Accogliamoli tutti Luigi Manconi Valentina Brinis Una ragionevole proposta per salvare

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Luigi Manconi
          Valentina Brinis

      Accogliamoli tutti
Una ragionevole proposta per salvare
 l’Italia, gli italiani e gli immigrati

         Prefazione di Cécile Kyenge
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© il Saggiatore S.r.l., Milano 2013
Accogliamoli tutti

A Pap Khouma e a Oreste Pivetta che, nel 1990,
               scrissero Io, venditore di elefanti
       e a Cecilia Milagros Aldazabal Alzamora
Sommario

Prefazione di Cécile Kyenge                                 9

1. Il nome e il cognome dell’altro                         15
   Sassari, 1988                                           15
   Ma ci conviene espellerli?                              21
2. Prove di accoglienza                                    25
   Una concretissima utopia                                25
   Lavoro rubato? Forse ritrovato o inventato              37
   Badanti, infermieri, pizzaioli e altri ancora           44
   E se andassero tutti via? E se non venissero più?       60
3. Non sono tutte rose e fiori                             67
   Tutti delinquenti?                                      68
   Infibulazione, poligamia e altri pasticci etici         75
4. Accogliamoli tutti                                       85
   Voler bene agli immigrati (e ai profughi)?               85
   «Portateli a casa vostra!» Ovvero: accoglierli, ma dove? 94
Conclusione. Una ragionevole proposta                     105

Note                                                      109
Prefazione

Non è un precetto evangelico, non è l’utopia di un estremi-
sta, non è nemmeno una provocazione (come spiegheranno
gli autori): il titolo di questo libro esprime un’eventualità ne-
cessaria e perfino conveniente.
    Perché fare dell’Italia un paese aperto e capace di acco-
gliere? Le ragioni di fondo che individuano Manconi e Bri-
nis, dopo anni di serio impegno e di approfondito studio su
questi temi, sono due: perché non si può fare diversamente e
perché, a certe condizioni, l’arrivo di nuovi cittadini da altre
nazioni può portare sorprendenti benefici al paese.
    L’Italia, come tutti gli stati che hanno raggiunto un cer-
to grado di benessere e rispetto dei diritti, è un luogo che at-
tira persone in fuga da fame, guerre e dittature; che richiama
individui che aspirano a dare una svolta positiva alla loro vi-
ta e intendono esercitare la loro libertà di movimento cam-
biando orizzonte.
    Un fenomeno sociale come le migrazioni – che coinvolge
elevati numeri di uomini e donne, che si dipana in un ampis-
simo arco temporale, che muove da motivazioni profonde,
urgenti bisogni e potenti desideri – non può dunque essere
fermato se non per una quota irrisoria.
    Tutti coloro che hanno provato ad attuare il proibizioni-
10  Accogliamoli tutti

smo delle migrazioni ne sono usciti praticamente sconfitti.
Inoltre, tali politiche hanno imposto costi elevatissimi in ter-
mini di vite umane: ricordiamo le decine di migliaia di morti
alle frontiere d’Europa. Ma non solo: pattugliare, recludere,
espellere e respingere comporta un’imponente spesa pubbli-
ca, tale che, stando ai numeri, il gioco non sembra valere la
candela.
     Tutto ciò non significa che le migrazioni vadano subite
passivamente: gli autori sono lucidi da questo punto di vista.
L’arrivo consistente di persone provenienti da diversi conte-
sti geografici e culturali, con storie di vita spesso travagliate
ed esposte a situazioni di marginalità, apre una serie di diffi-
coltà e dilemmi di non semplice risoluzione.
     L’immigrazione dunque non può essere semplicemente
osteggiata, né deve essere banalmente subita, né ricevuta con
ingenuo e paternalistico sentimentalismo. L’immigrazione va
governata affinché divenga la risorsa che può e dovrà essere.
     E qui gli autori esprimono la loro critica severa alla poli-
tica italiana: l’immigrazione – sostengono – non è stata suffi-
cientemente governata, non è stata resa progetto. Io leggo il
loro severo giudizio come un invito a realizzare politiche lun-
gimiranti ed efficaci che includano vecchi e nuovi cittadini in
un’idea di paese innovativa e al contempo radicata nei valo-
ri che l’hanno fondato.
     Un progetto d’Italia che prenda sul serio l’uguaglianza dei
diritti, che sappia valorizzare il capitale umano nelle sue speci-
ficità, che sia in grado di far fiorire i territori grazie all’appor-
to che ciascuno è in grado di offrire indipendentemente dalla
propria genealogia, che sappia promuovere un rinnovato pat-
to sociale, in cui il conflitto si esercita attraverso i mezzi della
democrazia e la solidarietà è frutto di un’operosa condivisione.
     Ma come può accadere che tutto questo si realizzi? Com’è
possibile che tra i poveri della terra che entrano nel Belpae-
Prefazione  11

