Lo stress lavorativo e il rischio cardiovascolare

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Lo stress lavorativo e il rischio cardiovascolare
Lo stress lavorativo e il rischio cardiovascolare
Prof Giancarlo Cesana

Diceva Albert Camus: “senza lavoro tutta la vita se ne va in pezzi, ma quando il lavoro è senza
anima, la vita soffoca e muore” ("Il Mito di Sisifo"). D'altra parte diversi sondaggi, condotti
soprattutto negli Stati Uniti, mettono in evidenza che il lavoro non è percepito in termini così
importanti: "un lavoro interessante" è "molto importante" solo per il 38% degli intervistati contro il
74% di "un matrimonio felice", il 70% di "essere in buona salute" e il 67% di "una buona vita
familiare".

“Se i lavoratori rinunciano a considerare il lavoro come un'attività umana significativa e
importante e se proteggono se stessi distanziandosi da esso, allora gli indicatori tradizionali di
salute fisica e mentale non riflettono pienamente l'impatto della posizione di lavoro sulla vita...è
necessario un modello interpretativo in grado di valutare l'impatto dell'ambiente in termini di
adeguatezza con le capacità, i bisogni e i valori della persona” (Kasl 1994).

Gli studi sul pensionamento confermano il quadro: la maggioranza degli intervistati desidererebbe
ritirarsi prima di quanto previsto. Le considerazioni finanziarie e non il contenuto del lavoro sono le
ragioni principali riconosciute valide per lavorare fino all'età del pensionamento. Se ai pensionati si
chiede:”Che cosa vi manca del lavoro?”, il 68% risponde "nulla" o “i miei colleghi”.
Il lavoro non sembra perciò un’attività umana molto significativa. Si ipotizza che ciò possa essere
parte di un processo di impoverimento, rinuncia da parte di lavoratori che tentano di adattarsi a
mansioni non soddisfacenti. Questo fatto implica un adattamento, ovvero che uno per lavorare deve
rinunciare a qualcosa di sé. E questo fatto viene pagato da un punto di vista emotivo.

“La insoddisfacente salute mentale dei lavoratori consiste in non piccola misura nello spegnimento
dei loro desideri e aspettative, nella riduzione dei loro obiettivi e nella restrizione dei loro sforzi a
un punto in cui la vita diventa relativamente vuota e insignificante” (Kornhauser, 1965)

Ma questa situazione, dal punto di vista della salute, ha qualche conseguenza? Per rispondere a
questa domanda si è introdotta la teoria dello stress.

La parola “stress” deriva dal latino strictus (stretto), dal participio passato del verbo latino stringere
(legare, stringere), dall'inglese antico stresse, (sofferenza, patimento), dal francese antico estresse
(ristrettezza), dal volgare strictia. La parola stress è stata importata in medicina dalla tecnologia
come descrizione di una forza fisica in grado di deformare un corpo. L’autore che ha maggiormente
contribuito alla formulazione di una teoria psicofisiologica, sulla base delle osservazioni condotte
da Claude Bernard (omeostasi) e da Walter Cannon (ruolo di emergenza dell’adrenalina) è Hans
Selye. Walter Cannon era un fisiologo americano che aveva scoperto l’adrenalina e il suo ruolo:
l’adrenalina viene prodotta nelle situazioni di emergenza, quando c’è bisogno di un adattamento
veloce. L’adrenalina viene sintetizzata a livello della midollare del surrene e, in parte minore, nelle
terminazioni nervose simpatiche, le quali producono soprattutto noradrenalina. Cannon aveva
osservato, tramite sperimentazioni animali, che, se si espone un animale ad uno stress rilevante ed
improvviso, si ha un aumento notevole di adrenalina; quindi aveva cominciato a studiare le
conseguenze dal punto di vista della salute della mobilizzazione di questo ormone.

