Francesco Petrarca, Un commento per i sonetti LX, LXI e LXII
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
Francesco Petrarca, Un commento per i sonetti LX, LXI e LXII Questi tre sonetti costituiscono un nucleo, un gruppo importante in seno al Canzoniere petrarchesco perché palesano il dissidio, il fluttuare, l’ondeggiamento del Petrarca che oscilla tra maledizione e benedizione del suo amore per Laura creatura. Il sonetto LX, L’arbor gentil… Nel sonetto LX, L’arbor gentil che forte amai molt’anni, il poeta maledice il suo amore per Laura tramite un parallelismo che porta ad una vera e propria confusione ed identificazione di Laura, donna amata e cantata, col lauro, pianta dell’incoronamento poetico. Tale paragone conduce ad un’adequazione tra la donna amata e la gloria poetica in quanto la donna amata spinge il poeta a cantarla nei suoi versi aprendogli la strada verso la gloria poetica. Tale adequazione deriva dalla mitologia e più precisamente dal mito di Apollo e di Dafne, ninfa, vergine che si dedica alla caccia proprio come Diana, e venne amata da Apollo, dio della poesia la cui passione per la ninfa gli fu ispirata da Cupido che era stato deriso dal dio che aveva paragonato le armi leggere e la statura piccola di Cupido alle prorie prodezze di arciere del sole. Cupido, per punirlo, mandò due frecce del suo arco dalla cima del Parnasso: la prima trafisse il cuore di Apollo con la sua punta d’oro e lo fece innamorarsi di Dafne; l’altra, con la punta di piombo, colpì Dafne e la rese insensibile ad amore. Apollo inseguì la ninfa nei boschi fino alle sponde del fiume Peneo, ritenuto padre di Dafne. Qui, stando per afferrarla, la ninfa pregò con fervore il dio del fiume di salvarla e venne radicata sul posto e trasformata in lauro. Apollo dovette lasciare d’inseguirla ma, in quanto dio della musica e della poesia, decise che da allora in poi, un ramo di lauro avrebbe ornato la propria lira, la propria faretra (le carquois) e la testa dei poeti. Sin dal mito, vediamo confondersi la donna amata con la pianta amata, l’amore per la donna e il suo canto, la pianta adorata dal dio che diventa pianta dell’eccellenza poetica. Traduzione : L’arbre noble qu’avec force j’ai aimé durant maintes années, Tant que ses beaux rameaux pour moi n’eurent du dédain Faisait fleurir ma faible intelligence A son ombre et la faisait croître dans les tourments habituels. -1-
Après que, pour moi qui me croyais à l’abri de telles tromperies, Il se changea de doux qu’il était en bois impitoyable, Je dirigeai vers une seule cible toutes mes pensées, Qui toujours parlent de leur triste martyre. Que pourra dire celui qui d’amour soupire, Si un espoir tout autre mes poésies juvéniles Lui avaient donné, et qu’à cause d’un tel arbre il la perd à présent ? Que jamais poète n’en détache un rameau, que jamais Jupiter Ne lui accorde plus le privilège, et qu’au soleil il en vienne odieux, A un point tel que se dessèche chacune de ses vertes feuilles. La prima quartina viene dedicata alla presentazione dell’amore rivolto alla donna tramite il paragone della donna amata dal poeta con lauro desiderato in quanto riconoscimento del valore poetico. L’amore per la donna si iscrive dapprima nella sfera dei sentimenti (v.1-2) per riversarsi poi nella sfera dell’intelletto. Il parallelismo tra la donna amata e la pianta amata dai poeti si riversa quindi nella struttura della prima quartina che evoca i sentimenti e poi l’ingegno ; la cretura fonte d’ispirazione e poi la creazione poetica che genera. I primi due versi sono infatti pervasi da riferimenti alla sfera sentimentale. Nel primo verso, viene evocato lo stato sentimentale del poeta, il suo amore per la donna come lo indica l’uso del verbo « amare » che viene rafforzato ed insistito da due formule di insistenza, dall’avverbio di maniera « forte » ma anche dal complemento di tempo « molt’anni » che sottolineano la forza, la durata e la permanenza di tale sentimento amoroso. Il verso 2 presenta i sentimenti dell’ « arbor gentil » personificato ed identificato alla donna amata. All’espressione diretta dei sentimenti del primo verso, si contrappone l’evocazione indiretta, perifrastica dei sentimenti della donna amata che vengono espressi in forma negativa “non m’ebber a sdegno”, formula che non va ricondotta ad una litote ma che potrebbe piuttosto essere interpretata come eufemismo: “mentre i bei rami non mi odiarono”. Nei seguenti due versi, si passa dalla sfera dei sentimenti a quella dell’intelletto, dall’amore all ‘ingegno” (v.3). Va notato che la metafora vegetale si prosegue e viene sviluppata, dall’albero nobile personificato provvisto di « bei rami », si passa alle sue conseguenze espresse in termini vegetali : « fiorir faceva il mio debile ingegno ». L’amore per la donna è fonte d’ispirazione poetica e permette di acquistare, o almeno di conquistare, la gloria poetica che si materializza col possesso della corona di lauro. Inoltre, va aggiunto che, secondo la tradizione, l’amore dev’essere nutrito dall’intelletto perché si radichi potentemente nel cuore dell’uomo. -2-