se e i poveri italiani non si scateni una guerra? È ammissibile
che in tempo di crisi si accolgano nuovi venuti, si distribui-
scano servizi sociali e si accrescano i diritti di tutti, pure dei
migranti?
     L’interessante tesi che questo libro promuove, avvalorata
da diversi esempi, è che tutto ciò è possibile, perché i diritti
sono tra loro indivisibili e addirittura sinergici.
     Dati incontrovertibili dimostrano che l’uscita dalla condi-
zione di irregolarità (quindi un avanzamento in termini di di-
ritti e opportunità) diminuisce drasticamente il tasso di reati
commessi, con un evidente vantaggio per l’intera comunità.
Si può quindi affermare che, ai fini della sicurezza, fanno più
i diritti della repressione.
     Inoltre, ampliare le maglie della regolarizzazione dei mi-
granti significa emersione del lavoro nero e dunque minore
evasione fiscale, con beneficio delle casse pubbliche. In alcu-
ni comuni della Calabria, come Riace, Caulonia e Acquafor-
mosa, poi, si è scoperto che l’accoglienza dei rifugiati poteva
essere la risposta giusta per far rinascere e crescere anche
economicamente un paese invecchiato e spopolato dall’emi-
grazione.
     Questi e numerosi altri esempi ben argomentati nel pre-
sente volume dimostrano che, in presenza di un progetto
politico serio, l’immigrazione può divenire davvero un’occa-
sione di ripresa e «risorgimento».
     Ma affinché ciò avvenga occorre vincere l’idea che la co-
perta sia troppo corta. La tela va ancora tessuta e, se lo fac-
ciamo insieme, la coperta potrà diventare più lunga di quella
che da soli avremmo mai potuto sperare di ottenere.

                                                 Cécile Kyenge
                                    Ministro per l’Integrazione
7 agosto 2013, Agenzia Adnkronos. Sono state trovate, ieri po-
meriggio a Milano, nude, con ecchimosi e segni di costrizio-
ne a polsi e caviglie. Si tratta di tre giovani ragazze cinesi che
sarebbero riuscite a scappare da un presunto aguzzino che le
avrebbe segregate in casa, ma non si sa ancora per quanto.

7 agosto 2013, Unioncamere. Quasi 18 000 le assunzioni non
stagionali in meno rispetto al 2012. Cali più forti nelle micro
e medio-grandi imprese, entrate quasi dimezzate al Sud. La
contrazione maggiore del fabbisogno di lavoratori immigra-
ti interessa più il comparto dei servizi, dove quest’anno so-
no previste 13 430 assunzioni in meno rispetto al 2012 (-31,7
per cento in termini relativi), e meno quello dell’industria,
che complessivamente riduce di 4180 unità il suo fabbisogno
(-22,9 per cento sull’anno precedente).

