La sfida dell'IS e la strategia di Obama - N 22 - SETTEMBRE 2014 - www.bloglobal.net

Pagina creata da Maria Spada
 
CONTINUA A LEGGERE
La sfida dell'IS e la strategia di Obama - N 22 - SETTEMBRE 2014 - www.bloglobal.net
N°22 – SETTEMBRE 2014

    La sfida dell’IS
e la strategia di Obama
La sfida dell'IS e la strategia di Obama - N 22 - SETTEMBRE 2014 - www.bloglobal.net
BloGlobal Research Paper
Osservatorio di Politica Internazionale (OPI)

© BloGlobal – Lo sguardo sul mondo

Milano, settembre 2014

ISSN: 2284-0362

Autore
Alessandro Tinti

Alessandro Tinti e Dottore in Relazioni Internazionali presso l’Universita di Firenze discutendo una tesi dal titolo
“L’egemonia fragile: la grande strategia della potenza americana al tempo di Obama”. Ha inoltre frequentato il
corso intensivo avanzato “Nuove Relazioni Transatlantiche: le organizzazioni Internazionali e le sfide della sicu-
rezza”, organizzato da Consules in partenariato con il Comitato Atlantico Italiano. I suoi ambiti di studio e ricerca
riguardano la politica estera statunitense, gli studi sulla sicurezza, la teoria delle relazioni internazionali e i flussi
migratori.

Questa pubblicazione può essere scaricata da: www.bloglobal.net

Parti di questa pubblicazione possono essere riprodotte, a patto di fornire la fonte nella seguente forma:
La sfida dell’IS e la strategia di Obama , Osservatorio di Politica Internazionale (BloGlobal – Lo sguardo sul mon-
do), Milano 2014, www.bloglobal.net

uesta pubblicazione può essere scaricata da: www.bloglobal.net

Parti di questa pubblicazione possono essere riprodotte, a patto di fornire la fonte nella seguente forma:
I porti di Chabahar e Gwadar al centro dei “grandi giochi” tra Asia Centrale e Oceano Indiano, Osservatorio di Poli-
tica Internazionale (Bloglobal – Lo sguardo sul mondo), Milano 2014, www.bloglobal.n
INTRODUZIONE

A quasi tre anni dal ripiegamento dei contingenti statunitensi, l’incerto destino di
Baghdad è nuovamente epicentro delle preoccupazioni dell’amministrazione Obama.
La recrudescenza della guerra civile e la vasta offensiva scagliata dall’IS hanno tra-
volto le residue illusioni di un disimpegno responsabile dallo scenario iracheno che
l’esecutivo democratico ha tentato programmaticamente di assicurare sin dal pro-
prio insediamento ed hanno anzi imposto un’indesiderata quanto critica proiezione
di forza al fine di tamponare lo sgretolamento della contestata sovranità del gover-
no centrale.

Se nel biennio 2007-2008 il disegno strategico (“the new way forward”) depositato
nelle mani di David Petraeus aveva arginato gli scontri tra le milizie sciite e sunnite,
quasi riuscendo ad annichilire la struttura operativa dei jihadisti di al-Qaeda, la si-
tuazione odierna appare tuttavia quanto mai insidiosa sia sul piano delle opzioni mi-
litari, che su quello degli orientamenti diplomatici. Washington preme per l’adozione
di una “one Iraq policy”, patrocinando un processo politico inclusivo che ricomponga
le laceranti fratture etniche e settarie violentemente riaffiorate nella società irache-
na. Ciononostante è legittimo convenire con Kenneth Pollack, già consigliere del Na-
tional Security Council ed allora acceso sostenitore di Iraqi Freedom, che gli inte-
ressi statunitensi eccedano l’effettiva capacità di influenzare gli eventi secondo la
direzione auspicata[1].

Sebbene l’avvicendamento del Primo Ministro Nuri al-Maliki con Haider al-Abadi
ponga le condizioni per un rinnovamento parziale della dirigenza irachena,
l’intensità del conflitto e la polarizzazione degli attori coinvolti restituiscono
l’immagine di un Iraq profondamente spaccato lungo divisioni antiche dapprima li-
berate dal rovesciamento del regime baathista di Saddam Hussein ed oggi esaspe-
rate dagli effetti esiziali di una stabilizzazione largamente inattuabile e falcidiata sia
dalla falsa partenza di un sistema produttivo inefficientemente ancorato alla sola
                                                                                              Research Paper, N°22 – Settembre 2014

industria petrolifera, sia dalla collisione di agende politiche incompatibili. Il fallimen-
to strategico inscritto nel collasso del ricostituito ordine iracheno risalta alla luce dei
costi enormi sostenuti dalla superpotenza per fronteggiare un’esposizione più che
decennale nel Paese, ma i provvedimenti d’urgenza deliberati da Obama testimo-
niano la necessità di recuperare terreno rispetto ad una crisi suscettibile di intacca-
re complessivamente la stessa presenza americana nella regione.

Anche laddove il progetto di califfato proclamato da al-Bagdhadi lo scorso 4 luglio si
dimostri insostenibile nel medio periodo, il consolidamento delle conquiste dell’IS ha

                                                                                                                         1
radicato un cuneo di instabilità che grava su ed attrae pericolosamente le matrici di
conflitto e le dinamiche geopolitiche che infiammano il Medio Oriente: non solo gli
urti della guerra parallela combattuta in Siria ed il contagio ideologico del nuovo ji-
had internazionale, la conflagrazione dello scenario iracheno alimenta pure
l’incipiente linea di faglia tra sunnismo e sciismo e si riverbera sulle posizioni tenute
dai vicini regionali (principalmente Iran, Giordania, Turchia e le monarchie petrolife-
re del Golfo), aprendo una finestra di potenziali opportunità per i competitor globali
(Federazione Russa e Cina) che mirano ad erodere le relazioni egemoniche della su-
perpotenza. In questa prospettiva la frammentazione dell’Iraq, oltre alla minaccia
immediata di un’enclave terroristica in grado di finanziare un network sovranaziona-
le grazie ai proventi dello sfruttamento dei pozzi occupati, attenta alla sicurezza de-
gli alleati americani nell’area ed incide sui delicati negoziati avviati con Teheran per
educarne le ambizioni espansive. Per queste ragioni la risposta concertata dagli Sta-
ti Uniti assume un valore decisivo all’interno dell’ennesima e pur sempre provvisoria
ridefinizione dei rapporti di forza nel contesto mediorientale. Se difficilmente il pre-
stigio e l’influenza di Washington ne usciranno rafforzati, per converso gli effetti
dannosi dell’inazione ovvero di un intervento confuso e non attentamente pondera-
to potrebbero comprimerne drasticamente il peso politico negli equilibri regionali. È
dunque in Iraq che, significativamente, Obama gioca il senso compiuto di una pre-
sidenza ad oggi opaca, determinata a ricucire gli strappi della precedente gestione
Bush ma lo stesso incapace di articolare una politica estera di ampio respiro in gra-
do di rilanciare il tramontato primato americano in un sistema internazionale in ra-
pida evoluzione.