La seconda quartina introduce un cambiamento che si realizza attraverso una rottura temporale annunciata dalla locuzione « Poi che ». Una rottura temporale che corrisponde ad una rottura sentimentale. Infatti, questa seconda quartina presenta l’evoluzione del sentimento della donna che dall’assenza di « sdegno », v.2, che da « dolce », diventa « spietato », nella costruzione antitetica del verso 6. La donna che avrebbe potuto ricambiare l’amore, appare ora spietata sempre attraverso l’identificazione col lauro evocato tramite la sineddoche (figura retorica che consiste nell’indicare la parte per il tutto oppure la materia per l’oggetto) « legno ». Inoltre, va aggiunto che il sostantivo « tali inganni », v.5, eccheggia la formula « tali inganni » del verso precendente ed annuncia la locuzione « lor tristi danni » del verso 8, insistendo sui tormenti d’amore, sull’amore infelice e dolente. I versi 7 e 8 riprendono il riferimento alla sfera intellettuale tramite l’evocazione dei « pensier » « che parlan sempre de’ lor tristi danni », dei pensieri di tristezza per l’amore non corrisposto. In tale evocazione vengono associati il ragionamento e il pianto proprio come nel sonetto iniziale del Canzoniere, Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, erano state individuate poesie ragionative da una parte e poesie di pianto dall’altra. La prima terzina sospende il ragionamento sull’amore per interessarsi al pubblico al quale si rivolge il Petrarca, al pubblico già presentato nel sonetto liminare, a quel pubblico ideale dei fedeli d’amore ma anche e soprattutto, presso il Petrarca, un pubblico di lettori ed intenditori della poesia d’amore. Il poeta si rivolge direttamente al pubblico dei fedeli d’amore, dei lettori della poesia d’amore e più precisamente ancora ai propri lettori, ai fedeli delle sue « rime nove », v.10. Dall’evocazione tinta di passato, si passa, in questa prima terzina, all’interrogazione diretta rivolta al pubblico, al pubblico degli innamorati : « chi per amor sospira », v.9, i sospiri costituendo il linguaggio d’amore. Tale interrogazione si costruisce su un peroido ipotetico della possibilità : « s’altra speranza le mie rime nove / gli avessir data, et per costei la perde », v.10-11. Alla speranza supposta, all’illusione si oppongono la perdita, il disinganno. Alla speranza espressa nelle « rime nove », nel Canzoniere petrarchesco, cioè alla speranza di un amore ricambiato, si oppone la realtà della donna insensibile, spietata di Laura-Dafne, di Laura-lauro. Tale opposizione annuncia già la maledizione dell’amore per la donna che viene presentata come la maledizione della pianta poetica, del lauro nella terzina finale strutturata intorno alla ripetizione e concatenazione di formule negative « né » cominciando col disinteresse del poeta : « Né poeta ne colga mai », v.12. L’invettiva si apre rivolgendosi innanzittutto ai poeti ed invitandoli a staccarsi dal lauro, che non deve più essere considerato come somma gloria poetica, sommo riconoscimento nella carriera di poeta. Al disinteresse del -3-
poeta, si aggiunge il disinteresse di Giove, dio del fulmine che deve togliere al lauro ogni privilegio, ogni sua protezione in modo che possa essere fulminato. Terzo autore ed attore di tale maledizione dovrà essere il suo originale protettore ed amatore, vale a dire il Sole, cioè Apollo stesso che deve rivolgere alla pianta non più amore ma ira : « et al Sol vegna in ira », v.13. Queste sono le tre condizioni sentite necessarie per il Petrarca perché possa avvenire la maledizione del lauro che si concluderà colla scomparsa della pianta come lo indica l’ultimo verso introdotto dalla congiunzione consecutiva « tal che » : « tal che si secchi ogni sua foglia verde », cioè in modo che muoia il lauro e con lui la donna vanamente amata che sia Dafne oppure Laura. In conclusione, questo sonetto, molto retorico e mitologico che identifica all’amore di Petrarca e Laura quello mitologico di Apollo e Dafne collocandolo sotto il segno della maledizione, è interessante nel senso che il sonetto che fa immediato seguito magnifica l’amore per Laura e lo giustifica rilevando così il profondo dissidio che travaglia il poeta e l’uomo. Sonetto LXI, Benedetto sia ‘l giorno et ‘l mese e l’anno In questo sonetto, a differenza del precedente, il Petrarca benedice il suo amore per Laura sotto una certa intonazione religiosa con accenti di litania amorosa. Traduzione: Que béni soit le jour, le mois et l’année, Et la saison, le temps, l’heure et le moment, Et le beau pays, et le lieu où je fus pris Par deux beaux yeux qui m’ont lié. Et bénie soit la douce sensation d’angoisse qui la première fois M’oppressa quand de force avec amour je fus conjoint Et l’arc et les flèches dont les pointes me percèrent Et les plaies qui s’ouvrent jusque dans mon cœur. Que bénis soient les sons de mes voix si nombreux que Pour clamer le nom de Madame j’ai répandus Et ces soupirs, ces larmes et ce désir ; Et bénis soient ces feuillets Où je lui acquiers la gloire en ma pensée, Qui seule est à elle, si bien que nul autre ne la partage. -4-
