Lo status degli ebrei nella Terraferma veneta del Quattrocento: tra politica, religione, cultura ed economia. Saggio introduttivo

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Reinhold C. Mueller
             Lo status degli ebrei
 nella Terraferma veneta del Quattrocento:
tra politica, religione, cultura ed economia.
              Saggio introduttivo
   Estratto da Reti Medievali Rivista, VI-2005/1 (gennaio-giugno)
        
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                             Reti Medievali

          Ebrei nella Terraferma veneta del Quattrocento
     Atti del Convegno di studio (Verona, 14 novembre 2003)
      A cura di di Gian Maria Varanini e Reinhold C. Mueller

                        Firenze University Press
Reti Medievali Rivista, VI - 2005/1 (gennaio-giugno)
    RM             
 Reti Medievali                 ISSN 1593-2214 © 2005 Firenze University Press

                Lo status degli ebrei
    nella Terraferma veneta del Quattrocento:
   tra politica, religione, cultura ed economia.
                 Saggio introduttivo
                            di Reinhold C. Mueller

1. Premessa
     Negli ultimi trent’anni il panorama storiografico relativo alla presenza
ebraica nell’Italia quattrocentesca si è arricchito molto, grazie ad una ampia
serie di ricerche di carattere locale e a numerose indagini di sintesi; ciò ha
significato non solo un aumento sostanziale delle conoscenze, ma anche una
diversa articolazione delle prospettive di ricerca. C’è oggi una consapevolezza
maggiore rispetto al passato della complessità delle relazioni sociali e culturali
fra la maggioranza cristiana e la minoranza ebraica. A proposito del tema sem-
pre cruciale dell’attività di prestito, attualmente si propende a non isolare nel-
la ricostruzione storiografica il prestito ebraico dal complessivo mercato del
credito di un determinato territorio, ma neanche da alcune possibilità produt-
tive e commerciali che si aprivano agli ebrei. Largamente condiviso è anche il
giudizio sulla compresenza o sulla repentina alternanza, nell’analisi di ciascun
contesto locale, tra forme di accettata convivenza e di effettiva integrazione
della minoranza ebraica, e violente contrapposizioni e conflitti. Naturalmente
la qualità delle fonti documentarie prese preferenzialmente in considerazione
influisce in modo preciso sulla ricostruzione storica: hanno peso la possibilità
o meno di disporre di fonti di parte ebraica, l’uso (molto intenso nelle ricerche
recenti) di quella documentazione notarile che mette in particolare evidenza
la minuta consuetudine, nel ‘quotidiano’, fra ebrei e cristiani, la disponibilità
di fonti giudiziarie. Queste fonti vanno analizzate in sé stesse, soppesate, mi-
scelate con cautela, nella consapevolezza che «solo l’intreccio di lenti diverse
e variamente deformanti permette di avvicinarsi al valore reale, quantitativo e
qualitativo, di questa presenza» ebraica1.
     Anche per quello che riguarda la Terraferma veneta quattrocentesca sono
state adottate già diversi decenni fa formulazioni orientate a sottolineare
relazioni di segno positivo fra comunità ebraica e mondo cristiano2. Bisogna
2   Reinhold C. Mueller

riconoscere tuttavia che dopo le ricerche sfociate nel convegno Gli ebrei e
Venezia del 1983 – che nella sezione dedicata alla Terraferma non avevano
portato certo ad una copertura sistematica, città per città e territorio per
territorio3 – le indagini locali hanno un po’ segnato il passo, nonostante la
persistente attenzione al caso così rilevante di Treviso (‘capitale’ dell’immi-
grazione askenazita e sede di un tribunale rabbinico almeno nella prima metà
del Quattrocento)4, e gli approfondimenti di grande importanza dedicati al
caso padovano, sia sotto il profilo della vita quotidiana, sia sotto quello della
riflessione teorico-giuridica5. Forse è anche per questo che, nella “geografia e
cronologia degli insediamenti ebraici” di un’importante sintesi di una decina
d’anni or sono6, la Terraferma veneta non figura a fianco delle altre regioni del-
l’Italia centro-settentrionale. Solo assai di recente la tendenza sembra essersi
invertita, e questo seminario, che raccoglie ricerche analitiche relative a città
e territori sinora trascurati, ne è la prova. Tuttavia, con l’eccezione di Padova7
(e ora delle cittadine del Polesine8) le indagini hanno progredito meno proprio
sul terreno della vita quotidiana delle comunità ebraiche.
     Nelle pagine che seguono, geografia e cronologia giocano un ruolo fon-
damentale. Dopo un breve riassunto di alcuni dei punti nodali di ciascun
contributo, si tratteranno alcuni temi che emergono dai saggi qui proposti, e
che potrebbero con profitto essere elaborati ulteriormente in future ricerche:
la natura giuridica del rapporto tra la Dominante e gli ebrei dei dominii; i
concetti di cittadinanza nel rapporto tra poteri locali ed ebrei; e quella specie
di spartiacque cronologico che sembra segnare in modo incisivo la vicenda
degli ebrei nei centri della Terraferma, individuato da quasi tutti gli autori
negli anni Quaranta-Cinquanta del Quattrocento. Convergendo diverse pos-
sibili concause – gli orientamenti papali, ma anche le situazioni politiche ed
economiche particolari delle diverse località – quella congiuntura cronologica
portò qui al divieto del prestito da parte dei banchieri ebrei, là all’espulsio-
ne degli ebrei tout court (almeno temporaneamente). Ovunque si tocca con
mano l’ambiguità dei provvedimenti della Serenissima, che non ha potuto o
saputo proporsi una politica costante e coerente, nel tempo e nello spazio,
nei confronti degli ebrei. D’altra parte, la politica è fatta anche da uomini e
varrà la pena di valutare anche l’incisività o meno di certe figure della politica
e della cultura che sono intervenute sulla questione del rapporto tra governo
ed ebrei, a volte anche determinando un indirizzo: basti pensare alle impo-
stazioni oscillanti dei podestà veneziani a Treviso tra fine Trecento e inizio
Quattrocento, o al ruolo di alcuni umanisti alla metà del secolo.

2. I contesti locali
    Tra i contributi che qui si presentano, manca una considerazione di
Venezia tardomedievale stessa, città capitale e mercato europeo e mediterra-
neo, che elaborò solo caso per caso durante il Quattrocento la sua politica ver-
so gli ebrei – a volte flessibile, a volte repressiva – . Gli storici dell’era moderna
viceversa hanno di recente dedicato una ricca raccolta di saggi alla storia degli

