La sfida dell'educazione alla post-modernità
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La sfida dell'educazione alla post-modernità Giuseppe Savagnone II problema dell'educazione nella postmodernità può essere considerato da due punti di vista diversi e complementari: da un lato esso riguarda la sfida che la postmodernità pone nei confronti delle concezioni e delle pratiche educative tradizionali, mettendole in crisi e costringendole a un radicale ripensamento; dall'altro evidenzia la resistenza che l'idea di educazione presenta rispetto ad alcune tendenze della post-modernità e la sua capacità di interagire con essa, interrogandola e lasciandosene interrogare, in una dialettica creativa che, se non lascia immutata l'una, può incidere profondamente anche sul corso dell'altra. Noi esamineremo, nell'ordine, entrambe queste facce della questione, non prima, però, di aver accennato ad alcuni processi che riguardano la società complessa e che incidono in modo decisivo sulla trasformazione dei termini stessi del problema educativo. Scenari della complessità Fino a poco più di vent'anni fa, la società italiana era dominata da alcune grandi istituzioni, tendenzialmente monolitiche, rispetto alle quali l'individuo realizzava un rapporto di appartenenza che lo coinvolgeva spesso fin dalla prima giovinezza in modo totalizzante. Erano la Chiesa, i partiti, i sindacati, con la loro organizzazione capillare, le loro strutture educative, ricreative, operative. Veniva chiesta un'adesione ad esse incondizionata riguardo alle idee, agli stili di vita, alle valutazioni concrete delle rispettive realtà associative, senza incertezze, senza sfumature. Le divisioni interne erano considerate un fenomeno patologico, da risolvere con una presa di posizione dell'autorità. II clima della lotta ideologica contribuiva a rafforzare questa appartenenza rigida, rendendo automaticamente sospetto e alla fine espellendo chiunque mostrasse di avere dubbi, oppure pericolose simpatie per il fronte avverso. La crisi delle appartenenze «forti». Oggi questa realtà di appartenenza è solo un ricordo. All'adesione incondizionata di un tempo ne è subentrata una che potremmo definire «limitata», piena di riserve e di «distinguo», che talora rende il dialogo tra i membri di una stessa istituzione altrettanto problematico di quello con l'esterno. Ma anche la partecipazione è diventata meno assorbente, meno assidua. Agli inviti di condivisione si risponde in modo generico, prendendo le distanze, rifiutando un impegno troppo vincolante.
In senso stretto, nessuno appartiene più a niente. Non mancano, anzi si moltiplicano, i centri di interesse. Ma, proprio perché sono diventati numerosi, il singolo troverebbe strano legarsi ad uno in modo esclusivo: preferisce frequentarli tutti, prendendo da ciascuno ciò che gli è utile. In questo modo egli non è più rigidamente inquadrato in una struttura, ma ridefinisce incessantemente la propria identità nel passaggio da un ambiente all'altro. Il suo senso critico, in questo modo, è ben più fortemente esercitato che nel passato, anche se a prezzo di un rischio - non meramente ipotetico - di individualismo. Non bisogna dimenticare, del resto, che le istituzioni in questione sono da un certo tempo entrate in una crisi sempre più evidente. La caduta del muro di Berlino, le ha messe tutte in difficoltà. Di questa crisi istituzionale è un aspetto non secondario quella dei «modelli» professionali. Basta pensare a quello del magistrato, un tempo intangibile e insospettabile amministratore della giustizia, superiore ad ogni controversia politica o sociale, ed oggi coinvolto in interviste clamorose, adesioni ideologiche o addirittura partitiche, prospettive di governo o di sottogoverno. Un vera e propria crisi di identità, che fa riflettere e consente di comprendere meglio quella di cui è vittima il professore. Il crollo delle ideologie. Gli anni a cui facevamo riferimento, parlando di istituzioni monolitiche, sono gli stessi che erano caratterizzati dal prevalere delle ideologie. Con questo termine si intendono, abitualmente, alcune grandi visioni totalizzanti dell'uomo e della storia, sorte nel contesto di una lotta per la conservazione o il sovvertimento di certi equilibri socio-economici e quindi non puramente speculative, bensì essenzialmente orientate all'azione. Per questo un'ideologia non mira a suscitare una riflessione critica, che potrebbe indebolire l'efficacia operativa, ma una fede assoluta, infrangibile, nel successo finale. Di queste ideologie il marxismo era il tipo classico, ma non certo l'unico. La lotta ideologica ha dominato la storia del dopoguerra, fino a tempi recenti. Anche le ideologie, comunque, come è noto, sono tramontate. Non ci sono più visioni onnicomprensive: si interpretano le esperienze, nella loro mutevolezza e relatività. Né si prefigurano utopie sociali o politiche, in nome delle quali combattere l'attuale sistema: l'accettazione del presente ha prevalso sulla vertigine - ma anche sulla speranza - del futuro. Quanto all'impegno, non manca se ci si riferisce al servizio concreto, particolare, del volontariato, mentre è pressoché totale l'indifferenza verso quello di più ampio respiro politico. Di «fede», poi, ne è rimasta ben poca, dopo le disillusioni maturate nel clima della caduta del muro e del dilagare di tangentopoli. Le «grandi narrazioni», dietro le loro formule magiche - giustizia, libertà, difesa della persona umana - hanno rivelato squallidi giochi di potere e di interessi. II singolo si chiude nel suo discorso privato (la professione, gli amici, il rapporto di coppia) senza rimpianti. Anche di tutto questo bisogna ricordarsi quando si parla del problema della scuola e dell'educazione.
