Marcello Tanca Quando la musica invade gli spazi urbani: il Festival Piano City di Milano, un nuovo paradigma di so- cialità?1

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Marcello Tanca Quando la musica invade gli spazi urbani: il Festival Piano City di Milano, un nuovo paradigma di so- cialità?1
Marcello Tanca
Quando la musica invade gli spazi urbani:
il Festival Piano City di Milano, un nuovo paradigma di so-
cialità? 1

Il turismo come un processo di territorializzazione eterocentrato?
    Usiamo comunemente la parola turismo al singolare ma sarebbe
forse più opportuno declinarla al plurale e parlare di “turismi”: la lista
delle forme di esperienza a cui possiamo accedere si allunga di anno
in anno sempre di più e oggi comprende pratiche come il turismo den-
tale, il turismo degli squali, il turismo LGBT, il turismo dei bassifondi,
il turismo delle feste di addio al celibato, il turismo fallimentare, il
turismo matrimoniale… Parallelamente all’invenzione di nuove tipo-
logie, scopriamo anche implicazioni e piani che si aggiungono a quelli
esistenti, intersecandosi tra loro: quello della cultura imprenditoriale e
del management, delle teorie sociali, delle tecnologie dell’informa-
zione, del patrimonio culturale, dei cambiamenti climatici, delle poli-
tiche pubbliche, dei conflitti culturali, dell’identità sessuale, dell’im-
maginario, della sostenibilità, della pianificazione, della religione,
dell’ospitalità. Tutto questo sembra dare ragione a Gui Lohmann e
Alexandre Panosso Netto quando osservano che: «Turismo significa
molto più di quanto possa essere espresso da una semplice parola»
(Lohmann, Panosso Netto, 2017, p. 26); o, come sostengono Claudio
Minca e Tim Oakes, il turismo è «una forza costitutiva nel mondo so-
ciale», «capace di rimettere in discussione la nostra comprensione
della vita contemporanea» (Minca, Oakes, 2014, pagg. 298 e 301). In
quanto fenomeno planetario, esso sembra essere senza confini e inglo-
bare prospettive, percezioni e interpretazioni, attività e relazioni

1
 Il testo qui presentato unicamente a fini didattici è la versione italiana dell’articolo
When Music Invades the Urban Spaces: the Piano City Festival in Milan, a New
Paradigm of Sociability? comparso sul n. 19 del 2019 della rivista «Almatourism».

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eterogenee e infinite, in modo che possiamo davvero dire che nulla di
umano gli è estraneo (Cunha, 2014, p. 100).
    In questa proliferazione c’è un elemento condiviso e ricorrente che
accomuna le varie definizioni e i risvolti che sono oggetto di indagine.
Possiamo esprimere questo elemento nella maniera più semplice pos-
sibile dicendo che nessuno è turista a casa propria, ad es. nella pro-
pria città – sarebbe un controsenso. Al di là di tutto, l’esperienza turi-
stica ha un nocciolo duro: un nucleo irrinunciabile nella dislocazione,
ossia nel porre provvisoriamente una distanza, un distacco fisico e
mentale dal mondo della vita quotidiana. Così il viaggio di per sé non
è già (per il solo fatto di essere tale) “turismo”, ma non c’è turismo
senza viaggio, allontanamento, presa di distanza dalle pratiche e dai
luoghi abituali: i momenti di fuga necessitano di appositi spazi di fuga,
lontani da casa. Qualche esempio? Si sfogli un classico della lettera-
tura sul tema, il libro che John Urry ha dedicato qualche decennio fa
a Lo sguardo del turista (prima edizione 1990). Nella sua più recente
riedizione, realizzata con Jonas Larsen, Urry ribadisce quello che evi-
dentemente è uno dei pilastri concettuali della sua analisi: il turismo è
una “sfera separata” della nostra vita, qualcosa che implica sempre
un’inversione dell'ordinario, una rottura con il quotidiano che «com-
porta necessariamente un movimento attraverso lo spazio, cioè i
viaggi e i periodi di permanenza in un nuovo posto o luoghi» (Urry,
Larsen, 2011, p. 4). Separazione, rottura, inversione ... c'è sempre una
differenza tra i luoghi in cui si vive e si lavora e i luoghi dell’espe-
rienza turistica, cosicché la fruizione turistica finisce o si interrompe
con il reinserimento dell’individuo ossia con il suo ritorno alla vita
quotidiana e al solito luogo di residenza.
    A ben guardare la distinzione “vita quotidiana nei luoghi abituali”
versus “vita straordinaria nei posti nuovi” che sta alla base della teoria
di Urry può essere accostata alla coppia ospitante e ospite che, come
si legge nell’Encyclopedia of Tourism di Jafar Jafari e Honggen Xiao,
«è il cuore stesso del turismo» (Jafari, Xiao, 2016, p. 436). Anche qui
domina una logica binaria, dal momento che non si può essere con-
temporaneamente l’uno e l’altro. Se la figura di colui che riceve (host)
è fondamentale per l’attivazione di quella speciale relazione umana
che prende il nome di ospitalità (come osserva ad es. Camargo, 2015),
colui che è ricevuto, l’ospite (guest) – così come leggiamo nelle linee-
guida del World Tourism Organization (UNWTO) – è un visitatore,

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vale a dire una persona che, viaggiando, si trova in un luogo diverso
dal suo ambiente abituale (il turista da questo punto di vista è un vi-
sitatore che soggiorna almeno una notte nel luogo o nel paese visitato)
(United Nations, 1994). Questa definizione mette in gioco le nozioni
di “visitatore”, “altro luogo”, “ambiente abituale” and “luogo o nel
paese visitato”; se la rovesciamo per vedere l’altra faccia della meda-
glia, colui che ospita diventa una persona non si allontana dai suoi
abituali ambienti/luoghi/paesi.
    Ritroviamo l’idea, già espressa da Urry, che la fruizione turistica
richieda un allontanamento dai “luoghi abituali”, in una recente pub-
blicazione sull’età del turismo del giornalista Marco D’Eramo, il
quale parla di questo fenomeno nei termini di un’alternanza di pieni e
vuoti. Il turismo sarebbe un flusso costante in entrata e in uscita: in
estate le città si svuotano dei loro abitanti (che si dirigono verso il
mare) e al tempo stesso si riempiono di turisti che arrivano da fuori (è
curioso notare come questo autore, che pure è italiano, dimentichi il
gran numero di città localizzate direttamente lungo le coste dell’Italia
peninsulare e insulare dove non c’è bisogno di andare molto lontano
per fare un tuffo). D’Eramo parla del turismo addirittura come di uno
«strumento di separazione tra i residenti e i visitatori» e come di una
«parete invisibile tra il gruppo dei residenti temporanei (“visitatori”)
e quelli stanziali (“autoctoni”)» (D’Eramo, 2017, pp. 141 and 142).
Non c’è via di scampo, tertium non datur: il territorio visitato (sia esso
città o paese) o è luogo di residenza e di vita o è luogo di visita e di
scoperta; si è di volta in volta ospitanti o ospitati, residenti o visitatori,
turisti o autoctoni, ma mai entrambe le cose insieme.
    La doppia regola della dislocazione spaziale e della rottura con le
pratiche di tutti i giorni è talmente forte che anche quando autori come
Cecilia Pasquinelli si occupano in maniera approfondita di the com-
plesse forme assunte dal turismo urbano possono dire soltanto che «le
città stanno diventando luoghi per visitatori e ospiti anziché luogo per
abitanti» (Pasquinelli, 2017, p. 37); Pasquinelli auspica che nella “città
ospitale” la mescolanza di abitanti e visitatori possa colmare «il diva-
rio tra ospitanti e ospitati (vale a dire tra turisti e residenti)» ponendo
le basi per il superamento tensioni e conflitti relative all’uso, all’ap-
propriazione e al controllo dello spazio urbano; ma ammette subito
dopo che «Questo tuttavia non sembra accadere, e piuttosto emerge il
contrario in molte capitali in cui è evidente un sentimento anti-