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ebrei nella città lagunare, che potrebbe fungere da stimolo per una futura
raccolta di studi sulla Terraferma9. Il saggio introduttivo a quella raccolta, di
Benjamin Ravid, dà un eccellente quadro d’insieme a partire dalle prime men-
zioni ufficiali di ebrei nel Duecento, attraverso le due note condotte concesse
in seguito alla crisi della guerra di Chioggia (1382-1397), sino al Quattrocento,
secolo che attende ancora uno studio approfondito10. Sappiamo che negli in-
terstizi di pronunciamenti spesso draconiani del governo dopo il 1397, quando
il servizio di prestito su pegno fu relegato a Mestre, famiglie di ebrei trovarono
spazi vitali sufficienti per costituire una vera comunità a Venezia, con abita-
zioni diffuse, anche se una certa loro concentrazione ci fu nella parrocchia
di S. Canciano. La professione medica di ebrei, a Venezia come dovunque,
permetteva deroghe ai divieti di residenza. Joseph Shatzmiller avvalora la tesi
che già nel Duecento un dotto medico ebreo, Jacob ben Elia, abitasse in città;
Renata Segre sta studiando per i secoli successivi lo status dei medici ebrei, di
cui a volte si menzionava la religione, a volte la si taceva, mentre altre volte an-
cora si insisteva sulla conversione del medico al cristianesimo come premessa
per la licenza di curare pazienti cristiani11.
     Nella presente raccolta di atti della giornata di studio ospitata dall’Univer-
sità di Verona (Dipartimento di Discipline storiche, artistiche e geografiche)
nel novembre del 2003, le ricerche sulla Terraferma veneta e sulla “sfera
d’influenza” di Venezia, che spaziano da Rovigo a Trieste, derivano quasi
tutte da studi più ampi, da libri recentissimi, da tesi di laurea e di dottorato.
Ci sono tante novità, come la ricostruzione, in parte ex nihilo, della presenza
degli ebrei a Feltre, Rovigo, Verona e Vicenza, e ciascun autore si è sforzato di
delineare, il più possibile, il rapporto, da un lato tra comunità di ebrei (italiani
e askenaziti), dall’altro tra ebrei e la maggioranza cristiana. I saggi possono
essere collocati in due settori: ci sono nel primo quelli di valenza più generale,
nel secondo quelli dedicati a singole città e località della Terraferma veneta e
terre confinanti.
     Il ruolo economico delle donne ebree è il tema, qui anticipato, di una ap-
profondita ricerca di Miriam Davide. L’autrice mette in rilievo la figura di cer-
te donne askenazite di Trieste, in territorio austriaco ed imperiale, capaci di
operare in proprio dietro un banco di pegno e di investire, assieme al marito,
il denaro portato in dote. Contrasta con loro il profilo delle ebree askenazite di
Treviso, molto meno libere di agire in proprio; e delle ebree italiane di Padova,
che tendevano a dedicarsi piuttosto alla casa e alla famiglia. Le diverse tradi-
zioni per la trasmissione di patrimoni vengono seguite attraverso l’analisi di
testamenti e carte dotali12.
     Il profilo biografico che ci dà Alberto Castaldini del prestatore Sabato da
Lodi svela il caso eccezionale di un ebreo privilegiato da Venezia, un fidelis
della repubblica, esentato tra l’altro dal portare il segno distintivo della “O”.
Sabato aveva svolto un ruolo essenziale nel 1447 per il governo di Venezia nel-
la conquista (durata per breve tempo) di Lodi e Piacenza, non solo attraverso
prestiti e trasferimenti di denaro necessario per il pagamento delle truppe,
ma anche fornendo informazioni direttamente utili per la presa di Lodi. Per

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questo egli era stato poi incarcerato e torturato dai milanesi. Salvatosi la pelle
ma espropriato di tutto, Sabato chiese quasi vent’anni più tardi al consiglio dei
Dieci la licenza di gestire, esentasse, un banco di prestito a Villafranca, situata
tra Verona e Mantova: un riconoscimento concreto della fedeltà del suppli-
cante che Venezia non esitò a concedere, anche contro la volontà del potere
locale, per giustizia e per saldare ad un infedele un vecchio debito13.
     Alessandra Veronese (che non poté essere presente al seminario per ra-
gioni di salute ma che aveva inviato il suo contributo) mette a confronto due
delle comunità ebraiche askenazite già menzionate sopra, Treviso e Trieste14.
L’autrice rilieva da un lato l’emigrazione anche non coatta di molte famiglie di
ebrei tedeschi che cercavano di migliorare le proprie possibilità economiche
venendo in Italia, e dall’altro l’andirivieni tra l’Italia e la Germania di compo-
nenti delle stesse famiglie, o comunque il loro non necessariamente definitivo
radicamento nella penisola. Inoltre, sulla base di un campione di contratti
dotali e di testamenti, si rileva la totale endogamia esistente nella comuni-
tà askenazita in questi due centri. Le sottolineature dell’autrice mettono in
guardia contro la semplificazione degli elementi di push-pull: la migrazione di
ebrei verso l’Italia non dipendeva unicamente da episodi di persecuzione nelle
terre di lingua tedesca e non era sempre a senso unico15.
     Restando a Treviso, con Angela Möschter veniamo a conoscenza non solo
della cadenza delle condotte per i banchi di prestito ebraico-askenaziti (e si
tratta di informazioni cruciali per capire i rapporti tra le autorità – locali e
della capitale – e i capi della comunità) ma anche, trattandosi poi di un grosso
insediamento di 120-150 componenti, del fatto che altri ebrei facevano altri
mestieri, da commercianti e cartai a carrettieri. Tra il 1389 e il 1443 venne per-
messo il prestito da parte di numerosi banchi (fino a 8); dopo la forte riduzio-
ne nel numero dei banchi tra il 1446 e il 1459, quando una ultima condotta fu
terminata, una comunità ebraica, seppur ridimensionata, continuò a risiedere
e ad operare a Treviso, ma, anche in assenza di una struttura formale del pre-
stito usurario, la comunità dovette chiedere protezione contro la predicazione
minorita. Nella seconda metà del Quattrocento gli ebrei di Treviso persero
d’importanza a favore di Padova e lo status equipollente alla cittadinanza,
benchè temporanea, goduto da alcuni dei banchieri precedentemente, non
venne più concesso.
     Non sorprende il fatto che un piccolo insediamento di un banco di pre-
stito a Feltre sia dominato, per la relativa vicinanza geografica e per la forza
dei numeri, dagli ebrei di Treviso. La storia degli ebrei a Feltre, sconosciuta
precedentemente e praticamente rimossa da chi qualcosa sapeva, viene rico-
struita da Matteo Melchiorre. L’operato del banchiere fu condizionato da una
situazione di guerra tra Venezia e l’Austria dal 1411 al 1420, dopodichè la pre-
senza di un banco viene testimoniata fino al 1447; pochi e saltuari documenti
riemergono per gli anni successivi al 1475, anno del processo di Trento, perio-
do quando l’illustre feltrino fra Bernardino Tomitano iniziò a promuovere la
messa fuori legge dei banchi ebraici e la loro sostituzione con i Monti di pietà
e, possibilmente, la cacciata degli ebrei tout court.