La relativizzazione dello spazio e del tempo. E poi c'è il sovvertimento delle grandi coordinate del vivere umano che sono lo spazio e il tempo. Nel corso dei secoli si era assistito a un profondo processo di riduzione delle distanze sia spaziali che temporali. Oggi questo processo ha toccato esiti tali da sovvertire il senso tradizionale della distanza. Per quanto riguarda lo spazio, ormai la maggiore o minore lontananza di una località è data, piuttosto che dal numero dei chilometri, dalla funzionalità dei mezzi di trasporto. Si può essere più «vicini» a una città distante migliaia di chilometri, ma raggiungibile in aereo, che a una località che si trova nella propria regione e che è mal servita dai mezzi di trasporto. Questo annullamento delle distanze fisiche è ancora più evidente se si guarda ai mezzi di comunicazione. Si assiste in diretta a eventi che si stanno verificando in altri continenti. II mondo è diventato un villaggio, secondo la famosa formula di McLuhan, e in questo villaggio siamo tutti vicini di casa che si incontrano nell'atrio costituito da questo o quello spettacolo di intrattenimento. Questi processi non riguardano solo lo spazio. La presenza pervasiva dei massmedia tende ad annullare la percezione del passato e l'aspettativa del futuro, proiettando incessantemente l'attenzione in un presente troppo ricco di fatti e assorbente per lasciare spazio alla memoria e alla speranza. Notizie, immagini si susseguono in un flusso incessante, talora convulso, ma privo di direzione. Si vive «l'attimo fuggente», la sensazione immediata, l'esperienza puntiforme, restando chiusi, malgrado l'apparente dinamismo, in un immutabile presente. Anche il consumismo incide su questo logorìo del senso del tempo. Una volta gli oggetti si tramandavano di padre in figlio. Una casa, una penna, un orologio, venivano da lontano e andavano custoditi per essere trasmessi in eredità ad altri. Avevano, insomma, una storia. La nostra società -basata sull' «usa e getta» - ci ha abituati a un mondo di cose perennemente «nuove», che non hanno un passato e che non sono destinate ad un futuro. La frammentazione dell’apparato educativo. Anche le strutture entro cui si svolge il processo educativo hanno subito una profonda trasformazione. Un tempo l'educazione era monopolio di alcune grandi agenzie - la famiglia, la scuola, la Chiesa depositarie di messaggi autorevoli, custodi di una disciplina di vita, il cui valore si dava per scontato. C'erano delle regole su cui tutti si era, più o meno, d'accordo. Oggi questo monopolio si è rotto. Polverizzato in una miriade di punti di riferimento mobili, il sistema educativo ha assunto la forma di una galassia in cui la televisione, la famiglia, il corso di lingua straniera, la scuola, il gruppo sportivo, la comitiva di amici, si vengono a trovare più o meno sullo stesso piano, rendendo difficile al giovane un reale lavoro di selezione e di sintesi dei messaggi che riceve in sovrabbondanza. Se è vero, come qualche studioso sostiene, che la ricerca di senso richiede, più che l'acquisizione di nuovi dati, la capacità di sciogliere le
contraddizioni insorgenti fra quelli - troppo numerosi e spesso incongruenti - a nostra disposizione, bisogna concluderne che l'attuale sovrabbondanza di stimoli non facilita il recupero del loro significato. La molteplicità di cui parlavamo non si pone solo tra le diverse agenzie educative, ma anche al loro interno. L'educazione alla prova della post-modernità Il quadro della società complessa, che abbiamo appena delineato, contiene già numerose implicazioni di ordine culturale. Ma bisogna passare a un esame più specifico del significato della post-modernità in ordine al problema dell'educazione. Il «post-moderno» si contrappone, per definizione, al «moderno». È, dunque, nella crisi di alcuni grandi temi tipicamente moderni che noi dobbiamo individuare il senso della nuova situazione creatasi. Caduta dei presupposti del concetto moderno di educazione Primo fra essi, quello della soggettività. L'epoca moderna è stata dominata dalla progressiva scoperta e poi dall'enfatizzazione del tema del soggetto, fino all'assolutizzazione di quest'ultimo. Dal Rinascimento all'idealismo romantico, attraverso Cartesio, questo itinerario è stato percorso con una linearità senza cadute. Anche le filosofie «di rottura» non hanno avuto tentennamenti nel denunziare proprio nella crisi del soggetto, nella sua «alienazione», la fonte di ogni infelicità: nel pensiero di Feuerbach, di Marx, di Kierkegaard, troviamo soluzioni diverse, ma convergenti nello sforzo di diagnosticare e di superare