Marco D'Amore: Girare Gomorra tra il fallimento urbanistico e la voglia di cambiare

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Marco D’Amore: Girare Gomorra
tra il fallimento urbanistico
e la voglia di cambiare
Intervistiamo Marco D’Amore in occasione dell’Asti Film
Festival, evento curato dal Direttore Artistico Riccardo
Costa, il quale ha visto l’interprete casertano premiato come
migliore attore per il film “Uomo in mare” nella sezione “Asti
Short”. Attore simbolo della fiction televisiva “Gomorra – La
serie”, D’Amore interpreta il complesso personaggio di Ciro Di
Marzio, esponente di spicco della criminalità organizzata del
capoluogo campano. Ritenuta dal New York Times la terza
migliore serie televisiva del 2016 a livello internazionale,
“Gomorra – La serie” racconta con rigore la realtà del
fenomeno criminoso attraverso persone e luoghi in cui questa
si compie, ispirandosi all’omonimo libro di Roberto Saviano.
Ne emerge un dialogo inteso, in cui l’attore si presta ad uno
stimolante cross-over tra cinema e architettura, con analisi
lucide e prive di retorica.

Nella prima serie, con il cast avete
girato per oltre 9 mesi nell’area Nord di
Napoli, tra i quartieri di Scampia,
Poggioreale, Ponticelli ecc. Lei che è
nato a Caserta, ne conosce i flussi e i
luoghi con gli occhi di Marco e di “Ciro
Di Marzio”. Cosa cambia nei 2 modi di
vedere?
Cambiano profondamente. Quei grandi quartieri, nati all’inizio
degli anni ’80, erano visti come un modo di rilanciare la
periferia, e invece, a me, sono risultati essere degli
esperimenti fallimentari perché sono diventati dei dormitori,
lontani non solo per questioni geografiche, ma anche per
questioni culturali, dai centri. Abbandonati. Quindi, è
evidente che, per un personaggio come Ciro Di Marzio, quei
luoghi fanno comodo, perché sono luoghi in cui un certo tipo
di popolazione non s’addentra. Sono luoghi lasciati
completamente all’abbandono dalle istituzioni. Sono luoghi
dove si fa davvero fatica ad intraprendere un’attività
culturale, che è nelle mani di pochi valorosi che si muovono
in un ambiente difficilissimo. Invece, per quanto riguarda me,
penso sia uno degli specchi della nostra realtà, in cui non si
fa mai coincidere, alla necessità di vivere, la bellezza. Io
penso che, in quei quartieri, non ci sia nulla di bello e
quando si cresce in un luogo che non ti racconta la bellezza,
neanche attraverso le strutture che ti circondano, è molto
difficile. Puoi intuirla e cercare di capirla altrove e,
forse, anche dentro te stesso.

La serie racconta dell’intreccio di vite,
di non luoghi e di spazi abbandonati,
come capannoni, aree industriali dismesse
ed edifici sorti post-terremoto come i
Bipiani a Ponticelli. Posti in cui sembra
reale il rischio di un deterioramento
irreparabile dei canoni di bellezza. La
precarietà può considerarsi al pari di
un’alterazione genetica, premessa ed
esito del processo criminale?
Per me, il concetto di precarietà molto spesso non è declinato
in negativo. Sarà perché io sono nato facendo un mestiere che,
di per sé, è precario. Questo, in me, ha sempre acuito la
curiosità e la necessità di mettermi al passo anche con le
difficoltà. E’ evidente che, quando per precarietà si intende
un luogo che non ha nulla di bello intorno a te, in cui non ci
sono strutture adibite anche allo svago, che possono essere un
parco, un luogo dove i bambini possono ricrearsi
tranquillamente, allora quella è una precarietà che ha a che
fare direttamente con la vita delle persone. E che, secondo
me, influenza anche il carattere e le scelte della gente.
Perché, ripeto, vivere in un luogo che non ha nessuno sbocco
di bellezza ti imbruttisce ed è quella la cosa che fa più
male: vedere quanto le persone si siano conformate al luogo
che li circonda. E quindi, così come ci sono vetri rotti,
palazzi disabitati, scale distrutte e pareti incendiate, allo
stesso modo le persone che abitano quei luoghi si fanno
“brutte”, si incattiviscono, quasi come se il luogo fosse un
po’ lo specchio dell’anima della gente che lo abita.