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turistico» (ivi, pp. 37-38). La distinzione-separazione tra le due figure
viene dunque implicitamente confermata. La ritroviamo poi indiretta-
mente ribadita nella teorizzazione delle figure del turista urbano e del
viaggiatore urbano. Il primo è il tipo tradizionale di turista (culturale)
che visita musei e monumenti; il suo approccio consiste in una rice-
zione passiva della cultura ossia in una mera ammirazione di immagini
standardizzate del luogo; il secondo cerca invece un’esperienza ge-
nuina, di prima mano, della città, vuole immergersi nell’”ordinario ur-
bano” e vivere “come un locale” – non si limita quindi ad ammirare
dall’esterno la cultura urbana (ad es. il tango a Buenos Aires) ma in-
teragisce con l’ambiente urbano e gli insegnanti locali (“apprendi-
mento esperienziale”) e quando torna a casa ha imparato a ballare. Ad
ogni modo, né l’uno né l’altro, né il turista urbano né il viaggiatore
urbano, sono veramente abitanti della città, ma soltanto suoi fruitori
esterni e temporanei.
    Possiamo esprimere tutti questi aspetti in maniera sintetica dicendo
che il turismo è una forma di territorializzazione eterocentrata. Con
questa espressione mi riallaccio alla “teoria geografica della comples-
sità” così come è stata formulata dal geografo italiano Angelo Turco
(Turco, 1988, 2010, 2012). Per Turco la territorializzazione, ossia il
processo di antropizzazione della Terra, coincide con la capacità delle
singole culture di trasformare e organizzare gli spazi fisici e quindi di
produrre il territorio, un campo dinamico che è al tempo stesso pre-
supposto ed esito dell’azione sociale. È presupposto perché il territo-
rio preesiste dunque definisce le condizioni di possibilità dell’esi-
stenza presente e futura; ed è l’esito perché la collettività (che lo pro-
duce) vi si rispecchia e ritrova sé stessa, i propri valori, le proprie ca-
pacità, i propri obiettivi e la propria identità. Da questo punto di vista,
la territorializzazione deve essere autocentrata: essa è la proiezione
sugli spazi terrestri di esigenze, aspirazioni e obiettivi endogeni, con-
naturati alla collettività che abita una certa porzione della superficie
terrestre. Questo carattere autoreferenziale e auto-organizzato garan-
tisce ai suoi abitanti il raggiungimento degli obiettivi prefissati; ci
sono tuttavia dei casi in cui la logica di funzionamento del territorio
può essere eterocentrata cioè provenire da un contesto culturale e spa-
ziale esterno e diverso da quello della società che lo abita. In questo
caso abbiamo l’intrusione e la mescolanza di forme e pratiche di ter-
ritorializzazione “aliene”, e quindi «una geografia pensata, promossa,

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diretta dall’esterno» (Turco, 1988, p. 147). Visto da una prospettiva
tradizionale basata su “separazione e dislocazione”, il turismo do-
vrebbe sicuramente essere incluso in questa definizione: è un modo di
organizzare il territorio attraverso un punto di messa a fuoco esterno,
che non si basa sui residenti ma sulle aspettative dei visitatori (e questo
è esattamente da dove provengono la maggior parte dei suoi tratti con-
trastanti). Nel marketing turistico, i paesaggi e gli eventi, la promo-
zione di costumi e culture locali e l'immagine stessa di un luogo ecc.
Sono costruiti con l'obiettivo primario di attirare l'attenzione di sog-
getti esterni e di convincerli che devono visitare un determinato paese
(che è diverso dal proprio) per sentirsi bene ("puoi trovare qui qual-
cosa che i luoghi della tua vita quotidiana non hanno"). A prima vista,
la definizione di turismo come una forma di territorializzazione ete-
rocentrica mette in primo piano ciò che è essenziale e sottolinea, senza
fronzoli, una caratteristica chiave dell'esperienza turistica. Ci si po-
trebbe chiedere se è sempre così, e il turismo è sempre una forma di
territorializzazione basata sulla separazione tra ambienti usuali e am-
bienti inconsueti e sulla netta distinzione tra ospite e residente, o ci
sono esperienze turistiche che superano queste distinzioni binarie?
   Si può ragionevolmente dubitare di questo. Ad esempio, la netta
distinzione tra “pratiche della vita quotidiana” e “turismo” sembra es-
sere basata su una visione ideologica del mondo in cui le persone sono
viste per lo più come immobili e vivono continuamente nei luoghi
della loro vita, senza mai muoversi di lì. Questo era un mondo in cui
la dislocazione rappresentava una temporanea trasgressione dalla rou-
tine (come nella definizione di Maurice Le Lannou dell’uomo-abi-
tante; cfr. Le Lannou, 1949; Tanca, 2014). Da questo punto di vista,
la distinzione ospitante/ospite conservava ancora un senso, poiché
consentiva una pronta identificazione di ruoli e pratiche che erano
chiaramente diverse e che non potevano essere confuse. La necessità
di un distacco fisico e mentale generato dall’esperienza turistica era
perfettamente compatibile con questa struttura mentale. Tuttavia,
Minca e Oakes osservano che uno schema così rigido non è più rap-
presentativo del mondo in cui viviamo, dove i valori principali non
sono dati da forti radici territoriali e dall’immobilità. Piuttosto, la mo-
bilità e la dislocazione si impongono come regole di vita. Nelle cosid-
dette società postindustriali e del tardo capitalismo, assistiamo a un
processo di compenetrazione e indistinzione tra vita quotidiana e