la scissione dell'identità profonda dell'uomo. Questa prospettiva viene drasticamente rinnegata dal pensatore che viene considerato l'ispiratore della cultura post-moderna, Nietzsche. Per lui l'io, con la sua coscienza unitaria, è «una favola, una finzione, un gioco di parole» (Il crepuscolo degli idoli), una crosta superficiale che nasconde la vera realtà dell'uomo, costituita da un caos fluente di pulsioni e di ciechi stimoli disarticolati e contraddittori. Una visione che ha un significativo riscontro nella contemporanea dottrina di Freud, secondo cui la vera identità dell'uomo non sta nella sua soggettività, nella sua coscienza, ma nell'inconscio, che egli chiama con il pronome neutro es per sottolinearne il carattere impersonale. Siamo, insomma, davanti alla dissoluzione del soggetto: non più come fenomeno patologico, a cui cercare rimedio, ma come stato costitutivo, riconosciuto e accettato. Un secondo tema fondamentale per la tradizione educativa messo in discussione dalla nuova tempèrie culturale, è quello della verità. Comunque la si concepisse, l'educazione aveva a che fare con l'alternativa vero/falso. Non si era d'accordo, evidentemente, sul contenuto di questi termini, ma si riconosceva il loro valore determinante. La crisi delle ideologie ha segnato l'avvento di una situazione nuova. A prima vista essa si presenta come una conquista: l'avvento del pluralismo, la vittoria della tolleranza e del rispetto nei confronti delle idee altrui. A ben vedere,
però, dietro questo c'è qualcos'altro di più profondo: la convinzione, più o meno apertamente dichiarata, che ognuno ha la sua verità, che non vale più di quella degli altri. Il che equivale, semplicemente, a dire che in realtà la verità non esiste e che anche quella che personalmente si ritiene tale è in fondo una questione di gusti. Si spiega cosi il fatto che da questo pluralismo non derivi un confronto più aperto sui problemi di fondo, ma il silenzio su di essi; non un dialogo rispettoso, nella sincera ricerca comune della verità, ma lo scadimento in un pragmatismo utilitaristico in cui non solo non ci si cura di verificare il pensiero dell'altro, ma neppure di approfondire coerentemente il proprio. Al fondo di questo atteggiamento sta la perdita del senso della realtà. La società della comunicazione totale è anche quella dove è diventato difficile determinare il messaggio che viene comunicato. Nei programmi di giornalismo- spettacolo, nei documentari, nella cronaca dei quotidiani, nella pubblicità, il confine tra apparenza e realtà si è fatto incredibilmente tenue, sfuggente. La fugace immagine delle cose, delle persone, delle situazioni è diventata più importante del loro essere effettivo, in un certo senso, anzi, lo costituisce: «Il mondo vero è diventato favola», scrive Nietzsche ne Il crepuscolo degli idoli: tra verità e favola non c'è più differenza. Un ultimo presupposto dell'educazione, che il pensiero moderno aveva maturato e che quello post-moderno ha lasciato cadere è il senso della storia. La modernità si definisce precisamente per l'idea di progresso e per la convinzione che l'uomo si realizzi nella storia. Non a caso il suo esito è lo storicismo assoluto, che esalta la storia come un assoluto. La post-modernità è, invece, dominata dall'esperienza della caduta di tutti i miti del progresso: il trionfo della ragione, il continuo sviluppo della scienza e della tecnica, la speranza in una rivoluzione liberatrice, si sono rivelati illusioni vane e perfino pericolose, da cui guarire. Anche la consapevolezza del valore decisivo che hanno gli atti dell'uomo, in una prospettiva che non sia quella dell'eterno ritorno, si attenua. La cultura dell'effimero induce a ritenere «leggere» le azioni, le situazioni che si verificano solo una volta quelle, appunto, storiche: «una volta, nessuna volta» è la formula ricorrente ne L'insostenibile leggerezza dell'essere di Kundera. L'avvento della scuola-contenitore Non c'è da stupirsi se una scuola che era incentrata sul soggetto, sulla trasmissione di certe verità e sulla dimensione storica, come quella italiana, si trova in serie difficoltà nel nuovo contesto culturale. Di queste difficoltà di fondo, per la verità, la società civile sembra non essersi neppure accorta. Senza percepire che le basi stesse della scuola tradizionale vacillavano, piuttosto che fare la fatica di ripensarle ha creduto di poter identificare le ragioni della sua crisi in una mancata rispondenza alle istanze socio-economiche e in una scarsa «produttività». In
