lotta di classe che il pensiero mainstream sembrava dunque aver esorcizzato
definitivamente è nuovamente sotto gli occhi di tutti, come evocativamente afferma di recente il
corrispondente da Pechino Michael Schuman sul Time, in un articolo intitolato Marx’s Revenge:
How Class Struggle is Shaping the World11, in cui, anche sulla base dei risultati di un accurato
studio dell'Economic Policy Institute (EPI) di Washington, riconosce il ruolo profetico di Marx
nella teorizzazione dei guasti del sistema capitalista: l’impoverimento crescente delle masse e la
concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi genera conflitti sempre più stridenti tra le classi
sociali. Aver narrato i fasti di questa tormentata storia, attraverso la proposta di un’altra narrazione
alternativa a quella dominante, è l’indubbio merito di Losurdo, che coglie altresì nel segno quando
invita provocatoriamente i magnati del capitale e della finanza a rileggersi, di prima o di seconda
mano, Marx. Ma il suo limite sta nell’aver affrontato solo di sfuggita la questione ecologica che
appare oggi un indispensabile terreno di confronto a sinistra, quantomeno se si vogliano, anche in
questo caso, sviluppare criticamente le intuizioni di Marx ed Engels, riconoscendo accanto alla
prima contraddizione (capitale/lavoro) anche la seconda (capitale/natura). Se tali idee sono ancora
vive e feconde non è forse il caso di considerare le lotte ambientaliste intese lato sensu (ivi
compresa quella per la tutela dei beni comuni) come l’ultima ed inedita frontiera della lotta di
classe?

11
     http://business.time.com/2013/03/25/marxs-revenge-how-class-struggle-is-shaping-the-world/
Riccardo Cavallo svolge attività didattica e di ricerca con la cattedra di Filosofia del Diritto
presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania. La sua tesi
dottorale si è aggiudicata nel 2005 il Premio di filosofia “Viaggio a Siracusa”. Tra le sue
pubblicazioni più rilevanti le monografie: L’antiformalismo nella temperie weimariana
(Giappichelli, 2009) e Le categorie politiche del diritto. Carl Schmitt e le aporie del moderno
(Bonanno, 2007).
Puoi anche leggere