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turismo, qui e altrove, pratiche autocentrate e pratiche eterocentrate:
«Non sembra più il caso che viaggiamo per introdurre un po’ di disor-
dine nella nostra vita quotidiana regolamentata e ordinata? Il viaggio
non ci rinfresca e non ci fa rivivere perché le nostre visioni ristrette
sul mondo si interrompono mentre espandiamo i nostri orizzonti? Ri-
teniamo che tali visioni costituiscano più un'ideologia del viaggio che
una pratica di viaggio reale. […] Il viaggio non sfugge mai ai luoghi»
(Minca, Oakes, 2006, pagg. 14-‐15). Per illustrare questo cambia-
mento, nella prossima sezione tratterò un festival musicale che è stato
organizzato a Milano per diversi anni, Piano City. Grazie alle sue pe-
culiarità, questo festival sembra fornire una risposta positiva al quesito
– in effetti, è un caso in cui non vi è alcuno spostamento, la distinzione
tra le “sfere separate” viene soppressa così come quella tra i luoghi in
cui si svolgono questi eventi e quelli della vita quotidiana vissuti dagli
abitanti della città.
    Per evidenziare queste caratteristiche, esaminerò innanzitutto la
storia di questo festival di pianoforte, aperto a tutti e che coinvolge
spazi urbani che di solito non sono associati alla musica. A tal fine, mi
concentrerò brevemente sulle edizioni di Berlino, Napoli e Palermo
(paragrafo 2). Successivamente, esaminerò la logica dell’edizione di
Milano. Come risultato di un processo che ho chiamato “musicalizza-
zione della città”, Piano City Milano si distingue per alcune caratteri-
stiche specifiche che sono strettamente collegate alle qualità attuali e
ai molteplici scenari che offre il capoluogo lombardo (paragrafi 3-‐4).
Discuterò quindi di questo evento sullo sfondo della recente storia
della città per accertare se abbia contribuito a quel processo di riscrit-
tura dell’identità che ha trasformato Milano in una città “creativa” e
“condivisa” (paragrafo 5). Come ultimo punto, esaminerò i modi in
cui Piano City Milano supera la consueta distinzione tra “luoghi della
vita quotidiana” e “luoghi turistici”e costruisce forme di socialità ur-
bana 2 basate su pratiche inclusive nei luoghi quotidiani delle persone
(paragrafo 6).

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  In questo testo quando uso il termine socialità intendo generalmente la socievo-
lezza, vale a dire qualità del piacere di incontrare e trascorrere del tempo con altre
persone. Più precisamente, da Nigel Thrift riprendo l’idea che la socialità è una par-
ticolare organizzazione di istituzioni sociali che consente, promuove o inibisce la
comprensione delle condizioni della propria esistenza da gruppi sociali; da questo

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Piano City a Berlino, Napoli, Palermo
    La storia di Piano City ha inizio nel 2010 quando il pianista e com-
positore Andreas Kern organizza a Berlino un festival pianistico me-
tropolitano che presenta fin da subito una serie di elementi originali e
innovativi: (i) le locations dei concerti; (ii) il profilo di esecutori ed
interpreti; (iii) l’eterogeneità dei generi musicali; (iv) l’utilizzo di in-
ternet.
    Piano City Berlin è un “evento diffuso” che per due giorni (23-24
ottobre) porta i concerti fuori dai luoghi canonici come la sala da con-
certo ed il teatro, per territorializzarli in giro per la città in sedi solita-
mente trascurate o comunque non associate con la musica. Gli spazi,
pubblici o privati, vanno dall’università agli ospedali, dagli stadi ai
parchi e ai club, infine alle case private. Quest’ultima location si rial-
laccia alla tradizione tedesca ottocentesca dell’Hausmusik (“musica
domestica”) ossia alla prassi di riunirsi in casa, tra le pareti domestiche
per musizieren, fare musica insieme, in un contesto non pubblico. Gli
esecutori coinvolti non sono infatti soltanto musicisti professionisti
ma annoverano studenti di pianoforte, insegnanti, dilettanti e appas-
sionati che decidono di aprire le loro case al pubblico e di ospitarlo
per un concerto (quindi può essere il padrone di casa a suonare oppure
può dare la disponibilità ad ospitare un pianista a casa propria; i con-
certi sono gratuiti). I brani che vengono eseguiti coprono una gamma
molto ampia di generi musicali, dalla classica al pop e al jazz (si veda
la locandina dell’evento nella fig. 1: Free Jazz in Friedrichshain? De-
bussy in Mitte? Bach in Moabit?, dove Friedrichshain, Mitte e Moabit
sono i nomi di tre quartieri di Berlino). Infine, Piano City Berlin è
stato il primo festival di pianoforte organizzato interamente tramite
internet: gli aspiranti esecutori potevano postare le loro clip di candi-
datura dal cellulare direttamente sul sito web della manifestazione 3; i

punto di vista, essa è il risultato dell'incontro tra “senso di comunità” e “senso del
luogo” (Thrift, 1996, pp. 89-90). Dallo storico francese Maurice Agulhon (1977), ho
preso l’idea che la socialità indica la “qualità sociale” di un sistema di relazioni che
prendono forma nella vita di tutti i giorni. Pertanto, la socialità indica i modi in cui
gli attori sociali dividono e condividono spazi, pratiche, discorsi e idee; e i metodi
concreti di costruzione e diffusione in luoghi specifici (piazze, saloni, caffetterie e
altri luoghi per la condotta pratica della vita pubblica) delle relazioni sociali.
3
  Cfr. il sito http://pianocity-berlin.com.