quest'ottica, ha creduto di contribuire a risolvere detta crisi cercando di farla essere «utile» col moltiplicare i suoi compiti in rapporto alle nuove esigenze. Il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi: una paurosa crisi di senso, che cresce in modo direttamente proporzionale al moltiplicarsi delle attività. La fisionomia della scuola che ne viene fuori è quella di un gigantesco contenitore di iniziative e di esperienze, privo però della chiara percezione delle proprie finalità e di conseguenza incapace di unificare vitalmente questa molteplicità. Sempre più si cerca di sostituire una consapevolezza e una convinzione, che mancano, con la forza coinvolgente delle esperienze: viaggi d'istruzione, concerti, mostre, gemellaggi con scuole straniere, rappresentazioni teatrali, danno sfogo a una espressività che ormai viene assunta, nella varietà indefinita delle sue manifestazioni, come ultimo punto di riferimento. Alternativa a questo sembra essere solo la rigidezza repressiva di qualche preside o docente che evoca con nostalgia la vecchia scuola, con tutto ciò che essa aveva di fiscale, di astratto e di elitario. In assenza degli adeguati supporti culturali, stili diversi stentano a farsi strada. Tutto quello che potrebbe richiamare il calmo raccoglimento dell'io, la disciplina che è sacrificio, l'impegno senza agitazione, l'adesione nella libertà, la consapevole fedeltà all'impegno preso, la responsabilità verso gli altri, tutto ciò, in questo contesto, non solo non viene favorito, ma è tendenzialmente scoraggiato. Anche se e quando si studia, è la logica dell'informazione a prevalere, non quella della maturazione del soggetto nel dialogo con larealtà percepita nella sua storicità. La crisi più profonda è quella che vivono i docenti. Smarriti in questo passaggio fra un'identità irrimediabilmente perduta - e a cui, anche se fosse possibile, non sarebbe neppure desiderabile ritornare - e quella, che si vuole loro assegnare dall'esterno, di intrattenitori, essi vivono nella maggior parte in una specie di limbo, consolandosi con lo scaricare tutte le colpe della loro situazione su altri: gli alunni, che non sono più quelli di una volta, il governo, che non aumenta gli stipendi, ecc. La verità è che essi stessi non sanno più per che cosa lavorano. Spesso sono i primi ad avere risentito, più o meno consciamente, della crisi della società e dei valori moderni. Sono essi i primi a chiedersi «a che cosa serva» uno studio volto alla crescita interiore del soggetto, uno studio che suppone la percezione della verità di alcuni valori ed è incentrato sulla storia del passato. Né ci si può illudere di sopperire a questo vuoto, che riguarda i fini, curando l'aggiornamento sui mezzi: il susseguirsi dei corsi, dei convegni, dei seminari, non può sostituire una prospettiva di fondo che manca. Per l'insegnante «perplesso» essi diventano, piuttosto, una fuga dalle sue classi e dai suoi problemi, un modo per rimandarli. Anche la crisi degli organismi rappresentativi della scuola è in larga misura riconducibile a questo smarrimento complessivo. Là dove non è ben chiaro ad alunni
e professori - meno che mai al personale ausiliario e amministrativo - il «progetto storico» che la scuola nel suo insieme e quella determinata comunità scolastica in particolare devono perseguire, assemblee, consigli d'istituto, sono destinati a girare a vuoto. La sfida dell'educazione Dicevamo prima che, a fronte di questo disagio, indotto nel cuore dell'apparato e del processo educativo dalla post-modernità, vi è anche una sfida che l'educazione rivolge alla post-modernità. In altri termini, proprio a partire dal concetto di «educazione» e dalle pratiche a cui esso ha dato luogo nella tradizione occidentale è possibile discernere nel clima culturale del nostro tempo gli aspetti positivi da quelli che non lo sono, recuperando i primi e operando per liberarsi, gradualmente, dei secondi. In questo senso, la scuola può costituire un laboratorio di idee per costruire il futuro, e non soltanto un museo delle conquiste del passato; un luogo di elaborazione, e non solo di trasmissione della cultura. A patto che non si insista per farla essere, a tutti i costi, funzionale ai meccanismi della società neocapitalista, specchio passivo della mentalità e delle esigenze di quest'ultima. Si parla tanto di «autonomia»: ma la prima autonomia non è quella economico-amministrativa dei singoli istituti, bensì quella culturale che l'istituzione educativa deve assolutamente mantenere nei confronti dei signori dell'economia e della politica, come in genere nei confronti delle logiche oggi dominanti. Solo cosi essa potrà esercitare quella funzione