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      Si sapeva qualcosa, ma non molto, degli ebrei di Vicenza. Rachele Scuro,
in una ricerca a tappeto che parzialmente riprende in questa sede, ha rico-
struito una presenza ebraica molto articolata, costituita sia da italiani che da
askenaziti. Secondo l’autrice, la fine dei banchi (tra il 1441 e la scadenza del-
l’ultima condotta nel 1445) è da mettere in rapporto non solo con le pressioni
della predicazione minorita, ma anche con la concorrenza di certi nobili locali
che volevano esercitare loro il prestito ad interesse, sulla base di contratti
magari fittizi. Se i banchieri dovettero emigrare – chi nei piccoli centri del
vicentino, chi come i Finzi a Padova –, i loro ex fattori, per lo più italiani, si
trasformarono in “pezzaroli” (ossia venditori di cose usate tra le quali anche
pegni passati loro dai banchi) che probabilmente fungevono da mediatori tra
clienti locali e banchi situati nei centri minori. In contrasto con la situazione
prevalente altrove, documentata da Ariel Toaff, le comunità italiane e askena-
zite a Vicenza vissero a lungo assieme, collaborando anche nel settore banca-
rio; alla metà circa del secolo tuttavia gli askenaziti arretrano e gli italiani o
romani prendono il loro posto, specie nella pezzaria, a differenza di ciò che ci
saremmo aspettati.
      Vito Rovigo e Gian Maria Varanini si sono spartiti il secolo, riprendendo
il filo dei due contributi su Verona dello stesso Varanini e di G. Borelli, com-
parsi negli atti del summenzionato convegno della Fondazione Cini del 1983,
e hanno approfondito con nuova documentazione, sopravvissuta più folta per
la seconda parte del Quattrocento, la presenza ebraica e i rapporti tra cristiani
ed ebrei a Verona. Nel periodo trattato da V. Rovigo troviamo sul mercato
monetario scaligero feneratores sia cristiani (tra cui patrizi del consiglio),
che ebrei; e gli ebrei sono inizialmente italiani, mentre gli askenaziti arrivano
più tardi. Come a Treviso, l’insediamento degli ebrei era diffuso nello spazio
urbano, e l’autore trova riflesso, in contratti di varia natura giuridica, un rap-
porto quotidiano e di fiducia reciproca tra cristiani ed ebrei. Come dovunque
la situazione dei banchi peggiora alla fine degli anni Trenta: il numero dei
titolari si riduce a tre, mentre gli altri si spostano nei piccoli centri periferici
col risultato che – secondo l’autore – la cacciata del 1447 fu solo l’ultimo atto
in un processo quasi decennale di crescente incomprensione e diffidenza dei
cristiani nei confronti degli ebrei, e di voglia di maggiore indipendenza politi-
ca per il consiglio. Varanini riparte da qui, delineando un clima di opposizione
alla presenza ebraica delle élites cittadine, spinte con tutta probabilità dai
francescani osservanti a chiedere l’espulsione dei prestatori. Come a Vicenza,
gli ebrei ancora residenti in città agivano come rappresentanti dei banchieri
situati nella vicina periferia, ma con una forza contributiva fiscale in continuo
declino lungo la seconda metà del secolo. A partire dagli anni Settanta il clima
si deteriorò nuovamente, anche contro i pochi ebrei nel ruolo di intermediari
o prestatori minori rimasti in città: siamo negli anni della predicazione del
Carcano e del Tomitano, dell’accusa di omicidio rituale di Trento, poi di
Portobuffolè e di Marostica, con le loro tragiche conseguenze. A Verona, dei
personaggi di spicco dell’élite – si pensi solo all’umanista Giorgio Sommariva
– si trovano protagonisti di questi avvenimenti; ma cionondimeno Varanini

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sottolinea che c’erano rapporti tra alcuni cristiani e alcuni ebrei di buon vici-
nato e d’amicizia.
     Oltre a Trieste, l’altra area fuori della Terraferma veneta trattata in questa
raccolta è quella del Polesine (Rovigo, Lendinara, Badia) che sarebbe entrata a
farne parte a pieno titolo solo dalla fine della guerra di Ferrara (1482-1484); di
quest’area, per lo più sotto il dominio degli Este, ci parla Elisabetta Traniello.
Le date delle prime notizie e delle prime condotte negoziate con ebrei italiani,
sono quelle oramai facilmente immaginabili: gli anni Ottanta e Novanta del
Trecento. Tema particolarmente interessante è quello di una sorta di diritto di
cittadinanza temporanea concesso dalle autorità estensi, valevole per la durata
della condotta; sembra che, restando nella Terraferma veneta, solo a Treviso
nella prima metà del Quattrocento si trovino privilegi simili (Möschter). Nel
Polesine il diritto di un trattamento “ut cives” permetteva agli ebrei “condotti”
di agire “ut merchatores”, anche al di fuori della fiducia già prestata ai loro
libri contabili, com’era il caso con i cristiani. La concessione comportava in
almeno un caso il diritto di possedere stabili e terreni, cosa esplicitamente
vietata nello stato veneto a partire dal 1423.

3. Tra religione, politica e cultura
    Se queste sono le tematiche analiticamente svolte dai diversi autori, ten-
terò ora di indicare dove portano alcuni dei molti stimoli che emergono dai
singoli contributi e dal loro insieme16.
    La suggestione di Vito Rovigo che gli ebrei erano soggetti direttamente
alla Signoria e secondariamente ai rettori, soggezione riflessa nella frase ri-
corrente che gli ebrei erano “subditi nostri”, stimola una serie di osservazioni.
Innanzi tutto, è cosa nota come nei regni di Francia e di Aragona, come nel
Sacro romano impero, gli ebrei erano giuridicamente assoggettati alla corona;
nell’impero erano considerati “nostri cari servi della Camera” in modo che,
da un lato le autorità locali non li potevano maltrattare, dall’altro il tesoro
li poteva tassare a piacere e chiedere loro prestiti. L’assunzione da parte di
Venezia, città-stato territoriale dalla vocazione mercantile, di questo orienta-
mento spiegherebbe varie constatazioni di fatto. Anche se l’uso della parola
“subditus” non è comunissimo, sembra togliere ogni ambiguità la supplica
rivolta da Salamoncino di Piove di Sacco alla Serenissima nel 1477, dove egli
si autodefinisce, piu’ di una volta, “schiavo e servidore de questa Illustrissima
Signoria”17. Questo legame diretto farebbe capire perché nelle condotte si do-
veva sempre garantire l’esenzione degli ebrei dalle tasse locali, in modo che il
Senato potesse tassare gli ebrei direttamente e chiedere prestiti straordinari
ai rappresentanti di tutte le comunità ebraiche locali. Esso spiegherebbe in
parte come ci si dovesse sempre appellare al Senato per l’approvazione delle
condotte come per le richieste di espulsione, anche sopra la testa dei rettori
veneziani18. Spiegherebbe perché in così tante località minori, da Mestre a
Montagnana a Villafranca, come a Negroponte e per un periodo a Corfù nello
Stato da mar, gli ebrei prestatori avessero i loro banchi e le loro abitazioni nel

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castello, luogo sotto sorveglianza prettamente governativa, con guarnigioni di
soldati. Spiegherebbe infine come i decreti di espulsione riguardassero per lo
più i centri maggiori, mentre restavano spesso operanti e legittimati i banchi
nelle località di periferia, in modo da mantenere in piedi delle fonti di tasse e
di prestiti. Le autorità locali dovevano adattarsi a tassi d’interesse maggiori e
a costi addizionali per il trasporto di pegni tra città e periferia nei momenti sia
del prestito come dell’eventuale asta. Questa veste giuridica, reale o assunta,
di dominio diretto sugli ebrei, però, non portò alla formulazione di una politi-
ca libera da ambiguità.
     Come detto poc’anzi, sia Angela Möschter che Elisabetta Traniello sol-
levano la questione della possibilità di concedere privilegi di cittadinanza
a degli ebrei. Nel cercare l’equiparazione con i cittadini cristiani originari, i
nuovi immigrati ebrei rivendicavano il diritto di poter agire liberamente sia
in certi settori dell’attività produttiva, sia nel commercio e nella banca e di
essere protetti dallo stesso sistema di diritto commerciale, davanti alle stesse
corti di giustizia. Nel caso di Treviso, questi diritti vennero assicurati solo alle
famiglie dei banchieri coperte da regolare condotta, fino alla metà del secolo;
erano diritti di agire e specialmente di essere trattati “ut cives”, valevoli per
la durata della condotta. Nelle terre estensi, a differenza della Terraferma ve-
neta, l’acquisto di beni immobiliari da parte di ebrei era permesso e, secondo
Traniello, implicito nel diritto di cittadinanza o meglio all’equiparazione ad
essa (“ut veri cives”). L’esempio estense è abbastanza vicino al caso documen-
tato da Ariel Toaff per l’Umbria, dove vigeva una tipologia tripartita per lo
status degli ebrei: forensis, civis per tempus, e civis in perpetuum, secondo
il consulto del giurista Onofrio Bartolini, interpellato dal comune di Perugia
nel 1397. Se nel Trecento l’acquisto di una casa era relativamente comune tra
ebrei dei due tipi di civilitas, nel Quattrocento ciò divenne assai raro anche
nel centro d’Italia, in parte per una maggiore mobilità dei banchieri, in parte
per un generale ristringimento dei diritti degli ebrei19. Nel Veneto, troviamo
soltanto – e non dappertutto – la civilitas temporalis, limitata ai banchieri no-
minati nelle condotte e valevole solo per l’arco di tempo fissato nell’accordo.
A partire dal 1423 Venezia vieta il possesso di beni immobili da parte di ebrei
in tutti i domini di Terraferma, per cui cade qualsiasi eventuale rapporto tra
privilegio di cittadinanza e proprietà immobiliare. Certo, i medici costituivano
spesso casi a sé e il loro status andrà studiato più a fondo. Vanno infine tenute
presenti due osservazioni. Primo, che il linguaggio giuridico spesso distingue
tra l’ebreo che est civis, che ha ricevuto cioè un privilegium civilitatis formal-
mente e ad nomen, e quello che andava trattato “come se fosse cittadino”: (ut
[prout, sicut oppure tamquam] esset civis), che non è tecnicamente un civis
ma è semplicemente equiparato, per lo più temporaneamente, ad un civis20. In
secondo luogo, Toaff e Todeschini ci ricordano che la città medievale, specie
nel Quattrocento, sotto l’insistente predicazione minorita (urbana per defi-
nizione), è vista come una civitas christianorum dove l’infidelis non poteva
pretendere una equiparazione “in tutto e per tutto” al cittadino cristiano, tanto
meno al mercante cristiano21.

