LA POLITICA AL VINITALY: INVASIONE DI CAMPO. SI PARLA PIU' DI DI MAIO E SALVINI CHE DI VINI. MA NULLA SU COMITATO VINO E OCM - Agricolae

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LA POLITICA AL VINITALY: INVASIONE DI CAMPO. SI PARLA PIU' DI DI MAIO E SALVINI CHE DI VINI. MA NULLA SU COMITATO VINO E OCM - Agricolae
LA POLITICA AL VINITALY:
INVASIONE DI CAMPO. SI PARLA
PIU’ DI DI MAIO E SALVINI CHE
DI   …VINI.   MA   NULLA   SU
COMITATO VINO E OCM
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nvadono il Vinitaly. La politica irrompe a Verona e ruba la
scena a quello che avrebbe dovuto essere il protagonista
assoluto dell’ormai classica vetrina internazionale della
vitivinicoltura. Insomma si parla più di Di Maio e Salvini che
di… vini. Accanto ai giornalisti specializzati è piombata in
fiera un’orda di giornalisti politici, richiamati da un
possibile siparietto sulla crisi di governo e le prospettive
di breve termine. Inevitabile, si dirà, che la politica si
ritagli i suoi spazi all’interno di una manifestazione di
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questa portata che muove grandi interessi economici e che
rappresenta un fiore all’occhiello per il lavoro,
l’imprenditoria e la fantasia dell’Italia che produce. In
realtà ci si sarebbe potuti aspettare una specie di do ut des.
Ma la politica con la mano destra prende e presenta una mano
sinistra completamente vuota. In pratica cioè cannibalizza la
manifestazione veronese senza dare niente in cambio. Infatti,
tranne forse alcuni decreti attuativi relativi al Testo unico
del Vino attesi già nella passata edizione, (11 sono già in
Gazzetta ufficiale, uno è in arrivo, 4 sono in Conferenza
Stato Regioni e 7 sono sospesi in attesa delle regole europee)
la politica non è riuscita a portare a Verona la soluzione di
alcune questioni di fondo chieste a gran voce dalla filiera
tutta: come il Comitato Italiano Vino e l’Ocm vino. Anzi:
questa invasione di campo rischia di mortificare la visibilità
di tanti prodotti e di tanti produttori che – naturalmente e
legittimamente – speravano di sfruttare Vinitaly come
occasione di promozione di business. E tutto questo non fa
bene alla politica. E non aiuta il vino.

CAA COPAGRI, CONSIGLIO STATO
SOSPENDE    DECISIONE   TAR.
SERPILLO: TUTTO ANCORA IN
BALLO. E CHI VOLEVA FARE
CAMPAGNA   ACQUISTI   DOVRA’
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ASPETTARE
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enza del Consiglio di Stato sospende la validità e
l’esecutività della sentenza del Tar che accoglieva la revoca
ad esercitare l’attività di centro si assistenza agricola a
Caa Copagri richiesta dalla regione Lazio. “Tutto è di nuovo
quindi in sospeso e sub judice. Fino al 3 maggio quindi Caa
Copagri esiste, vive ed agisce”, fa sapere il presidente del
Caa Copagri Mario Serpillo ad AGRICOLAE in merito alal
querelle sul Caa che va avanti ormai da due anni e mezzo. “E i
tanti corvi che stavano apprestandosi a banchettare devono
ancora attendere un po. Forse molto”, conclude
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PAC, SENZA MARTINA ITALIA
FUORI DAI GIOCHI. NESSUNO HA
LE DELEGHE E A DISCUTERE IN
UE CI VANNO BLASI E ASSENZA
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politica agricola ed esclusa dalla discussione europea della
Pac sulla prossima dotazione economica. Maurizio Martina,
dimettendosi lo scorso 13 marzo per evitare eventuali
conflitti con il ruolo di segretario di Partito, ha lasciato
un ‘buco’ istituzionale che non permette all’Italia –
politicamente parlando – di sedersi assieme agli altri
ministri europei per la discussione della Pac. Il viceministro
Andrea Olivero e il sottosegretario Giuseppe Castiglione
infatti, non hanno le deleghe necessarie per poter partecipare
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ai tavoli di Bruxelles. Ovvero, decadendo il ministro, sono
decadute anche le deleghe loro accordate. In sostanza, Pac a
parte, se dovesse scoppiare un’emergenza relativa al settore,
non ci sarebbe nessuno con il potere di gestire la situazione.
La discussione della Pac non è cosa di poco conto: in ballo
c’è la dotazione economica in un contesto in cui le carte
vengono rimescolate a causa della Brexit e tutto il nodo
‘semplificazione’ e rinazionalizzazione.
Tutto questo a causa del fatto che il presidente del Consiglio
Paolo Gentiloni non ha dato le deleghe prima di, come
consuetudine istituzionale,       si dimettesse subito dopo
l’elezione dei presidenti di Camera e Senato.
Nel frattempo al Consiglio dei ministri sulla dotazione della
Pac del 19 marzo l’Italia si è presentata con due dirigenti
Mipaaf: Blasi e Assenza. Il posto italiano, fra i ministri,
era vuoto.
Il prossimo Consiglio dei ministri si terrà a metà aprile. E
non è detto che per quel momento il governo sarà fatto e il
dicastero di via Venti Settembre abbia un suo ministro.

Giulio Viggiani

COLDIRETTI   ALL’ARREMBAGGIO
DELLA CIA. SCRIVE AI SUOI:
ANDATE    PRESSO   LE   LORO
MIGLIORI AZIENDE E PORTATELE
A CASA. ECCO LA LETTERA
LA POLITICA AL VINITALY: INVASIONE DI CAMPO. SI PARLA PIU' DI DI MAIO E SALVINI CHE DI VINI. MA NULLA SU COMITATO VINO E OCM - Agricolae
La              Coldiretti
                                 all’arrembaggio       della
                                 Confederazione     italiana
                                 agricoltori.
                                 L’organizzazione di Palazzo
                                 Rospigliosi, con una lettera
                                 – di cui AGRICOLAE è venuta
                                 in   possesso    –   sembra
                                 chiedere ai propri direttori
                                 e     presidenti      delle
federazioni territoriali di andare “presso le loro migliori
aziende informandole e portandocele a casa”. Per l’esattezza,
la   missiva    firmata   direttamente     dal   presidente
dell’organizzazione di Palazzo Rospigliosi Roberto Moncalvo e
dal segretario generale Vincenzo Gesmundo recita: “In questi
anni abbiamo indirizzato i nostri sforzi verso molteplici
obiettivi crediamo che sia venuto il momento di orientare una
quota parte del nostro lavoro in termini economici
organizzativi e politico sindacali all’obiettivo di allargare
la nostra presenza tra gli iscritti Cia. Serve che andiamo
presso le loro migliori aziende informandole e portandocele a
casa”.

Qui di seguito Agricolae riporta integralmente la lettera
Coldiretti.
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Cia dello scorso 2 marzo in cui l’organizzazione guidata da
Dino Scanavino stigmatizzava il fatto su come in campagna
elettorale le varie parti concorrenti si siano spese usando
l’etichetta come uno dei punti dei programmi “dimenticando che
il quadro normativo di riferimento è l’Europa”. E quindi,
sempre secondo la Confederazione di via Fortuny, “finendo per
usare il cibo come strumento politico”.