Questo meccanismo è stato in seguito analizzato e chiarito da Hans Selye, un biochimico ceco
emigrato in Canada, che ha dedicato la vita allo studio di questo fenomeno: lo stress. Selye ha
enunciato una vera e propria teoria dell’adattamento, definendola all’interno di una sindrome: “la
sindrome generale di adattamento”. In presenza di uno stimolo sufficientemente forte da provocare

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una reazione nell’individuo o addirittura da metterlo in pericolo da un punto di vista esistenziale, si
hanno le seguenti 3 risposte fisiologiche:
       1) Reazione di allarme
       2) Fase di resistenza
       3) Fase di esaurimento

Come sono collegate queste reazioni fisiologiche con l’insorgenza di una malattia? Si è visto che, in
genere, l’organismo funziona al meglio quando è stimolato a livello medio. Quando invece è
stimolato troppo o non è stimolato affatto, sta male. Mentre per la soprastimolazione questo
concetto appare evidente, è meno chiaro il danno conseguente ad uno scarso stimolo. Per avere
un’idea bisogna pensare alla nevrosi sperimentale: la persona viene messa in una stanza buia, senza
rumore, senza stimolazione termica per 48 ore; quando viene fatto uscire fuori è stremato. E da un
certo punto di vista l’assenza completa di stimolazione è un fattore di stress addirittura più grave
della stimolazione eccessiva. E ci sono delle situazioni di carattere lavorativo in cui cadono questi
due estremi:

L’organismo funziona al meglio quando c’è una stimolazione intermedia.
In base a quanto definito sopra (legge di Yerkes e Dodson), si parla di:
       1) Eustress (lo stress buono, un livello di stimolazione necessaria)
       2) Distress (uno stress negativo)

Quello che interessa evidentemente sullo stato della salute è il distress, che nasce da un eccesso o da
una mancanza di stimolo. La teoria dello stress è legata ad una corrente di studio della psicologia
statunitense di carattere psico-fisiologico, che si basa su due assunti fondamentali:
    1) Si può studiare da un punto di vista psicologico solo quello che si vede (il comportamento)
    2) Bisogna andare a cercare le conseguenze misurabili obiettivamente, cioè le conseguenze
    fisiologiche della stimolazione emotiva.

In un primo momento queste teorie comportamentiste ritenevano che l’individuo venisse formato
anche nella sua psicologia dalla necessità di rispondere a degli stimoli: ad uno stimolo corrisponde
una risposta, il susseguirsi di stimoli e risposte nella vita conforma la personalità individuale (teorie
stimolo-risposta -SR-). Si dimostrò, ad esempio, che se si suona il campanello prima di dare del
cibo ad un cane, dopo ripetuti stimoli, quando si suona il campanello si ha produzione di succhi
gastrici anche se non arriva il cibo. In seguito si è dimostrato che queste teorie erano troppo

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generiche e sono nate le teorie neo-comportamentiste, che attribuiscono una funzione anche
all’individuo, non solo allo stimolo esterno (teorie stimolo-soggetto-risposta -SSR-). Si dimostrò, ad
esempio, che mettendo un topo in una gabbia munita di una leva che se schiacciata fa venire giù una
pallina di cibo, quando il topo se ne accorge, continua a schiacciare la leva. Su queste teorie è nato
il paradigma transazionale, secondo cui il problema dello stress non è solo di uno stimolo esterno,
ma anche il modo con cui il soggetto reagisce. Questo rapporto tra stimolo e soggetto che dà una
certa risposta, si chiama coping.

Nella teoria psico-fisiologica dello stress, uno stimolo psicosociale (di sufficiente intensità) giunge
al cervello. Il cervello è suddivisibile in 3 zone/funzioni:
     a) corteccia cerebrale, che ha funzione cognitiva, cioè dallo stimolo viene astratto il suo
     contenuto che poi viene conosciuto
     b) amigdala e ippocampo, che svolgono funzione di integrazione affettiva (paura, gioia…)
     c) tronco cerebrale, dove c’è un’integrazione economica e dove sono presenti tutti i nuclei che
        distribuiscono la stimolazione perifericamente
In seguito all’integrazione centrale, in periferia ci possono essere 2 tipi di risposte estreme:
    1) fight and fly (lotta o fuga)
    2) playing dead (giocare a fare il morto)