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Figura 1: Free Jazz in Friedrichshain? Debussy in Mitte? Bach
      in Moabit? Il poster di Piano City Berlin (2010)

partecipanti potevano pubblicare la loro disponibilità ad ospitare nel
proprio salotto un pianista e gli ospiti; i biglietti possono essere acqui-
stati al prezzo di 5 euro mentre si sfoglia l'elenco dei concerti online;
il pubblico poteva creare un proprio “tour musicale” attraverso i vari
eventi disseminati per tutta la città utilizzando Google Maps. Tutto
questo permetteva ad ogni berlinese di creare una propria scaletta per-
sonalizzata, scegliendo le locations e i programmi che più gli aggra-
davano e pianificando un percorso individuale attraverso il capoluogo
tedesco. Sintetizzando tutte queste caratteristiche in una formula, si
può dire che Piano City pone le basi per una “pianificazione della
città” in cui si sperimentano forme di turismo culturale grazie alle lo-
cations, i protagonisti, l’uso della rete e l’approccio condiviso. Per
dirlo con le parole dello stesso ideatore:

   Una delle mie idee è sempre stata quella di immergere un’intera città
nella musica. Tutte le finestre si apriranno e la musica per pianoforte potrà
ascoltata per le strade e raggiungere tutte le persone: sarebbe semplicemente
meraviglioso! Tutti sono stati in grado di proporsi con un video sul cellulare:
un minuto di riproduzione e un minuto di dichiarazione d’intenzione. E ci

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sono tutte le nazionalità rappresentate. Ciò fornisce al festival una miscela
molto buona e colorata. Spero che Piano City abbia effetti diversi. Prima di
tutto, voglio togliere i pianisti dalla loro pratica solitaria. In secondo luogo,
desidero attirare maggiormente l’attenzione su questo strumento. Molte si-
nergie avranno luogo. Forse i vicini faranno più attenzione alle prove del
pianista della porta accanto, perché sono invitati al concerto. Infine, spero
che ci sarà un raduno in città che intensifichi un sentimento cittadino. Ave-
vamo quasi esaurito tutti i concerti in salotto. Piano City sta iniziando a gi-
rare a Berlino. Questo è un ottimo punto di origine. Ma speriamo che Piano
City abbia luogo anche in altre città. E questo è effettivamente possibile in
qualsiasi città (Kern, 2012).

    Tra i punti di forza delle kermesse berlinese dobbiamo includere
anche la sua replicabilità: Piano City è un genere di evento che per i
suoi caratteri intrinseci può essere ripetuto, riadattato e riterritorializ-
zato con successo, altrove. Ciò che conta è che lo spirito originario
della manifestazione venga preservato. Questo è quello che è accaduto
a Milano (dal 2012), a Napoli (dal 2013) e infine a Palermo (nel 2017),
tutte città in cui il piano festival a breve-distanza ha messo radici. Tra-
lasciando per il momento l’edizione milanese al centro di questo con-
tributo, possiamo ora soffermarci brevemente sulle edizioni napole-
tana e palermitana.
    La prima prende avvio nel 2013 con la collaborazione di Andres
Kern e si presenta – come si legge sul sito web ufficiale della manife-
stazione – come «un festival fatto dai napoletani per tutti coloro che
amano Napoli ed il pianoforte: fuori dagli schemi, senza discrimina-
zioni di genere musicale, luoghi ed età, con al centro l’amore, l’ener-
gia e la gioia della musica» (PianoCityNapoli, 2013). Piano City Na-
poli ripropone gli elementi tipici delle edizioni di Berlino e Milano:
house concerts ed esibizioni nei più bei luoghi storici della città, va-
rietà dei generi musicali e degli interpreti (professionisti, appassionati
e studenti), uso del web e aggiornamenti in tempo reale. Napoli si fa
forte in questo dell’eredità della sua scuola pianistica il cui germe fu
piantato all’ombra del Vesuvio in pieno XIX secolo dalla presenza del
virtuoso austriaco Sigismund Thalberg vissuto in città negli ultimi tre-
dici anni della sua vita.
    Più recente, Piano City Palermo ha debuttato nel 2017. La manife-
stazione, della durata di tre giorni (29 settembre-1° ottobre) ha ospi-
tato complessivamente 70 ore di musica distribuite in oltre 20 luoghi

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della città (Zisa, tram storici, lungomare di Mondello, Teatro Gari-
baldi, ecc.), che è stata trasformata in un grande palcoscenico. La
scelta di portare qui questo evento si sposa con la cosiddetta “rinascita
di Palermo”, il recente scenario di crescita economica e sviluppo cul-
turale che ha permesso alla città di diventare Capitale italiana della
Cultura nel 2018. Attraverso a eventi di musica per pianoforte disse-
minati in tutto lo spazio urbano, gli abitanti hanno potuto scoprire (o
riscoprire) i luoghi più insoliti e gli scenari straordinari della loro città.

Piano City arriva a Milano
Come abbiamo visto nelle pagine precedenti, Kern auspicava che
Piano City prendesse piede anche in altre città. Questo è quello che è
accaduto in questi anni a Milano, la città che per una serie di fortunate
coincidenze è forse quella che ha saputo interpretare al meglio la filo-
sofia di questo evento: la valorizzazione delle tipicità, l’uso del web e
dei social media, l’ospitalità urbana e il coinvolgimento dei suoi abi-
tanti, nonché – e questi sono elementi di novità – l’incentivo ad esplo-
rare la città per riscoprire e riappropriarsi degli spazi pubblici. Questi
sono alcuni dei punti di forza di Piano City Milano: tutti elementi che
fanno di questo festival pianistico un nuovo paradigma di socialità ur-
bana che offre alla città un’occasione di riappropriarsi di sé, della pro-
pria identità e costruire o riattivare inedite forme di autonarrazione.
   Piano City approda ufficialmente a Milano nel maggio 2012 ma ha
un antefatto già nell’anno precedente: il 16 dicembre 2011 debutta
“Piano City Preludio”, una maratona musicale della durata di 4 ore
realizzata con il sostegno di attori pubblici e privati (Comune di Mi-
lano, Edison and Intesa Sanpaolo) a ingresso libero e gratuito. Vi pren-
dono parte 30 pianisti, professionisti e no, capitanati da Ludovico Ei-
naudi che eseguono variazioni sui temi del Don Giovanni di Mozart
(l’opera apre quell’anno la stagione alla Scala). Un elemento interes-
sante è la sede scelta per “Piano City Preludio”: si tratta della Caserma
Magenta, storica sede dei carabinieri chiusa in attesa di riqualifica-
zione dal 2007 e destinata ad ospitare la nuova sede dell’Accademia
delle Belle Arti di Brera – in attesa di diventare un nuovo polo cultu-
rale di Milano, un luogo dimenticato e inaccessibile della città veniva
così riscoperto e valorizzato grazie alla musica.
   Qualche mese dopo, nel maggio 2012, per iniziativa di Ludovico
Einaudi e con l’appoggio di Stefano Boeri, allora assessore alla