Questo sonetto si divide in due parti. Nella prima, che corrisponde alle quartine, il poeta presenta l’origine, le cause del suo amore, mentre nella seconda, corrispondente alle terzine, il Petrarca presenta gli effetti di tale amore. La prima quartina si apre sulla formula « benedetto sia » che conferisce un senso religioso, un senso di litania al sonetto e viene ripresa in modo anaforico all’inizio di ogni strofa, due volte al singolare e poi due volte al plurale nelle terzine in ordine rovesciato : Benedetto sia, v.1 Et benedetto, v.5 Benedette, v.9 Et benedette sian, v.12 Appare così una struttura rovesciata, chiasistica. Inoltre, va aggiunto che ogni parte si compone di un periodo. Si tratta quindi di un sonetto religioso, di una litania il cui ritmo è affidato al polisindeto, cioè alla ripetizione insistita della preposizione « e ». Nella prima parte, il poeta presenta, come l’abbiamo detto, le circostanze e le cause del suo innamoramento cominciando nei primi due versi coll’esporre le circostanze temporali come lo indica il campo semantico del tempo : « giorno », « mese », « anno », « stagione », « tempo », « ora », « punto », parole queste che formano un’accumalazione e vengono enunciate nel primo verso secondo una gradazione, procedimento retorico anche detto climax : figura retorica che conduce dal meno al più, dal giorno all’anno ; e secondo il procedimento opposto nel verso 2 chiamato gradazione discendente o anticlimax (cioè dal più al meno, dalla stagione al punto). Dalle circostanze temporali, il poeta passa all’evocazione delle circostanze spaziali, geografiche al verso 3 come lo indica il campo semantico : « bel paese », « loco ». Appare importante sottolineare il fatto che il Petrarca, i questi primi tre versi, rimane molto vago sia nell’evocazione del quadro temporale che geografico. Infatti, parla in modo generale ed evasivo del « giorno » del suo innamoramento e non del 6, del « mese » e non di aprile, dell’ « anno » e non del 1327, della « stagione » e non della primavera, del « bel paese » e non della Provenza, del « loco » e non della chiesa di Santa Chiara. Infatti, vuole ad ogni costo rimanere vago, evocare luoghi e tempi indeterminati non troppo particolareggiati, usa perifrasi indefinite, non chiude la propria vicenda nel particolarismo, ma invece la lascia volontariamente vaga perché possa essere sentita come una vicenda universale e cioè, una vicenda esemplare, valida per tutti quelli che provano amore. E infatti, dopo l’evocazione generale del quadro spazio-temporale della nascita d’amore, viene -5-
presentato l’innamoramento tramite l’enjambement che collega il verso 3 al verso 4. L’innamoramento viene tradizionalmente percepito come la cattura del cuore dell’amante. Il verbo « giungere » nasconde l’allusione alla freccia d’amore che ha raggiunto il cuore dell’amante tramite lo sguardo, tramite i due « begli occhi » della donna secondo il topos tradizionale che ritiene che l’amore nasca dagli occhi. Il Petrarca aggiunge un altro riferimento, al verbo « giungere », fa seguito il verbo « legare » : « che legato m’hanno », gli occhi della donna hanno legato il poeta, l’amore lega l’uomo, la donna incatena l’amante con le sue trecce come il poeta l’aveva già suggerito nell’ambito del sonetto Era il giorno ch’al sol si scoloraro. In questo sonetto, proprio come nel precedente, il Petrarca si identifica ad Apollo, ricordando, a quanto pare, personaggi della tradizione ovidiana legati al mito di Apollo, quali sono i Giorni, le Ore che fungono da corte al dio solare e poeta. Inoltre, va ricordato che Apollo, per aver deriso Amore paragonando la propria maestria nell’arte dell’arciere alle armi leggere ed alla statura bassa di Cupido in opposizione a lui, arciere per eccellenza che scocca le frecce del Sole, Amore, per vendicarsi l’aveva trafitto da una freccia d’oro, ispirandogli amore per Dafne, mentre aveva trafitto la ninfa con una freccia di piombo, rendendola insensibile ad amore. Si era quindi vendicato ispirando ad Apollo un amore non corrisposto. Tale ricordo, insieme all’immagine guerriera d’amore, viene sviluppata nella quartina seguente che rappresenta