Esistono, ovviamente tutte le situazioni intermedie. Quando queste situazioni si manifestano senza
la possibilità che le sostanze prodotte (catecolamine, cortisolo…) vengano utilizzate, perchè non
consegue un’attivazione muscolare, si verifica una stato di autointossicazione, la quale comporta, ad
esempio, la mobilizzazione di glucosio da glicogeno epatico andando ad incidere sull’intolleranza
glucidica, la liberazione di adrenalina e noradrenalina che genera ipertensione, l’aumento di acidi
grassi liberi e del colesterolo. Questo determina, in definitiva, un aumento del rischio
cardiovascolare. Per cui se ci sono delle mansioni in cui questi aspetti sono particolarmente
accentuati, queste mansioni potrebbero essere correlate con l’insorgenza di malattie cardiovascolari.

Come si misura lo stress? Attraverso le misure psico-fisiologiche. In primo luogo attraverso misure
di performance. Per esempio il numero di errori, il tempo impiegato a reagire ad un certo stimolo,
ovvero, misure di prestazione che cercano di studiare contemporaneamente il livello di percezione
ed il livello di funzionamento dell’organismo. Sono test in cui il soggetto viene esposto ad un forte
rumore, ad una luce intensa, allo scopo di osservare le varie risposte. Ci sono, inoltre, le misure
elettrofisiologiche, che registrano le attività elettriche dell’organismo: l’elettrocardiogramma,

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l’elettroencefalogramma e il Galvanic Skin Responsor. Quest’ultimo analizza le variazioni della
conduttanza elettrica della cute. Le misure biochimiche vanno a valutare le catecolamine, il
cortisolo, il glucosio, generalmente a livello delle urine, perché sia le catecolamine che il cortisolo
hanno un’altissima variabilità a livello ematico. Sono misure molto difficili da valutare, sono molto
variabili (poco affidabili per la loro bassa ripetibilità) e validità discutibile. Quindi, valutare questo
fenomeno dello stress in relazione alla malattia, è un problema non da poco dal punto di vista
biologico.
I fattori che possono inficiare i risultati delle misure psico-fisiologiche sono:
- Fattori stabili o permanenti: differenze interindividuali tra i soggetti nella loro suscettibilità e
   vulnerabilità a stimoli stressanti (es. età, sesso, ecc…)
- Fattori transitori: condizioni ambientali e contestuali che possono modificare i risultati degli
   esperimenti (es. temperatura, livello di umidità, ecc…)
- Fattori procedurali: errori di misurazione legati alla precisione degli strumenti, alla ripetizione
   delle rilevazioni, ecc…

Accanto alle misure psico-fisiologiche, vengono utilizzate le misure psicologico-soggettive. I
Questionari generali di tipo descrittivo hanno il vantaggio di essere abbastanza facili da preparare e
facili da completare (sono delle domande chiuse, non aperte, hanno risposte a scelta multipla pre-
impostate), ma lo svantaggio che sono molto dissimili fra di loro, non sono standardizzati, quindi
difficilmente confrontabili. Hanno bassa scientificità e scarsa possibilità sperimentale. I Test
psicometrici sono quelli che si utilizzano nelle psicodiagnosi, per valutare in termini “qualitativi” la
personalità. I più importanti sono il Cattel 16PF (16 fattori di personalità) e il Minnesota
Multiphasic Personality Inventory. Quest’ultimo è composto da 625 domande che necessitano 1 ora
e mezza per la compilazione ed è il test psicodiagnostico più completo per tutti i profili di
personalità. Le Scale di valutazione sono, invece, questionari già preparati, standardizzati, con
punteggi. La scala di valutazione più famosa e più utilizzata è il Job Content Questionnaire (di
Karasek), un questionario riguardante il contenuto del lavoro, messo a punto da un gruppo
americano-svedese.
Il Job Content Questionnaire, detto anche Karasek, valuta la percezione dello stress lavorativo sulla
base di due dimensioni: la prima risposta è “cosa si chiede di fare” al lavoratore, la seconda è la
libertà che il lavoratore ha nel rispondere a questa domanda. Esistono quattro possibili
combinazioni:
- domanda bassa (chiedo di fare poco) e un controllo basso è un lavoro passivo, cioè percepito
    come al disotto delle proprie possibilità, ed è quello che descrive la maggioranza delle mansioni.
    Quasi il 50 % dei lavoratori si sente in una condizione di questo genere: non che lavora troppo
    ma che lavora troppo poco per le proprie capacità;
- alta domanda (devi fare tante cose) e scarso controllo (es un lavoro a catena e a cottimo) è
    caratterizzato da elevato stress.
- Lavoro attivo, richiesto molto ma alta libertà (es manager);
- basso stress, chiesto poco e basso stress (es. professori universitari ordinari, medici e
    professionisti affermati; che sono tra l’altro quelli con la migliore sopravvivenza).