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     Se il rapporto tra maggioranza e minoranza in un primo periodo fu relati-
vamente positivo, pur con le solite oscillazioni, quasi tutte le ricerche dei par-
tecipanti al seminario indicano che l’atmosfera si guastò negli anni Quaranta
e Cinquanta; e ciò comportò il ridimensionamento della comunità più grande
della Terraferma veneta (Treviso, 1443), il divieto di gestire banchi e il loro
trasferimento nel distretto (Vicenza, 1443-1445; Verona, 1447; Padova, 1455),
fino all’espulsione tout court (Verona, 1447) e alla scomparsa, se non dalla
scena, almeno dalla documentazione archivistica (Feltre, dal 1447). Anche in
altre località si percepisce un’aria diversa: a Conegliano nel 1449 un ebreo che
si rifiutò di prestare a 15% invece che al tradizionale tasso del 20% fu bandito;
a Pordenone, in data imprecisata ma dopo il 1438 fu aggiunto agli statuti che
il consigliere, che avesse osato proporre di invitare ebrei a prestare, sarebbe
stato privato del suo status politico per due anni22. In tutti i casi, né i divieti né
le espulsioni furono definitivi ma qualcosa cambiò ugualmente. Aggiungiamo,
senza andare in terre lontane, i divieti di gestire banchi emanati dal duca
Filippo Maria Visconti (Milano, 1443) e dal marchese Ludovico Gonzaga
(Mantova, 1462)23. Ciascun caso contiene elementi peculiari; quel che colpi-
sce è il timing. Rivediamo più in particolare come la tensione nei rapporti tra
cristiani ed ebrei si sia acuita nelle città in quel frangente per poi considerare
quali elementi comuni possono eventualmente legare i casi.
     A Treviso, che aveva la comunità più nutrita delle città della Terraferma
veneta, il consiglio cittadino, ravvivato – da poco e per poco (1438-1443)
– nella speranza di avere una maggiore autonomia da Venezia, decise nel
1442, dopo una discussione durata anni, il divieto del prestito ebraico in città e
ricevette da Venezia dopo sole due settimane il nulla osta, benchè concesso di
malavoglia, al provvedimento. Anche se già nel 1446 si concluse di nuovo una
condotta (su pressione da parte di Venezia), il prestito ebraico a Treviso non
sarà più né forte né continuativo quanto nel cinquantennio precedente; sarà
inoltre più facile da parte dell’inquisizione, gestita dai Minori, di accusare e
processare gli ebrei (ci sono due casi, l’uno nel 1439-1440, il secondo nel 1453,
individuati da Angela Möschter). A Feltre, dove un piccolo nucleo ebraico
operava all’ombra di quello di Treviso, gli ebrei scompaiono dalla documen-
tazione notarile – fattasi improvisamente abbondante – tra il 1447 e il 1470
(Melchiorre). A Vicenza si proibì il prestito ebraico nel 1445, costringendo i
banchieri ebrei a spostarsi in piccoli centri del territorio, mentre si permise
ad altri ebrei, spesso soci o fattori dei primi, di restare in città per esercitare il
mestiere della pezzeria, collegato strettamente a quello del prestito, dove i pe-
gni non riscattati – cosa eccezionale in questa città – rimanevano nelle mani
dei prestatori che potevano venderli e trasformarli in contanti da imprestare
nuovamente (Scuro).
     In altre città si palesa una reale preoccupazione da parte delle autorità pub-
bliche, sia dei consigli cittadini che dei signori, per una ‘mannaia’ papale che
cadeva automaticamente, nella forma di interdetti e scomuniche, sulla testa di
chi avesse permesso il prestito ebraico, probabilmente sulla base dei decreti
del concilio di Vienne (Francia, 1311-1317) contro la licentia foenerandi, riesu-

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mati in funzione anti-ebraica. A Verona forse già nel 1440 i consigli chiesero
al vescovo della città, il cardinale Francesco Condulmer, nipote di Eugenio IV,
di ottenere dal papa l’assoluzione per aver accolto degli ebrei in città e l’auto-
rizzazione a proseguire nell’accordare condotte. Nel 1441 il Condulmer rispose
da Roma che mai si poteva concedere una tale licenza, visto che l’usura era
proibita dal diritto divino, e vietò il prestito ebraico nella città scaligera24. Nel
1446 il consiglio delibera l’espulsione degli ebrei e lo spostamento dell’attività
di prestito nei centri minori del contado, ricevendo l’approvazione di Venezia
l’anno seguente (Varanini). A Padova il consiglio interpellò nel 1446 il vescovo
Pietro Donà sulla questione del prestito ebraico, mentre i Deputati ad utilia
scrissero direttamente al papa nell’anno seguente chiedendo l’assoluzione da
scomuniche ed interdetti e la licenza di negoziare condotte con ebrei che aves-
sero offerto di prestare a tassi d’interesse i più bassi possibile. In soli tre mesi
Niccolò V rispose, assolvendo i padovani e concedendo loro la licenza richiesta.
Ma nel 1455 il consiglio mandò nuovamente ambasciatori a Roma allo scopo
di ottenere l’assoluzione per aver trattato in passato con ebrei, “mettendo così
in pericolo la salvezza delle loro anime”, antefatto alla (temporanea) cacciata
degli ebrei da Padova25. A Pordenone nel 1452 le autorità chiesero a Niccolò
V l’assoluzione e la licenza di trattare con degli ebrei26. Infine, a Mantova
nello stesso torno di tempo il vescovo Galeazzo Cavriani (1444-1466), un
mantovano nominato da Eugenio IV, ribadì l’automatica applicazione dei
“sacri canoni”, scomunicando sia il marchese Ludovico, per aver permesso ad
ebrei di abitare e prestare a Mantova, sia coloro che affittavano case, banchi
e sinagoghe agli ebrei. Nel 1448 la marchesa Barbara di Brandeburgo mandò
un emissario, Galeazzo Cattaneo, a Roma a chiedere al papa (che era ancora
Niccolò V) di togliere la scomunica e di permettere agli ebrei di prestare nel
marchesato. Nelle sue missive Cattaneo informa che il papa tergiversava nel
concedere un’autorizzazione simile a quella che aveva già concesso agli Este
di Ferrara, perché voleva arrivare ad un accordo generale con i rappresentanti
delle comunità ebraiche della penisola, i quali avrebbero dovuto contribuire
significativamente alla camera apostolica (“denno pagare molto migliaia de
fiorini”)27.
     Se andiamo a cercare l’origine di tanta attività, tra preoccupazione per
la salvezza dell’anima e la salvezza dell’economia locale e curiale in quei due
decenni, attività che porta all’allontanamento degli ebrei, specialmente se
prestatori, dai maggiori centri urbani della Terraferma veneta entro il 1459
quando è il Senato stesso a riconoscere questo stato di cose28, è necessario
risalire un po’ indietro nel tempo: innanzi tutto all’operato del papa veneziano
Eugenio IV (Gabriele Condulmer), 1431-1447. Quest’ultimo – che da giovane
era stato mercante, in “fraterna compagnia” col fratello Simone, negli anni
1390 quando il prestito ebraico era ancora praticato a Venezia – era stato tra
i fondatori della comunità dei canonici regolari di S. Giorgio in Alga, assieme
ad un gruppo di potenti religiosi come Angelo Correr (il futuro Gregorio XII),
Ludovico Barbo, Lorenzo Giustinian e vari familiari e parenti29. Siamo nel
1403-1404, nello stesso tempo in cui Simone Condulmer era socio del banco