creativa e critica che costituisce il suo insostituibile servizio alla società. La ricomposizione della soggettività. Partiamo dunque dal concetto di «educazione», sfruttandone fino in fondo l'etimologia: educere, condurre fuori. Risalta subito l'originalità di questo processo rispetto a quello dell'istruzione e in genere dell'informazione. Mentre quest'ultimo va dall'esterno verso l'interno del soggetto e opera su di lui, imprimendogli una forma che non è la sua, l'educare implica un movimento dall'interno verso l'esterno. Ma che cosa dev'essere «condotto fuori»? La risposta più ovvia è che vi è in ognuno un mondo che gli altri non conoscono - il suo io, la sua personalità, forse la sua anima - e che precisamente questo deve potersi manifestare nel processo educativo. Ma allora, l'opera dell'educatore si ridurrebbe a sbloccare persone timide, che non riescono a esprimere ciò che hanno già dentro di sé? Sarebbe semplicistico ridurla a questo. La realtà è più complessa. L'io di una persona non è una cosa, un oggetto già costituito una volta per tutte. L'unità profonda che ognuno cerca, sotto forma di ordine ed equilibrio interiore, di pace, dev'essere continuamente riconquistata facendo i conti con una molteplicità caotica di stati d'animo, istinti violenti, reazioni incontrollate.
Questo vale in modo particolarissimo per chi, più giovane, è ancora alla ricerca di se stesso. È vero che dentro di lui opera un principio unificante, costituito dalla sua identità personale, ma esso ha bisogno, per affermarsi, di apprendere le vie impegnative della consapevolezza, della coerenza e della responsabilità verso se stesso e verso gli altri. Se ogni uomo - e specialmente il giovane - non è un dato ma un processo vivente, una nascita continua, si comprende che il compito dell'educazione non è solo di «condurre fuori» qualcosa di già precostituito, ma precisamente di accompagnare questo io che ancora non è pienamente se stesso e che deve uscire dall'indistinzione, dalla confusione e dal gioco cieco di meccanismi che sfuggono al suo controllo. Ora, proprio queste implicazioni del concetto di «educazione» possono costituire una guida per valorizzare le ricchezze delle prospettive post-moderne, senza lasciarsene travolgere. Non si tratta di tornare all'unità «povera» e rigida della identità personale monolitica. Un simile ideale - ragazzi e ragazze «tutti d'un pezzo», come una volta - non solo non è praticabile, ma comporterebbe tali perdite da renderlo anche inaccettabile. Bisogna ripartire dalla frammentarietà, dalla mutevolezza, dalla provvisorietà, dal rischio delle esperienze molteplici in cui oggi un giovane trova la propria realizzazione. II punto, se mai, è di non fermarsi ad esse, scambiando il punto di partenza con quello d'arrivo; di uscire dalla staticità sostanziale in cui questo apparente dinamismo precipita se non sa darsi una direzione, se non sa diventare cammino, ricerca, speranza. La scuola può diventare il luogo di questa ricerca e di questa speranza. Il luogo in cui, a partire dalla varietà e talora dalla contraddittorietà di tutti gli stimoli e le suggestioni della vita d'ogni giorno, degli spettacoli, delle letture, il singolo può imparare a far fiorire l'unità del proprio io non lasciandosi alle spalle quella varietà, ma recuperandola in un'unità più ricca, più articolata e più aperta che non in passato. Non abbiamo visto proprio in questo itinerario il senso del processo educativo in generale? Perché, però, questa unificazione non sia una pura e semplice accozzaglia di elementi eterogenei, si richiede una capacità di sintesi che, a sua volta, suppone quella di discernere e selezionare i bisogni reali della persona da quelli fittizi e fuorvianti. La società dei consumi rischia di ottundere la sensibilità e l'intelligenza moltiplicando artificialmente i bisogni, fino a farne una variabile indipendente dal reale processo di crescita della persona e funzionale, piuttosto, alle esigenze del mercato. I giovani, particolarmente, sono le vittime di questa campagna frastornante e insinuante. Ebbene, la scuola può diventare il luogo del discernimento critico dei bisogni. Le discipline insegnate non devono restare oggetti di un interesse disincarnato, ma fornire i punti di riferimento culturali per una valutazione del presente. La formazione culturale può diventare allora il miglior antidoto nei confronti di una mitologia consumistica in fondo abbastanza ingenua e rozza e aprire