Il grafico successivo dimostra la misurazione della noradrenalina (blu) e l’adrenalina (viola) su un
gruppo di infermiere giovani, sane, che facevano una turnazione 3 x 8 x 2 (cioè 3 turni di otto ore
ogni 2 giorni alternando la notte e il giorno). La noradrenalina che deriva dalle terminazioni
simpatiche è molta più dell’adrenalina che viene dalla midollare del surrene, ed è stata misurata
nella notte di lavoro, nel mattino di riposo, nella notte di riposo e nel mattino di lavoro. Nella notte i
livelli di noradrenalina normalmente sono più bassi di quelli diurni, perché il sistema simpatico si
riduce di notte (sia la frequenza cardiaca che la pressione calano); mentre quando lavorano di notte
la noradrenalina aumenta, cioè il soggetto si adatta, così da assumere nella notte un’escrezione di
tipo diurno anche se più bassa rispetta al mattino di lavoro; ed infatti quando si fanno i turni c’è una

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reazione immediata con cui l’organismo modifica il ritmo circadiano in modo tale che di notte
assume pressappoco una funzionalità diurna, ma per adattarsi veramente necessitano 15 giorni.
Quindi la turnazione più incongrua è quella settimanale, perché non c’è adattamento; i turni più
congrui invece sono quelli mensili (1 mese di notte, un mese di giorno). I turni dei medici sono
sporadici, quindi una notte ogni tanto si ha questo adattamento rapido abbastanza tollerabile. Se si
lavora di notte i livelli di catecolamina aumentano; nel mattino di riposo i livelli di noradrenalina
non scendono rispetto alla notte di lavoro, ed è simile alla mattina di lavoro, quindi con questa
turnazione la produzione e l’escrezione di catecolamine è mediamente più alta rispetto a soggetti
che non fanno turni. Dato che le catecolamine aumentano i livelli pressori e di frequenza, nel
tempo, un aumento della loro secrezione media, può aumentare la pressione arteriosa stabilmente?
Questo tipo di situazione protratta per 15/20 anni può aumentare il rischio di ipertensione e quindi il
rischio cardiovascolare.

Escrezione urinaria media di catecolamine (NE = noradrenalina; E = adrenalina) in un
gruppo di infermiere (n. 15), esposte a turno notturno a rotazione (3x8x2), durante la notte di
lavoro (NW), il mattino di riposo (MR), la notte di riposo (NR), il mattino di lavoro (MW):

                       NE                                                         E
                      µg/8h                                                     µg/8h
                          70                                                      30
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                            60                                                    26
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                            50                                                    22
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                            40
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                            30
                                                                                  12
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                            10                                                    4
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                             0                                                    0
                                  NW           MR           NR          MW

                                                    NE     E

Le Misure epidemiologiche sono misure che descrivono la situazione di salute della popolazione.
Queste misure possono essere: fattori di rischio, l’incidenza, la prevalenza delle malattie e la
mortalità. È utile valutare la morbosità, cioè i malati per una certa malattia e i portatori di
determinati fattori di rischio. La pressione arteriosa, anche se ha una certa variabilità, è considerata
di sicuro un fattore di rischio cardiovascolare più preciso della frequenza cardiaca che è troppo
variabile.