Mentre scriviamo questo libretto, le due notizie qui sopra
riportate sembrano voler mettere in discussione alla radice
quanto intendiamo argomentare. La prima evoca scenari in-
quietanti non solo di mancata integrazione, ma forse anche di
una sorta di vita criminale parallela, che si sviluppa nelle no-
stre città a seguito di alcuni effetti incontrollabili dei fenome-
14  Accogliamoli tutti

ni migratori. La seconda notizia evidenzia l’instabilità di quei
processi, da tempo documentati, di positivo inserimento del
lavoro straniero all’interno del nostro sistema produttivo. In
realtà, a nostro avviso, quei due dispacci di agenzia racconta-
no solo di quanta fatica comporti la dinamica delle relazioni
interetniche nelle fasi di più acuta crisi economica e sociale.
Con questo testo abbiamo voluto provare a completare il rac-
conto, integrandolo con altre informazioni e altre esperienze,
quadri inediti e prospettive ancora sfocate, che pure comin-
ciano a delinearsi. Abbiamo scelto di farlo attraverso un pam-
phlet perché la discussione pubblica italiana in materia di
immigrazione sembra oscillare un po’ affannosamente tra i
toni accaldati della polemica politica e quelli pacati dell’ana-
lisi scientifica. In tale contesto, pensiamo che possa risulta-
re utile un intervento di non troppe pagine che, ricorrendo
ad alcuni dati economici e sociali o limitandosi a evocarli, si
prenda la responsabilità di formulare una proposta radicale.
Eppure – riteniamo – plausibile e attendibile. In altre parole,
scandalosa in apparenza, ragionevolissima nei fatti.

                                                          L.M.
                                                          V.B.

                                            30 settembre 2013
1. Il nome e il cognome dell’altro

Sassari, 1988
Tutto ebbe inizio nell’autunno del 1988, a Sassari. Almeno
per noi, ebbe inizio allora. Ci trovavamo da Benito, il forno
della fainé (la farinata di ceci che è, di per sé, una traccia si-
gnificativa delle nostre migrazioni interne) di via Sant’Apol-
linare, nel quartiere che porta lo stesso nome. Era il tardo
pomeriggio e ci si era seduti da poco a un tavolino, quan-
do un uomo, che aveva evidente familiarità con il locale e i
suoi frequentatori, si rivolse al titolare. Il volume della voce
era quello consueto delle ordinarie conversazioni familiari e,
in generale, della quotidianità: era, cioè, elevatissimo. Quella
voce domandò: «Hai visto Carboni?». La risposta: «Ancora
no, ma verrà». Non facemmo particolare caso a quel dialo-
go, e continuammo a mangiare le nostre fette di fainé. Dopo
qualche decina di minuti, sentimmo lo stesso Benito rivol-
gersi a qualcuno: «Buonasera Carboni». Ci voltammo senza
particolare curiosità, ma non potemmo non sorprenderci nel
realizzare che «Carboni» era un africano di altissima statura
che, sorridente, rispondeva al saluto. La mano destra strin-
geva un enorme borsone celeste di tela plastificata (polipro-
pilene?). La sua presenza e la sua attività non costituivano,
16  Accogliamoli tutti