la ferita d’amore cominciando col dissidio d’amore che viene espresso attraverso l’ossimoro « dolce affanno » che ricorda la natura duplice d’amore in quanto sentimento fonte di gioia oppure di dolore secondo il topos provenzale. Il verso 6 riprende il verso 3 come lo indica la rima piena tra « giunto » e « congiunto » che insiste sulla compenetrazione tra amore e amante. Ferito da Amore, l’amante si unisce inscindibilmente ad esso. La quartina si conclude sulla metafora, sulla personificazione tradizionale e stilnovistica dell’amore guerriero con l’arco e le frecce che ricorda l’amore di Apollo e Dafne usando le immagini della mitologia tradizionale che vengono sottolineate dall’uso del polinsindeto, cioè dalla ripetizione della preposizione « e » che permette di elencare i diversi attributi tradizionali di Amore : « et l’arco, et le saette ond’io fui punto », v.7, e finisce sulla piaga dell’amante ferito dalla freccia amorosa. Alla puntura fanno seguito le « piaghe », piaghe profonde che « infin al cor mi vanno », piaghe opere della freccia d’amore che dagli occhi passa il core come l’aveva ricordato Guido Cavalcanti nel sonetto, Voi che per li occhi mi passaste ‘l core. Attraverso tali riminiscenze tradizionali, il poeta prosegue il suo paragone implicito con la sua vicenda amorosa e la ferita d’amore subita da Apollo frecciato da un Amore vendicativo. Il Petrarca si rivolge qui, tramite diverse allusioni, ad un pubblico colto, -6-
non solo ai fedeli d’amore, a quelli che per prova conoscono amore, alle donne che hanno intelletto d’amore, ma anche e soprattutto ad un pubblico di letterati che conoscono ed intendono la letteratura d’amore, ad un pubblico dotto capace di riconoscere la corte di Apollo secondo la tradizione ovidiana accanto ad immagini più tradizionali della lirica provenzale ed italiana come la tematica secondo la quale « amare » significa « essere preso » come l’avevano affermato sia Andrea Cappellano nel De Amore che Isidoro di Sevilla nelle sue Etimologie. Dopo aver ricordato le circostanze, le cause dell’innamoramento, nella seconda parte, il Petrarca presenta gli effetti di tale amore secondo due ordini : un ordine esistenziale e poi un ordine letterario in ogni terzina. Nella prima terzina, il Petrarca espone gli effetti esistenziali prodotti da tale amore tramite l’uso del vocabolario sonoro, del campo semantico dell’udito : « le voci tante », « chiamando », « il nome », « i sospiri », « le lagrime », dei suoni plurali ed insistiti rafforzati dall’uso della formula d’insistenza « tanto » che prolunga il rumore e il grido, la voce poetica, un grido prolungato dall’uso del gerundio « chiamando » in opposizione al singolare e all’unicità del nome chiamato che viene sottolineata dall’uso dell’articolo determinato singolare « il » : « il nome di mia donna » : il solo nome della donna amata : Laura. Il Petrarca allude qui ad un’altra immagine mitologica, al personaggio allegorico della Fama, donna dalle cento bocche che appare al’inizio dell’Eneide di Virgilio quando Didone s’innamora di Enea, la Fama fa correre la voce del suo amore. La Fama veicola qui il nome di Laura e gli conferisce fama, lo rende famoso. Qui il poeta fa la parte della fama come lo indica l’uso del pronome personale soggetto della prima persona del singolare « io », v.9 ; ripetendo il nome di Laura nelle sue rime, nelle sue rime « sparte », v.10, cioè nel i come viene viene definito nel sonetto iniziale, Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, lo rende famoso. Il Petrarca allude anche brevemente al topos della donna signore tramite l’espressione « mia donna », che ricorda l’origine latina della parola « Madonna », etimologia sulla quale giocava la tradizione provenzale che applicava alla vicenda amorosa, il sistema della gerarchia feodale : l’amante era percepito come il vassallo mentre la donna era considerata come signore. L’amante doveva un servizio d’amore, di fedeltà alla donna signore. Va ricordato a questo punto che nel sonetto precedente, L’arbor gentil, il poeta applicava all’albero l’epiteto di « gentil », aggettivo tradizionale della lirica d’amore che ricorda il « cor gentile » di Guido Guinizzelli e di Dante. Laura viene considerata come il signore di Petrarca amante, ma tale tesi verrà respinta nel sonetto seguente che dichiarerà che l’unico signore dell’uomo dev’essere Dio. Infine, nell’ultimo verso di questa prima terzina, il Petrarca evoca il linguaggio amoroso, il -7-