Si considerano soprattutto le malattie cardiovascolari, e quindi il suo rischio, perché sono le malattie
più diffuse come causa di morte, hanno elevata mortalità e presentano fattori di rischio che nella
popolazione sono distribuiti in maniera consistente (ipertensione arteriosa 30-40%,
ipercolesterolemia 40%, fumo di sigaretta nel 30%). Per ogni studio statistico bisogna calcolarne il
potere, cioè quanto permetta di stimare l’effetto che si indaga.

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Questi dati si mettono in relazione alla condizione lavorativa ed alla percezione dello stress
lavorativo, e si parla a questo punto di malattia lavoro associate. Le malattie da lavoro tradizionali,
dovute a esposizioni lavorative nocive (silicio, mercurio, cromo, piombo…) che in genere sono
malattie monocausali, mentre le malattie lavoro associate sono malattie diffuse a tutta la
popolazione ed in certe condizioni lavorative possono essere più diffuse: allora non sono prodotte
dal lavoro ma associate al lavoro. Le malattie cardiovascolari entrano in questa categoria:
dipendono da una molteplicità di fattori nella quale può intervenire anche il lavoro come concausa.

Nelle successive figure vengono evidenziati i risultati di un’indagine di sorveglianza
epidemiologica condotta dal 1985 al 1995 nella popolazione dell’area detta Brianza che conta un
milione di abitanti, sorvegliati per l’incidenza dell’infarto acuto del miocardio e dell’ictus cerebri, e
per la distribuzione dei fattori di rischio (principalmente pressione arteriosa, colesterolo e fumo di
sigaretta). Sono stati studiati 4 campioni di questa popolazione, ciascuno composto da 200 maschi
e 200 femmine per ogni decade di età dai 25 ai 64 anni. In seguito alla registrazione dei fattori di
rischio, la loro distribuzione è stata messa in correlazione con la percezione dello stress usando il
Job Content Questionnaire e la valutazione della pressione arteriosa come indice di stress.
I risultati evidenziano che la pressione arteriosa nei maschi è più alta nelle due condizioni che
vengono percepite come stressanti, nella condizione passiva e quella di elevato stress. Solo 3
mmHg, che sono poco, ma un aumento di questo tipo in una popolazione è un dato significativo per
quanto riguarda la valutazione epidemiologica: cioè in un individuo una tale variazione è poco
significativa ma in un gruppo di popolazione è un fatto significativo, quindi effettivamente chi
percepisce un maggiore stress lavorativo ha una pressione arteriosa sistolica più alta.
Ciò avviene tra gli uomini e non tra le donne perché nel periodo di studio (1985-95) l’età media
pensionabile era di poco superiore ai 50 anni. Nelle donne l’ipertensione arteriosa è frequente dopo
la menopausa che mediamente si ha verso i 50 anni di età, quindi in questa condizione lavorativa le
donne avevano frequentemente meno di 50 anni allora in una situazione protettiva per la pressione
arteriosa, per questo motivo non si rilevano delle variazioni rilevanti.
Si è osservato, in seguito, se questo aumento dipendeva dalla domanda o dal controllo e si è notato
che dipende maggiormente da quest’ultimo. Questo aumento di pressione arteriosa dipende
soprattutto dal controllo sul lavoro. Il disagio lavorativo interviene a produrre un’alterazione
biologica sistematica stabile a livello di gruppo (a livello di persona, di individuo è ovvio,
clinicamente l’osservazione dell’effetto dello stress sul singolo è un’osservazione assodata). Questo
è un problema socialmente rilevante soprattutto in termini assicurativi (es. negli Stati Uniti nel caso
di insorgenza di infarto per alcune professioni si ha il riconoscimento della causa lavorativa) e di
variazione dell’età pensionabile.