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di Rialto (la cui ragione sociale suonava “La commissaria di Piero Benedetto,
Marco Condulmer e compagni”), che sarà costretto a chiudere per insolven-
za nel 140530. In breve, il Condulmer conosceva bene l’ambiente non solo
mercantile ma del prestito e dell’alta finanza. Una volta papa, egli avrebbe
nominato come vescovi e cardinali molti compagni e parenti provenienti da S.
Giorgio in Alga, non solo nel Veneto (Marco Condulmer, ad esempio, ebbe la
sede vescovile di Alessandria, 1444-1451).
    Eugenio IV sembra aver sviluppato una impostazione assai sfavorevole nei
confronti degli ebrei, dopo un primo periodo in cui aveva confermato i provve-
dimenti abbastanza morbidi presi dal suo predecessore Martino V dietro pa-
gamento di un contributo da parte delle comunità ebraiche, compresa quella
di Padova31. Già nel luglio del 1434, mentre risiedeva a Firenze, il papa dovette
affrontare una richiesta di assoluzione, inoltrata dai conti della Mirandola per
aver invitato ebrei a prestare. In risposta egli concedeva sì l’assoluzione ma
chiedeva preventivamente l’espulsione degli ebrei dalla contea32. Nello stesso
anno egli si dimostrò preoccupato anche per la pericolosità di rapporti sociali
tout court tra cristiani ed ebrei quando fece sapere alle autorità giudiziarie fio-
rentine, in questo caso al Capitano del popolo, che sarebbe rimasto fortemen-
te turbato se non fosse stato punito esemplarmente un ebreo, Guglielmo di
Dattalo di Montefalcone, reo di “idee sediziose” ma specialmente di aver avuto
rapporti continuativi con una prostituta cristiana. L’accusato fu condannato a
morte, in absentia33.
    Non conosciamo di preciso la posizione del papa veneziano riguardo al
prestito ad usura tradizionalmente offerto a Firenze da cristiani autorizzati
dal comune contro una tassa complessiva di 3000 fiorini l’anno, ma la prassi
era stata fortemente criticata da Bernardino da Siena nelle sue prediche nel-
la chiesa di S. Croce a Firenze nel 1425. Al loro ritorno a Firenze dall’esilio
a Venezia (1434), Cosimo e Giovanni de’ Medici terminarono questa prassi,
abolirono la magistratura di sorveglianza (il Giudice degli appelli) e iniziaro-
no i negoziati con prestatori ebrei. La prima condotta formale fu conclusa nel
1437 con un Abraam di Dattalo e i suoi soci, con lo scopo di abbassare i tassi
d’interesse chiesti dai bisognosi, in deroga ad una provvisione del 1406 che
vietava il prestito da parte di ebrei. I capitoli della condotta menzionano il
fatto che avevano il permesso del papa il quale, ancora residente, deve averli
voluti o comunque accettati come mal minore34.
    Le preoccupazioni di Eugenio IV riguardanti il prestito ebraico e il peri-
colo dei rapporti sociali tra cristiani ed ebrei si concretizzano negli anni 1441-
1443 in una politica fortemente anti-ebraica. Dopo una prima mossa con il
quale abolì certe concessioni che godevano gli ebrei in Castiglia e Leone – nel
giugno 1441, nello stesso anno cioè della risposta intransigente di suo nipote
cardinale Francesco Condulmer ai veronesi –, il papa nel 1442 emanò la bolla
Super gregem dominicum, diretta sempre ai regnanti di Castiglia e Leòn ma
intesa, come vedremo, ad avere una validità generale. Il testo, estremamente
dettagliato, è teso a creare la maggiore separazione possibile tra cristiani ed
ebrei e musulmani (“saraceni”) che, tra l’altro, non dovevano far parte delle

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Lo status degli ebrei nella Terraferma veneta del Quattrocento            11

stesse corporazioni di mestiere. Esso proibisce il prestito usurario degli ebrei
e insisteva addirittura sull’obbligo di restituzione delle usure guadagnate da
prestatori ebrei nel passato. Una clausola revocava qualsiasi privilegio o im-
munità concessi agli ebrei dal suo predecessore Martino V (1417-1431); essa
veniva resa di valore generale, per ogni buon conto, l’anno seguente con una
apposita bolla emanata dalla sua sede nella Siena del predicatore minorita
Bernardino35. Sembra che le bolle abbiano spinto le comunità ebraiche a di-
scutere possibili contromisure in sinodi a Tivoli e Ravenna nel 1442-144336.
Praticamente la stessa bolla del 1442 fu ripetuta, ora diretta all’Italia, da
Niccolò V nel 1447 – appena divenuto papa – e ancora nel 1451; ad applicare i
provvedimenti la prima volta fu nominato il minore Giovanni da Capistrano,
la seconda il suo confratello Lorenzo da Palermo. Callisto III ripetè la bolla nel
1456, nominando prima il minore Pietro da Carcano e l’agostiniano Giovanni
Antonio da Imola, poi tutto il clero regolare ad applicare i provvedimenti della
bolla37.
     L’applicazione delle bolle, la pubblicizzazione delle scomuniche automa-
tiche e non, e la vigilanza sull’usura in generale toccava ai predicatori, alle
curie vescovili e ai teologi. Bernardino da Siena aveva predicato nel Veneto
già nel 1422-1423: sappiamo che a Padova per la Quaresima del 1423 si disse
“meravigliato” perché né a Padova, né a Vicenza, né a Verona gli ebrei dove-
vano portare il segno distintivo, perché dispensati da ciò dal papa, e consigliò
i cittadini di intervenire loro a rettificare la situazione. Bernardino fece il suo
ultimo giro di prediche nel Veneto nel 1443, l’anno del capitolo generale dei
francescani, tenuto a Padova, nel quale Eugenio IV sosteneva la candidatura
di Alberto da Sarteano come vicario generale per gli Osservanti. Bernardino
predicava anche a Vicenza e il giurista Nievo ricordava nei suoi trattati contro
l’usura degli ebrei che nello stesso anno gli ebrei venivano cacciati dalla cit-
tà (Scuro); il Tomitano racconta che Bernardino in quell’occasione avrebbe
detto ai vicentini “deponite usuras et cessabit pestis”, confermando il ricordo
del Nievo, perché la peste cessò; egli predica lo stesso anno anche a Verona,
assieme ad Alberto da Sarteano (Varanini). Anche se non abbiamo i suoi ser-
moni, sappiamo che Bernardino non tralasciava mai il tema dell’usura, come
traspare da una lettera scritta da Padova il 14 aprile al suo amico e medico
curante, l’umanista Pietro Tommasi, poco prima di spostarsi nella città la-
gunare. Solo tre giorni prima il Senato veneziano si premurava di insistere
che gli ebrei portassero il segno giallo, per ridurre il rischio che “avessero
relazione” (se immiscerent) con donne cristiane, e di vietare che tenessero
scuole pubbliche di gioco, danza, canto, strumenti musicali, “doctrine” o altro,
scuole che riscuotevano un gran successo presso i giovani cristiani. A maggio
si obbligarono specificamente le donne ebree, che qualche legislatore vedeva
come non comprese, per un cavillo sul fatto che il genus femininum non fosse
stato esplicitato nel provvedimento del mese precedente, di portare il segno
giallo sempre per il rischio del “se immiscere”, ora con un cristiano, “propter
periculum creature que nasceretur iudea”; e la multa per i colpevoli di reato fu
aumentata di quasi sei volte. È difficile, guardando i temi e il lessico di queste