La Cia, nel comunicato stampa, precisava anche come fosse
favorevole all’etichettatura alimentare, ma spiegava che
occorre tener conto di alcuni presupposti. “Prima di tutto –
scriveva il presidente Dino Scanavino – i decreti italiani
devono avere un analogo quadro in Ue” agendo “in un’ottica
globale e non chiusa sempre nelle logiche nazionali”. In
secondo luogo, “bisogna superare il concetto di tutela, per
lavorare piuttosto sulla valorizzazione e la promozione del
marchio e del sistema Made in Italy, in un’ottica di
sostenibilità”. Altrimenti, in attesa di quanto possa accadere
a Bruxelles, “l’indicazione di origine rischia             di
rappresentare solo un onere per i produttori”.

Qui di seguito Agricolae riporta il comunicato stampa
originale che la Cia ha trasmesso il 2 marzo scorso:
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O CAMPAGNA ELETTORALE. VERA CAMPAGNA SIA EUROPEA

Posted by Redazione × Pubblicato il 02/03/2018 at 10:23

E’ corsa elettorale all’etichetta sui prodotti alimentari. A
pochi giorni dal voto, si rincorrono da più parti annunci di
nuove misure proposte come baluardo di difesa del Made in
Italy, ma che finiscono per usare il cibo come strumento
politico di chiaro stampo provinciale, dimenticando che il
quadro normativo di riferimento è l’Europa. Per Cia-
Agricoltori Italiani si rischia così di creare confusione tra
produttori e consumatori, lasciando al mero esercizio di
propaganda un tema così fondamentale per la salute e per
l’economia.                   “Come Cia siamo favorevoli
all’etichettatura alimentare, che però deve tener conto di tre
presupposti. Prima di tutto, i decreti italiani devono avere
un analogo quadro in Ue; occorre quindi agire in un’ottica
globale e non chiusa sempre nelle logiche nazionali. In
secondo luogo, bisogna superare il concetto di tutela, per
lavorare piuttosto sulla valorizzazione e la promozione del
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marchio e del sistema Made in Italy, in un’ottica di
sostenibilità -spiega il presidente nazionale, Dino Scanavino-
. Le indicazioni di origine sono le fondamenta da cui partire,
all’interno però di una strategia più ampia di qualificazione
produttiva e commerciale di filiera, focalizzata su Dop e Igp
e orientata a rispondere ad esigenze e attese di mercato e
consumatori. Avulsa da questa visione di filiera, infatti,
l’indicazione di origine rischia di rappresentare solo un
onere per i produttori. Infine, proprio in vista di un
Regolamento Ue che sarà direttamente applicabile a tutti gli
Stati membri, tra cui l’Italia, riteniamo che la scelta
dell’indicazione di origine in etichetta ora sia più opportuna
in forma facoltativa che obbligatoria e rappresenti comunque
un ulteriore costo, che potrebbe subirne di aggiuntivi con
l’entrata in vigore della normativa europea”.

Insomma, per Cia-Agricoltori Italiani, è fuorviante
concentrarsi solo su annunci che hanno effetti più politici
che economici, finalizzati alla campagna elettorale e non
certo a risolvere i veri problemi dell’agricoltura.

GOVERNO,   IN   PISTA    DUE
OPZIONI: IL ‘TUTTI DENTRO’
CON  GENTILONI   PREMIER   O
L’APPOGGIO ESTERNO DI 61
RENZIANI  A   CENTRODESTRA.
MENTRE FRANCIA E INGHILTERRA
GUARDANO. ECCO TUTTI GLI STEP
ISTITUZIONALI
Tutto in working in progress per il nuovo governo. Da quanto
apprende AGRICOLAE due le soluzioni sul tavolo, a seconda
degli eventi e delle ‘reazioni’ dei leader politici: una, che
sembrerebbe piacere di più a Sergio Mattarella, che vorrebbe
un governo “tutti dentro” nel quale ogni partito si rende
disponibile a sedersi allo stesso tavolo – con le rispettive
quote – lasciando Paolo Gentiloni premier. Per la felicità
delle multinazionali straniere che lo vedono come una
‘garanzia’; La seconda soluzione – che sembrerebbe invece
piacere di più a Giorgio Napolitano – vedrebbe 61 parlamentari
renziani appoggiare esternamente un governo di CentroDestra in
cambio di cinque viceministri e sei sottosegretari ‘tecnici’
provenienti da area ‘dem’.

Tutto questo, nonostante le dichiarazioni dei vari leader di
partito, per il bene comune del Paese.

Una soluzione, questa, che si andrebbe a inserire in uno
scenario dominato dal rinnovo delle grandi partecipate, da
Saipem ad Eni. Sono 79 le società pubbliche in scadenza, per
un giro di walzer che riguarda circa 350 poltrone tra Cda e
collegi sindacali. Tra le più importanti anche Cassa Depositi
e Prestiti, Ferrovie, Gse, Sogei. Non è cosa di poco conto –
nel Risiko nazionale e internazionale – tenendo conto
dell’interesse in questa partita da parte della Francia e
dell’Inghilterra. Due fronti contrapposti, entrambi con gli
occhi puntati alle aziende del Belpaese e alle dinamiche
geopolitiche.

Ma prima di questo, occorre – necessariamente – percorrere
fino in fondo tutto il gioco dell’Oca voluto dai passaggi
istituzionali. Compresi i primi ‘giri a vuoto’ dei leader
incaricati.

Il 19 marzo i parlamentari (ce ne sono circa 150 del Movimento
Cinque Stelle che non hanno mai messo piede in Parlamento) si
dovranno registrare con foto, tesserino, nome sui seggi e
adempimenti di varia natura. Il 23 marzo ci sarà la prima
seduta delle Camere: un prova del nove per testare il
‘sentiment’ politico. Al Senato sarà Giorgio Napolitano a fare
da presidente alla prima riunione dell’aula. Alla Camera sarà
Roberto Giachetti. Se al Senato la partita sull’elezione si
chiuderà presumibilmente nel giro di due giorni, alla Camera
la faccenda potrebbe essere più lunga e complessa data la
necessità della maggioranza a due terzi seguita poi, in caso,
da quella assoluta.

Entro il 25 marzo i parlamentari dovranno poi comunicare al
segretario generale della Camera a quale gruppo intendono
iscriversi (anche questo passaggio importante per capire la
direzione in cui si andrà nel formare il Governo). Gruppi che
saranno poi eletti entro il 27 marzo con tanto di presidenti
dei gruppi. I’appuntamento successivo – in teoria – sarebbe
quello delle dimissioni del Premier, il 29 marzo. Sempre a
condizione che siano stati nel frattempo eletti i presidenti
di Camera e Senato.

Se tutto procede nei tempi previsti, il 30 dovrebbe essere la
data di partenza per le consultazioni al Colle. Ma soltanto
dopo Pasqua, il 3 aprile, le delegazioni incontreranno il
presidente della Repubblica.