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cultura, viene organizzata la prima edizione di Piano City. Racconta
lo stesso Einaudi che l’idea di portare questo evento a Milano nasce
in seguito alla sua partecipazione all’edizione berlinese: un’esperienza
positiva, che mette i musicisti a diretto contatto con il pubblico, in
maniera tale da non poter essere praticata in un normale concerto: «È
un’iniziativa che nasce dal basso, dall’amore per la musica […]: anche
in Italia, oltre ai soliti noti, c’è una rete di artisti di qualità che sarebbe
bello far conoscere alla gente». Poi il compositore – che nel corso delle
varie edizioni ha tenuto dei concerti nella propria casa, ospitando il
pubblico – aggiunge: «Piano City è un dono alla città e ai suoi musi-
cisti», un festival per tutti i gusti e tutte le età: «Abbiamo qualcosa per
ognuno» (Einaudi, 2012, p. 25). Gli fa eco Boeri – tra gli autori del
“Bosco verticale” diventato in breve tempo un landmark urbano e uno
dei simboli della nuova Milano – il quale evidenzia in diverse intervi-
ste il valore civico e la natura partecipata dell’evento: questo, spiega,
è «un format nuovo per valorizzare la creatività musicale diffusa di
Milano» (Boeri, 2012a, p. 2) e «una nuova modalità di fare cultura per
una città viva e aperta come deve essere Milano» (Boeri, 2012b, p. 6).
    Di anno in anno, di edizione in edizione Piano City Milano è cre-
sciuto in termini qualitativi e quantitativi, diventando una delle inizia-
tive culturali che meglio rappresentano la città: dal 2012 ad oggi è
aumentato il numero degli eventi e la varietà delle loro tipologie, si
sono moltiplicate le locations, ampliate le fasce di età coinvolte e le
ore giornaliere di musica e reso questo festival metropolitano un ap-
puntamento che può essere vissuto in diretta attraverso l’uso dei social
network. Il numero dei concerti nel tempo si è più che triplicato, pas-
sando dai 125 del 2012 ai 458 dell’edizione 2017; e così pure il nu-
mero delle locations è passato dalle 35 del 2012 alle oltre 150 del
2017. Nel giro di 5 anni si stima che il numero dei partecipanti sia
passato da oltre 27.000 a oltre 100.000, segno evidente di un vivo ap-
prezzamento da parte del pubblico. Quest’ultimo è composto nella sua
stragrande maggioranza da italiani (il 90%); l’80% delle provenienze
ci segnala il fortissimo riscontro territoriale e urbano che il festival ha
a Milano e in Lombardia (l’80%). Un riflesso di questo apprezza-
mento emerge dalla lettura dei dati relativi al web: sono stati ben
270.000 i visitatori mensili del sito web durante l’edizione 2017 tenu-
tasi nei giorni 19-21 maggio, quasi 18.000 le visualizzazioni su Twit-
ter, 1.400 i like su Instagram (Piano City Milano, 2017).

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Di anno in anno, di edizione in edizione Piano City Milano è cre-
sciuto in termini qualitativi e quantitativi, diventando una delle inizia-
tive culturali che meglio rappresentano la città: dal 2012 ad oggi è
aumentato il numero degli eventi e la varietà delle loro tipologie, si
sono moltiplicate le locations, ampliate le fasce di età coinvolte e le
ore giornaliere di musica e reso questo festival metropolitano un ap-
puntamento che può essere vissuto in diretta attraverso l’uso dei social
network.

Cosa è Piano City Milano?
   Frutto della sinergia pubblico-privato – una tendenza ormai conso-
lidata nell’organizzazione di eventi culturali – che vede schierati in
prima fila il Comune di Milano, Edison e Intesa Sanpaolo, Piano City
Milano si regge sulla collaborazione e cooptazione di istituzioni, cit-
tadini e imprese. Ciascuno dei lati di questo triangolo costituisce uno
dei tasselli del successo di questa manifestazione. Questo festival me-
tropolitano è basato infatti in primo luogo su gratuità e volontariato:
tutti, dagli ideatori ai musicisti coinvolti (professionisti e non), parte-
cipano a titolo gratuito, per il solo piacere di esserci; questo permette
di conservare quello che è uno dei suoi punti di forza, la gratuità dei
concerti e di rendere la maggior parte delle esibizioni ad ingresso li-
bero (alcune tipologie, come gli house concerts, necessitano di sem-
plice prenotazione tramite il sito web). Gli strumenti sono messi a di-
sposizione da una rete milanese costituita da aziende produttrici, im-
portatori, negozi, accordatori e trasportatori desiderosi di divulgare la
cultura del pianoforte tra i giovani e di far riscoprire il piacere di fare
e ascoltare musica dal vivo. Come accennato, alcuni artisti come Lu-
dovico Einaudi, che ne è anche il direttore artistico, mettono in atto
una inversione di ospitalità perché è il musicista, colui che si esibisce,
che ospita il pubblico aprendogli le porte della propria casa, e non il
contrario (Capitoni, 2012, p. 30). I concerti domestici sfatano tra l’al-
tro lo stereotipo della “chiusura” dei milanesi, dato che la disponibilità
ad aprire le case private cresce di anno in anno – restituendo così alla
musica, come suggerisce lo stesso Einaudi, la sua originaria tensione
comunicativa:

   Spesso la musica viene vissuta in maniera distante e fredda: si compra il
biglietto, si va a Teatro, si torna a casa e la cosa finisce lì; il concerto diventa

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un appuntamento senza comunicazione. Negli house concert, invece, suc-
cede il contrario. C’è un forte rapporto umano, uno scambio diretto tra artista
e spettatore e anche tra i musicisti stessi, che così si possono incontrare, con-
frontare, fare progetti. (Einaudi, 2013, p. 15)

   Un altro aspetto che merita di essere sottolineato è la duplice terri-
torializzazione, ad un tempo temporale e spaziale, di Piano City Mi-
lano. L’edizione 2016 ha proposto 50 ore ininterrotte di musica dal
tramonto all’alba e dall’alba al tramonto; l’edizione 2017 e 2018 sono
state eventi “non stop”, un flusso musicale ininterrotto in cui spiccano
eventi come Piano Sunrise e Piano Night; tra le maratone notturne va
ricordato Silent WiFi Concert: un concerto nel silenzio della notte,
udibile dal pubblico munito di cuffie Wi-Fi ad alta fedeltà. L’amplia-
mento della scala temporale va in direzione di quella personalizza-
zione dell’esperienza che è uno dei pilastri del festival. In termini spa-
ziali, come indicato più volte in queste pagine, quella operata da Piano
City Milano è una territorializzazione diffusa: gli eventi sono sganciati
da un posto specifico per favorire una copertura capillare, sparsa e de-
centrata. Il palcoscenico dell’evento non è questo o quel posto di Mi-
lano ma è la città stessa nella sua interezza, nei suoi luoghi più signi-
ficativi ma anche più nascosti o quotidiani.
   Sganciare la musica dall’idea (ottocentesca ed esclusiva) che esi-
stano dei luoghi in cui questa è circoscritta, confinata e “ingabbiata”,
significa ribaltare i piani visivi e uditivi per trasformare lo spazio ur-
bano – considerato in maniera integrale e integrata – in una grande
macchina sonora. Questo aspetto è sottolineato dai titoli dei giornali
in cui ritornano spesso dei giochi di parola con “piano” (che, come è
noto, in italiano suona sia come abbreviazione di “pianoforte” che
come sinonimo di “lento”): “Piano City dilaga ovunque”, “la città si
riempie di note”, “tutta la città in ascolto”, “Milano capitale del pia-
noforte”, “il sound della città”, “dovunque è piano”, “la città suona”,
“un pianoforte in ogni luogo”, ecc. in cui è sintomatica la reiterazione
di avverbi come “ovunque”, “tutto” ecc. volti a sottolineare l’ubiquità
degli eventi in programma. E in effetti, se facciamo caso alle location
coinvolte, è difficile dare torto a questa impressione. Da questo punto
di vista Piano City può essere descritto come un percorso di esplora-
zione, riscoperta e riappropriazione della molteplicità degli scenari ur-
bani ad uso e consumo degli stessi abitanti della città: «Il nostro