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leggi, non immaginare che le recenti bolle di Eugenio IV e l’imminenza della
visita di Bernardino a Venezia non fossero dietro queste iniziative38. Un altro
osservante, Giovanni da Capistrano, era attivo nel Veneto negli stessi anni.
Egli infatti predicò a Verona, dove risiedette per un semestre nel 1437-1438
mentre scriveva il suo trattato De usuris, e a Venezia nel 1439 (Varanini); a
Vicenza predicò nel 1451 (Scuro)39.
     Gli indizi cronologici sono dunque numerosi; anche se non si conoscono
specificamente i temi dei sermoni, la contemporaneità dei cicli delle prediche
dei frati minori osservanti con l’atmosfera fortemente negativa nei confronti
degli ebrei non può essere una mera coincidenza.
     Non tanto quanto i predicatori, ma anche i vescovi si spostavano, spesso e
volentieri verso sedi più prestigiose e magari più rimunerative, dove – se risie-
devano – portavano le loro esperienze nella missione pastorale, nella riforma
della morale e – presumibilmente – nel rapporto con gli ebrei e nell’applica-
zione delle direttive papali nei loro riguardi. Ma visto che spesso i vescovi non
erano residenti, Angela Möschter ha messo giustamente in rilievo la figura
del vicario vescovile, riportando il caso di Antonio “de Duccis de Florentia”
che era a Treviso nel 1438-1442 con Ludovico Barbo, a Vicenza nel 1446-1450
con Francesco Malipiero, a Padova nel 1451-1456 con Fantino Dandolo, poi
di nuovo a Treviso nel 1457-1463 sotto il vescovo Marco Barbo, nipote di
Ludovico Barbo; del personaggio, mobile e chiaramente molto richiesto, in sé
e del suo operato invece non si sa finora praticamente niente40.
     Vediamo gli spostamenti di qualche vescovo veneziano nelle diocesi di
Terraferma. Fantino Dandolo passò da Candia a Padova (1448), ambedue
città con importanti comunità ebraiche; il teologo e umanista Domenico
dei Dominichi passò da Torcello a Brescia (1464); Giacomo Zeno, nominato
prima a Feltre-Belluno nel 1449, passò a Padova nel 1460, dove ci fu – nel
1469 – il primo tentativo, subito fallito, di fondare un Monte di pietà, mentre
sempre da Feltre Ludovico Donà passò a Bergamo (1465) e Pietro Barozzi a
Padova (1487), dove fondò il secondo Monte di pietà del luogo; da Treviso
Ermolao Barbaro, il giovane, passò a Verona (1453) e Marco Barbo a Vicenza
(1464), prima della nomina a patriarca di Aquileia (dove non risiedette mai)41.
Ermolao Barbaro, nella veste di governatore di Perugia, sostenne la fonda-
zione del Monte dei poveri e chiamò come predicatore Michele da Carcano di
Milano “onde rimuovere l’incombente scomunica ‘propter iudeorum privile-
gia’” (1462): un esempio eloquente del fatto che la scomunica automatica e gli
effetti delle bolle papali continuarono a preoccupare le autorità, obbligando di
conseguenza i vescovi a ricercare soluzioni, ad esempio col concedere ai fran-
cescani osservanti una ‘sponda’ per i loro progetti anti-usurari e anti-ebraici.42
Insomma, le esperienze in materia si accumulavano e si trasmettevano, da
persona a persona, da sede vescovile a sede vescovile.
     Allo stesso tempo, non si deve credere che tutto il quadro fosse in bianco e
nero, privo di sfumature. Brian Pullan sottolineava l’importanza della lettera
in controtendenza del cardinale Bessarione al doge Cristoforo Moro del 18 di-
cembre 1463. Il Moro, rettore a Padova nel 1443 quando conobbe Bernardino

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Lo status degli ebrei nella Terraferma veneta del Quattrocento            13

da Siena, del quale fu – una volta canonizzato – molto devoto, probabilmente
aveva sollecitato una autorevole enunciazione sulla questione degli ebrei dal
legato pontificio durante il suo soggiorno a Venezia per la questione della
crociata contro i turchi. Il cardinale, che promuoveva la convivenza con gli
ebrei come occasione per convertirli, parla dei vantaggi economici del presti-
to ebraico, più economico (“pro minori dispendio”) del prestito dei cristiani,
contrattato con gli ebrei nelle condotte stipulate a livello locale. In risposta a
chi voleva invalidare questi contratti egli dichiarò, nella sua veste di legato,
che le condotte dovevano essere osservate e che si doveva permettere agli
ebrei “di vivere, risiedere, commerciare e associarsi liberamente con cristiani
in pace e armonia”. Peraltro, una impostazione del genere era talmente con-
traria alle bolle papali emesse e ripettute da Eugenio IV a Callisto III da ap-
parire velleitaria, specialmente in considerazione del fatto che era già avviato
il movimento per la fondazione dei Monti di pietà che era, com’è stranoto, sia
anti-usurario sia anti-giudaico43.
     Va comunque detto che non tutta l’attenzione alla questione dell’usura in
quel breve torno di tempo era diretta verso il prestito ebraico, ma toccava an-
che gli strumenti finanziari più usati sulle grandi piazze. Innanzi tutto, possia-
mo ricordare come Gerardo Landriani, nominato vescovo di Como da Eugenio
IV nel 1437, nel concretizzare la pratica riformatrice delle visite pastorali nel
1444-1445, fece interrogare i preti, com’era comune, “si tenet concubinam
et si mutuat ad usuram et si facit mercantias”, per poi domandare però dei
suoi parrocchiani “si aliqui laici faciunt contractus feneraticios”; in una del-
le risposte, l’interrogato distinse con accuratezza “quod sunt aliqui usurarii
manifesti…, et quidam alii oculti”44. Prassi, teoria e foro spirituale si incontra-
vano. Mentre Eugenio IV era a Firenze, il domenicano Antonino, che il papa
avrebbe poi nominato vescovo della città (1445) e commissario apostolico per
la soppressione dell’usura in Toscana, dedicò una parte del suo Confessionale
all’usura e approfondì il suo pensiero al riguardo nella sua Summa theologiae
del 144945. Il teologo e predicatore Domenico dei Dominichi, veneziano di
nascita (poi vescovo di Torcello e Brescia, come accennato), che troviamo nel
palazzo di Eugenio IV a Firenze nel 1441 per una disputa sul tema della grazia
divina e che sarebbe diventato vicario generale di Paolo II, sembra aver scritto
un trattato De usuris, che però non è stato ritrovato46. Sempre tra fine anni
1440 e 1453 ci fu una specie di dibattito a distanza sulla liceità dello strumento
del cambium per literas con ricambio, una operazione meramente creditizia.
Il giurista Francesco da Pola, nobile trevigiano con stretti legami con l’alto cle-
ro veneto (era procuratore del vescovo di Treviso Ermolao Barbaro dal 1448
e consulente del vescovo di Castello [Venezia] Lorenzo Giustinian), affermò
che molti investitori veneziani avevano scrupoli di coscienza al riguardo. In
risposta alle loro esigenze, egli scrisse un trattato che comprovava la liceità
del contratto di cambio e ricambio tra Venezia e Bruges o Londra. Prese po-
sizione contraria il domenicano Leonardo Mattei dello studium dell’ordine a
Udine, scrivendo nel 1453 che il recambium altro non era che cambio “secco”
e quindi chiaramente usurario47. La questione fu dibattuta fuori Venezia, luo-