nemmeno allora, un evento così raro: già al tempo in Italia, e
anche nell’isola, i venditori ambulanti erano numerosi, e mol-
ti di essi erano senegalesi.
    Palesemente Carboni era uno di loro, e quel borsone non
nascondeva alcun mistero.
    Rivolgendosi al nuovo arrivato, Benito gli disse che qual-
cuno lo aveva cercato. E così Carboni si sedette su una panca,
chiese una Ichnusa (birra sarda considerata di notevole pre-
gio) e si mise in attesa. A questo punto, incuriositi, notammo
che Benito segnava su un suo quadernetto il costo della consu-
mazione (si trattava dunque di un cliente abituale) e seguim-
mo la scena successiva, quando Carboni venne raggiunto dalla
persona che prima lo aveva cercato. Poche parole e, in cambio
di non sappiamo quale cifra, ci fu un passaggio di bombolet-
te di butano per accendino. Poi, a breve distanza l’uno dall’al-
tro, i due si allontanarono. Quando ci recammo alla cassa, chi
tra noi aveva più confidenza con Benito chiese come mai il
venditore ambulante avesse un nome «così sardo». La rispo-
sta giunse con sorprendente semplicità: piuttosto che impara-
re nomi stranieri «strani» e, soprattutto, difficili da ricordare
e pronunciare, si preferiva ricorrere a cognomi locali molto
diffusi – Carboni, dunque, o Nieddu (nero in lingua sarda) –
che richiamavano la peculiarità fisica di quegli stranieri (il co-
lore della pelle, appunto). La nostra ipersensibilità, propria di
persone politicamente correttissime, ci fece registrare un lieve
sbandamento (troppo anonima, generica e omologante appa-
riva quella denominazione), ma la tranquillità con cui veniva
accolta dal diretto interessato ci rassicurò un po’. D’altra par-
te, Carboni o Nieddu erano sempre meglio, infinitamente me-
glio, di quel vu’ cumprà all’epoca dominante.
    È probabile che gli oltre due decenni passati abbiano
fatto dimenticare quanto questa formula fosse allora diffu-
sa, penetrata fino in fondo nel linguaggio pubblico e indiffe-
1. Il nome e il cognome dell’altro  17

rentemente accolta fino a perdere parte della sua originaria
connotazione stigmatizzante, e a diventare una sorta di neo-
logismo destinato a indicare un fenomeno prima sconosciuto.
Eppure, rimaneva chiaramente percepibile, in quella defini-
zione, un senso denigratorio o, perlomeno, di netta presa di
distanza: tanto più perché, come ogni formula generica e
omologante, enfatizzava il carattere anonimo e indistinto di
coloro ai quali veniva attribuita. Per giunta, quella medesima
definizione conobbe, nella trascrizione giornalistica, una serie
di slittamenti, che intervenivano a meglio precisare, ma sem-
pre in termini squalificanti, i destinatari. I lavavetri diventa-
rono vu’ lavà, preparando la deriva ostile che portò all’uso di
altre due specificazioni criminologiche: vu’ rubà e, infine, lo
scelleratissimo vu’ stuprà. Con ciò, il processo di stigmatizza-
zione linguistica poté dirsi concluso, e nel peggiore dei modi.
Da un dato di partenza problematico – la povertà del vocabo-
lario dei residenti nel definire i nuovi soggetti – si arriva, assai
rapidamente, a una serie di manifestazioni di quella «cultu-
ra del disgusto» di cui scriverà Martha Nussbaum. Rispetto
a tutto ciò, l’ingenua e volenterosa esercitazione di conviven-
za tentata dagli abitanti di quel quartiere (e forse della città)
rappresentava evidentemente un tentativo goffo e approssi-
mativo, e tuttavia meritevole di attenzione. Certo, quei ven-
ditori ambulanti di origine africana venivano chiamati con un
cognome non loro – «imposto», in qualche modo – e comun-
que generico e generalizzante; un cognome riconoscibile, pe-
rò, dalla comunità locale, che consentiva un’approssimativa
identificazione e agevolava una qualche integrazione. D’altra
parte, ciò sembrava incentivare un altro fattore di «normaliz-
zazione» di quella nuova presenza: i Nieddu e i Carboni for-
nivano un servizio, modesto, agevolmente accoglibile nelle
pieghe della vita quotidiana e della sua economia, e in ogni
caso assai utile.
18  Accogliamoli tutti