a una capacità di fruizione della bellezza, dell'intelligenza, della profondità, che costituirebbe la più autentica liberazione dall'attrattiva di quella mitologia. Grazie a questa capacità selettiva la persona potrebbe interpretare in modo più autentico le condizioni della propria realizzazione, identificandole, al di là del vorace accaparramento di una porzione di successo, di oggetti, di affetto, nel dono di sé agli altri. Oggi si parla molto di autorealizzazione, insistendo unilateralmente su ciò che l'individuo deve poter ricevere per attuarla. Raramente si mette in luce che il modo migliore di realizzarsi è diventare capaci di voler bene e di mettersi al servizio degli altri. Così, per es., nel lavoro, raramente si sottolinea che -se da un lato è vero che si sarà utili agli altri nella misura in cui il lavoro che si fa corrisponda alle nostre esigenze- dall'altro ci si realizzerà veramente nel proprio lavoro quanto meno si preporranno le proprie esigenze a quelle dei destinatari del proprio servizio. Questa è, del resto, la natura delle cose: la funzione di un medico non è di autorealizzarsi, ma di curare i malati e chi va da un dottore non lo fa perché questi si realizzi, ma per essere curato. La verità è che i due aspetti non solo non devono essere contrapposti, ma neppure giustapposti, come se fossero solo paralleli: l'uno, in effetti, dipende dall'altro, in una circolarità virtuosa che fa del dono la migliore realizzazione di sé. La scuola può essere il luogo di questo incontro tra autorealizzazione e dono. Il recupero della realtà Il processo educativo non riguarda solo le persone che ne sono protagoniste - in particolare quella del discente - ma i contenuti intorno a cui il loro dialogo si svolge. Abbiamo già notato che un'educazione degna di questo nome non può prescindere dall'istruzione, anche se la vive come comunicazione piuttosto che come mera trasmissione. Ora, si tratta di percepire la forza di realtà che è in questi contenuti, liberandoli da ogni artificiosità libresca e nozionistica. Da questo punto di vista la scuola è chiamata a diventare il luogo della meraviglia, intendendo con questo termine non la sorpresa che deriva da uno spettacolo inconsueto, ma la scoperta di chi impara a guardare con occhi nuovi le antiche cose che lo circondano da sempre e che, proprio perché troppo vicine, erano diventate praticamente invisibili. A che varrebbe, del resto, il contatto con testi ricchi di arte o di sapienza, se non ad aprire gli occhi sulla realtà? È questa - non quella della funzionalità utilitaristica - la reale vicinanza che la scuola deve realizzare nei confronti della vita. Una vicinanza, peraltro, che implica una distanza. Senza un certo raccoglimento dell'intelligenza e della sensibilità, senza una certa capacità di essere soli con se stessi, senza, insomma, un certo distacco dalla dispersione e dalla fretta dell'azione e dei ritmi produttivi, non c'è profondità né
intensità. Questo è la cultura, e questo è la scuola: una distanza che avvicina. Che rende autentico l'incontro con la realtà. In questo incontro l'intelligenza impara che la libertà suppone l'obbedienza alla verità delle cose. Non lo dice il vangelo di Giovanni? «La verità vi renderà liberi». Ma la verità esige un umile ascolto e un'ascesi coraggiosa. È necessario rinunziare alle proprie chimere, alle proprie illusioni, alla propria volontà di potenza, per accettare con semplicità che le cose stiano, talora, in modo assai diverso da come noi avremmo desiderato. Non si tratta di un'obbedienza come pura adeguazione passiva: nella tradizione occidentale -per es. in quella benedettina- l'obbedienza è piuttosto rappresentata come una suprema tensione della personalità, la sua fatica, il suo impegno più alto e più attivo, in contrasto con la passività che è l'abbandono ai propri capricci e alle proprie chiusure mentali. La ricomposizione della comunità Questa onestà intellettuale non solo non impedisce il dialogo, ma lo rende possibile. In primo luogo, perché consente di sottrarsi al gioco illusionistico delle apparenze, degli stati d'animo soggettivi, degli slogan, e di costituire cosi una base comune senza cui la diversità diventa incommensurabilità e scade nella indifferenza reciproca. Per parlarsi bisogna che le parole si riferiscano a una realtà comune; per discutere bisogna condividere alcune strutture logiche; per sostenere le proprie ragioni e confutare quelle altrui, bisogna essere d'accordo su un metro che costituisca la misura del vero e del falso. Il pluralismo ha senso se si colloca all'interno di una comune esperienza della realtà: altrimenti perde quel suo aspetto fondamentale che è il confronto e si trasforma in pura e semplice solitudine. Senza un rapporto con la