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Livelli medi (X; errore standard, SE) di pressione arteriosa clinica (mmHg) negli uomini (n.
1799) e nelle donne (n. 1010) correntemente occupati, di età 25-54 anni, estratti da quattro
campioni di popolazione generale, indagati per i fattori di rischio cardiovascolare nell’ambito
del progetto MONICA-OMS, dal 1985 al 1994. Le medie sono aggiustate per età, indice di
massa corporea, assunzione di alcool, fumo, scolarità, attività fisica e anno di indagine:

Nella figura successiva vediamo come si comporta la malattia rispetto allo stress. E’ stato preso
come stima dello stress il livello socio economico, assumendo ovviamente che le persone di stato
socio-economico più basso si trovano in una condizione di disagio maggiore rispetto a quelli con un
tenore di vita più alto. Studi condotti soprattutto dalle assicurazioni negli Stati Uniti hanno
dimostrato una tendenziale e crescente divaricazione nelle condizioni di salute/benessere tra gli
strati più bassi e più alti della popolazione, cioè la popolazione di strato socio-economico più basso
si ammala di più e soprattutto di malattie cardiovascolari. Negli USA per spiegare questo si
considera il fatto che le prestazioni mediche sono a pagamento e quindi chi ha meno soldi si cura
meno e peggio perché fa più fatica ad accedere all’assistenza sanitaria, quindi si ammala di più. In
Italia invece la copertura medica assistenziale in via teorica copre tutti i cittadini italiani che
dovrebbero godere di medesima assistenza.
Si è osservata la mortalità per in infarto nelle diverse classi socio-occupazionali individuate come
condizioni esistenziali di stress (SMW significa skilled manual worker, cioè lavoratore manuale
qualificato, SE self employed, per esempio l’artigiano, MW manual worker, cioè lavoratore
manuale semplice, UW vuol dire lavoro incerto, non classificabile - solitamente sono i lavori
peggiori, precari). In ordinata è presente il logaritmo di OR (Odds Ratio) che è un rapporto di
rischio, per valutare l’incidenza di malattia in due gruppi di popolazione: se sono uguali il rapporto
è uno, se i casi in una popolazione sono di più il rapporto è maggiore di uno.
Nel grafico seguente viene considerata l’incidenza per infarto miocardico, cioè il numero di nuovi
casi in un anno. Le classi lavoratori manuali hanno un’incidenza sicuramente superiore agli artigiani
e ai lavoratori qualificati. Di questo non si sa la motivazione in termini adeguati. E’ stato ricercato
un differente livello di assistenza ospedaliera ma non c’è stato riscontro. Si è cercato di capire se le
persone di minor livello sociale e minor istruzione curano meno la propria salute sottovalutando i
sintomi, ma non è stato rilevato neppure questo, per cui probabilmente la causa risiede in una
maggior gravità della malattia quando si manifesta. Ciò significa che l’attività di prevenzione e di
diagnosi sono meno precoci nelle classi più basse. Lo stesso fenomeno riguarda anche la mortalità

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OR per infarto miocardico nei maschi, suddivisi per categoria socio-occupazionale (SMW,
skilled manual workers; SE, self employed; MW, manual workers; UW, unclassified
workers), con riferimento la classe sociale superiore:
                               100

                                10
                      log OR

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                               0,1

                                          SMW       SE       MW          UW
                                                     SO Classes
                                     All Hard MI   Incident Hard MI   Incident Any MI