Questo Research Paper intende presentare la lettura strategica dell’avanzata dell’IS
e della precarietà delle istituzioni irachene così come fissata dai vertici politici e mi-
litari degli Stati Uniti. Ad una previa contestualizzazione dei fattori scatenanti
l’attuale spirale di violenza e delle fazioni che vi hanno preso parte attiva, seguirà
perciò una ricostruzione delle decisioni prese e delle opzioni vagliate dalla leader-
ship statunitense in riferimento agli interessi strategici perseguiti ed all’interazione
con gli attori (interni ed esterni) che detengono un ruolo rilevante nel conflitto.
                                                                                             Research Paper, N°22 – Settembre 2014

                                                                                                                        2
PARTE I

                      LE CAUSE DELL’ESCALATION

Se la contiguità del fronte siriano ha certamente sollecitato la precipitazione della
crisi irachena, precisamente rafforzando il coordinamento tra l’opposizione sunnita
al regime di al-Assad e le corrispettive fazioni estremiste insediate al confine set-
tentrionale dell’Iraq, gli analisti statunitensi hanno frequentemente rilevato le inne-
gabili responsabilità di Nuri al-Maliki nella radicalizzazione delle contrapposizioni et-
niche e settarie.

Nella deriva autoritaria e personalista dei due mandati ricoperti dall’ex Primo Mini-
stro è infatti riconoscibile un progressivo indebolimento della rappresentanza sunni-
ta, che esprime circa un terzo della popolazione irachena[2]. Come prevedibile dopo
l’eliminazione di Saddam, i governi di coalizione presieduti da al-Maliki hanno ope-
rato per l’accentramento delle risorse di potere presso la maggioranza sciita – esito
su cui hanno peraltro pesato, oltre all’evidente depoliticizzazione delle forze lealiste
con la dittatura baathista, i gravi errori commessi dall’eterogeneo insieme dei partiti
sunniti, su tutti la diserzione delle elezioni costituenti del 2005. L’azione di al-Maliki
ha tuttavia assunto tratti intimidatori, se non propriamente persecutori, a seguito
delle   veementi    tensioni   che   hanno   accompagnato     la   mancata    applicazione
dell’accordo di Erbil, ossia del manifesto d’ispirazione federale sottoscritto nel no-
vembre 2010 dalle componenti sciita, sunnita e curda dietro l’imprimatur congiunto
di Stati Uniti e Iran. L’intesa aveva risolto a favore di al-Maliki la paralisi istituziona-
le sopraggiunta con la consultazione elettorale del 2010 – quando il partito
Iraqiyya, a composizione mista sciita-sunnita e guidato da Ayad Allawi, era stato
premiato dal 24.72% dei voti (91 seggi) contro il 24.22% (89 seggi) del cartello di
al-Maliki[3]. Malgrado lo scarto negativo, il Premier uscente aveva infine ottenuto
una sofferta riconferma della propria leadership in virtù di una tempestiva sentenza
della Corte Costituzionale e del sostegno essenziale (incoraggiato da sponda irania-
na) della compagine sadrista. Tuttavia, al-Maliki venne meno all’intento program-
matico di intraprendere la strada di un esecutivo di unità nazionale virtuosamente
aperto all’apporto di Iraqiyya e dei partiti sunniti, così riacutizzando e rendendo irri-
ducibile la discordia con le controparti. Da allora gli arresti arbitrari di presunti co-
                                                                                               Research Paper, N°22 – Settembre 2014

spiratori baathisti hanno seguito un’impressionante regolarità e l’utilizzo strumenta-
le delle corti di giustizia ha investito anche personalità politiche eccellenti di estra-
zione sunnita, quali il vice Primo Ministro Saleh al-Mutlaq, il Presidente del Parla-
mento Abdu’l Aziz al-Nujayfi ed il vice Presidente Tariq al-Hashimi (quest’ultimo co-
stretto all’esilio in Turchia e condannato a morte in contumacia)[4]. Al contempo il
governo di Baghdad colse l’avvenuto ritiro delle truppe americane (dicembre 2011)
per stringere il controllo sulle Forze Armate (Iraqi Security Forces, ISF), precluden-
do l’integrazione di almeno 30-40mila combattenti del gruppo armato sunnita “Figli

                                                                                                                          3
dell’Iraq” che aveva collaborato al fianco degli Stati Uniti nella stabilizzazione delle
insurrezioni.

In breve, la sconsideratezza di al-Maliki ha effettivamente posto le premesse per un
aggravamento sostanziale delle divisioni politiche (non solo l’antagonismo sciiti-
sunniti, ma anche gli altalenanti rapporti tra arabi e curdi), regalando alla propa-
ganda jihadista un vasto bacino di reclute. Tuttavia, se il primo bagno di democrazia
ha   prodotto      risultati   improduttivi   e   sgraditi   all’establishment   americano
(l’inasprimento di un conflitto connaturato nella composita struttura sociale irache-
na, la conseguente rinascita del terrorismo di matrice islamica, l’ingerenza irania-
na), il biasimo di Washington dovrebbe arrestarsi dinanzi all’evidenza dei processi
disgreganti coercitivamente attivati dalla campagna bellica del 2003. Solo tardiva-
mente gli Stati Uniti tentarono di trasfondere l’esito militare della sconfitta di Sad-
dam in un corrispondente progetto di capacity building al fine di puntellare il nuovo
corso politico trattenendo entro un rinnovato modello di governance quelle spinte
centrifughe che la rimozione dell’autoritarismo baathista aveva naturalmente ride-
stato. In questo senso al-Maliki ha duramente difeso la friabile legittimità di un or-
dinamento privo tanto di un diffuso consenso nazionale, quanto di un accordo vo-
lontario dei principali gruppi di interesse. In altri termini, gli Stati Uniti sono ancora
sotto scacco della sorprendente vacuità strategica che accompagnò l’imponente tra-
sferimento di capacità militari nel Golfo Persico. La rapida dissoluzione di un (sep-
pur vacillante) regime trentennale lasciò le spoglie di un sistema decisionale centra-
lizzato, sprovvisto di contrappesi alla preponderanza dei vertici, incline ad una ge-
stione nepotistica della cosa pubblica ed ampiamente inadeguato ad estendere sia
le garanzie dello Stato di diritto sia la fruizione dei servizi sociali essenziali ad un
tessuto territoriale disomogeneo, nonché storicamente vessato da trattamenti dise-
guali e repressivi. L’elevata pressione demografica, la presenza di profughi e sfolla-
ti, l’iniqua ripartizione delle ricchezze petrolifere, l’arretratezza di infrastrutture e di
settori fondamentali per lo sviluppo economico hanno inoltre appesantito la debo-
lezza delle istituzioni[5].

Benché la crucialità geopolitica di Baghdad fosse nitida nel quadro strategico
dell’amministrazione statunitense, questi fattori si sono imposti sulla lenta e sempli-
cistica valutazione del post-Saddam, dequalificando i piani per l’assetto durevole di
un Iraq pacificato a esercizi eterodiretti di ingegneria costituzionale ovvero desti-
                                                                                               Research Paper, N°22 – Settembre 2014

nando risorse ed attenzione sproporzionate alla dimensione militare delle azioni di
stabilizzazione.