realtà, del resto, il dialogo non solo sarebbe impossibile, ma anche superfluo. Se non c'è verità non c'è neppure errore e non c'è alcuna possibilità che nella mia posizione vi sia qualcosa che gli altri possano discutere o correggere. Lo scetticismo rende infallibili. In positivo: se non c'è verità, non c'è neppure nulla che io debba apprendere di radicalmente nuovo rispetto a quello che è già in mio possesso. Il mondo che mi sono costruito a mia immagine e somiglianza non può essere messo in crisi da acquisizioni che lo mettano in crisi e lo costringano a superarsi, perché non c'è nulla fuori di me che possa "irrompere" nei miei schemi mentali e pretendere di esservi accolto. Ancora una volta, il dialogo perde il suo interesse. Nella migliore delle ipotesi potrà essere utile per conoscere i miei interlocutori, non per arricchire la mia visione delle cose. Queste riflessioni diventano importanti in una società che ha fatto del pluralismo e del dialogo la propria regola di vita e che sperimenta però sempre più spesso lo scacco di questi ideali. Forse è venuto il momento di rendersi conto che oggi l'intolleranza e la violenza non fioriscono per ché si hanno delle idee, ma perché se ne hanno troppo poche. Le sempre più frequenti esplosioni di razzismo che a vari
livelli travagliano la nostra società non presentano forti connotazioni ideologiche. A monte di esse si trova, piuttosto, una mentalità egoista e corporativista che vuole escludere i più deboli - sentiti come intrusi - dal banchetto delle opportunità a cui la società opulenta ci aveva abituati e che in tempo di recessione cominciano a scarseggiare. Si tratta dunque di fenomeni che proliferano all'interno del «grande brodo» del consumismo e della omologazione che esso ha prodotto. Come l'educazione indica al singolo la via di un recupero dell'unità nella varietà delle spinte interiori ed esteriori che popolano la sua esistenza, così essa pone le condizioni per un analogo processo al livello delle comunità scolastiche. La scuola deve riscoprire il valore della differenza. Proprio perché è in grado di porre il terreno comune del dialogo tra i diversi, essanon deve temerne l'esistenza. L'unità che si propone, perciò, non è quella della piattezza, in cui tutti rinunziano a essere se stessi per non correre il rischio dello scontro, ma quella che riesce a contenere le opposizioni, articolandole in un discorso razionale che non le stempera, ma le mette a confronto. Senza ricadere nella sterile polemica o, peggio, nell'aggressione reciproca del tempo delle ideologie, le nostre scuole dovrebbero però diventare luoghi di dibattito permanente in cui idee, interessi, esperienze di varia matrice si aprano reciprocamente, per interagire e dare luogo a uno spazio creativo. In questo grande dialogo tra i diversi possono trovare la loro più autentica composizione termini abitualmente contrapposti, quali «libertà» e «responsabilità». Il dialogo è, infatti, momento in cui ciascuno si esprime liberamente, ma al tempo stesso si impegna a «rispondere» ai propri interlocutori, sia di quello che dice - altrimenti non merita di essere preso sul serio e il dialogo stesso si vanifica- sia a quello che loro dicono a lui, altrimenti il dialogo diventa uno sterile monologo. Un vero dialogo ha dunque implicazioni precise sul piano etico. Non vi si può partecipare se non a certe condizioni che sottraggono il singolo alla logica dell'individualismo e della "leggerezza" e lo proiettano in quella del rispetto, della condivisione, dell'impegno comune. E, nella misura in cui questo dialogo costituisce il tessuto stesso del processo educativo, libertà e responsabilità lo caratterizzano nel suo insieme e in tutte le sue componenti scolastiche: docenti, personale ausiliario e amministrativo, alunni, genitori. Dove non solo le differenze di cultura, di idee, di sensibilità, ma anche quelle legate ai diversi ruoli acquistano rilievo, nell'ottica che abbiamo sopra indicato. Perciò anche tutte queste componenti sono coinvolte nel governo della scuola, un governo destinato ad acquistare maggior peso ora che la personalità giuridica viene estesa a tutti gli istituti di secondo grado. Il fallimento pressoché totale degli organi rappresentativi non deve far perdere di vista l'esigenza di fondo che la scuola sia il luogo dell'educazione politica, non solo attraverso l'insegnamento dell'educazione civica (un altro strumento di fatto semi-atrofizzato per il non uso), ma anche attraverso una pratica di autogestione da parte di tutti coloro che ne fanno parte e che in modi diversi sono legittimati a concorrervi.