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go fortemente allergico a discussioni teoriche su temi finanziari, ma il dibat-
tito riguardava il mercato veneziano. Infine, il giurista veronese Bartolomeo
Cipolla si attivò nei primi anni Sessanta per dimostrare la illiceità del diffu-
sissimo contratto di livello con retrovendita, dedicando il trattato al vescovo
Ermolao Barbaro (Varanini). È importante indicare, anche se legami più di-
retti non si trovano, la convergenza temporale di una preoccupazione morale
nei confronti degli strumenti creditizi più comunemente usati dagli operatori
mercantili-bancari cristiani con la lotta contro il prestito ebraico, o semplice-
mente a favore di soluzioni di legittimità concesse dal papato che salvavano le
anime dei cittadini, magari con la promessa di qualche contributo economico
da parte degli ebrei.
     Le cariche dei rettori veneziani in Terraferma costituiscono un ultimo set-
tore, laico, su cui sarebbe il caso di indagare a proposito di questo intreccio di
problemi. Avevano un turnover abbastanza rapido, di solito ogni 16-24 mesi,
ma nonostante questo potevano influire assai, a favore o contro la presenza di
prestatori ebrei. Mi limito qui all’esempio dell’umanista e giurista Lodovico
(Alvise) fu Antonio Foscarini, una delle più influenti figure politiche e cul-
turali di Venezia attorno alla metà del Quattrocento. Fu podestà di Ravenna
(1438), di Feltre (1439-1440) e di Vicenza (1446); savio di Terraferma tre volte
tra il 1449 e il 1451; di nuovo podestà di Verona (1451), di Brescia (1452) e di
Padova (1466), prima di essere eletto Procuratore di S. Marco de ultra (1471);
molto spesso era in viaggio come ambasciatore, più volte per salutare un nuo-
vo papa. La sua impostazione riguardo al problema ebraico – decisamente
negativa – la si capta attraverso alcune lettere, mentre alcune coincidenze
temporali fanno pensare ad interventi diretti. Iniziò la sua carica di rettore a
Feltre proprio nell’anno – 1439 – in cui non veniva più rinnovata la condotta
di prestito agli ebrei Salomon e Josep di Augusta a Feltre (i quali nel 1441 si
dichiararono falliti “da due anni”). A Verona, dove nell’anno del suo podesta-
riato furono promulgati gli statuti cittadini, predisposti da una commissione
della quale fece parte il Cipolla, fu inserito nella nuova compilazione legislati-
va l’obbligo per gli ebrei di portare il segno distintivo (Castaldini), una clauso-
la inconsueta negli statuti, ma che ricalca provvedimenti già discussi più volte
a Verona negli anni 1420 (V. Rovigo). Nel suo epistolario, l’umanista Foscarini
inveiva contro i “nequissimi Iudaei”, specie i medici che ingannavano – anzi,
che avvelenavano – i cristiani, che sarebbero dovuti essere protetti dalle “san-
te leggi” del passato che proibivano l’operato dei medici ebrei nei confronti di
cristiani. Tra il 1451 e il 1454 si svolsero vari processi contro ebrei di Candia
per vilipendio alla religione cristiana nei giorni della Pasqua, e Foscarini si
complimentò con l’amico Antonio Gradenigo, sindico per il Levante, per averli
portati davanti ai tribunali, prima a Candia, poi a Venezia, anche se venivano
sempre scagionati. Nel 1452 Foscarini stesso venne eletto capitano di Creta
probabilmente in rapporto a questa faccenda, anche se in realtà non ci andò.
Nel 1458 egli fu uno dei tre Avogadori di comun, assieme al doctor et miles
Zaccaria Trevisan, noto umanista anche lui, e al miles Paolo Barbo, fratello del
futuro papa Paolo II, che istruirono la causa che porterà all’annullamento del-

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Lo status degli ebrei nella Terraferma veneta del Quattrocento            15

la condotta di Marostica all’ebreo Angelo nel 1458. In una lettera, successiva
ma senza data, il Foscarini si vanta di aver perorato la causa dell’esclusione
degli ebrei da Marostica, come venne poi deciso in seno al Senato48.
     Ovviamente il discorso non riguarda solo il Foscarini: tutto l’ambiente
umanistico veneziano andrebbe studiato per approfondirne l’atteggiamento
d’insieme nei confronti degli ebrei e dell’ebraismo. Consideriamo ad esempio
la figura di Paolo Morosini, amico e corrispondente del Foscarini, dotto in
ebraico e greco, nonché amico e confidente del Bessarione, dal quale sollecitò
la donazione della biblioteca a Venezia (fu lui che si recò a Roma, nel 1468,
a prenderla in consegna). Paolo del fu Zillio (Egidio) Morosini fu rettore di
Feltre nel 1451, di Crema nel 1454, Savio di Terraferma quattro volte negli
stessi anni Cinquanta, Avogador di comun nel 1467 e più volte ambasciatore
in missioni importanti, specie per trovare sostegno alla lotta contro i turchi.
Egli scrisse un trattato contro la perfidia degli ebrei, dedicato al papa vene-
ziano Paolo II: fu il primo libro ad essere stampato a Padova, nel 1473. È lo
stesso Morosini, nella veste di podestà a Treviso nel 1464-1465, a riformare
la Camera dei pegni e le aste da essa organizzate per la tutela dei debitori di
prestiti su pegno49.
     Si possono ricordare infine i legami tra l’umanesimo veneziano e quel-
lo fiorentino, che aveva anch’esso interessi forti riguardo all’ebraismo.
Giannozzo Manetti, durante il suo soggiorno a Venezia come ambasciatore del
comune di Firenze nel 1448-1449, si incontrò, oltre che con il vescovo Lorenzo
Giustiniani, con gli umanisti Pietro Tommasi e Lauro Querini, con i quali si
intratteneva in lunghe e dotte conversazioni. Manetti conosceva l’ebraico, e
si servì di queste sue conoscenze per dimostrare che gli ebrei avevano nella
loro cultura tutti gli strumenti per capire la verità del cristianesimo: ciò che
era probabilmente anche l’obiettivo di un’opera, andata perduta, attribuita a
Lauro Querini. Sembra in breve che l’umanesimo, già nei decenni centrali del
Quattrocento che qui interessano, non abbia fatto grandi passi oltre l’insisten-
za dei polemisti medievali sui temi dell’ “ostinazione” e della “perfidia” degli
ebrei50.
     L’indagine, che ci si può augurare venga affrontata dagli studiosi in questo
campo politico e culturale, quasi non ha limiti ed è abbastanza promettente,
anche se spesso soffrirà della mancanza di documentazione sicura con la quale
approdare a prove provate piuttosto che a prove solamente indiziarie. Ma la
ricostruzione di un’atmosfera culturale a metà Quattrocento è di per se im-
portante.