Nella successiva figura vengono presentate le curve di Kaplan-Meier, che descrivono la
sopravvivenza nei soggetti con infarto, sono curve disegnate tra 1993-1994 e 1997-1998; quelle del
‘93 sono a tratto continuo, quelle del ‘98 sono tratteggiate in rosso. La sopravvivenza nelle quattro
classi principali nel 1998 è migliore, la percentuale di sopravissuti è più elevata, e la differenza tra
le classi sociali, tende abbastanza a diminuire soprattutto nelle tre classi sociali più basse, perché è
intervenuto un fattore molto importante: nel 1996 è stato introdotto il 118 che ha determinato una
migliore assistenza dell’arresto cardiaco al di fuori dell’ospedale. La mortalità maggiore si aveva
prima di arrivare all’ospedale (1% di sopravvivenza). Adesso, invece, la sopravvivenza per arresto
cardiaco extraospedalieri arriva al 5-6%, per cui tutto dipende non solo dalla condizione sociale, ma
anche dai livelli di assistenza intra e extra ospedaliera: correggendo questi si corregge anche lo
svantaggio sociale.

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Quanto visto fino adesso è l’analisi della problematica dello stress fino alla verifica della sua
correlazione all’aumento del rischio cardiovascolare e con il conseguente aumento dell’incidenza e
il livello di mortalità per patologia cardiovascolare. La conclusione è che effettivamente le
condizioni di maggior disagio lavorativo e sociale sono collegati al peggioramento dei fattori di
rischio, con conseguente aumento dell’incidenza della mortalità.
Questa situazione ha determinato, soprattutto negli Stati Uniti, la decisione di introdurre dei
programmi di medicina preventiva che considerassero lo stress, perché negli USA l’assicurazione
medica è pagata dal datore di lavoro e se questo riesce a ridurre i casi di malattia, paga un premio
assicurativo minore. Siccome le malattie cardiovascolari sono le prime come incidenza, i datori di
lavoro statunitensi si sono attrezzati per intervenire sullo stress e ridurre l’incidenza della malattia.
Da noi non sono molto diffusi perché per quanto il datore di lavoro secondo la Legge 626 sia
obbligato ad interessarsi della salute del lavoratore, tuttavia se lo fa non ha nessun vantaggio
economico, per cui cerca si di proteggerlo ma con il minimo dispendio. In America hanno anche
valutato quali sono i benefici per i dipendenti e per il datore di lavoro, con obiettivo di migliorare la
condizione economica.

Di seguito sono elencati i possibili componenti dei programmi aziendali di promozione della salute
e i benefici attesi per dipendenti e imprenditori:

A) Possibili componenti dei programmi aziendali di promozione della salute:
-educazione sanitaria -cessazione del fumo -miglioramento nutrizione -controllo del peso -controllo
dello stress -supporto psicologico -miglioramento della forma fisica -screening multiplo (in
particolare ipertensione e rischio cardiovascolare, posture, visione e neoplasie) -prevenzione di
malattie specifiche -campagne di immunizzazione -sicurezza sul lavoro -riabilitazione per patologie
cronico degenerative -eliminazione dell’abuso di sostanze, farmaci e alcoolici -educazione contro il
cancro -addestramento alle procedure salva vita -addestramento a procedure di autodiagnosi e self
care -educazione all’uso appropriato del sistema sanitario -educazione alla sicurezza al di fuori del
lavoro e in casa -programmi ricreativi e sportivi -uso del computer -uso delle risorse finanziarie
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B) Benefici attesi per i dipendenti e per gli imprenditori dai programmi aziendali di promozione
della salute
 1. Benefici per i dipendenti: - Prevenzione dell’invalidità - Miglioramento della salute personale -
Aumento della capacità di affrontare lo stress - Migliore autostima - Capacità ad affrontare
problemi specifici - Diagnosi precoce di malattia - Migliore soddisfazione sul lavoro -
Miglioramento del benessere complessivo - Miglioramento del "morale" - Aumento del "well
leave" - Aumento dei livelli di collaborazione - Miglioramento della performance - Riduzione dei
comportamenti anomali - Minore ricorso a prestazioni mediche - Riduzione degli infortuni -
Riduzione dei tempi di malattia.
2. Benefici per gli imprenditori: - Riduzione del rischio di "crisi" sanitaria - Miglioramento delle
condizioni sanitarie dell'azienda - Riduzione dei costi di natura sanitaria - Miglioramento della
produttività - Diminuzione dell'assenteismo - Diminuito turnover dei dipendenti - Riduzione della
spesa assicurativa - Miglior immagine dell'azienda e dell'imprenditore - Miglioramento delle
relazioni interaziendali - Riduzione dei disagi e delle prestazioni sanitarie - Riduzione dei costi per
malattia - Riduzione dei costi di invalidità - Maggior capacità di attrarre il personale - Pubblicità per
i prodotti dell'azienda - Miglioramento delle relazioni esterne - Minori assenze del personale
"chiave"