I primi due giri saranno sicuramente a vuoto. Una volta scelta
una delle due ‘opzioni di governo’ (quella del ‘dentro tutti’
gradita a Mattarella o quella dei ’61 renziani di appoggio
esterno’ che sembrerebbe piacere di più a Napolitano, ci sarà
il giuramento e il primo Consiglio dei ministri. La fiducia
dovrà avvenire entro i dieci giorni dal giuramento, quando il
governo si presenterà davanti a ciascuna Camera per ottenere,
appunto, il voto di fiducia tramite appello nominale.

PD, MANDATO A MARTINA FINO A
PASSAGGIO ASSEMBLEARE. CON
SEGRETERIA ALLARGATA A TUTTE
LE COMPONENTI
Mandato a Maurizio Martina con una segreteria allargata alle
varie componenti di Partito. Questo quanto presumibilmente, da
quanto apprende AGRICOLAE, uscirà dalla direzione del Pd.
L’idea, sempre da quanto si apprende, è quella di fare quanto
prima – presumibilmente dopo le elezioni di Camera e Senato –
un passaggio assembleare per confermare, in caso, la nomina
del nuovo leader di partito.

“È stata una sconfitta netta e inequivocabile che riguarda
tutti, ciascuno per la propria responsabilità. Non cerchiamo
scorciatoie o capri espiatori. È necessario andare in
profondità nell’analisi e nel confronto tra noi”, scrive su
Twitter Martina. “Tocca a noi ricostruire e rilanciare il
progetto democratico ripartendo dall’uguaglianza come stella
polare. Serve la forza di compiere anche cambiamenti radicali.
Non servono accordi di vertice ma un lavoro aperto,
partecipato e popolare”

“Ripartiamo con umiltà e unità e con una mobilitazione
straordinaria”, prosegue. “Organizziamo assemblee aperte nei
seimila circoli Pd. Ripartiamo dal nostro popolo. Tutti devono
essere parte di questo lavoro”.
OCM VINO, NUOVA PROROGA AL 30
MARZO. E LE AZIENDE AVRANNO
SOLO SEI MESI PER INVESTIRE.
IL DECRETO
                             Di proroga in proroga la
                             questione relativa all’Ocm vino
                             promozione sembra non avere
                             fine. Dopo il decreto del
                             ministero    delle    Politiche
                             agricole che prorogava il via al
                             9 marzo, spunta fuori un altro
                             decreto che “allunga” la prima
                             proroga al 30 marzo. E le
aziende made in Italy, a fronte anche di tutti i ritardi
generati nei mesi scorsi, avranno solo sei mesi di tempo per
investire in promozione all’estero contro i 12 mesi a
disposizione dei paesi competitor.

In una situazione di caos nazionale, tra ricorsi e cause, che
persiste ormai da tempo, si riscontrano difficoltà anche nelle
amministrazioni territoriali.

Qui di seguito Agricolae pubblica il decreto Mipaaf:

Decreto-prot–15966-del-6-3-18-Erogazione-fondi-di-quota-
nazionale-progetti-multiregionali-OCM-Vino-2017-18(1)
AGEA, SINDACATI: MIPAAF SI
FERMI    SU     DECRETO   DI
RIORGANIZZAZIONE. NON PIU DI
PROPRIA COMPETENZA
                                                                C
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ire alle OO.SS ed alla RSU di Agea segnalazioni riguardanti
presunte attività che starebbero svolgendo l’ufficio
legislativo del Mipaaf e gli uffici competenti della
Presidenza del Consiglio, finalizzate alla promulgazione del
decreto legislativo di riorganizzazione dell’AGEA – Agenzia
per le erogazioni in Agricoltura (atto parlamentare n. 484).
Se queste indicazioni fossero confermate – scrivono in una
nota Cgil Uil e Cisl di Agea – tale operazione non potrebbe
che essere considerata come un colpo di mano di un governo
politicamente delegittimato dal risultato elettorale.
Eventuali giustificazioni legate ad attività svolte in quanto
di ordinaria amministrazione non avrebbero alcuna valenza e
manifesterebbero una grave forzatura istituzionale. Emanare un
atto avente forza di legge, con effetto innovativo
dell’ordinamento giuridico, non può assolutamente considerarsi
attività di ordinaria amministrazione. Peraltro il
provvedimento che si andrebbe ad approvare non ha ottenuto
l’intesa della Conferenza Stato-Regioni e, nel percorso
parlamentare, non tutte le Commissioni hanno espresso il
parere previsto. Anzi, in sede di Commissione agricoltura
della Camera, è stato espressa forte perplessità su tutto
l’impianto del decreto legislativo sottolineandone le
criticità. Le commissioni che hanno fornito un parere hanno
comunque vincolato lo stesso ad alcune osservazioni o
presupposti. Le scriventi ribadiscono che in tutto il percorso
intrapreso non c’è stata alcuna considerazione e consultazione
delle organizzazioni sindacali del pubblico impiego e, nel
merito, che lo schema di decreto oltre a contrastare con i
principi e i criteri direttivi della legge delega e violare
l’art. 97 della Costituzione Italiana, non risponde alle
effettive necessità dell’AGEA. Sarebbe opportuno, per un
governo ed una politica ossequiosa dei rapporti istituzionali,
rendersi conto che tali attività non sono più di propria
competenza.

PD, SE FRANCESCHINI PENSA A
M5S  E  GUARDA   AL  COLLE,
ORLANDO DICE: IL 90% DEL
PARTITO DICE ‘NO’
Difficile la situazione all’interno del Nazareno. Da una parte
ci sarebbe Franceschini – da quanto si apprende – che sarebbe
pronto a fare un’alleanza con il Movimento Cinque Stelle (si
dice in cambio di una futura presidenza del Senato o
addirittura della Repubblica). Ipotesi smentita da
Franceschini stesso; dall’altra una base che non ne vuole
neppure sapere a causa dello scontro in atto per riconquistare
le cittù di Roma e Torino.

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ssa brillante dal punto di vista comunicativo spostare il
dibattito interno del Pd sul tema delle alleanze, anzi
sull’alleanza con i 5stelle, oscurando cosi’ il tema del
risultato elettorale. La discussione tuttavia mostra la
corda”. A scriverlo su su facebook è Andrea Orlando, ministro
della Giustizia in merito alla situazione interna al Partito
Democratico e all’ipotetica alleanza con il Movimento Cinque
Stelle. “La maggioranza, tutta, esclude questa ipotesi –
scrive -. Quindi quasi il 70% del Pd. L’area politica che mi
ha sostenuto al congresso ha escluso la possibilita’ di un
governo con i 5 stelle, cosi’ come con il Centrodestra, quindi
si aggiunge un ulteriore 20% del Pd. In modo chiaro per questa
prospettiva si e’ pronunciato Michele Emiliano che ha ottenuto
al congresso il 10%. Il conto e’ presto fatto. Il 90% del
gruppo dirigente del Pd e’ contrario ad un’alleanza con il
M5s”.
“Oggi un’avveduta dirigente come la Presidente della Regione
Umbria, una regione un tempo definita rossa, nella quale
(certo non per colpa sua) il Pd non ha conquistato un solo
collegio uninominale, sente il bisogno di chiedere un
referendum su questo tema- dice ancora- Il referendum nel Pd
non serve. Il referendum sul Pd c’e’ gia’ stato. Siamo al 18%.
Un solo punto sopra la lega di Salvini. Alla direzione
dobbiamo parlare di questo, delle ragioni profonde di questa
disfatta elettorale”.