4. Conclusione
    Cercando di tirare le fila, si può osservare quanto sia importante aver
potuto definire lo status dell’ebreo (e quindi delle comunità ebraiche) nelle
terre soggette a Venezia come quello di una sudditanza diretta alla Dominante
e quindi agli organi del governo veneziano. Ciò innanzi tutto diminuiva for-
temente la giurisdizione di ogni singolo consiglio cittadino di Terraferma che

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negoziava le condotte e, eventualmente, concedeva ai banchieri ebraici forme
di cittadinanza per lo più temporanee; da parte sua, viceversa, Venezia non
concedeva loro diritti di cittadinanza. Il settore in cui maggiormente la sog-
gezione diretta a Venezia si faceva sentire era ovviamente quello fiscale: se da
un lato Venezia si arrogava il diritto di tassare gli ebrei residenti nello Stato di
terra, dall’altro la premessa di ciò era l’esenzione degli ebrei dalle tasse locali.
Inoltre, il potere di stipulare i tassi massimi d’interesse sui prestiti da parte
dei singoli consigli, nel trattare con individui o con gruppi di banchieri ebraici,
era limitato dal livello della pressione fiscale esercitata da Venezia51. Parallela
alla tassazione degli ebrei era inoltre la prassi di pretendere da loro prestiti o
gratuiti o ad interesse. Venezia si avvalse del suo diritto anche tenendo conto
di un altro obiettivo: spesso accadeva che le giurisdizioni locali dovessero ra-
strellare prestiti dai banchi ebraici proprio per venir incontro ai loro obblighi
nei confronti del fisco veneziano. Le lettere al riguardo scritte dal podestà
veronese di Legnago affermano chiaramente che i contribuenti insolventi si
sono visti pignorare i beni perché el zudio non aveva al momento il liquido
necessario “massime per satisfar ai debiti de comun”; l’ebreo quindi viene mi-
nacciato dalla cessazione del suo contratto a favore di un eventuale altro ebreo
che “servirà de denari abastanza”.52 C’è da domandarsi, infine, quanto i famosi
umanisti politici, patrizi veneziani, tanto preoccupati per l’integrità della reli-
gione cristiana, avessero in mente, nella loro opposizione alla presenza degli
ebrei nella Terraferma veneta, la ragion di stato secondo la quale avrebbero
dovuto provvedere, oltre al credito a buon mercato per i bisognosi, ad entrate
fiscali per le casse del governo centrale, ambiti in cui gli ebrei-sudditi giocava-
no un ruolo così importante.

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Lo status degli ebrei nella Terraferma veneta del Quattrocento                 17

Note
Abbreviazioni: ASF = Archivio di Stato di Firenze; ASV = Archivio di Stato di Venezia.

1
  S. Boesch Gajano, Presenze ebraiche nell’Italia medievale. Identità, stereotipi, intrecci, in La
storia degli ebrei nell’Italia medievale: tra filologia e metodologia, a cura di M.G. Muzzarelli, G.
Todeschini, Bologna 1990, p. 17.
2
  “Proficuo vicendevole rapporto”: cfr. P.C. Ioly Zorattini, Gli ebrei a Venezia, Padova e Verona,
in Storia della cultura veneta, III (Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento), t. I, Vicenza
1980, p. 537.
3
  Gli ebrei e Venezia, secoli XIV-XVIII. Atti del Convegno internazionale organizzato dall’Istituto
di storia della società e dello stato veneziano della fondazione Giorgio Cini (Venezia, Isola di San
Giorgio Maggiore 5-10 giugno 1983), a cura di G. Cozzi, Milano 1987, pp. 199-320 (parte seconda,
“Ghetti e comunità nel Dominio veneto [Venezia, Verona, Padova]: aspetti di vita economico-so-
ciale”) e pp. 563-699 (parte quarta, “Prestatori ebrei e banchi di pegno a Venezia e nel Dominio”,
sezione organizzata da R. C. Mueller).
4
  Dopo le osservazioni di A. Toaff, Convergenza sul Veneto di banchieri ebrei romani e tedeschi nel
tardo Medioevo, nel volume citato alla nota precedente, p. 595 sgg., ed altri interventi dello stesso
autore (in particolare Gli insediamenti askenaziti nell’Italia settentrionale, in Gli ebrei in Italia, a
cura di C. Vivanti, t. I [Dall’alto Medioevo all’età dei ghetti], Torino 1996 [Storia d’Italia, Annali,
11], pp. 165-171: “Treviso, il centro dell’ebraismo askenazita”); cfr. ora, di A. Möschter, Juden im
venezianischen Treviso, 1389-1509, tesi di dottorato, Università di Treviri 2004, una sintesi della
quale viene pubblicata in questa raccolta; ad essa si rinvia anche per ulteriore bibliografia.
5
  D. Carpi, L’individuo e la collettività. Saggi di storia degli ebrei a Padova e nel Veneto nell’età
del Rinascimento, Firenze 2002 (Storia dell’ebraismo in Italia. Studi e testi, XXII); D. Quaglioni,
Fra tolleranza e persecuzione. Gli ebrei nella letteratura giuridica del tardo Medioevo, in Gli
ebrei in Italia cit., pp. 659-675 (a partire dal par. 5, “Il Veneto come crocevia delle dispute anti-
giudaiche nel secolo XV”).
6
  M. Luzzati, Banchi e insediamenti ebraici nell’Italia centro-settentrionale fra tardo Medioevo
e inizi dell’età Moderna, in Gli ebrei in Italia cit., pp. 173-235.
7
  Carpi, L’individuo e la collettività cit. Altra eccezione è l’articolo di D. Jacoby, New Evidence on
Jewish Bankers in Venice and the Venetian Terraferma (c. 1450-1550), in The Mediterranean
and the Jews. Banking, Finance and International Trade, XVI-XVIII Centuries, a cura di A.
Toaff e Sh. Schwarzfuchs, Ramat Gan 1989, pp. 151-178, dedicato alle potenti famiglie ebraiche di
Piove di Sacco e Camposampiero, nelle vicinanze di Padova.
8
  Vedi ora la monografia di E. Traniello, Gli ebrei e le piccole città. Economia e società nel Polesine
del Quattrocento, Rovigo 2004 (Saggistica, 9).
9
  The Jews of Early Modern Venice, a cura di R. C. Davis, B. Ravid, Baltimore and London 2001.
10
   B. Ravid, The Venetian Government and the Jews, nel volume citato sopra, pp. 3-30. In un
contesto più generale Ariel Toaff sta affrontando il caso di Venezia nel secondo Quattrocento in
un libro di prossima pubblicazione.
11
   J. Shatzmiller, Jacob ben Elie, traducteur multilingue à Venise à la fin du XIIIe siècle, in
“Micrologus”, 9 (2001), pp. 195-202; R. Segre, Cristiani novelli e medici ebrei a Venezia: storie
di Inquisizione tra Quattro e Cinquecento, in Una manna buona per Mantova. Man tov le-Man
Tovah. Studi in onore di Vittore Colorni per il suo 92° compleanno, Firenze 2004 (Accademia
Nazionale Virgiliana), pp. 381-400.
12
   Nel febbraio 2005 l’autrice ha consegnato la sua tesi di dottorato dal titolo La donna come sog-
getto economico nel mondo cristiano e nel mondo ebraico, Dottorato in Forme della conoscenza
storica dal Medioevo alla contemporaneità, Università di Trieste.
13
   Nel 1452 si scriveva così: “Per hoc consilium quod pro honore et debito suo nemini vult iu-
stitiam denegare sed unicuique, fideli vel infideli, fidem servare”, prima di pagare però con “tot
parvulos venetos” svalutati (ASV, Senato terra, reg. 3, c. 48v).
14
   Ambedue le città sono state recentissimamente oggette di studi di ampio raggio da parte di A.
Möschter e M. Davide.
15
   A. Möschter ci porta nella stessa direzione nella sua ampia scheda sulla famiglia Rapp, origi-
naria di Norimberga e attiva a Treviso ma non solo, dei cui movimenti migratori dà delle cartine
esemplari che coprono più di un secolo di storia della famiglia; Juden im venezianischen Treviso,
pp. 86-94 e carte 2a-b.

Reti Medievali Rivista, VI- 2005/1
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