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intento – spiega ancora Einaudi – è anche far scoprire ai cittadini zone
che non conoscono, che non frequentano o non associano ad eventi
culturali» (Ibidem). Possiamo classificare questi scenari in 4 grandi
categorie:

   (i) in primis vengono i vecchi e nuovi landmark urbani, spazi ca-
ratteristici dell’identità di Milano: Parco Sempione, Castello Sforze-
sco, Giardini di Villa Reale, Acquario civico, Galleria Vittorio Ema-
nuele II, Museo teatrale alla Scala, Palazzo Pirelli, City Life, Rotonda
della Besana, Museum Centre GAM PAC;
   (ii) seguono poi i “luoghi delle coincidenze” (per usare l’espres-
sione di Pierantoni, 1998), ossia gli spazi della quotidianità in cui si
transita per un tempo più o meno piccolo: stazioni, biblioteche, scuole,
officine ma anche case di reclusione (la musica va territorializzata là
dove di solito non c’è);
   (iii) abbiamo poi le case private: gli spazi chiusi dell’intimità, il
privato che si apre per ospitare recital domestici, in una cornice di os-
simorica mondanità casalinga;
  (iv) ultimi ma non per importanza, i cortili condominiali, spazi co-
muni a metà strada tra il pubblico ed il privato.

   Quest’elenco non disegna un ordine di priorità; i suoi punti hanno
tutti pari dignità. Gli elementi fin qui richiamati ritornano nella com-
ponente grafica e cartografica del programma. Alcuni dei principali
iconemi 4 della città – Duomo, Castello Sforzesco, Arco della Pace,
Torre Velasca, la Scala – sono richiamati fin dalla copertina del pro-
gramma della prima edizione (Fig. 2); come a suggerire il profondo
legame tra l’evento ed il luogo che lo ospita, il logo ufficiale ricalca
evidentemente, in maniera stilizzata, la pianta storica di Milano calan-
dola dentro un pianoforte a coda (Fig. 3). La mappatura degli eventi,
se da un lato suggerisce una suddivisione della città in 9 parti che ri-
calcano altrettante circoscrizioni, dall’altro evidenzia il carattere per
così dire centrifugo del festival stesso: dal confronto delle mappe
4
 Vale a dire «immagini che rappresentano il tutto, che ne esprimono la peculiarità,
ne rappresentano gli elementi più caratteristici, più identificativi» (Turri, 1998, p.
170).

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presenti nei programmi delle edizioni 2012-13 (Main locations) no-
tiamo ad es. come fin dalla seconda i concerti non si concentrassero
più soltanto in centro (zona 1) ma tendessero a “spargersi” per lo spa-
zio urbano (Fig. 4). Nelle più recenti edizioni quest’ultimo non basta
più: i concerti escono fuori dai suoi confini, traboccano, vanno “fuori
porta” per territorializzarsi anche nelle province di Milano, Como,
Monza e Brianza, Bergamo.

Figure 2-3: Alcune dei principali iconemi di Milano (Duomo, Castello Sfor-
zesco, Torre Velasca) sulla copertina dell'edizione 2012 del programma (a
sinistra); il logo ufficiale del Festival e la mappa storica di Milano (a destra).

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Figura 4: diffusione dei concerti nello spazio urbano nel 2012 (sopra) e nel
2013 (sotto).

   Piano City Milano non vive tuttavia soltanto di ubicazioni fisse: la
natura di questo festival metropolitano è dinamica e non statica e il
suo senso ultimo sta in fondo nell’attuare-incoraggiare pratiche di at-
traversamento degli spazi. Piano City disegna una città in movimento
in cui la musica viene letteralmente portata in ogni angolo di Milano.
Si vedano a questo proposito iniziative come Piano Tram, Piano Boat
e Piano City on the road. Di che cosa si tratta? Sono modalità di esi-
bizione itineranti, all’aperto, che hanno e non hanno al tempo stesso
una location stanziale. Con Piano Tram, due tram storici dotati di un
piano verticale attraversano il centro storico; in Piano Boat i pianoforti
viaggiano sull'acqua dei Navigli, il sistema di canali navigabili intorno
e all’interno di Milano; Piano City on the road comprende invece
l’utilizzo di veicoli progettati e realizzati appositamente per creare
un’esperienza musicale mobile: in Piano à porter un pianoforte verti-
cale viene montato su una “Ape Piaggio” e suonato ogni 50 minuti in
un posto diverso; Piano Bici è un incrocio tra un piano verticale e una
bicicletta: lo strumento è posto al posto del manubrio del veicolo con

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due ruote davanti e una dietro; infine, Piano Tandem è un tandem ib-
rido, con un pilota e un musicista che suona il piano.