linguaggio della poesia d’amore : un linguaggio musicale fatto di « sospiri », « lagrime » e di « desio », tramite un’accumulazione sonora, un’accumulazione di suoni fisici che vengono riuniti dal polisindeto : « e i sospiri, et le lagrime, e ‘l desio », v.11. Il Petrarca si abbandona qui ad una bestemmia amorosa. Infatti, applica al discorso amoroso un’espressione tradizionalmente riservata alla parola divina : « ò sparte », v.10. La parola di Dio era infatti considerata come una semenza secondo la concezione esposta nel Vangelo di San Giovanni. Il Petrarca si paragona più o meno ad un dio poetico, ad Apollo stesso proseguendo così il paragone implicito iniziato nel sonetto precedente, tentando di creare, tramite il Canzoniere un Nuovo Vangelo, non più cristiano ma amoroso. Infatti, questo sonetto è gremito di allusioni sacrileghe come lo indica la ripetizione anaforica di « benedetto » con la quale il poeta benedice l’amore sensuale, carnale, pronunciando così una bestemmia di cui si pentirà nel sonetto seguente. Dagli effetti esistenziali evocati nella prima terzina, la seconda presenta invece gli effetti letterari suscitati da amore come lo indicano le parole « carte », sineddoche per indicare i libri, le pagine stese dal poeta ispirato da amore e « ‘l pensier mio », l’immagine della donna che occupa i pensieri dell’amante ispirandolo, facendo nascere il canto d’amore. Questa seconda terzina si apre sulla benedizione della produzione letteraria che nasce dall’amore per la donna, una produzione letteraria evocata tramite l’immagine vegetale che occupava il sonetto precedente. Infatti, il libro viene visto tramite « le carte », la parola « liber » significando diverse carte collegate insieme, carte che benedicono Laura e l’amore che suscita tramite un gioco di parole secondo il quale l’anaforico « benedette » equivale a « dette bene ». Lo scopo di tali carte viene precisato nel verso seguente nell’uso diretto della parola « fama » che era stata suggerita tramite un’allusione mitologica nella terzina precendente. Il poeta, cantando il nome di Laura nelle sue poesie, le conferisce fama. Va sottolineata anche la metafora finanziaria che viene usata dal poeta : « l’acquisto ». Il Petrarca tesaurizza la fama di Laura che finisce col costituire un vero e proprio tesoro secondo l’espressione evangelica di san Matteo che dice che « laddove è il tuo tesoro là anche è il tuo amore ». Il tesoro di Petrarca sarebbe quindi l’amore per Laura creatura, un amore esclusivo come risulta dal verso finale punteggiato dall’aggettivo « sol », v.14, che insiste sul carattere unico, imperioso, geloso di tale amore esclusivo d’ogni altro sentimento o persona, : « sì ch’altra non v’à parte », cioè di un amore del tutto opposto alla carità cristiana. Il Petrarca appartiene interamente a Laura che costituisce il suo tesoro. -8-
In questo sonetto, Laura viene evocata in quanto oggetto del genio poetico di Petrarca, in quanto lauro e in quanto oro : i pensieri del poeta sono aurei perché cambia la sua donna in oro che l’abbiamo visto nel sonetto XC, Erano i capei d’oro a l’aura sparsi. Si tratta di un sonetto sacrilego in totale antitesi col precedente e col seguente che maledicono entrambi l’amore per Laura creatura. Sonetto LXII : Padre del ciel Si tratta di un sonetto datato, del sonetto dell’undicesimo anniversario dell’innamoramento, cioè del 6 aprile del 1338. Il Petrarca si rivolge a Dio perché lo liberi dalla fiera passione con la sua grazia. Dimostra uno smarrimento, una profonda stanchezza spirituale che si traduce tramite la preghiera e la confessione, l’umiltà con la quale il Petrarca osserva la propria miseria con una chiarezza d’introspezione che caratterizza l’intero Canzoniere. Possiamo chiederci se il poeta è mosso da una certa volontà allegorica nella scelta degli anniversari in quanto il numero 11 viene considerato come una cifra diabolica in opposizione alla perfezione del 10. Proprio come nel sonetto III, il Petrarca prosegue il paragone con la vicenda cristica : il poeta si trova sulla croce d’amore proprio come Cristo è sulla croce del sacrificio, il poeta è innamorato proprio come Cristo muore per amore dell’umanità. La novità del Petrarca risiede proprio in tale retorica iperbolica e proprio perciò possiamo chiederci se i sonetti anniversari prorpio come l’intero Canzoniere sono pervasi prevalentemente da una volontà realistica, le date cronologiche permettendo di ancorare la vicenda amorosa nella realtà conferendo ad essa una certa autenticità, oppure da una volontà simbolica, il Canzoniere riflettendo il cammino contradditorio delle emozioini e dell’amore del poeta come appare nel gruppo di sonetti LX, LXI e LXII in cui il Petrarca maledice il suo amore per poi benedirlo e finire col maledirlo di nuovo. Giungiamo così ad un vero e proprio sistema di tesi / antitesi, di pro / contra non originale ma tradizionale. Infatti, Andrea Cappellano nelle prime due parti del suo De amore aveva esaltato l’amore cortese per poi esprimere nella terza parte l’antitesi secondo la quale l’amore dev’essere rivolto solo a Dio. Allo stesso modo, Guido Guinizzelli, nella sua canzone dottrinale, Al cor gentile rempaira sempre amore, aveva cantato l’amore per la donna tramite il legame inscindibile di amore e del cor gentile. Tuttavia nell’ultima strofa aveva affermato che amore dev’essere rivolto esclusivamente a Dio ed alla Vergine ma nell’ultimo verso di questa sua confessione traditrice aveva capovolto una volta tanto il suo ragionamento confessando che la donna amata -9-