“Gomorra – La serie” racconta di una
militarizzazione del territorio, vera
terra di conquista. La camorra trasforma
gli edifici impiegando difese e barriere
passive a tutela dei propri affari
criminali, come nelle piazze di spaccio.
Come avete studiato nella serie questo
fenomeno urbano, che ragiona per cluster,
al fine di comprenderlo e descriverlo a
chi guarda?
Innanzitutto, c’è da dire che la nostra serie parte da quel
grande romanzo di indagine che è “Gomorra”, quindi c’è una
supervisione di Roberto Saviano a tutto quello che viene
scritto. I nostri sceneggiatori lavorano fianco a fianco con
cariche dello Stato, con poliziotti, quindi si nutrono di
racconti che, ahimè, fanno parte della storia del nostro
Paese. E poi c’è, evidentemente, una grande relazione con la
realtà nella quale noi andiamo a girare, che gode anche delle
confidenze di persone che quella realtà la subiscono e che si
trovano impossibilitate a combatterla. Però, secondo me, è
molto interessante entrare in quei meccanismi e raccontare,
anche attraverso le dinamiche più spicciole, quanto
un’organizzazione      criminale   riesca    addirittura    ad
impossessarsi di interi quartieri e decidere la vita
quotidiana delle persone: quando si può entrare o uscire da
casa, quando si può andare a fare la spesa, dove e se si può
parcheggiare un’automobile. Perché, evidentemente, quelli sono
luoghi che servono ad altro e non all’amministrazione della
vita di tutti i giorni.

Roberto Saviano afferma che “quel cemento
(a Scampia, ndr) è una scelta politica, è
una descrizione geopolitica di un Paese”,
parlando de Le Vele come di un “simbolo
marcio del delirio architettonico”.
Quella del cemento, però, sembra essere
il grande tema della periferia urbana.
Lei che idea si è fatto di questi
fallimenti urbanistici e di come questi
influiscano nella quotidianità e nel modo
di pensare?
Io sono assolutamente d’accordo con Roberto. Tra l’altro, ho
sviluppato una riflessione molto negativa rispetto alla
necessità, e anche alla volontà, che forse lo Stato abbia, di
tenere lontani dai centri una certa fetta di popolazione, di
popolo, che invece, secondo me, dovrebbe godere della
possibilità di mischiarsi a qualsiasi altro ceto. Io ho avuto
la fortuna, con il teatro e con la compagnia di Toni Servillo,
di girare il mondo e sono stato più volte in un teatro che si
chiama MC3, a Bobigny, che è una banlieue. Ho visto i Parigini
fare un’ora di metropolitana per vedere il teatro
internazionale. E intorno a quel teatro, intorno a
quell’esperienza artistica, è rinata una banlieue. Sono nati
dei centri culturali, c’è un’educazione rinnovata rispetto
alle nuove generazioni. Ed è quello che dovrebbe accadere
ovunque nel nostro Paese, dove ci sono periferie assolutamente
dimenticate.

© Sky

Secondo la cultura organizzativa, è
l’interazione    con   il   contesto   ad
influenzare comportamento e personalità
dell’individuo. Sembra fatalismo rispetto
alle storie di resistenza civile e
riscatto che giungono da quartieri come
Scampia. Tra realtà e contraddizione,
qual è secondo lei il futuro per questi
luoghi dove tutto sembra giocarsi sulla
sottile linea della soglia?
Secondo me, una soluzione è smetterla di dare speranze.
Perché, secondo me, le speranze sono legate a un mondo che è
possibile ci sia oltre la vita, ma di cui non siamo certi. Io
credo che ci sia la necessità di dare, alle persone,
possibilità. Innanzitutto, possibilità ad un certo tipo di
popolazione, che vive confinata, di scoprire che c’è un mondo
oltre quelle Vele distrutte , oltre a quei quartieri
abbandonati. C’è un mondo incredibile che aspetta anche loro.
E queste possibilità possono essere restituite solo attraverso
l’istruzione. Quindi, a mio parere, lo Stato dovrebbe fare un
grande passo di responsabilità investendo nella cultura,
investendo nell’istruzione e cercando di restituire a quei
luoghi, che poi hanno una loro incredibile bellezza, anche
malsana ma ce l’hanno, una dignità, così come alle persone che
lì vi abitano.

Da sinistra, Riccardo Costa, direttore artistico Asti Film Festival, Marco D’Amore e
Gianpietro Preziosa – courtesy of Nunzio Grasso

Approfondisci: L’architettura balsamo per le ferite dei
luoghi: intervista a Marco Ermentini

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