Il recupero della storicità. L'uomo è «un animale che racconta storie» (Maclntyre). Le racconta, innanzitutto, a se stesso, quando sente il bisogno di coordinare la molteplicità disordinata degli eventi e degli stati d'animo e dà loro un senso articolandoli dentro di sé come se dovesse raccontare a qualcuno la loro storia. Perché i singoli fatti, al di fuori del contesto di una narrazione, non hanno un valore univoco. Che cosa significa una strizzata d'occhio? È veramente un «fatto» in sé compiuto? Oppure è soltanto un dato ancora incomprensibile, finché non si sarà fatto ricorso a un'interpretazione che, necessariamente, fa leva su ciò che è accaduto prima e su ciò che accadrà dopo? Per rendersene conto basta evidenziare che dietro una palpebra che si chiude possono esservi motivazioni disparate: un tic nervoso, ad esempio; oppure un approccio sessuale; oppure, ancora, un esercizio imposto dall'oculista durante la visita; o la prova fatta da un attore che studia la sua parte; o il segnale d'intesa con cui una spia si fa riconoscere dal complice. Lo stesso atto fisico può dunque rientrare in fatti diversissimi l'uno dall'altro. Il suo significato, in realtà, dipende dal contesto, dalla storia in cui è inserito. Se la storia narra di un agente segreto che è in cerca del suo referente, è improbabile che chi strizza l'occhio lo faccia per una prova teatrale, o per un approccio sessuale. E così via. La narrazione è, allora, il modo di raccogliere situazioni, eventi, scelte, in un quadro dotato di senso. Anche l'educazione è un processo narrativo. Si accompagna qualcuno nel cammino verso la propria identità insegnandogli a raccontare la sua storia agli altri o a se stesso, o a Dio. E perché egli impari a far questo, gli si narrano storie. Così, almeno, si faceva un tempo, e forse il fatto che oggi il bambino cresca senza le favole o i racconti dei ricordi del nonno, ma con 1'atemporale gioco dei videogame o dei cartoni animati televisivi è uno dei motivi della perdita dell'identità. In ogni caso, ancora la nostra scuola è in larga misura fondata sul racconto del passato: oltre a quella che viene puramente e semplicemente chiamata «storia», molte altre caratterizzano se non tutti almeno alcuni corsi di studi: storia della letteratura italiana, di quella inglese o francese, di quella latina e greca; storia della filosofia; storia dell'arte. E anche delle discipline che non vengono di solito insegnate secondo un taglio storico –come matematica, fisica, scienze naturali-, ci si rende conto sempre di più che guadagnerebbero ad averlo. La scuola è una grande narrazione, in cui un giovane impara -o dovrebbe imparare - a narrare a sua volta. Il che significa che dovrebbe imparare ad avere memoria e speranza. Una storia esige un rapporto col passato e col futuro. Col passato, innanzitutto. Non solo quella occidentale, tutte le civiltà hanno vissuto della trasmissione orale di una tradizione. Nella nostra scuola «memoria» è diventato sinonimo di nozionismo bigotto. La sola memoria che oggi noi conosciamo e utilizziamo è quella asettica dei computer -una memoria che non è vivente, perché in essa i dati memorizzati non plasmano 1'io di
chi li custodisce e non sono a loro volta arricchiti da questo io. E i mezzi di comunicazione ci abituano a gettar via le notizie appena invecchiate. Anche il futuro, in una storia, è importante. Si vuol sapere come andrà a finire. E se i protagonisti del racconto sono gli stessi narratori, essi non solo sono costretti a chiedersi, nell'iniziare ogni nuovo capitolo, quale esito vogliono che abbia il loro racconto, ma devono impegnarsi perché esso vada in quella direzione. Da qui l'esigenza di un progetto, e di mezzi adeguati per realizzarlo. Senza ricadere nelle utopie tipiche del tempo dell'ideologia, si può forse riattivare la facoltà dell'uomo di pensare in grande, oltre il momento fuggevole, per preparare una società diversa.
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