                                                                                                                          4
PARTE II

          LA RIBALTA DELL’IS E LE FORZE IN CAMPO

Senza gusto dell’iperbole, il Segretario della Difesa Chuck Hagel l’ha definita la più
sofisticata e meglio finanziata organizzazione terroristica che il Pentagono abbia mai
affrontato[6]. Dalle ceneri del gruppo jihadista raccoltosi attorno alla figura di Abu
Musab al-Zarqawi[7], l’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e di al-Sham) ha colto lo sban-
damento dell’élite irachena per assestare un drastico colpo all’unitarietà del Paese.
Febbrilmente proteso verso l’irrealistico obiettivo di un califfato mondiale, il ribat-
tezzato IS (Stato Islamico) ha promosso una sistematica e dilagante offensiva con-
tro il governo di Baghdad, ricevendo il sostegno (spesso occasionale) delle milizie
sunnite alienate dalla politica discriminante di al-Maliki.

                        IMMAGINE 1: ATTACCHI CONDOTTI NEL NORD DELL’IRAQ
                   (FONTE: THE NEW YORK TIMES) – Aggiornamento al 19/08/2014
                                                                                          Research Paper, N°22 – Settembre 2014

Riorganizzatosi lungo il confine nord-occidentale con un’inedita capacità di fuoco ed
ingenti risorse, nel corso del 2013 il movimento guidato da Abu Bakr al-Baghdadi
ha brutalmente innalzato la frequenza e l’intensità degli scontri settari[8]: sfruttan-
do la dispersione delle forze di sicurezza irachene ed agitando lo scontento indotto
dalla soppressione governativa dei tumulti nella provincia sunnita di al-Anbar, nel
gennaio 2014 i militanti jihadisti hanno facilmente conquistato, incontrando la sola
resistenza della polizia locale, le città di Ramadi e Falluja – rispettivamente a circa

                                                                                                                     5
120 e 70 chilometri dalla capitale. Da allora le colonne armate dell’IS hanno ripetu-
tamente solcato i percorsi del Tigri e dell’Eufrate assicurandosi il controllo delle
principali vie di comunicazione. Caduta Mosul – seconda città irachena in termini di
importanza – il 10 giugno, nei giorni seguenti l’IS ha attaccato Tikrit, Tal Afar e la
raffineria di Baiji, per poi procedere a sud verso Samarra fino a giungere alle porte
di Baghdad; al contempo, tra il 20 ed il 30 giugno, un accordo con al-Nusra ha rin-
saldato in prossimità di Qaim e Abu Kamal un ingresso incontestato in Siria, dove
al-Baghdadi ha stabilito a Raqqah la capitale provvisoria del Califfato, come simil-
mente numerose brecce sono state fissate lungo la frontiera con la Giordania.

Le scorrerie jihadiste, eseguite con armamento pesante e mezzi blindati (per lo più
sottratti alle ISF e spesso di produzione statunitense), hanno lasciato dietro di sé
una striscia di sangue e di terrore brutalmente accentuata dalle esecuzioni di massa
e dalla persecuzione delle minoranze religiose. I vessilli neri dell’IS sfiorano Aleppo
ed avvolgono una vasta area della Siria nord-orientale, mentre le incursioni dei ji-
hadisti infiammano i governatorati iracheni di al-Anbar, Niniveh, Kirkuk, Salah al-
Din e Diyala. Il furore degli estremisti islamici e l’illegalità endemica che ne conse-
gue hanno provocato una crisi umanitaria di notevoli proporzioni nelle zone soprac-
citate. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni dal 1° gennaio
2014 quasi 1.7 milioni di persone, in particolare nei distretti di Mosul e Sinjar, sono
state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni[9]. L’Alto Commissario per i Di-
ritti Umani delle Nazioni Unite, Navi Pillay, non ha esitato a riferire di crimini contro
l’umanità, relativamente alla sistematica persecuzione di gruppi etnici e religiosi, e
di crimini di guerra, a proposito dei massacri di prigionieri e di civili pubblicizzati
dagli stessi jihadisti[10].

                                                                                            Research Paper, N°22 – Settembre 2014

                             IMMAGINE 2: AREE SOTTO IL CONTROLLO DELL’IS
                    (FONTE: THE NEW YORK TIMES) – Aggiornamento al 20/08/2014

                                                                                                                       6
All’ondata dell’IS è corrisposta la rotta confusa dell’esercito iracheno, che preso alla
sprovvista dalla mobilità dei convogli nemici ha largamente abdicato alla protezione
di snodi chiave consentendo una rapida avanzata alle forze integraliste – tanto da
permettere la presa senza colpo ferire di numerosi centri abitati (ad esempio Baiji)
e di canali di rifornimento dall’alto valore strategico. L’impressione di un assalto
inarrestabile al cuore del Paese ha infatti incrinato la tenuta delle ISF che hanno
perciò opposto una resistenza flebile e disordinata[11]. Al contrario, i peshmerga
curdi hanno da subito ingaggiato i militanti dell’IS in feroci combattimenti per impe-
dire la capitolazione della regione autonoma del Kurdistan. Nonostante i rapporti te-
si con la dirigenza sciita, nello smarrimento addotto dalle manovre dei guerriglieri
del Califfato, i curdi hanno servito la causa delle istituzioni centrali, fornendo
un’assistenza decisiva alle divisioni governative nella riconquista di Jalawla, As-
Sa’diyah, di alcuni tratti confinanti con la Turchia e soprattutto (con l’appoggio dei
raid statunitensi) della monumentale diga di Mosul – infrastruttura vitale per la si-
curezza energetica e l’approvvigionamento idrico del Paese, caduta in mano ai jiha-
disti nella prima metà di agosto. Analogamente le fazioni sciite hanno predisposto
alcune brigate per rafforzare le difese della capitale (sempre più oggetto di attenta-
ti) e dei maggiori siti confessionali, quali ad esempio Samarra[12]. Ciononostante,
la lealtà prestata al governo legittimo da diverse strutture paramilitari sciite – quali
Asa’ib Ahl al-Haq e Ketaeb Hezbollah, finanziate da capitali iraniani – è stata
espressamente accordata per necessità contingente ed in via transitoria. Il deficit di
coordinamento e la mancanza di adeguata copertura aerea da parte delle ISF hanno
però precluso qualsiasi ipotesi di riflusso dell’insurrezione, in misura crescente ali-
mentata da uomini e mezzi provenienti dal teatro siriano, così cristallizzando una
condizione di grande svantaggio per Baghdad e ponendo le premesse per un inter-
vento esterno nella crisi.