     Il piccolo commercio ambulante costituisce un’attività
sempre presente nella vita urbana, ma soggetta alla periodi-
cità di cicli di maggiore o minore vivacità, legati a fenome-
ni come i flussi migratori interni (in specie provenienti dalle
zone rurali) e allo sviluppo o alla crisi di particolari settori
economici. Quando, nella seconda metà degli anni ottanta,
cresce il numero di venditori ambulanti stranieri (in partico-
lare africani), quel tipo di commercio è ormai quasi esauri-
to, ed è limitato comunque ad alcune aree territoriali (città
di medie e piccole dimensioni) e zone periferiche, oltre che
a luoghi circoscritti, come quelli destinati ai mercati all’aper-
to. I venditori ambulanti italiani sono notevolmente diminu-
iti di numero e hanno acquisito, allo stesso tempo, una loro
«residenzialità». In altre parole, sono infinitamente meno mo-
bili (meno «ambulanti») di quanto fossero in passato. Quel-
la stessa mobilità perduta sembra essersi trasferita a persone
«più giovani» sotto tutti i punti di vista. Questo del muoversi
e della disponibilità alla fatica che comporta è un dato impor-
tante: basti pensare che, tra gli italiani, solo i venditori di coc-
co sembrano disposti a quell’onerosissimo esercizio fisico che
è l’ambulantato di spiaggia (l’infinito percorrere i bagnasciu-
ga estivi alla ricerca di possibili acquirenti), mentre il nume-
ro di venditori ambulanti stranieri cresce in misura rilevante.
In effetti, la disponibilità al sacrificio, a guadagni assai mode-
sti e, soprattutto, a un moto pressoché perpetuo, costituisce
l’elemento essenziale di un’attività che – salvo rare eccezioni
– solo uomini giovani e dotati possono svolgere.
     A ben guardare, nonostante l’ostilità dei titolari degli sta-
bilimenti e la frequente opera di repressione da parte della
polizia municipale, la comparsa sulle spiagge di tutto il ter-
ritorio nazionale di quella nuova figura di commerciante ha
ottenuto sin dal primo momento un grande successo. Anche
perché questi venditori sembrano conoscere in maniera ap-
1. Il nome e il cognome dell’altro  19

profondita – si potrebbe dire «quasi naturale» – la tecnica
della vendita porta a porta (in questo caso, da ombrellone
a ombrellone). È, certamente, una tecnica fatta di pressio-
ne e insistenza che possono diventare anche moleste e assil-
lanti, fino a determinare irritazione o addirittura ostilità, ma
che – nella gran parte dei casi – si rivela invece assai effica-
ce. Una tecnica che si affida a un’attitudine all’immediata fa-
miliarità e a una negoziazione praticamente infinita, e pure a
una certa disponibilità a scendere a patti, a trovare un com-
promesso, ad accordarsi. Un metodo «da bazar» o «da suk»
che, dapprima guardato con sospetto, diviene presto con-
sueto e perfino divertente. Giorno dopo giorno, nel tempo
circoscritto di una vacanza al mare, si crea una particolare
forma di rapporto di fiducia tra venditore e acquirente, che
induce a qualche confidenza e riduce in maniera significa-
tiva un certo numero di pregiudizi e stereotipi. Accade co-
sì che, con frequenza stagionale, si abbia notizia di episodi
che vedono i frequentatori di una o di un’altra spiaggia «in-
sorgere» in difesa degli ambulanti che la polizia municipale
vorrebbe allontanare.
    In quel rapporto tra venditori e bagnanti, indubbiamente
assai superficiale e occasionale, pesa assai poco la consapevo-
lezza di come i primi siano alle dipendenze di strutture illega-
li che ne sfruttano il lavoro e la fatica, ne regolano i tempi e
ne controllano i movimenti, imponendo spazi di mercato li-
mitatissimi ed esili margini di guadagno e ricavandone, infine,
ingenti profitti. Si pensa, piuttosto, a un’opportunità di so-
pravvivenza che, in ogni caso, va accettata e, nei confini delle
disponibilità di ciascuno, alimentata. Anche perché quell’at-
tività lavorativa così faticosa e palesemente poco remunerati-
va – ecco il secondo e ancora più importante fattore che crea
empatia – non entra in concorrenza (o finora non è entrata in
concorrenza) con il lavoro svolto da italiani.
20  Accogliamoli tutti