Un’occasione di riscrittura dell’identità urbana?
   C’è infine un ultimo tassello che concorre a definire la specificità
di questo evento: Piano City Milano si inserisce in un più ampio
quadro di rigenerazione urbana, configurandosi come un episodio sig-
nificativo del recente rilancio di Milano dopo una fase in cui l’immag-
ine della città si era appannata e indebolita. La deindustrializzazione,
intervenuta negli ultimi decenni del XX secolo, aveva contribuito at-
tivamente alla perdita di identità:

    Il cambiamento più importante, traumatico e drammatico di Milano – del
suo paesaggio, della sua identità, dei suoi ritmi – è stata la rapida e completa
deindustrializzazione e il decentramento industriale. Quest’ultimo processo
è iniziato negli anni ‘60, il primo negli anni ‘70. Negli anni ‘80 tutte le fab-
briche storiche della città e del suo entroterra avevano chiuso o impiegato
minuscole frazioni della loro ex forza lavoro. (Foot, 2001, p. 174)

  Anche se la ripresa della città era cominciata negli anni '80, la sua
conversione post-industriale non fu né facile né indolore: per molti
anni fu difficile da individuare una nuova identità:

    Per semplificare, si può affermare che il trauma della fine del “vecchio
mondo” ha frantumato la singola identità della città, che conteneva e sin-
tetizzava tutto, che identificava e rassicurava tutti, che frammentava, o piut-
tosto diventava un caleidoscopio di molti dettagli e identità mutevoli: di
identità localizzate assunte e interiorizzate da singole parti della città. (Gran-
ata, 2015, p. XI)

   Si tratta naturalmente di un fenomeno generalizzato, che non ha
riguardato soltanto Milano ma ha interessato negli stessi anni tantis-
sime altre città, italiane e non; ciascuna di esse, unica per storia, mor-
fologia e risorse, ha dovuto fare affidamento su se stessa, sulle proprie
energie latenti ed endogene, per reinventarsi e uscire dalla crisi (del
modello insediativo, della sostenibilità ambientale, sociale ed eco-
nomica, della densità urbana con il progressivo invecchiamento della
popolazione, ecc.), approdando lentamente alla definizione di una
nuova immagine di sé. Milano si è potuta avvantaggiare nel suo

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percorso individuale di città “culturale”, “creativa”, “smart” o “condi-
visa” (Pratt, 2011a and 2011b; Santangelo, Aru, Pollio, 2013; Grésil-
lon 2014; Lodigiani, 2014; McLaren, Agyeman, 2018) della propria
posizione di principale hub finanziario italiano, capitale globale della
moda e città cosmopolita e multiculturale; Expo 2015 ha portato qui
non solo circa 21 milioni di visitatori, ma anche importanti inves-
timenti in infrastrutture di trasporto (ad es. la nuova linea della metro).
    Milano ha visto cambiare il proprio skyline e si è trasformata sem-
pre di più in una “città verticale” (Verdelli, 2014): con i nuovi gratta-
cieli nei quartieri Isola e Porta Nuova (tra cui il pluripremiato “Bosco
verticale” di Boeri); con City Life (un progetto di riqualificazione
dell’area dell’ex-Fiera); con la riconquista della Darsena (un bacino
acqueo artificiale utilizzato fino alla fine degli anni ’70 per l’ormeggio
delle imbarcazioni che solcavano i Navigli), ecc.
    Tutti questi elementi rendono Milano l’unica città italiana in grado
di competere nel mercato dell’intrattenimento con città globali del cal-
ibro di Londra, Parigi e Berlino (e recentemente, dopo la Brexit, con
Amsterdam, che ospiterà la nuova sede dell’Agenzia europea per i
medicinali). La sua specificità – contrariamente ai suoi concorrenti,
questa città non è una capitale politica – riflette una peculiarità della
storia urbana italiana. Roma, la capitale, non ha bisogno di competere
con le altre città per essere attraente; lo è da secoli come centro del
cristianesimo e per il suo patrimonio storico e artistico, unico al
mondo. La storia di Roma è sufficiente per renderla speciale e attirare
milioni di turisti ogni anno. Per attirare investimenti e visitatori, Mi-
lano deve invece reinventarsi continuamente, proponendo nuovi stili
urbani basati sull’innovazione e sulla partecipazione del maggior nu-
mero di persone 5.
    Piano City fa parte di questa transizione, che implica la riscoperta
e la riscrittura dell’identità di Milano come città metropolitana italiana
con un buon potenziale di sviluppo e forti ambizioni europee e globali
(ACRE, 2007; Ponzini et alii, 2014) ; per questo motivo la città ha
particolarmente bisogno di eventi a tutto campo che coinvolgano i cit-
tadini nella vita e nelle migliaia di spazi della città, sviluppando forme

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 Pertanto, mentre l’attuale sindaco di Roma può permettersi di ritirare la candidatura
della città per le Olimpiadi del 2024, Milano gareggerà con Torino per ospitare le
Olimpiadi invernali del 2026 (Giannattasio, 2018).

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di governance urbana e territoriale più incentrate sul luogo. Attraverso
Piano City, Milano si mette in gioco, mettendo alla prova la propria
capacità di territorializzarsi e “fare squadra”, di coinvolgere, di valor-
izzare le proprie competenze e risorse interne creando una attrattività
endogena e autocentrata, basata sulla voglia di partecipare e condivid-
ere spazi ed esperienze, luoghi e musica. Questi intenti ritornano nei
programmi delle diverse edizioni del festival, acquistando il valore di
autonarrazioni che la città fa di se stessa e in cui orgoglio e progettual-
ità, tradizioni consolidate e aspettative ambiziose si sovrappongono in
un unico discorso. Si veda ad es, il seguente passo incentrato sull’idea
della città come un serbatoio di potenzialità collettive e nascoste che
possono però essere portate alla luce e valorizzate grazie alla musica:

Assecondando il mito di Milano come città che nasconde la propria bel-
lezza, il nostro intento è di alzare per tre giorni il velo che spesso ne copre
il fascino bussando alle sue porte attraverso la musica del pianoforte (Piano
City Milano, 2012; qui e oltre i corsivi sono miei)

In questo esercizio di “svelamento” c’è spazio anche per la definizione
delle “vocazioni” urbane e delle qualità topiche che fanno essere la
città quella che è, rendendola unica. Si noti l’efficacia performativa di
questi enunciati: essi non si limitano a descrivere una situazione di
fatto, ma al tempo stesso “fanno” ciò che stanno descrivendo – in
modo tale che è praticamente impossibile separare tra loro i due piani
del discorso:

Concerti, laboratori e lezioni faranno della musica e del pianoforte i prota-
gonisti di una manifestazione che conferma la vocazione internazionale
della nostra città. (2014)

Piano City Milano compie cinque anni. Cinque anni di una città aperta,
come le case che hanno ospitato i nostri pianisti. […] Cinque anni di una
città che non si ferma mai e continua a cambiare. (2016)

Milano ha il ritmo traboccante della grande metropoli europea, una città dai
molti cuori e dalle molte mani, centro nevralgico di tutti i cambiamenti, ca-
pitale culturale che non perde mai di vista le sue vocazioni all’apertura e
all’integrazione. La sfida di Piano City Milano 2017 è assomigliare ancora
di più alla città che ci ospita, tenere il suo stesso ritmo, reinventarci assieme