Le insegne del Califfato hanno invece accolto in primo luogo gli adepti delle fazioni
salafite ed i fuoriusciti del regime di Saddam Hussein, compresi ex ufficiali e soldati
della Guardia Repubblicana e dell’esercito iracheno disgregatosi durante Iraqi
Freedom. Per quanto concerne la disposizione delle comunità sunnite, dopo la con-
quista di Mosul varie milizie tribali hanno tatticamente ricercato alleanze di natura
provvisoria con l’IS allo scopo di indebolire al-Maliki; in alcune circostanze, gli ac-
cordi di compromesso sono stati preceduti ovvero interrotti da accese ostilità[13],
acclarando una sostanziale difformità degli obiettivi perseguiti laddove la maggio-
                                                                                           Research Paper, N°22 – Settembre 2014

ranza dei gruppi armati sunniti è votata ad un nuovo sovvertimento degli equilibri
politico-confessionali all’interno del sistema politico iracheno e per contro non con-
templa alcun assoggettamento all’idea califfale di al-Baghdadi. A questo riguardo è
indicativo annotare che una delle principali organizzazioni sunnite affiliate alla cam-
pagna jihadista, ossia l’Esercito degli Uomini dell’Ordine Naqshabandi – di simpatie
baathiste e designata associazione terroristica dal Dipartimento di Stato americano
– sia entrata in lotta serrata con i militanti dell’IS nella provincia di Diyala. Allo
stesso modo violente rivalità sono esplose anche con le formazioni islamiste

                                                                                                                      7
dell’Esercito Islamico dell’Iraq e di Ansar al-Sunna[14]. La frammentazione dello
schieramento    rivoluzionario   è   attesa   ad   un   progressiva   accelerazione   con
l’evoluzione del conflitto e disegna un modello di controllo territoriale altamente in-
stabile ed elastico negli interlocutori, che inficia il radicamento dell’IS nelle province
occupate. Inoltre, occorre tenere presente che l’intransigenza assoluta del messag-
gio ideologico evocato da al-Baghdadi è suscettibile di isolare sempre più il separa-
tismo jihadista in Siria e Iraq: se nell’Islam si moltiplicano le voci che condannano
fermamente tanto la pretesa di porsi al vertice della Umma, quanto la prassi cruen-
ta ed indiscriminata adottata dagli estremisti, già nel febbraio 2014 persino al-
Qaida e Jabhat al-Nusra avevano entrambe interrotto qualsiasi legame organizzati-
vo con l’IS. Tuttavia, gli analisti statunitensi sono concordi nel giudicare improbabile
una riscossa anti-jihadista dei gruppi sunniti, sulla scorta del cosiddetto “Awake-
ning” che nel 2008 contribuì a spezzare le ramificazioni di al-Qaeda nel Paese, poi-
ché l’urgente riorganizzazione delle ISF, l’assenza di contingenti USA sul campo e
l’incerto sbocco del processo politico iracheno non creano incentivi sufficienti ad un
netto e coeso capovolgimento di fronte. È sulla base di questa valutazione che gli
Stati Uniti hanno predisposto una risposta pragmatica alla crisi.

                                                                                             Research Paper, N°22 – Settembre 2014

                                                                                                                        8
PARTE III

     LA REAZIONE DELL’AMMINISTRAZIONE OBAMA

Per le ragioni richiamate in chiusura al paragrafo precedente è improbabile che l’IS
sia in grado di rovesciare Baghdad, ma il rischio di protrarre indefinitamente la
guerra civile – fissando una conflittuale tripartizione su base confessionale e conse-
guentemente logorando il basamento dell’incompiuta democrazia forgiata col fuoco
dell’invasione americana – è assai concreto. Secondo l’intelligence statunitense, la
leadership degli estremisti islamici può contare su un nucleo di circa 10mila muja-
heddin (dei quali solo un terzo impegnato nel versante iracheno); un quantitativo
insufficiente all’esercizio ed alla conservazione di un dominio teocratico semi-statale
in un’area estesa approssimativamente quanto la vicina Giordania e soprattutto at-
traversata dalla crescente repulsione delle popolazioni locali. Tuttavia, l’enorme di-
sponibilità economica di cui beneficia il movimento – prodotta dalle generose dona-
zioni di privati arabi, dalla confisca di proprietà, dall’immissione di greggio sul mer-
cato nero, dal saccheggio delle banche, dai sequestri di persona, infine da attività di
estorsione e di riciclaggio – ha consentito ad al-Baghdadi di armare un vero e pro-
prio esercito irregolare, che trascende in termini di operatività, equipaggiamento e
addestramento militare la capacità di combattimento usualmente attribuita ad
un’organizzazione terroristica. Pertanto, la dimensione regionale della crisi che con-
giunge il teatro iracheno a quello siriano ha aperto in seno alla Casa Bianca e al
Pentagono un urgente confronto sulle misure volte a sventare il pericolo di un dis-
sesto irreversibile dello scenario geopolitico.

Dalla prospettiva di Washington l’inaspettata cedevolezza delle ISF ha costituito
senza mezzi termini un notevole smacco, emblematicamente raffigurato dagli
Humvee e dai carri armati di fabbricazione statunitense caduti in mano agli insorti
dopo la resa di Mosul ed ora battenti la bandiera dell’IS. Dato il profluvio di capitali
stanziati per assistere la ricostruzione degli apparati di sicurezza iracheni, la porosi-
tà delle forze governative – seppur numericamente consistenti e dotate di reparti
d’élite di sicuro affidamento[15]– ha rilevato una certa imprevidenza nell’approccio
americano, solo in parte imputabile all’affrettato ritiro delle truppe alla fine del
2011. “Checkpoint army” prevalentemente dedito a operazioni statiche di carattere
                                                                                            Research Paper, N°22 – Settembre 2014

difensivo ovvero ad attività di anti-terrorismo, l’esercito iracheno si è mostrato del
tutto inadeguato a controbattere una vasta e ben pianificata offensiva insurreziona-
le[16]. Con grave ritardo il Pentagono è stato dunque costretto a prendere atto che
le ISF non possiedono le capacità necessarie a reprimere gli attacchi del Califfa-
to[17].

Atteso dagli alleati mediorientali ad una replica risoluta nei confronti della riemer-
sione della minaccia jihadista e consapevole di disporre di un assai limitato margine

                                                                                                                       9
di manovra, l’esecutivo Obama è intervenuto in molteplici direzioni. Nel mese di
giugno gli Stati Uniti hanno dapprima predisposto due centri operativi congiunti a
Baghdad e Erbil al fine di tracciare un primo esame delle risorse mobilitate dall’IS e
coordinare le azioni della resistenza irachena e curda; inoltre, hanno poi deliberato
una duplice missione consistente nell’invio di personale militare (complessivamente
680 unità) incaricato di aumentare il livello di sicurezza delle sedi diplomatiche e di
redigere un’analisi accurata della situazione sul campo[18]. Quest’ultima ha urgen-
temente sollecitato, di fronte all’imperversare degli estremisti, l’autorizzazione (il 7
agosto) di operazioni aeree chirurgiche allo scopo di colpire i gangli vitali dell’IS e di
fornire superiorità tattica alle unità di terra delle ISF e dei peshmerga – operazioni
ufficialmente legittimate dalla protezione di cittadini americani e dei convogli uma-
nitari[19]. Al contempo, il Comando Centrale e l’USAID hanno approntato un ponte
aereo per rifornire di beni di prima necessità gli sfollati yazidi rifugiatisi sulle mon-
tagne del Sinjar. I combattenti di Mas’ud Barzani sono presto diventati uno stru-
mento fondamentale della strategia indiretta di Washington: tutti i 124 bombarda-
menti totalizzati dalla U.S. Air Force al 31 agosto scorso sono stati concentrati nelle
aree di Mosul, del Sinjar, della capitale curda Erbil e di Amiril in appoggio alla con-
troffensiva dei peshmerga[20].