somigliava tanto ad un angelo che averla amata non era colpa sua. Tale schema tradizionale permette, presso il Petrarca, di riflettere il suo ondeggiamento psicologico in quanto anima tormentata tra fede ed amore, tra peccato e conversione, tra retorica e sincerità, tra poeta innamorato e poeta che canta l’amore. Questo sonetto può ammettere diverse divisioni. Secondo un primo schema, possiamo dividere le due quartine in cui il poeta invoca Dio ed evoca il suo male dalle due terzine che hanno la stessa organizzazione. Oppure, possiame notare che, nella prima quartina, Petrarca invoca Dio e descrive la sua malattia d’amore mentre la seconda quartina è contrassegnata da una domanda all’imperativo che chiama soccorso. Le terzine seguono la stessa struttura in quanto la prima invoca Dio ed evoca il mal d’amore mentre la seconda chiede aiuto attraverso tre imperativi anaforici. Un altro schema è ancora possible seguendo il dispositivo ternario delle tre strofe con un riassunto in tre versi nell’ultima terzina secondo una triplice invocazione alla Santa Trinità : al Padre eterno (prima quartina), allo Spirito Santo (seconda quartina), al Figlio (prima terzina), concludendosi sulla preghiera di pietà riassuntiva (seconda terzina). La prima quartina viene quindi caratterizzata dall’invocazione a Dio padre tramite il discorso diretto. Si apre su una riminiscenza del Pater Noster : « Padre del ciel » rammenta infatti « Padre nostro che sei nei cieli ». La quartina si apre quindi su di una preghiera rivolta a Dio padre. L’oggetto della preghiera viene subito palesato come lo suggerisce il verbo « perdere » : « dopo i perduti giorni », v.1, che introduce una metafora finanziaria ricordando quella del sonetto precedente. Dall’amore concepito come tesoro del Petrarca, abbiamo qui la confessione di aver perso il tesoro celeste, l’amore divino, la carità di Dio, sprecando i giorni a tentare di conquistare un amore colpevole, inizio del « giovenile errore », cioè del peccato. Al Parde celeste si oppone il figlio perduto, smarrito nella vanità terrena come lo indica la forte cesura che divide i due emistichi di questo primo verso. La metafora finanziaria viene ripresa nel verso seguente tramite l’uso del verbo « spendere » applicato non già ai giorni ma questa volta alle « notti ». Alla passività che occupava i « giorni », si aggiunge la volontà peccaminosa che occupa anche i sogni come lo indica la locuzione temporale plurale « le notti », l’uso del gerundio « vaneggiando » che prolunga l’azione e ricorda il « vaneggiar » del sonetto Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono. Va aggiunta la ripetizione dell’avverbio temporale « dopo » che sottolinea l’ossessione dell’immagine di Laura onnipresente. Durante il giorno il poeta amante pensa alla donna amata che occupa anche i suoi sogni. Ritroviamo qui l’idea tradizionale dell’immagine ossessionante della donna perché, come lo diceva Andrea Cappellano e lo stesso Dante, la visione della donna amata non basta, perché amore si -10-
radichi profondamente è necessario che la visione sia seguita dalla meditazione, dalla cogitazione, dai pensieri che nutriscono amore e lo fanno crescere. La prima tappa qui non viene ricordata. Infatti, la visione, l’incontro con la donna non vengono evocati a differenza del sonetto III o del sonetto XC per esempio, viene soltanto suggerita al verso 4 tramite l’uso del gerundio « mirando » che traduce una visione insistita e quasi estatica. Il poeta comunque insiste di più sulle conseguenze della visione della donna, dell’amore che fa nascere nel cuore un « fero disio », v.3, cioè un desiderio feroce, prepotente. La nascita del desiderio amoroso viene tradizionalmente narrata attraverso la metafora del fuoco d’amore come lo suggerisce l’uso del verbo « s’accese ». Inoltre, l’aggettivo « fero » sembra importante in quanto traduce la forza, la prepotenza di tale desiderio, idea che verrà ripresa al verso 11 tramite l’aggettivo « feroce ». Il Petrarca ricorda ancora una volta la tradizione precedente applicando a Laura la metafora della donna belva, bestia, simile alla donna pietra dantesca ed in ogni caso una donna spietata e crudele come veniva già effigiata nel sonetto LX. Nel Canzoniere,Laura prende i tratti della donna angelo stilnovistica come per esempio