ELEZIONI, GIA SI PENSA A COSA
SUCCEDERA NEL PD. ZINGARETTI
IN POLE POSITION
                              Renzi si dimette ma anche no. E
                              se una parte del Partito
                              Democratico individua già in
                              Walter Veltroni “il saggio”
                              deputato a traghettare il
                              Partito fuori dalla crisi, altri
                              vedono in Nicola Zingaretti come
                              colui che – essendo il simbolo
dell’unico Pd vincente – potrebbe migliorare la situazione del
Nazareno. Nel frattempo, prima, si lavora a fare chiarezza
all’interno del partito stesso. Dopo le ultime dichiarazioni
di Renzi infatti, le lotte intestine sembrano essere diventate
più violente.
“Ci sono due ordini di problemi – aveva dichiarato Ettore
Rosato a Porta a Porta in merito alla questione dimissioni la
notte del voto. “Il primo è cosa succede nel Paese, il secondo
cosa succede nel Pd. Per ora pensiamo al primo”.

ELEZIONI, SPIEGEL: IN ITALIA
“CLOWN” E LA COLPA DELLA
‘SCONFITTA’ E’ DI DRAGHI. NEW
YORK TIMES: ITALIA TROPPO
AVVILITA PER ACCORGERSI DEL
VOTO.      MA     BLOOMBERG:
“INVESTITE IN TITOLI DI STATO
ITALIANI”
L’Ita
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scampoli di campagna elettorale, i più autorevoli giornalisti
politici hanno rinunciato ai pronostici della “fantapolitica
italiana”, come la chiamava El Mundo una settimana fa, per
allargare lo sguardo oltre l’Italia e riflettere sul presente
e sul futuro dell’Europa, qualcuno prediligendo i nodi
politici, qualcun altro dando spazio soprattutto ai fattori
economici. Quasi tutti però concordi su un fatto: l’Unione
europea non naviga in acque tranquille (e tantomeno
l’eurozona).

E, a quanto pare, sotto le attese pre-elettorali, sotto
l’insistenza su temi importanti come l’immigrazione o la
recrudescenza di neofascismi e razzismi, covano tensioni che
assumono una portata geopolitica di non poco conto per il
Vecchio Continente.

Eppure diverse fonti finanziarie, giornalistiche e non, ci
hanno tenuto a gettare ancora acqua sul fuoco, assicurando che
gli investitori (ossia, detto più chiaramente, i detentori di
titoli italiani) non sono preoccupati dall’esito del voto. Una
delle testate che con maggiore insistenza ha ribadito questa
imperturbabilità finanziaria è Bloomberg, la quale scrive che
“un nuovo cast al governo non cambierebbe granché”. Tanto che
colossi finanziari come Barclays e Morgan Stanley
“raccomandano di acquistare titoli di Stato italiani”. A
impensierire seriamente i detentori di titoli sarebbe solo un
governo fortemente euroscettico, insomma quello che è ormai
diventato lo spettro di famiglia dell’Europa. Un’ipotesi,
sempre a detta di Bloomberg, ormai altamente improbabile.

Ciononostante, c’è chi vede ancora molti campanelli d’allarme
e non mancano critiche feroci, non soltanto verso Berlusconi,
da sempre sotto la lente impietosa della stampa estera, ma
verso un’intera classe politica che, come ha scritto il Wall
Street Journal in un editoriale della testata (27 febbraio),
“non è all’altezza delle sfide cui è chiamato il paese”.

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ale del giornale dal titolo poco rassicurante (“Europa: la
minaccia italiana”, 27 febbraio), afferma che l’ultima cosa di
cui ha bisogno l’Europa in questo momento, mentre la Germania
cerca se stessa e il Regno Unito si prepara a partire, è che
l’Italia si perda per strada. Naturalmente con tale
smarrimento la testata francese intende la vittoria dei
partiti euroscettici e “antisistema”, che minerebbe la
coesione dell’Ue. Eppure lo stesso Le Monde si accorge – come,
evidentemente, quell’entità un po’ ineffabile che sono “gli
investitori”, oltre che il resto della stampa estera – della
nuova prudenza dei Cinque Stelle e della Lega rispetto
all’euro; per quanto, secondo il giornale francese, essa sia
dettata da “una scelta tattica, ispirata dalla prospettiva di
una vittoria imminente”. Le Monde azzarda anche una
previsione: “Una grande coalizione tra il centrosinistra e il
centrodestra pare ogni giorno più improbabile”.

A questo punto il giornale decide di dare un respiro diverso
alla sua analisi, ravvisando nella campagna elettorale e
nell’Italia del 2018 “quasi tutti i sintomi della crisi delle
democrazie occidentali”: indebolimento dei partiti politici
tradizionali, ascesa degli estremismi, spinte antisistema,
disaffezione dell’elettorato e un astensionismo elevatissimo.
Con un “tocco locale: la crescita delle formazioni
neofasciste”. Per questo il giornale spera vivamente che, il 4
marzo (data delle elezioni italiane e del responso sul
referendum interno all’Spd riguardo alla grande coalizione),
l’Europa “si rimetta in marcia”.

A proposito di “marcia”, è l’inglese Times a fare chiaramente
il nome di Macron (1° marzo), dicendo che “il grande sconfitto
del voto italiano e di quello tedesco” sarebbe proprio il
presidente francese. Vediamo perché. Il nuovo governo
italiano, di qualsiasi colore, potrebbe attuare misure
“populiste” che metterebbero a rischio la tenuta dell’economia
italiana – ad esempio con un dietrofront sulla riforma
pensionistica e del lavoro, o con un aumento della spesa
pubblica – e ridurrebbero la fiducia dei soliti investitori.
Certo, secondo la testata conservatrice, l’economia italiana
pare tenere e potrebbe resistere a una fase di incertezza
politica, “soprattutto se rimarrà in carica l’attuale governo
Gentiloni a fare da garante”. Il secondo spauracchio sarebbero
il mancato accordo in Germania e le conseguenti nuove
elezioni. Ora, questi due scenari metterebbero “una seria
ipoteca su un accordo per una riforma complessiva
dell’eurozona da discutere al vertice dei leader Ue previsto
per giugno”. Il punto è che “Macron ha investito un grande
capitale politico in queste ambizione riforme”, e quindi vuole
portare a casa il risultato.

                                            Il    nome    del
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                                            Macron” ritorna
                                            anche nel già
                                            citato editoriale
                                            del Wall Street
                                            Journal: “Persino
                                            la   Francia    –
                                            scrive         il
                                            quotidiano
                                          americano – ha
prodotto un riformatore come Emmanuel Macron, mentre dalla
classe politica italiana non riesce a emergere un solo
candidato davvero convincente. Andrà così fino a quando gli
elettori non pretenderanno e non premieranno i veri
riformatori”. Invece è certo che il 4 marzo “gli elettori
puniranno Renzi”, perché a quanto pare non hanno capito la
bontà “delle sue modeste ma essenziali riforme, come
l’innalzamento     dell’età    pensionabile     e  la   cauta
liberalizzazione del mercato del lavoro”. Sarà forse per
questa durezza di comprendonio che l’Italia è “il nuovo malato
dell’Europa”, come il WSJ ha scelto di titolare il suo
autorevole commento, dando così anch’esso un orizzonte europeo
al voto italiano.