    Questo aspetto, avvertito in modo più o meno consapevo-
le, è una componente essenziale della mancata ostilità tra re-
sidenti e nuovi arrivati: tanto più se il commercio ambulante,
in particolare quello di spiaggia, resta tutt’ora, dopo un quar-
to di secolo, interamente presidiato da stranieri. Qui la con-
correnza non esiste, o comunque non si manifesta, e per una
singolare e assai misteriosa legge di mercato si realizza una
sorta di spontanea diversificazione merceologica, che conti-
nua ad assegnare in prevalenza a italiani la vendita del cocco
e a stranieri quella di tutte le altre merci. La ragione è da ri-
cercarsi probabilmente nel controllo monopolistico del pic-
colo settore delle noci di cocco da parte di poche famiglie e
pochi distributori, che amministrano una rete di venditori le-
gata alle realtà territoriali.
    Ciò produce uno sviluppo non competitivo dell’attività
commerciale e disinnesca potenziali conflitti. In altre paro-
le, è come se alcune dinamiche di mercato si articolassero
secondo uno schema duale, che prevede una concentrazio-
ne per nazionalità in distinti comparti lavorativi. E questo,
naturalmente, non vale solo per la differenziazione di attivi-
tà tra «venditori di elefanti» e «venditori di cocco», ma an-
che per settori più robusti e a maggior tasso di occupazione
del nostro sistema economico. Lo vedremo più avanti. Forse,
però, va presa in considerazione anche un’altra ipotesi: che
la distribuzione di compiti tra italiani venditori di alimenti
e africani venditori di oggetti si debba anche a una sottile e
non dichiarata resistenza da parte dei bagnanti ad acquista-
re e consumare cibo manipolato da «mani nere». Un atteg-
giamento comunque contraddetto dalla crescente presenza
di stranieri nel settore della ristorazione, ben rappresentata
dal fenomeno, ormai radicato nella percezione comune, del
«pizzaiolo egiziano» (oltre che dalla massiccia diffusione dei
«kebabbari»).
1. Il nome e il cognome dell’altro  21

    Al di là delle ragioni non facilmente decifrabili di tali di-
namiche, ciò che qui ci preme sottolineare è come quel da-
to di «familiarità» tra bagnanti e ambulanti di spiaggia possa
aiutare a comprendere diversi fenomeni di portata assai più
ampia.

Ma ci conviene espellerli?
Questo libretto ha un titolo, Accogliamoli tutti, che non in-
tende in alcun modo suonare provocatorio. In genere si pro-
clama «farò una provocazione» proprio quando si sta per
dire qualcosa di infinitamente banale o comunque prevedi-
bile, o quando si vuole anticipatamente disinnescare il pre-
sunto scandalo di ciò che si sta per affermare.
     Qui, nulla del genere. La nostra è una dichiarazione poli-
tica, che – allo stesso tempo – allude alla sostanza di un pos-
sibile programma economico, sociale, culturale e legislativo.
Qui si vuole provare come l’accoglienza sia possibile e utile.
Comporta, è ovvio, costi anche molto rilevanti, e fatiche assai
onerose, ma resta un progetto plausibile e realizzabile. Tanto
più che il suo contrario – la non accoglienza – è certamente
più difficile (impossibile) e inutile (dannoso) da perseguire.
     Questo vale anche e soprattutto per i richiedenti asilo,
protetti da precisi obblighi internazionali sottoscritti dall’Ita-
lia. Nei confronti di questi ultimi, così come in genere di tutti
i migranti, devono valere, dunque, considerazioni e politiche
concrete, che appartengano a un campo, anche linguistico,
alquanto differente da quello definito dai buoni sentimenti e
da virtù come la solidarietà.
     Solidarietà è parola che non ci piace affatto. E per più di
una ragione. Intanto, la questione dell’immigrazione ha dato
luogo a una lettura sempre oscillante tra ideologia e sentimento.
22  Accogliamoli tutti