Gli scontri a fuoco con l’IS hanno permesso alle forze di Barzani di entrare a Kirkuk,
importante hub energetico a lungo reclamato dal governo regionale curdo e che dif-
ficilmente sarà in seguito ricondotto alla potestà esclusiva di Baghdad. Armare i pe-
shmerga potrebbe dunque rivelarsi un azzardo per il futuro riassetto dell’Iraq: non
è un caso che gli Stati Uniti abbiano temperato il sostegno logistico ed operativo
con l’interdizione ad esportare petrolio in modo indipendente dalle istituzioni centra-
li. Analogamente, l’amministrazione Obama si mostra riluttante a distribuire fornitu-
re militari direttamente alla leadership curda, vincolando i trasferimenti di armi ad
un previo passaggio dalla capitale irachena. Questa discriminante alzata dalla Casa
Bianca ha destato critiche presso il Pentagono, che ha richiamato la dirigenza politi-
ca a prendere atto della situazione sul campo[21], e nel Congresso, dove la prova
irresponsabile delle ISF ha fatto emergere per voce del senatore democratico Ro-
bert Menendez (presidente del Committee on Foreign Relations del Senato) forti
dubbi sull’opportunità di garantire commesse militari alle autorità di Baghdad[22].
In realtà, quello posto dalla presidenza Obama costituisce un ammonimento politico
a Barzani, poiché il diniego alle richieste presentate dall’élite curda è stato superato
                                                                                             Research Paper, N°22 – Settembre 2014

dalla pronta disponibilità degli alleati europei (tra cui Germania, Gran Bretagna,
Francia, Italia, Albania, Repubblica Ceca) ad inviare munizioni ed armamenti pesan-
ti (in particolare razzi anticarro). In questo senso gli Stati Uniti – che già dalla
Guerra del Golfo hanno accompagnato il cammino del Kurdistan iracheno verso
l’autonomia, formalmente riconosciuta dalla Costituzione ratificata nel 2005 – in-
tendono scoraggiare ogni tentazione separatista, adeguando la posizione dei partiti
curdi   al   traguardo   di   un   “functioning   federalism”   continuamente     agitato
dall’amministrazione statunitense[23].

                                                                                                  10
Coerentemente con questo assunto, Obama ha immediatamente circoscritto la por-
tata dei provvedimenti militari, escludendo categoricamente una nuova spedizione
in Iraq ed affidando la soluzione della crisi alla concertazione di un contratto tra le
comunità etnico-confessionali[24]. Su questo piano la diplomazia della Casa Bianca
ha puntato al superamento di al-Maliki ed al rilancio del processo federale (previsto
dalla carta costituzionale) che scandirà l’agenda del neo-eletto Primo Ministro Hai-
der al-Abadi, anch’egli espressione del partito sciita Da’Wa e considerato sia da Wa-
shington che Teheran un profilo adatto a richiamare consenso popolare attorno alle
istituzioni centrali[25]. Eppure il modesto cambiamento nella dirigenza irachena non
sembra sufficiente a saldare le spaccature settarie e rimuovere la minaccia dell’IS.
Se nel primo caso la questione federale incontra il nodo gordiano della ripartizione
dei profitti petroliferi (i maggiori giacimenti del Paese sono localizzati nei governato-
rati meridionali a maggioranza sciita), nel secondo la propagazione delle violenze
islamiste incide sugli equilibri interni degli Stati confinanti ed irradia effetti di am-
piezza regionale. È per questo motivo che il Segretario di Stato Kerry in un primo
momento ha incontrato a Parigi le controparti di Arabia Saudita, Giordania e Emirati
Arabi Uniti e successivamente si è recato a Riyadh per gettare le fondamenta di una
nuova “coalizione dei volenterosi”. Da questa visuale la strategia degli Stati Uniti
deve però necessariamente contemperare posizioni dissimili legate dalla condivisio-
ne di un nemico comune.

Intanto, l’andamento delle ostilità – con l’occupazione della base di Taqba, fedele a
Damasco, da parte dei militanti dell’IS – esorta i policy-maker americani a prendere
in considerazione l’estensione di bombardamenti selettivi agli avamposti jihadisti in
terra siriana. Il 26 agosto Obama ha dato il via libera ai primi voli di ricognizione,
chiedendo allo Stato Maggiore di delineare le opzioni militari praticabili[26]. I porta-
voce di Bashar al-Assad hanno reso noto che, in assenza di un coordinamento pre-
ventivo, gli eventuali attacchi condotti nello spazio aereo della Siria saranno consi-
derati veri e propri atti di aggressione. Tuttavia, si sono mostrati disponibili ad in-
traprendere attività anti-terroristiche congiunte – ipotesi irricevibile poiché sconfes-
serebbe drasticamente la linea tenuta dagli Stati Uniti nella guerra civile siriana, in-
crinando l’alleanza con gli Stati sunniti che avversano Assad. Da questo punto di vi-
sta le conseguenze di una campagna aerea, anche qualora colpisse le sole zone di
confine ed eludesse incursioni in profondità, appare altamente problematica sia in
termini operativi, che diplomatici. Malgrado ciò, la destinazione di rinnovati finan-
                                                                                            Research Paper, N°22 – Settembre 2014

ziamenti all’opposizione siriana sottoposta all’attenzione del Congresso evidenzia
quanto il recupero della situazione irachena sia inestricabilmente radicato nella
drammatica lotta per Damasco.

                                                                                                   11
PARTE IV

                         IL QUADRO REGIONALE

La miccia accesa dal movimento teocratico di al-Baghdadi ha scosso l’intero conte-
sto mediorientale e promette di unificare ceppi di instabilità tra loro distanti – dal
Corno d’Africa al Sudan, dallo Yemen al Libano, per giungere alla Libia. Tuttavia –
ha ragione Jon Alterman, vice presidente del Center for Strategic and International
Studies – gli Stati confinanti, che mantengono un vivo interesse nell’avversare le
schiere armate del Califfato, in una certa misura hanno pure incassato vantaggi re-
lativi dalla radicalizzazione delle ostilità nell’ambito delle rispettive contrapposizioni
regionali[27]. È indubbio, ad esempio, che Bashar al-Assad abbia beneficiato
dell’alleggerimento della pressione internazionale sulla propria condotta; la com-
plementarietà del fronte siriano e di quello iracheno sta anzi muovendo gli opposito-
ri esterni al regime di Damasco (in primis gli Stati Uniti) a prefigurare azioni militari
contro gli stessi jihadisti che aspirano alla detronizzazione del leader alawita. Il vuo-
to politico dischiuso nella piana mesopotamica rende inoltre Baghdad l’ago della bi-
lancia della crescente competizione tra Riyadh e i partner del Consiglio di Coopera-
zione del Golfo da un lato e Teheran dall’altro. Queste spinte contraddittorie, a loro
volta incardinate in una complessa ed ambigua griglia di rivalità etniche e confes-
sionali, di fatto pregiudicano un vasto allineamento anti-jihadista – ipotesi, come si
è detto, al centro delle trattative statunitensi.