nel sonetto XC Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, ma riveste anche la figura di una donna belva dal cuore di pietra. Il Petrarca riunisce in uno stesso personaggio ciò che prima era stato diviso, elemento che contribuisce ad accrescere la sua novità raggruppando ciò che prima era soltanto giustapposto. Nel verso 4 indica le cause della nascita di quell’implacabile passione che individua negli « atti » « sì adorni », cioè nella bellezza fisica della donna, nel suo portamento che lascia trasparire la sua sensualità, la sua leggiadria. Tuttavia, in opposizione al canto lodativo della bellezza corporale della creatura amata, troviamo la coscienza acerba dell’amante : « per mio male » che percepisce la bellezza della donna come fonte, origine del suo male, della malattia d’amore che nuoce al proprio corpo secondo un topos tradizionale. Un male che nuoce all’equilibrio corporale ma anche morale in quanto è contrario alle « belle imprese » evocate nella quartina seguente, cioè alle opere religiose che l’uomo cristiano deve compiere ma che l’amante poeta non ha compiute dedicato ed assorto che era nel suo amore terreno. Va anche aggiunto che l’aggettivo « adorni » costituisce una parola tecnica ripresa dal Petrarca ed applicata alle bellezze fisiche di Laura ma non va dimenticato che « l’ornamentum » indica le bellezze poetiche, le diverse figure retoriche che ornano un componimento. Accanto quindi alle bellezze concrete e fisiche di Laura, il poeta alluderebbe anche alle bellezze artistiche, letterarie della Laura cantata in quanto ispiratrice di poesia come già l’aveva detto nel sonetto LX. L’amore, in questa prima quartina, viene più o meno diabolizzato o almeno visto come un’affezione contraria alla fede cristiana ed alla salvezza. Petrarca si rivolge a Dio perché vuole essere liberato da tale male. -11-
La seconda quartina è contrassegnata da una preghiera discreta ed umile che palesa l’impazienza della redenzione. Il poeta si rivolge ormai allo Spirito Santo, come lo suggerisce l’immagine della luce : « piacciati omai col tuo lume », v.5, lo Spirito Santo essendo simboleggiato dalla fiamma, apparendo sotto forma di fiamma durante la Pentecoste. Tale simbolo tradizionale è importante nel senso che l’immagine del fuoco occupa anche un posto importante nella tradizione lirica in quanto rappresenta la nascita d’amore come lo indicava il verbo « accendere » del verso 3. Quindi, al fuoco d’amore si oppone il lume della grazia, al fuoco che brucia, il fuoco che illumina, al fuoco infernale, il fuoco celeste e, per via di conseguenza, all’amore peccaminoso, sensuale per la creatura Laura si oppone l’amore salutifero per Dio Creatore. Proprio perciò, il poeta consapevole del suo traviamento, rivolge una preghiera umile, sottomessa introdotta dall’imperativo « piacciati » che corrisponde ad un termine giuridico che veniva adoperato dal senato romano per esprimere il « piacere del re ». Accanto alla metafora dell’amore signore, il Petrarca sembra riconoscere in Dio il solo ed unico signore dell’uomo e si dà così ad una conversione come lo suggerisce il verbo « tornare », v.5, deve tornare verso la diritta via : morale e poetica. Tale conversione viene ribadita dall’uso della formula alternativa « altra vita », v.6, e dal comparativo « più belle imprese ». Il poeta desiderebbe cominciare una vita nuova, spirituale, cristiana che potrebbe risultare sia dal Battesimo sia dalla confessione dei peccati. Una vita rinovellata, cristiana compiendo imprese cristiane come dedicandosi alla carità, all’amore fraterno. Si avverte una progressiva diabolizzazione della donna amata che viene più o meno collocata nell’inferno in opposizione alla donna stilnovistica che popolava il cielo. Infatti, nei seguenti due versi (7-8), il poeta riprende il Pater Noster che era stato ricordato sin dal verso iniziale del sonetto : « allontanaci dalla tentazione ; liberaci dal male ». Laura viene diabolizzata e nominata attraverso la perifrasi « il mio duro adversario », v.8. La donna appare simile ad uno strumento, ad una trappola diabolica, lei che fa uso di « reti », v.7, reti che tradizionalmente sono attributo del diavolo pescatore o cacciatore che prende le anime nelle sue reti in opposizione a Cristo che pesca le anime per salvarle. Appare così che il Petrarca gioca sulle metafore ed immagini tradizionali di amore, già contrapponendo al fuoco d’amore, il lume della grazia e adesso associando le reti diaboliche alla concezione di Andrea Cappellano o di Isidoro di Siviglia che applicavano ad amore la metafora della pesca o della caccia considerando che « amare » signica « prendere od essere preso con un amo ». Infine, la locuzione « se ne scorni » contiene un ulteriore gioco sulle parole, il diavolo essendo tradizionalmente raffigurato cornuto. L’amore cortese con le sue metafore più tradizionali diventa un’immagine diabolica : le reti della donna simboleggiate dai suoi capelli, dalle sue -12-