    La versione virtuosa di questa interpretazione, nelle sue
proiezioni sul sistema (la società multietnica, multicultura-
le, multireligiosa…), venne intesa da una parte tutt’altro che
trascurabile della sinistra e del cattolicesimo sociale come un
orizzonte ideale, un’aspettativa di emancipazione e di rinno-
vamento, un modello di società desiderabile. Per alcuni, e per
certi settori della sinistra, una sorta di surrogato del sociali-
smo. Il che non solo ha portato, com’era inevitabile, a sotto-
valutare, talvolta addirittura irresponsabilmente, le fatiche e
le contraddizioni che il fenomeno migratorio comporta (spe-
cie per gli strati più deboli della società, quelli che vivono un
rapporto di maggior «prossimità» con gli stranieri); ma ha
indotto anche a enfatizzare il contrasto tra un’interpretazio-
ne tutta positiva dell’immigrazione e una tutta negativa. Ciò
ha quasi del tutto relegato il discorso pubblico sull’immigra-
zione a una dimensione binaria: razzismo/antirazzismo. Ne
deriva un atteggiamento tutto solidaristico a opera di quan-
ti stanno sul primo versante (antirazzismo), con il rischio,
presto e spesso tradottosi in parole e atti conseguenti, di un
approccio interamente fondato sui «buoni sentimenti». Gli
immigrati come «fratelli» o come «compagni», il rapporto
con loro affidato a una mera scelta volontaristica e altruisti-
ca. Praticamente un disastro.1
    E ciò aiuta a comprendere anche perché il linguaggio e
la gestualità «antirazzisti» si sono rivelati poco efficaci e am-
piamente usurati. Per capirci: l’antirazzismo è una sorta di
premessa morale, culturale e politica, essenziale nella defi-
nizione dell’identità di un democratico contemporaneo. Ma
costituisce, appunto, un presupposto, più che un program-
ma d’azione o una strategia generale. E come programma e
strategia rischia, se non applicato in maniera intelligente e
sensibile, di limitarsi a petizioni di principio e dichiarazio-
ni d’intenti. Programmi astrattamente antirazzisti, quando
1. Il nome e il cognome dell’altro  23

formulati in termini ideologici, possono addirittura risulta-
re deleteri, se percepiti da coloro cui sarebbero destinati (e
che in genere non possono «permetterseli») come pretesa di
solidarietà e come ammonimento etico. Insomma, l’antiraz-
zismo è una precondizione, non una bandiera né una pro-
spettiva politico-ideologica.
    A nostro avviso, la questione dell’immigrazione va affron-
tata in modo del tutto opposto: sul piano dei diritti, delle ga-
ranzie e del sistema di cittadinanza, oltre che dell’interesse
economico-sociale, razionalmente inteso. È in particolare di
quest’ultimo che parleremo nelle pagine seguenti, a partire
dalla constatazione che l’acuto squilibrio demografico tra l’I-
talia e gli altri paesi europei, da un lato, e le popolazioni ri-
vierasche e dell’intera Africa, dall’altro, costituisce il primo
e ineludibile fondamento di ogni riflessione sull’immigrazio-
ne nel mondo contemporaneo. In altre parole, «accoglierli
tutti» – se intendiamo l’espressione nel suo significato di in-
dirizzo e di programma – è relativamente più facile che re-
spingerli tutti, ma anche più agevole e utile che selezionarli.
Questo perché la ragione prima e principale dei movimen-
ti migratori risiede negli squilibri economici e sociali a livel-
lo internazionale e nello scarto tra i tassi di natalità dei paesi
sviluppati e quello dei paesi non sviluppati. E la conseguen-
te pressione sui nostri confini è infinitamente più forte delle
fragili barriere, comprese quelle goffamente militari o pesan-
temente repressive, che si decida di allestire. E soprattutto,
accoglierli tutti è, sotto ogni profilo, più conveniente che re-
spingerli. Più vantaggioso dal punto di vista economico. Più
rassicurante da quello sociale. Più efficace sul piano dell’in-
tegrazione e della convivenza.
    Ma, prima di fare riferimento allo scenario globale, vale
la pena di partire da ciò che, non percepito o ignorato, acca-
de in mezzo a noi.
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