Tra le analisi che chiamano in causa l’Europa intera e che più
fanno riflettere vi è quella dello storico commentatore del
Financial Times Tony Barber (27 febbraio). Sul più autorevole
quotidiano finanziario, Barber decide di esaminare lo stato
del centrosinistra in Europa. Secondo lui, l’ascesa dei
partiti populisti, solo apparentemente arginata nel 2017, è il
frutto del fallimento della socialdemocrazia, che non ha
saputo occuparsi dovutamente della “minaccia ai valori
culturali e della precarietà economica”. I partiti socialisti
e laburisti di Francia, Olanda e Repubblica ceca hanno subito
pesanti sconfitte, e così pure l’Spd tedesca. I partiti di
sinistra, prevede Barber, saranno presumibilmente sconfitti
anche in Ungheria, quest’anno, e in Polonia l’anno prossimo.
Questo declino, però, non significa – ed è emblematico che a
dirlo sia un commentatore del Financial Times – “che le
politiche sociali ed economiche normalmente associate alla
sinistra abbiano perso la loro importanza. Al contrario,
milioni di elettori vogliono uno Stato sociale che li tuteli e
sono stufi di lavori precari, disuguaglianza sociale e
globalizzazione incontrollata”. Il problema è che “molti
elettori non hanno più fiducia nel centrosinistra”. Troppi
socialdemocratici, nel primo decennio di questo secolo, “hanno
tollerato gli eccessi del capitalismo finanziario e sono stati
poi complici del centrodestra nel far pagare il conto ai meno
abbienti”. Secondo Barber, così come aveva già detto la scorsa
settimana Lorenzo Marsili su Al Jazeera, “la crisi del
centrosinistra rientra in una crisi più ampia della democrazia
rappresentativa europea”. È tempo, dunque, “che la sinistra
dia risposte a domande per troppo tempo rimaste inevase”.

A una conclusione pressoché identica giunge il giorno dopo (28
febbraio) il professor James Newell in un commento su un altro
quotidiano inglese, questa volta progressista, il Guardian.
Evidentemente le grandi correnti politiche che attraversano
l’Europa sono ormai percepite distintamente, e forse – a
giudicare da ciò che scrivono esperti di tale caratura – è da
prendere con le pinze l’idea per cui destra e sinistra sono
ormai scomparse dal dizionario e dall’atlante politico.
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no e distante dalla classe lavoratrice”, scrive Newell, “in
Italia la sinistra è in affanno per gli stessi motivi per cui
lo è nel resto d’Europa”. A parte le considerazioni di breve
termine sulla situazione italiana – e in particolare sulla
difficoltà di Renzi di tradurre il favore verso il governo
Gentiloni in voti utili, per via “della scarsa popolarità del
segretario Pd” –, “dalla caduta del Muro di Berlino a condurre
il gioco è stato un capitalismo sfrenato”. Di conseguenza,
“una classe lavoratrice che non si riconosce più come tale”,
anche per colpa dell’abdicazione culturale della sinistra, “si
sente minacciata dall’immigrazione e percepisce l’abisso tra
sé e le élite”, ossia tutti coloro che sono al riparo dai
colpi della globalizzazione, non solo i grandi capitani
dell’industria e della finanza, ma tutte le classi
privilegiate. Si è creata così una spaccatura tra la sinistra
cosiddetta “rispettabile” e la sinistra radicale antisistema,
che pure deve competere con il Movimento Cinque Stelle. “Da
sempre faro della sinistra in tutta Europa, oggi la sinistra
italiana fa fatica a dare risposte popolari alla crisi sociale
ed economica”.
Riflessione simile, nello stesso giorno, quella del New York
Times. “Ci sono le elezioni, ma gli italiani sono troppo
avviliti per farci caso”, titola il quotidiano americano. In
questo reportage, Taranto, dove “il datore di lavoro ideale è
la fatiscente acciaieria che domina questa degradata città sul
Mar Ionio”, diventa la lente attraverso cui il NYT osserva lo
svilimento di milioni di italiani, soprattutto del Sud,
soprattutto giovani, che non vedono all’orizzonte occasioni di
realizzazione professionale e umana e pensano che “la classe
politica non sia riuscita a rivitalizzare una economia
anchilosata, in cui le élite hanno case al mare, macchine di
lusso e guardaroba stravaganti e le banche destinano i soldi
ad aziende con gli agganci politici giusti”. La ripresa
economica c’è stata, ma il problema dell’Italia, “e del resto
del mondo”, è che “il successo delle aziende non sfocia più in
una crescita dei posti di lavoro”. In questo contesto, “gran
parte dell’elettorato italiano mostra indifferenza o disprezzo
verso le prossime elezioni”.

Poi, immancabile, arriva la stampa tedesca a dare la sua
visione pragmatica e a ricordare zelantemente agli italiani i
loro mali, a pochi giorni dal 4 marzo, quando non solo in
Italia ma anche in Germania i nodi verranno al pettine. Se un
decano della Frankfurter Allgemeine Zeitung come Tobias Piller
ci elenca, sulla falsariga del Fatto Quotidiano (che cita),
tutti gli impresentabili della campagna elettorale,
l’influente settimanale Spiegel (quello della copertina con il
piatto di spaghetti sormontati da una pistola) pubblica un
editoriale di Jan Fleischhauer il cui titolo lascia poco
all’immaginazione: “Con i clown arrivano i debiti”. In
effetti, come non aspettarsi una staffilata del settimanale
tedesco? Ormai è quasi una tradizione.