Malgrado ciò, da una visione d’insieme, nei centri di potere che costeggiano l’Iraq
prevalgono motivi di allarme e di inquietudine relativamente all’inedita solidità
dell’IS. Turchia e Giordania, accomunate dal carico dei milioni di profughi soprag-
giunti dalle zone di guerra, sono entrambe impegnate nella repressione dei militanti
islamisti lungo le frontiere e temono la diffusione della lezione di al-Baghdadi – in
particolare nel regno hashemita che ospita cellule estremiste sunnite. In aggiunta,
Amman subisce i contraccolpi economici della contrazione delle transazioni com-
merciali con l’Iraq, che sino al 2013 ha assorbito un quinto delle esportazioni gior-
dane[28]. La posizione turca appare però controversa poiché l’opposizione e diverse
agenzie di stampa denunciano la presenza di campi di addestramento jihadisti
nell’Anatolia meridionale, che Erdoğan avrebbe tollerato in funzione anti-Assad. Per
                                                                                             Research Paper, N°22 – Settembre 2014

converso, la crescita di scala dell’insurrezione incide negativamente sulle relazioni
economiche che Istanbul coltiva con la regione autonoma del Kurdistan, il cui attua-
le rafforzamento – diversamente da quanto si potrebbe ritenere in prima battuta –
non è in disaccordo con la barra della politica turca. Incontrando i veti di al-Maliki,
nel gennaio 2014 Erdoğan ha spronato la congiunzione dell’oleodotto Ceyhan-
Kirkuk al giacimento curdo di Taq Taq, così stringendo un connubio di interessi con
Barzani; oltre a motivazioni di sicurezza energetica, il prestigio acquisito dalla resi-
stenza dei peshmerga contro l’IS e l’implicito maggior potere contrattuale detenuto

                                                                                                  12
dalle autorità di Erbil potrebbe inoltre isolare le rivendicazioni curde al solo scenario
iracheno, trattenendo le spinte indipendentiste nel Kurdistan turco[29]. La crucialità
di   Erbil   nell’arginare   l’allargamento      dell’integralismo          jihadista   è   confermata
dall’assistenza ai peshmerga recentemente notificata dal Ministro degli Interni ira-
niano, Rahmani Fazli – laddove la possibilità di una piena autodeterminazione del
Kurdistan rappresenterebbe invece un azzardo per l’integrità territoriale iraniana a
causa della continuità dell’estesa area curda.

                             IMMAGINE 3: OPPORTUNITÀ E RISCHI PER I CURDI
                                   (FONTE: THE NEW YORK TIMES)

È proprio la politica di Rouhani il tassello qualificante delle dinamiche regionali che
s’intrecciano nel conflitto. Dato l’ascendente sulla coalizione di governo ora presie-
duta da al-Abadi, qualsiasi schema di risoluzione della crisi non può prescindere da
un coinvolgimento di Teheran, i cui pasdaran della Guardia Rivoluzionaria – capeg-
                                                                                                         Research Paper, N°22 – Settembre 2014

giati dall’influente Qassem Suleimani – assistono sia in Iraq, sia in Siria la lotta con-
tro l’IS. In una situazione mutevole, l’indebolimento iracheno comporta naturalmen-
te un incremento dell’influenza (e delle pretese) dell’adiacente potenza sciita. Da
questo punto di vista l’intervento a sostegno di Baghdad, come è stato per la conte-
sa sul regime di al-Assad, rischia di essere trasfigurato in una guerra per procura
dagli Stati sunniti – che ragionevolmente temono i disegni egemonici iraniani. Con
un orizzonte problematicamente segnato dai negoziati sul nucleare, la questione si
pone in termini analoghi anche per gli Stati Uniti, disponibili a raccogliere i segnali

                                                                                                              13
distensivi   di   Rouhani   ma   comunque    intenzionati   a   non   arretrare   dinanzi
all’espansione di un attore che intrattiene relazioni di aspra inimicizia con i preziosi
alleati della superpotenza (Israele compreso). Eppure, Obama è consapevole che, in
assenza di truppe statunitensi all’interno dell’Iraq, Teheran è il primo (e forse unico)
attore in grado di porre un freno alla pressione dell’IS. Del resto la pericolosità
dell’eresia di al-Baghdadi sembra infrangere la sciagura di un macro conflitto tra
sciismo e sunnismo, come confortato dai recenti contatti tra Riyadh e la diplomazia
iraniana[30]– per quanto i canali finanziari che sorreggono la campagna bellica or-
dita dai jihadisti provengono da Arabia Saudita, Kuwait, Oman, Qatar ed Emirati
Arabi Uniti. Tuttavia, l’inestricabile matassa siriano-irachena ricade pesantemente
sulle scelte americane poiché se da un lato il congelamento degli schieramenti pro e
contro al-Assad sfilaccia la trama negoziale per riportare l’Iraq ad una condizione di
stabilità – così inducendo gli Stati Uniti a temporeggiare con azioni di compromesso
incapaci di piegare l’IS –, dall’altro l’eventuale scivolamento verso un’estenuante
guerra di attrito ridimensionerebbe tanto la credibilità, quanto gli interessi statuni-
tensi nel Medio Oriente. A tal proposito, Mosca attende gli errori di Washington per
offrire agli Stati regionali un’opzione alternativa alla preponderanza americana: è in
tal senso significativo che il governo iracheno abbia ricevuto da Federazione Russa e
Bielorussia decine di Sukhoi Su-25 per colmare la pressante lacuna di una flotta ae-
rea alquanto modesta, che al contrario gli Stati Uniti hanno deciso di compensare
soltanto in via suppletiva attraverso l’impiego della propria forza aerea. La conver-
genza con Teheran sulla difesa di Damasco rende dunque la variabile russa un ele-
mento destabilizzante per la vacillante proposta di Obama.

                                                                                            Research Paper, N°22 – Settembre 2014

                                                                                                 14
PARTE V

          IL RISTRETTO VENTAGLIO DELLE OPZIONI
 STRATEGICHE E LA POLITICA REGIONALE DEGLI USA

Ci si potrebbe chiedere se la prepotente emersione dell’IS costituisca effettivamente
una minaccia talmente grave da richiedere un siffatto trattamento d’emergenza. Del
resto la politica mediorientale di Obama è stata contraddistinta da discordanze ed
attestati di impotenza: dalla riluttanza a sostenere la spericolata (perché militar-
mente impraticabile) iniziativa anglo-francese in Libia, all'offerta decisiva della forza
area per piegare il regime di Gheddafi; dal beneplacito alla detronizzazione di popo-
lo dell'alleato Mubarak e dal calcolo di opportunità dell'approvazione del successo
elettorale ottenuto dalla Fratellanza Musulmana, alla condanna morbida e tardiva
della deposizione di Mursi ed all'interruzione parziale dell'assistenza militare; dalla
ponderata equidistanza dalla polveriera siriana all'errore grossolano della “linea ros-
sa” tracciata a discrimine di un intervento nella guerra civile, che costrinse una mo-
bilitazione tanto esteticamente imponente quanto strategicamente sterile. A questa
domanda ha concisamente risposto il diplomatico statunitense Brett McGurk, uomo
di fiducia di Obama in Iraq, in occasione di un’importante audizione parlamentare il
24 luglio scorso:

         «The situation we confront is not simply about stabilizing Iraq, though
         that alone is an important interest. Rather, it is about ensuring that a
         movement with ambitions and capabilities greater than the al Qaida that
         we knew over the past decade does not grow permanent roots in the
         heart of the Middle East» [31].