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a lei attraverso nuove idee e nuove proposte. Così come Milano, Piano City
vuol essere un festival aperto, partecipativo e coinvolgente, un’occasione di
incontro per tutti. […] Perché nel nome c’è già tutto: ‘Piano’, perché è un
omaggio allo strumento e alla sua musica, ‘City’ perché della città ha l’ener-
gia, il clima elettrizzante, e ‘Milano’ perché la sua ineguagliabile misura
umana di quartieri, case, cortili, giardini, i suoi tanti luoghi amati o inaspet-
tati, ne fanno il teatro ideale per l’incontro e la partecipazione. Piano City
Milano 2017 è sì un piccolo festival indipendente che ambisce a farsi città,
ma i veri protagonisti siete voi, è vostra la scintilla che può far accadere
l’impossibile e rendere vero l’incredibile. (2017)

Quest’ultimo passaggio introduce un ulteriore elemento di riflessione:
la compenetrazione e l’interscambiabilità transcalare del “tutto” e
della “parte”, del grande e del piccolo, della città e del suo festival. Se
Piano City è un evento che ambisce a farsi città, la città a sua volta gli
regala le sue qualità topiche, la sua energia, l’apertura e gli elementi
materiali per realizzare le sue ambizioni: un paesaggio umano unico
fatto di (vecchi e nuovi) “quartieri, case, cortili e giardini”. Così l’uno
si rispecchia nell’altro e i ritmi dell’urban life diventano – o meglio
sono – i ritmi della musica e viceversa.

Conclusioni: essere turisti nella propria città?
  Sono molte le peculiarità che definiscono in positivo Piano City Mi-
lano; proviamo ad elencarne sinteticamente le più importanti cercando
di esplicitarne i legami sotterranei.
  Partiamo dall’ultima, la progettualità: ogni nostra rappresentazione
del territorio contiene – sempre – un “progetto implicito” (Dematteis,
1995): non è mai soltanto la descrizione neutra di ciò che il territorio
è, ma è anche la formulazione (l’auspicio) di ciò che il territorio po-
trebbe essere. Piano City non è soltanto un bel festival pianistico della
durata di un certo numero di giorni; è un episodio importante di una
grande narrazione urbana che a sua volta rimanda all’orizzonte di una
progettualità in cui Milano si interroga sulla propria identità di metro-
poli italiano-europea, capitale culturale, dinamica, aperta, integrata,
coinvolgente, partecipata, ecc. (cfr. Rolando, 2017). Esso può perciò
essere visto come una “celebrazione di” e al tempo stesso un “test su”
una certa idea di città – un’idea che ha una specifica natura politica:
come è noto, l’etimologia della parola "politica" deriva dal greco polis

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ed è collegata a una costellazione di concetti che si sono sovrapposti
nel tempo, come il buon governo, il bene comune, la cittadinanza, la
capacità di gestire la res publica. Questi ideali rimangono lettera
morta senza la partecipazione attiva e diffusa delle persone: la frui-
zione dell’evento non ha carattere meramente passivo-convenzionale
ma partecipativo-interattivo. In altre parole, non c’è di principio una
separazione netta tra fare/fruire la musica e ognuno può scegliere da
che parte stare, se da quella del fruitore o dell’esecutore (questo deriva
principalmente dal fatto che non abbiamo a che fare con concerti di
tipo tradizionale, ma con un recupero dell’esperienza della “musica
domestica”). Quest’elemento è strettamente connesso a sua volta alla
trasversalità ossia al riconoscimento del diritto di tutti i componenti
della comunità ad esprimere le proprie potenzialità, mettendole e met-
tendosi a disposizione degli altri (la cosiddetta “inversione di ospita-
lità”). Come si può intuire, questo principio ha in fondo un valore po-
litico nella misura in cui può divenire un punto di partenza per la co-
struzione di un nuovo paradigma di socialità urbana. Di fatto, la terri-
torialità coinvolta e prodotta si configura qui come una rete di reci-
proche prestazioni libere e attive, fattore e al tempo stesso contesto di
incontro, apprendimento e scambio simbolico. Piano City ambisce ad
essere molto di più che un semplice festival pianistico (e in questo sta
la sua forza): vuole rappresentare un punto di convergenza per la co-
struzione di un senso collettivo del luogo. Tutto ciò che quest’evento
stimola, convoglia e diffonde non sarebbe infatti possibile senza la
partecipazione degli abitanti e la specificità degli spazi urbani coin-
volti (per una riflessione simile, vedi Rabbiosi, 2016): un territorio
aperto, fatto di case e cortili, musei e cascine, biblioteche e stazioni,
tram e palazzi storici, navigli e carceri. La riappropriazione lenta e
condivisa della città da parte di coloro che ci abitano implica la presa
di coscienza delle sue qualità topiche: queste fanno sì che un luogo sia
unico e differente da tutti gli altri, rendendolo, come afferma Angelo
Turco, «un posto […] dove succedono delle cose che possono succe-
dere solo lì» (Turco, 2014, p. 22). Si possono avere differenti edizioni
di Piano City in differenti città; ma anche se il format è lo stesso, a
fare la differenza sarà di volta in volta il contesto (paesaggio, cultura,
attori sociali coinvolti) a rendere ciascuna di esse irripetibile e non
replicabile altrove.

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Riprendiamo dunque l’interrogativo da cui eravamo partiti. Nessuno
è un turista nella propria casa? Dovrebbe essere ormai evidente al
lettore che Piano City Milano supera distinzioni tradizionali come
quella tra geografie interne/esterne (Massey, 1993 e 2006), tra geogra-
fie personali/consensuali (Lowenthal, 1961) e strategie/tattiche urbane
(De Certeau, 2010). La sua geografia non è concepita, promossa né
diretta dall’esterno, ma dall'interno. Questo evento produce una devia-
zione speciale dalla norma: per la prima volta si può essere turisti nella
propria città. Questo elemento supporta l’affermazione di Minca e Oa-
kes secondo cui «i presunti confini tra la vita quotidiana e l’esperienza
turistica non possono più essere sostenuti. Quella che normalmente
viene definita “esperienza turistica” è diventata una parte fondamen-
tale di come le persone apprendono e viaggiano attraverso il mondo
su base giornaliera» (Minca, Oakes, 2014, p. 301). La conciliazione
generale delle esperienze a cui stiamo attualmente assistendo – la vita
quotidiana è sempre più vissuta in termini turistici, mentre ciò che de-
finiamo turismo tende a scartare pratiche dislocate e ritardate – sug-
gerisce una verità essenziale e paradossale: nell’era del tardo-capitali-
smo diventa difficile distinguere le pratiche turistiche (e gli attori che
attuano tali pratiche) da ogni altro aspetto della nostra vita sociale,
così come dai luoghi della vita quotidiana.

 Ringraziamenti
 L’autore desidera ringraziare l’Ufficio Stampa di Piano City Milano
per l’aiuto e in particolare la Dott.ssa Manuela Rosignoli.

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