I clown, nello specifico, sono Berlusconi e Grillo. Mettiamola
così, dice Fleischhauer: “Si possono trarre le dovute
conclusioni sulla maturità mentale ed emotiva di un popolo dai
politici che scelgono di mandare al potere. Gli adulti
scelgono gli adulti, i bambini scelgono i pupazzi”. Vedremo
lunedì se gli italiani sono adulti o bambini, secondo il
giornalista. Fleischhauer ci tiene a spiegare che ogni volta
che in un paese vicino così importante si tengono delle
elezioni, un tedesco osserva sempre con attenzione. Tanto più
se fa parte della stessa unione monetaria. E qui sta il
problema. “Se i creditori si convinceranno che non rivedranno
i loro soldi, allora scapperanno. E nemmeno la potente
Germania potrà venire in soccorso”. La paura, tale da generare
una sorta di terrorismo psicologico, è insomma che si
materializzi uno scenario politico tale per cui l’onere del
debito pubblico di cui la Bce si è fatta carico tramite
l’acquisto di titoli di Stato (circa 300 miliardi dal 2015 al
2017, stando al giornalista) ricada su tutta l’eurozona, e
nello specifico sulla Germania, per quanto “i tedeschi siano
molto pazienti”. Insomma, “il debito italiano ora è anche il
nostro debito”, chiosa Fleischhauer. La “sconfitta ha un
nome”, secondo l’analista tedesco: si chiama Mario Draghi.
Lasciando velatamente intendere che le misure di Draghi e
della Banca centrale europea siano state progettate
appositamente per l’Italia, e non per tutti i paesi europei in
difficoltà e per calmierare il mercato e lo spread,
Fleischhauer dice che “il programma di acquisto di
obbligazioni della Banca centrale europea ha portato
all’Italia 45 miliardi di euro di risparmio sugli interessi
nei quasi tre anni del governo Renzi”. Le ansie del
giornalista sembrano però in controtendenza rispetto alle
indicazioni delle banche d’affari ad acquistare titoli
italiani di cui si diceva poc’anzi. Forse per questo, come
riferisce lo stesso Fleischhauer, in una recente conferenza
stampa “Draghi ha ‘riso’ delle paure della Germania”. In ogni
caso, i tedeschi devono vedersi prosciugare il conto mentre
“il Sud se la può cavare senza misure di austerity”. Ecco
perché, conclude, “chi fa di un buffone come Grillo la prima
forza politica o riporta in auge un artista delle tinture per
capelli come Berlusconi, non merita che di essere preso in
giro”. L’ultima volta che Fleischhauer ha scritto dell’Italia,
il caporedattore di Spiegel ha ricevuto una lettera
direttamente dall’ambasciatore italiano a Berlino.

Non è solo lo Spiegel ad aver motteggiato, diciamo così, l’Italia. Ci
ha pensato anche un comico inglese ma trapiantato negli Stati Uniti,
John Oliver, molto popolare soprattutto tra l’elettorato di tendenze
democratiche; una sorta di Crozza americano. Durante il suo programma
Last Week Tonight ha dedicato diversi minuti a ironizzare su tutti i
leader politici italiani, definendo ad esempio Salvini “una Mary
Poppins fascista, quindi in sostanza Mary Poppins”, per poi lanciare
l’idea di candidarsi anche lui, da comico, alla premiership in Italia.
Il video ha fatto il giro del mondo e d’Italia.

Infine, forse stremata dalla “campagna elettorale più
deprimente di sempre”, l’inviata di lungo corso Giada Zampano
ne ha voluto segnalare su Politico i “momenti più strani e
divertenti”. In cima alla classifica il consiglio di
Berlusconi alla reporter della BBC di ingentilire la sua
stretta di mano per non rischiare di “non trovare marito”; al
secondo posto, lo spot di Renzi con la tipica famiglia
italiana, che ha dato vita a mille versioni parodistiche; al
terzo, il fotomontaggio della Meloni su una sedia con la
chitarra in mano durante un comizio; al quarto, la campagna “a
premi” di Salvini su Facebook; infine, gli strafalcioni
lessicali di Di Maio.

Lunedì sapremo quale risata ci seppellirà.

di Valentina Nicolì

ELEZIONI,         ALL’ESTERO
RISULTATI NON PREOCCUPANO I
MERCATI. E IL PREMIER? PER
FINANCIAL   TIMES   POTREBBE
ESSERE ZAIA O MARONI
“Ci vorrebbe un mago con una sfera di cristallo per prevedere
quello che accadrà”: il quotidiano conservatore spagnolo El
Mundo (24 febbraio) sintetizza alla perfezione la percezione
generale rispetto al voto del 4 marzo. Per quanto le testate
straniere si sforzino di decifrare le tendenze espresse dagli
ultimi sondaggi disponibili, l’unica ipotesi su cui sembrano
convergere è quella dello stallo, indotto da una legge
elettorale che spinge a formare coalizioni e che, secondo
taluni, “è stata machiavellicamente redatta per evitare che i
Cinque Stelle arrivino al potere”.

Naturalmente lo stallo offre il fianco a diversi scenari,
tutti opportunamente delineati dalla stampa straniera: da
grandi coalizioni di varia natura a un governo tecnico con
premier designato dal presidente Mattarella, a un ritorno
rapido alle urne. C’è chi – nei giorni precedenti alle
dichiarazioni aperturiste di Di Maio – parla di una “vittoria
di Pirro” per l’M5S (Le Temps, 21 febbraio); chi invece
immagina un superamento della Lega rispetto a Forza Italia,
con la conseguente scelta del premier in capo a Salvini, che
potrebbe optare per figure più moderate e più gradite a
Berlusconi, come Luca Zaia o Roberto Maroni (Financial Times,
22 febbraio); e poi c’è la vecchia ipotesi, ancora tutto
sommato prevalente (tranne qualche eccezione) di un patto
centrosinistra-Forza Italia, nel caso in cui la coalizione
renziana dovesse registrare numeri “dignitosi”.

Tuttavia, per quanto diffusa, nemmeno la previsione su una
mancata maggioranza viene ormai data per scontata: la storia
delle elezioni italiane insegna alla stampa straniera, e non
solo, che gli italiani spesso “fanno l’opposto di ciò che
dicono quando si trovano nell’urna” (Financial Times, 19
febbraio). Ad oggi sembrerebbero essere in testa, come
partito, i Cinque Stelle, sopravanzati però dalla coalizione
di centrodestra. Ciononostante, la “maggioranza silenziosa” di
cui parla il Ft – in cui è compresa anche un’elevatissima
percentuale di indecisi – potrebbe regolarsi diversamente. Non
è un’ipotesi tanto assurda evidentemente, se, come rilevano
alcuni giornali stranieri, il Pd spera ancora di recuperare
terreno confidando in una “scelta responsabile” degli
indecisi.

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l fuoco degli scenari post-voto ci pensano alcuni analisti,
secondo i quali, in primo luogo, non ci sarà nessuna Italexit
(o Quitaly, come la chiama il Daily Mail) e, in secondo luogo,
gli investitori e le autorità europee non sembrano troppo
impensierite dalle elezioni italiane. Infatti, al netto delle
dichiarazioni allarmiste di Jean-Claude Juncker – che, secondo
Le Monde, potrebbero essere state un modo per invitare a non
votare per i partiti populisti –, la Borsa italiana è l’unica
a non aver perso terreno dall’inizio dell’anno rispetto alle
altre europee (Ft, 19 febbraio). Un “paradosso” solo
apparente, secondo la Zeit, il fatto che all’ascesa dei
“partiti euroscettici” non corrisponda un aumento del
nervosismo. Anche la Süddeutsche Zeitung (22 febbraio) annota
la “sorprendente” tranquillità degli investitori, alla luce di
un debito pubblico tra i più alti d’Europa e di una campagna
elettorale contrassegnata da “promesse irrealistiche che
scoppieranno come palloncini subito dopo il voto”.
Evidentemente, a tranquillizzare tutti, malgrado “il teatrino”
che andrà in scena dal 5 marzo, con “alleanze che si
romperanno e altre che se ne formeranno”, è il fatto che
“tutti i vecchi nemici dell’euro hanno cambiato rotta a favore
dell’Ue”. Non a caso Politico, lo stesso giorno, titola: “Il
grande vincitore delle elezioni italiane è l’Europa”. Perché
Bruxelles all’improvviso ha di nuovo tanti amici in Italia?
Innanzitutto perché l’economia è in ripresa, poi per via
dell’effetto Macron, ma soprattutto perché gli elettori di cui
i diversi partiti ricercano il voto, per quanto delusi
dall’Ue, vogliono più Europa almeno su un tema, quello
dell’immigrazione. E se il Daily Mail dice l’esatto contrario,
ossia che gli italiani vogliono “meno Europa”, ricollega
questa disaffezione più che altro alle decisioni in campo
economico, ma esclude una reale volontà dell’Italia di seguire
l’esempio del Regno Unito. La lettura più pragmatica di questa
rinnovata cautela la dà la Süddeutsche Zeitung: “Lo sanno
tutti che gli italiani non possono infrangere le regole
dell’Ue. Poiché la Bce va lentamente riducendo lo scudo
(acquisto dei titoli di Stato, ndr), qualsiasi passo falso
porterebbe il paese sull’orlo del baratro debitorio. Nessun
governo sopravvivrebbe”.