Il radicamento del Califfato si ritorcerebbe contro alcuni degli assiomi fondamentali
che reggono l’internazionalismo americano: l’apertura delle fonti di approvvigiona-
mento energetico, la stabilità delle alleanze regionali, il contrasto alla diffusione di
organizzazioni terroristiche transnazionali, la proliferazione di armi di distruzione di
massa. In potenza una vittoria dell’IS, anche nella forma probabile di una progres-
siva attestazione nelle provincie sunnite dell’Iraq settentrionale, è suscettibile di
                                                                                                Research Paper, N°22 – Settembre 2014

catturare uno o tutti gli imperativi strategici sopra menzionati. Il sostegno al fanati-
smo di al-Baghdadi ha inoltre portato nei campi di addestramento jihadisti centinaia
di reclute con passaporto occidentale – aspetto che non può non preoccupare gli
Stati Uniti ed i suoi alleati dal rischio di ritorsioni sul territorio nazionale. Tuttavia, è
la disintegrazione del tessuto regionale lungo spaccature incoerenti con la cartina
politica mediorientale ad assumere una gravità preordinata rispetto alla riedizione di
una guerra totale contro il terrorismo. In breve, la sofferta decisione di riprendere
in mano il futuro dell’Iraq discende dalla percezione di un allentamento della pote-

                                                                                                     15
stà egemonica piuttosto che dalla repressione del fondamentalismo islamico – a
maggior ragione se si considera, come precisa McGurk, che la sfida lanciata da al-
Baghdadi consiste nell’inclusione di un grumo revisionista nel centro di gravità della
regione.

È allora opportuno porsi una seconda domanda, ossia interrogarsi su cosa sia rima-
sto del “nuovo inizio” con il mondo islamico dichiarato nel celebre discorso tenuto
all’Università del Cairo nel giugno del 2009[32], che appariva certamente un pas-
saggio obbligato per la distensione dei rapporti con le società arabe e che sposta
l’oggetto della riflessione dagli obiettivi ai mezzi prescelti per il loro conseguimento.
Obama si è attenuto al voto di uscire dal vicolo cieco di Iraqi Freedom ma senza
porre alcun freno alla violenza endemica foraggiata dalle rivalità etnico-religiose e
dagli attentati terroristici, che hanno reso il ricostituito ordinamento federale tanto
bacino di reclutamento, quanto campo d’azione dei gruppi jihadisti. Tuttavia,
l’escalation della crisi ed    i   conseguenti   effetti   di   spillover hanno imposto
all’amministrazione statunitense l’affrettata elaborazione di una politica regionale
mai delineata compiutamente. Obama è infatti rimasto intrappolato nel registro e
nei contenuti delle precedenti gestioni Clinton e Bush, applicando come univoco cri-
terio di condotta una distinzione tra secolarismo moderato ed islamismo radicale del
tutto   inadeguata   a   leggere   le   dinamiche   mediorientali[33].   Nel   decretare
un’assistenza anche militare alle istituzioni irachene, la Casa Bianca ha prudente-
mente evitato che l’intervento americano irrompesse nella frattura confessionale a
vantaggio della sola comunità sciita, ma la soluzione di un governo inclusivo, sep-
pur inderogabile, colloca la pacificazione del Paese in un orizzonte temporale incon-
gruente con l’obiettivo di serrare tempestivamente una morsa sul Califfato. Tanto
più che l’avvenuto cambiamento della leadership non comporta automaticamente
un cambiamento del processo politico. Un compromesso di unità nazionale richiede-
rà la convergenza degli elementi meno intransigenti della società irachena, ma le
dinamiche del conflitto rendono oggi protagonisti i gruppi armati sciiti e sunniti che
respingono i condizionamenti di Washington. In aggiunta, è presumibile ipotizzare
che i curdi sfrutteranno l’attuale posizione di forza per spingere Baghdad ad accet-
tare una ristrutturazione confederale del Paese, mentre i sunniti propenderanno per
un federalismo decentrato e per la depoliticizzazione delle ISF[34].

In sintesi, un vasto accordo appare fumoso e di lenta costruzione. Per questo moti-
                                                                                            Research Paper, N°22 – Settembre 2014

vo la regressione dell’IS passa categoricamente dall’allestimento di un’ampia coali-
zione araba in grado di cauterizzare le linee di rifornimento del Califfato ed al con-
tempo di incalzare la dirigenza irachena. Saranno dunque gli appuntamenti del
summit NATO in corso a Newport (4-5 settembre) e della prossima sessione
dell’Assemblea Generale ONU a scandire la road map statunitense, ma gli sforzi di
coalition-building promossi da John Kerry[35] scontano anzitutto le riserve di alleati
fondamentali, quali Arabia Saudita ed Egitto, che diffidano della non linearità
dell’orientamento di Washington. Al di là della pesante eredità lasciata dalla presi-

                                                                                                 16
denza Bush, l’amministrazione Obama è qui costretta a ripartire dagli errori di una
politica occasionale e contraddittoria che ha deliberatamente evitato di tracciare un
diverso quadro di riferimento delle relazioni regionali. Questo pronunciato disorien-
tamento coglie l’incapacità di sottrarsi ad una concezione monolitica del ruolo glo-
bale preteso dagli Stati Uniti, che dalla fine della Guerra Fredda ha diretto gli esecu-
tivi americani verso una dispendiosa stabilizzazione delle linee di conflitto[36]. Tut-
tavia, l’odierna frammentazione degli scenari regionali esige di calibrare nuovi para-
digmi d’intervento.

Ricucire lo strappo della crisi irachena significa allora anticipare una determinazione
sui limiti delle ambizioni di Teheran e sulla posizione di al-Assad; implica anche una
riconferma degli impegni contratti con gli Stati arabi sunniti ed un chiarimento delle
ambiguità di Erdoğan. Mentre gli eventi ucraini alimentano venti di guerra sulle
frontiere europee e palesano gli obiettivi della politica di potenza di Putin,
l’amministrazione Obama dovrà dunque procedere entro le direttrici di un approccio
onnicomprensivo, di cui ancora però non s’intravede la comparsa.

                                                                                           Research Paper, N°22 – Settembre 2014

                                                                                                17
NOTE ↴

[1] Kenneth M. Pollack, Options for U.S. Policy Toward Iraq, Testimony Before the Commit-
tee on Foreign Relations The United States Senate, 24 luglio 2013.

[2] Cfr. Stephanie Sanok Kostro, Garrett Riba, Resurgence of al Qaeda in Iraq: Effect on Se-
curity and Political Stability, Center for Strategic and International Studies, 4 marzo 2014.

[3] Si tenga presente che le elezioni del 2010 furono anticipate da vigorose polemiche de-
terminate dall’esclusione, per commistioni con il precedente regime baathista, di ben 499
candidati sunniti dalle liste elettorali. Cfr. Kenneth Katzman, Iraq: Politics, Governance, and
Human Rights, Congressional Research Service, 2 luglio 2014, pp. 6-8.