Nel mondo anglosassone sia in Inghilterra che negli Stati Uniti quando si compra o si vende
un’azienda, il prezzo è determinato anche dalla valutazione delle condizioni sanitarie e l’indice
preso in considerazione per valutare l’azienda è il livello di infortuni, anche in questo lo stress è
importante perché strettamente correlato al livello di infortuni.

Il progetto dell’OMS MONICA (MONItoring CArdiovascolar disease) è stato il più grande
progetto mondiale di monitoraggio e sorveglianza delle malattie cardiovascolari con circa 28 centri
in 16 paesi che hanno fatto un lavoro insieme, un protocollo comune di studio, di valutazione e di
verifica. Questo progetto MONICA si è sviluppato dal 1985 al 1994, poi è continuato con un altro
nome anche qui in Brianza, nel 1997-98, e adesso una terza fase riferita agli anni 2004-2005 cioè
vengono registrati, raccolti i casi che poi verranno studiati e verificati.
Dai risultati di questi studi emerge che dal 1985 al 1998, in soli 13 anni, la mortalità per infarto è
diminuita del 44% ma questo non è correlato con lo sviluppo del SSN, perché la mortalità
nell’ospedale è diminuita per la quota dal 12% al 6 %. Questo significa che questa diminuzione è
connessa alle condizioni sociali, alle abitudini di vita, quindi il loro studio è importante per
migliorare ulteriormente il fenomeno.
L’Attack Rate è il numero di nuovi casi e di recidive di infarto miocardico in un anno. L’Italia è tra i
paesi ad incidenza più bassa come tutti i paesi mediterranei con un attack rate di 5 volte inferiore
nelle donne rispetto alla Finlandia, e 4 volte inferiore rispetto a Glasgow negli uomini; l’area con
incidenza maggiore d’infarto è in Finlandia nella Carelia Settentrionale al confine tra Finlandia e
Russia (ancora più evidente tra le donne).
Con il tempo le malattie cardiovascolari hanno dimostrato uno spostamento dell’incidenza dalle
classi più agiate ai ceti meno abbienti. Tale spostamento corrisponde all’adozione di abitudini che
un tempo erano di appartenenza dei ceti superiori (fumo, alcol, alimentazione eccessiva), da parte
delle classi più basse, che però erano mancanti di un’educazione sociale adeguata. Quindi da questi
dati di carattere epidemiologico si capisce che il problema dei fattori sociali è sicuramente molto
rilevante e deve essere considerato con più attenzione di quanto si sia fatto finora; questo tentativo
di interpretare in termini biologici i problemi di adattamento è importantissimo. Quello che risulta
da questo progetto è che lo studio delle condizioni sociali valutate soprattutto attraverso la classe
occupazionale e il livello di scolarità in una certa popolazione, in relazione all’incidenza della
malattia, è sicuramente più affidabile che non la valutazione dello stress, perché è una valutazione
più obiettiva della situazione sociale ed esistenziale e più correlata alla malattia. Questo serve a

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considerare non solo i determinanti che sono di carattere biologico ma anche quelli di carattere
personale. In secondo luogo si può comprendere come la valutazione di questo fenomeno, che
d’altra parte è molto popolare, sia una valutazione molto complessa che va presa con grande
attenzione e prudenza nel trarne le conclusioni; sono indagini molto complicate, che necessitano di
molti anni: per avere dati con un minimo di certezza servono almeno dieci anni.

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