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Il punto però è un altro, come lasciano intendere numerosi
osservatori: qualunque sarà l’esito delle elezioni, in Italia
gattopardescamente cambierà ben poco, e questo rallenterà le
decisioni in diversi settori di vitale importanza, tra cui il
lavoro, i conti pubblici, lo stimolo all’economia (declinate
da varie prospettive secondo l’orientamento progressista o
moderato delle diverse testate). Del resto, come scrive ancora
El Mundo in una feroce critica dei costumi politici italiani,
“se c’è qualcosa di tanto intrinsecamente italiano quanto la
pizza, Mina o il Colosseo, sono l’instabilità e l’incertezza
politica”. Per inciso, numeri alla mano, il quotidiano
spagnolo dà poco credito all’ipotesi ventilata da molti
secondo cui, a maggioranza fallita, è probabile una grande
coalizione gestita da Renzi e Berlusconi. In caso di stallo,
gli italiani si lancerebbero in uno dei loro “passatempi
preferiti: la fantapolitica”. E non è escluso che entri in
azione un vecchio gioco della politica italiana, ossia “il
transfughismo parlamentare” di cui parla Gianfranco Pasquino.

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largano ancora di più lo sguardo e usano le elezioni come
punto di partenza per un’analisi complessiva sulla tenuta
della democrazia in Europa.

Uno di questi è Lorenzo Marsili, che su Al Jazeera (17
febbraio) scrive: “La grave situazione in cui si trova
l’Italia è l’ennesimo segnale che la democrazia europea è in
crisi”. La politica è ancora in grado di dare quella pacifica
spinta alla trasformazione e al rinnovamento che fu impressa
nel dopoguerra? La risposta di Marsili, alla luce di quanto
avviene in Italia alla vigilia delle elezioni, è negativa. E
indipendentemente dal balletto di cifre su possibili
maggioranze, il giornalista rileva una “abdicazione della
politica, che va diventando faziosa e priva di lungimiranza”.
È questo, come osserva lui assieme a molti altri analisti, ad
aprire il varco alla miscela esplosiva di apatia ed estremismo
generati da un’economia in affanno. Si assiste a una
polarizzazione del dibattito pubblico, con “dichiarazioni
apertamente razziste da parte di leader politici che
alimentano il clima di paura, xenofobia e persino il
terrorismo di estrema destra”. Questo non accade soltanto in
Italia ma in moltissime democrazie europee: in Austria,
Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e persino in Germania.

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Le elezioni italiane, dunque, come specchio di una tendenza
che coinvolge tutta l’Unione europea, in particolare i paesi
maggiormente colpiti dalla crisi finanziaria prima e dalle
misure di austerità poi. A rilevare l’ascesa del “populismo di
destra” in Europa sono diversi quotidiani, molti dei quali di
tendenze conservatrici o moderate. Come l’inglese Telegraph,
che attribuisce il “nazionalismo xenofobo” diffusosi in
Germania, in Italia, in Grecia e nell’Est Europa alla crisi
migratoria e alle dure condizioni imposte dai tedeschi ai vari
Stati membri. Stesso dicasi dell’Irish Times, che vede
riflesse nel “sentimento euroscettico e anti-immigrati” di
molti italiani “le correnti populiste che hanno scosso il
resto d’Europa”. Anche per la testata irlandese l’ascesa
dell’estrema destra è da ricondursi a ragioni economiche – con
il persistere della disoccupazione, soprattutto tra i giovani
– e a una percepita indifferenza dell’Ue rispetto ai flussi
migratori, sebbene gli sbarchi siano diminuiti. A raccontare
il clima che si respira in Europa su un tema, quello
dell’immigrazione, con risvolti geopolitici di non poco conto
è la strana offerta del premier euroscettico della Repubblica
ceca Andrej Babis (Daily Express, 20 febbraio), il quale dopo
aver detto di no alle quote europee di redistribuzione dei
profughi, ha dato la sua disponibilità a contribuire alla
costruzione di una scuola materna per i bambini attualmente
ospitati in un hotspot italiano, forse proprio per evitare
eventuali sanzioni dell’Ue.

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Quanto al Movimento Cinque Stelle, tutti riconoscono
che, pur essendo il primo partito in Italia, l’attuale
sistema elettorale lo penalizza

In ogni caso, la parola “populismo” può voler dire tante cose,
come conferma quanto scrive il conservatore Times (17
febbraio): “Comunque andranno le elezioni italiane, a vincere
saranno i populisti”. Se, per il quotidiano inglese, i partiti
populisti crescono in tutto l’arco politico italiano, i Cinque
Stelle, in particolare, sono “una formazione antisistema,
ambientalista e cripto-sinistrorsa”.

Anche per questo respiro europeo, oltre che per le
manifestazioni e gli scontri che si sono susseguiti nei giorni
scorsi in tutta Italia, l’ascesa dell’estrema destra e dei
neofascismi nel nostro paese ha continuato a occupare le
pagine della stampa straniera.

Al Jazeera, in relazione alla recrudescenza fascista, ha
addirittura dedicato un articolo ai fratelli Cervi, e al loro
erede Adelmo (19 febbraio), mentre più di qualcuno,
commentando le schermaglie tra neofascisti e antifascisti, ha
evocato il fantasma degli “anni di piombo” (tra questi, il
Guardian e Bloomberg). Il ritorno del passato fascista e il
cinismo politico che sembrano incombere sulla campagna
elettorale italiana affondano le radici “in decenni di
distanza tra cittadini e istituzioni”, scrive la segretaria
generale della Federazione italiana diritti umani Sabrina
Gasparrini in un commento sul Guardian. Dopo la spinta
democratica del dopoguerra, in Italia invece di un vero
dibattito pubblico si è imposta la “partitocrazia”; ed è
sull’espansione di questo “sistema canceroso” che è potuto
attecchire il “razzismo anti-migranti di oggi”. L’unico
antidoto, secondo Gasparrini, sono “gli Stati Uniti d’Europa”.