trecce somigliano alle reti diaboliche sicché la donna amata oscilla tra una figura di angelo o di demone. Il poeta oppone all’amore caritatevole, all’amore divino, l’amore terreno sentito come diabolico. Dopo la duplice invocazione rivolta a Dio padre e allo Spirito Santo, il poeta, nell’ambito della prima terzina, si rivolge a Cristo invocando il suo soccorso tramite la perifrasi « Signor mio », v.9 che si oppone alla falsa metafora cortese del vassellaggio amoroso, affermando che l’unico signore dell’uomo è Dio. Riprende quindi anche nell’ambito di questa terzina le metafore tradizionali della lirica d’amore denunciandole ed opponendole alla verità cristiana. Evoca anche il « dispietato giogo » al quale fu « sommesso », cioè il giogo amoroso sotto il quale, durante la sua giovinezza, si mise, quel giogo dell’amore diabolico in perfetta opposizione a Cristo che si mise volontariamente sotto il giogo della croce sacrificandosi per riscattare gli uomini presi dal diavolo. Al giogo perverso si oppone quindi il giogo leggero dell’amore divino. Inoltre, tale prospettiva diabolica sotto la quale viene considerato l’amore passionale si palesa anche nel riferimento temporale preciso dell’ « undecimo anno », l’undici essendo una cifra diabolica in opposizione alla perfezione del dieci, alla perfezione dei dieci comandamenti. Tuttavia, l’ultimo verso della terzina « che sopra i più soggetti è più feroce », v.14, sembra sminuire la responsabilità dell’amante, vittima della fatalità d’amore, della legge d’amore che infierisce sui più deboli. Il Petrarca sarebbe quindi vittima di Laura e delle circostanze, vittima del diavolo considerato come l’avversario del genere umano e finalmente vittima della propria natura propensa ad amore. La seconda terzina ribadisce perciò la necessità dell’internvento della grazia divina tramite l’anafora di tre imperativi che aprono i tre versi : « miserere », v.12, « reduci », v.13 e « ramenta », v.14. Questa terzina può venire considerata come riassuntiva dell’intero sonetto in quanto il verso 12 si rivolge al Santo Padre, il verso 13 allo Spirito Santo e il verso 14 al Figlio riprendendo così il percorso delle quartine e della prima terzina. Nel verso 12, il poeta si rivolge a Dio padre con una formula latina che Dante aveva adoperato al canto I dell’Inferno : « Miserere di me » chiedendo a Virgilio di aver pietà di lui. Al « non degno affanno » del poeta, alla sua passione travagliata e peccaminosa, si oppone il degno affanno di Cristo, la Passione cristica, due passioni che erano già state paragonate sin dal sonetto III Era il giorno ch’al sol si scoloraro, ma che adesso vengono opposte, la passione di Petrarca essendo stata fonte di peccato, mentre quella cristica fu all’origine della Redenzione dell’umanità. La preghiera continua nel verso seguente attraverso il desiderio di cambiare luogo « a miglior luogo », v.13, costrutto che riprende quello del verso 6 : « ad altra vita et a più belle imprese » e l’aggettivo « vaghi » eccheggia il gerundio « vaneggiando » del verso 2. -13-
Viene quindi ribadita l’opposizione tra la vita passata e perduta nel lungo errore giovanile e quella auspicata che risulterebbe dalla conversione cristiana, dai pensieri liberati dall’ ossessione della donna ma rivolti « a miglior lugo » cioè al cielo. Il sonetto si chiude sul ricordo della Passione di Cristo sulla croce : « ramenta lor come oggi fusti in croce » che ripropone una volta tanto il coincidere della data d’anniversario dell’innamoramento e quella della commemorazione della Passione di Cristo, dell’Eucaristia. Infine, va sottolineato che questi tre versi sono segnati da tre importanti cesure e da tre imperativi, struttura che rileva l’unità divina della Trinità. In conclusione, possiamo dire che questo sonetto può essere stato costruito su uno schema logico ed insieme teologico che verte sulle opposizioni che denunciano la perversità delle metafore cortesi e stilnovistiche di amore, opponendo alla luce dello Spirito Santo il fuoco dell’amore lussurioso ; al legno della croce, il legno del lauro. Altrettanti elementi ed antitesi che dimostrano la virtuosità retorica del Petrarca che imploira grazia e pietà ma che allo stesso tempo si difende ed afferma essere stato oggetto di una seduzione operata da Laura ; di una tentazione operata dal divolo, di una predestinazione per via della sua natura amorosa e quindi della concatenazione di questa triplice causa. Il Petrarca prova quindi a convincere Dio di salvarlo. Questo sonetto permette così di illuminare i due precedenti. * * * -14-
Puoi anche leggere