[4] Cfr. Anthony H. Cordesman, Sam Khazai, Iraq in Crisis, Center for Strategic and Interna-
tional Studies, maggio 2014, pp. 96-101.

[5] Ibidem, pp. 13-18.

[6] “They're beyond just a terrorist group. They marry ideology [with] a sophistication of
strategic and tactical military prowess.” cit. in Claudette Roulo, Hagel: Joint Efforts Blunt
ISIL’s Advance in Iraq, Department of Defense, 21 agosto 2014.

[7] Kenneth Katzman, Carla E. Humud, Christopher M. Blanchard, Rhoda Margesson, Alex Ti-
ersky, Iraq Crisis and U.S. Policy, Congressional Research Service, 20 giugno 2014, p. 6.

[8] Cfr. Anthony H. Cordesman, Sam Khazai, op. cit., pp. 57-81.

[9] International Organization for Migration, Iraq Mission, Displacement Tracking Matrix, 24
agosto 2014.

[10] Office of the High Commissioner for Human Rights, Iraqi civilians suffering “horrific”
widespread and systematic persecution, Ginevra, 25 agosto 2014.

[11] Cfr. Martin E. Dempsey cit. in Claudette Roulo, Dempsey Explains Danger Posed By Ex-
tremist Groups, Department of Defense, 24 luglio 2014.

[12] Cfr. Susuad al-Salhy, Tim Arango, Iraq Militants, Pushing South, Aim at Capital, in “The
New York Times, 11 giugno 2014.
                                                                                                     Research Paper, N°22 – Settembre 2014

[13] Come avvenuto nel caso della tribù sunnita di Albu Mahal che (come già nel 2005) ha
incrociato le armi con le forze jihadiste. Cfr. Eric Schmitt, Alissa J. Rubin, U.S. and Iraqis Try
to Fragment Extremist Group, in “The New York Times, 12 luglio 2014; Brett McGurk, Senate
Foreign Relations Committee Hearing: Iraq at a Crossroads: Options for U.S. Policy, 24 luglio
2014.

[14] Ibidem.

                                                                                                          18
[15] Cfr. Anthony H. Cordesman, Sam Khazai, Shaping Iraq’s Security Forces, Center for
Strategic and International Studies, 12 giugno 2014.

[16] A tali rilievi si aggiungono in negativo l’assenza di comandi operativi decentrati e la cen-
tralizzazione della struttura decisionale nella potestà del primo ministro. Cfr. Michael D. Bar-
bero, Senate Foreign Relations Committee Hearing: Iraq at a Crossroads: Options for U.S.
Policy, 24 luglio 2014, p. 6.

[17] «Preparing ISF for an effective counteroffensive operation requires extensive prepara-
tion; it cannot be thrown together in days or weeks. The capabilities necessary to counter
ISIS do not exist today in Iraq and they will not likely materialize on their own anytime
soon». ibidem, p. 5.

[18] Cfr. Nick Simeone, Obama Announces Military Advisers Heading to Iraq, Department of
Defense, 19 giugno 2014; Jim Garamone, Dempsey: Iraqi National Unity Needed to Counter
ISIL, Department of Defense, 29 giugno 2014; Cheryl Pellerin, Hagel: All Assessments Need-
ed for Full Picture in Iraq, Department of Defense, 10 luglio 2014.

[19] Barack Obama, Weekly Address, The White House, 9 agosto 2014.

[20] USCENTCOM, U.S. Military Conducts Airstrike Against ISIL near the Mosul Dam, 2
settembre 2014.

[21] Ken Dilanian, Kurds' Pleas For U.S. Weapons May Finally Be Heard, Associated Press, 8
agosto 2014.

[22] Robert Menendez, Opening Remarks at Hearing on Iraq at a Crossroads: Options for
U.S. Policy, 24 luglio 2014.

[23] Cfr. Joe Biden, Iraqis Must Rise Above Their Differences to Rout Terrorists, in “The
Washington Post”, 22 agosto 2014.

[24] «As commander in chief, I will not allow the United States to be dragged into fighting
another war in Iraq, and so even as we support Iraqis as they take the fight to these terror-
ists, American combat troops will not be returning to fight in Iraq, because there is no Amer-
ican military solution to the larger crisis in Iraq. (…) The only lasting solution is reconciliation
among Iraqi communities and stronger Iraqi security forces». Barack Obama, Weekly Ad-
dress, The White House, 9 agosto 2014.
                                                                                                       Research Paper, N°22 – Settembre 2014

[25] «This new Iraqi leadership has a difficult task. It has to regain the confidence of its citi-
zens by governing inclusively and by taking steps to demonstrate its resolve. The United
States stands ready to support a government that addresses the needs and grievances of all
Iraqi people. We are also ready to work with other countries in the region to deal with the
humanitarian crisis and counterterrorism challenge in Iraq. Mobilizing that support will be
easier once this new government is in place». Barack Obama, Statement by the President on
Iraq, The White House, 11 agosto 2014.

                                                                                                            19
[26] Cfr. Mark Landler, Helene Cooper, Obama Authorizes Air Surveillance of ISIS in Syria, in
“The New York Times”, 25 agosto 2014.

[27] Jon B. Alterman, Hoping for Trouble in Iraq, Center for Strategic and International Stud-
ies, 17 giugno 2014.

[28] Cfr. Areej Abuqudairi, Iraq crisis worsens Jordan's economic woes, Al Jazeera, 25 agosto
2014.

[29] Cfr. Anthony H. Cordesman, The New “Great Game” in the Middle East: Looking Beyond
the “Islamic State” and Iraq, Center for Strategic and International Studies, 9 luglio 2014;
Amitai Etzioni, Grant Kurdistan Arms and Independence, in “The Diplomat”, 14 agosto 2014.

[30] Top Iranian official visits Saudi Arabia to repair strained ties, Al Arabiya, 26 agosto
2014.

[31] Brett McGurk, Senate Foreign Relations Committee Hearing: Iraq at a Crossroads: Op-
tions for U.S. Policy, 24 luglio 2014.

[32] Barack Obama, Remarks by the President on a New Beginning, Università del Cairo, 4
giugno 2009.

[33] Cfr. Waleed Hazbun, Beyond the Bush Doctrine, in “Middle East Report”, n. 249, inverno
2008.

[34] Cfr. Kenneth M. Pollack, Options for U.S. Policy Toward Iraq, Testimony Before the
Committee on Foreign Relations The United States Senate, 24 luglio 2013.

[35] John Kerry, To Defeat Terror, We Need the World’s Help. The Threat of ISIS Demands a
Global Coalition, in “The New York Times”, 29 agosto 2014.

[36] Si legga a tal proposito Michael J. Mazarr, The Rise and Fall of the Failed-State Para-
digm, in “Foreign Affairs”, vol. 93, n. 1, gennaio-febbraio 2014.
                                                                                                 Research Paper, N°22 – Settembre 2014

                                           A cura di
                            OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE

                                       Ente di ricerca di
                              “BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO”
     Associazione culturale per la promozione della conoscenza della politica internazionale
                                       C.F. 98099880787
                                       www.bloglobal.net

                                                                                                      20
Puoi anche leggere