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tate, gran parte della responsabilità del varco populista e
razzista apertosi in Italia è da addebitarsi alla sinistra
istituzionale. Non soltanto perché “disperatamente divisa” ma
anche perché rappresentata da una “classe politica vecchia,
stanca e senza più fantasia” – come si legge sulla rivista
americana The Nation (21 febbraio) – e dunque pronta ad
abdicare ai temi che dovrebbero esserle più cari. I giovani
italiani, in particolare, su cui pesa una disoccupazione
altissima, hanno bisogno di un movimento come quello legato a
Jeremy Corbyn. Questo punto di riferimento sembrano trovarlo,
oggi, nel piccolo partito Potere al Popolo che, secondo il
Nation e la Vanguardia, sta crescendo notevolmente negli
ultimi giorni.

E Silvio Berlusconi? Anche la scorsa settimana è stato molto
presente sui giornali stranieri, non sempre in termini
lusinghieri. Se Les Echos scrive che, a ottantuno anni, “il
Cavaliere sembra essere l’unico argine contro l’ondata
populista, la Reuters vi intravede dei “segnali di fragilità”
e riporta alcuni suoi strafalcioni numerici nelle recenti
interviste. Uno dei titoli più impietosi è però quello del
Newsweek: “Il sordido Berlusconi è sul punto di ritornare?”.
Ancora più feroce, questa volta verso l’Italia, è la chiusa
della testata statunitense: “Se Berlusconi è il meglio cui
l’Italia possa sperare, questo purtroppo ci dice di più sul
paese che non su di lui”. Ironie e affondi a parte, quella che
molti analisti stranieri osservano è una spaccatura
all’interno del centrodestra. Come lo storico inviato Richard
Heuzé, che su Le Figaro del 20 febbraio parla di un “duello
tra le destre” e di una “rivalità tra Forza Italia e Lega che
è al centro della campagna elettorale”. Se Le Monde (19
febbraio) vede uno spostamento a destra dell’intera
coalizione, che potrebbe addirittura farle ottenere “la
maggioranza assoluta”, secondo l’Economist saranno i piccoli
partiti i veri aghi della bilancia, e tra questi sicuramente
Noi con l’Italia. La conquista del Sud della Lega, intanto,
non passa inosservata. A questo proposito Bloomberg (20
febbraio) scrive che, “dopo aver schernito per anni i
meridionali, bollandoli come pezzenti, ladri e buoni a nulla”,
all’improvviso la Lega di Salvini “chiede loro di votare per
lei”.

Questa discesa nel Mezzogiorno potrebbe dare qualche problema
ai Cinque Stelle che, come scritto da molti, proprio al Sud
hanno costruito negli anni il maggior bacino di consenso
pescando in un elettorato frustrato dal divario rispetto al
Nord, dalla presenza soffocante della criminalità e da
un’elevata disoccupazione sovente addebitata all’Europa e agli
immigrati. Taluni (come il New York Times, 23 febbraio)
rilevano che l’M5S sta diventando un partito vero e proprio,
“con scandali e tutto il resto”, e cerca di dare un’immagine
più professionale di sé con qualche nomina eccellente. Come il
Telegraph, anche l’Economist afferma che il movimento “vuole
il potere vero” e definisce Di Maio uno “star man” che cerca
in tutti i modi di preparare “una folla composita di idealisti
alle dure realtà della politica”.

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                                      Ad    accendere     i
                                      riflettori sui Cinque
                                      Stelle anche un’altra
                                      notizia     che    ha
                                      catturato l’attenzione
                                      della stampa straniera
                                      la scorsa settimana,
                                      malgrado fosse già
                                      uscita nei mesi scorsi:
                                      il     rischio       di
                                       interferenze straniere
nelle elezioni italiane per mezzo dei cosiddetti bots
(diminutivo di robots), ossia programmi in grado di entrare in
rete e agire come esseri umani su Facebook e gli altri social
network per manipolare l’opinione pubblica e “seminare
instabilità e divisioni”. Sono diverse le testate che lanciano
l’allarme, puntando il dito, qualcuna più apertamente, altre
in modo velato, sulla Russia. Certamente non usa giri di
parole l’Economist, che anzi a scanso di equivoci pubblica una
vignetta con una piovra raffigurante il volto di Putin e la
didascalia “Gli sporchi trucchi della Russia”. Le interferenze
russe starebbero colpendo – soprattutto secondo la stampa
americana, com’è ovvio, ma non solo – molte democrazie
occidentali ed europee. E tra i bersagli ci sarebbe anche
l’Italia, come confermato anche dall’ultimo rapporto
dell’intelligence nostrana (che però non fa mai esplicito
riferimento alla Russia). Dal Guardian al País, dal Newsweek
alla Deutsche Welle, dal Washington Post a Bloomberg: numerose
sono le testate che adombrano l’intervento dei bots e che,
soprattutto, lo leggono a favore dei Cinque Stelle o della
Lega. Nel fare questo, riferiscono sui viaggi di Salvini e
sulle dichiarazioni dell’M5S (ma anche del Pd) a favore di una
revoca delle sanzioni Ue alla Russia. Va detto, però, che il
ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha smentito
categoricamente questi tentativi di destabilizzazione, e ha
affermato che alla Russia “interessa un’Europa forte, non
debole”.

Quale che sia la reale incidenza di questi fenomeni sulle
elezioni italiane, è certo che non sono un bel segnale di
quella tenuta democratica di cui si diceva e che, come dice El
Mundo, solo la palla di cristallo può dire cosa accadrà il 4
marzo.

di Valentina Nicolì

SISTEMA ALLEVATORI, OK A
DECRETO SENZA PASSARE PER IL
PARLAMENTO. COMAGRI SCRIVE A
FINOCCHIARO
L
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ato – regioni da il proprio placet – con alcune modifiche
apportate – al decreto legislativo sul sistema allevatoriale.
Ma uno dei nodi più stretti da sciogliere del settore, per
paradosso, non ha potuto avere il parere della competente
commissione della Camera. In sostanza, il decreto partito da
Palazzo Chigi – che ha suscitato non poche polemiche relative
alla liberalizzazione dei servizi – non è stato valutato dal
Parlamento.
Tanto che la stessa Commissione Agricoltura di Montecitorio
scrive al ministro dei rapporti con il Parlamento Anna
Finocchiaro per informarla dei fatti.
Qui di seguito Agricolae riporta la lettera:
LETTERA COMAGRI A FINOCCHIARO

Per saperne di più:

SISTEMA ALLEVATORI, CONFERENZA STATO REGIONI APPROVA DECRETO.
ECCO TUTTE LE MODIFICHE
SISTEMA         ALLEVATORI,
CONFERENZA   STATO  REGIONI
APPROVA DECRETO. ECCO TUTTE
LE MODIFICHE
La conferenza Stato regioni ha approvato il decreto sul
sistema allevatoriale con le modifiche anticipate da
Agricoale.

Qui di seguito si pubblica la bozza:

MODIFICHE CONFERENZA STATO REGIONI

Per saperne di più:

SISTEMA ALLEVATORI, OK DA ASSESSORI MA CON CONDIZIONI
‘IMPRENSCINDIBILI’. ECCOLE CONFAGRICOLTURA VENETO: DECRETO NON
VA. FONDO BIODIVERSITA FINISCE IN REGIME MONOPOLISTICO

Posted by Redazione× Pubblicato il 21/02/2018 at 18:44
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