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Andrea Gianasso

LA NATURA NON HA MANGIATO LA MELA
l’etica è una cosa troppo seria
perché se ne possa parlare seriamente

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la non esistenza
                   non esiste

CAPITOLO 1

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X0 si sedette un po’ all’indietro sulla scomoda
seggiola in ferro da giardino, appoggiandosi allo
schienale con evidente soddisfazione. Poi, con molta
calma, si accese una sigaretta e si voltò verso il bar,
per vedere se fosse in arrivo il caffè.
    “E dai”, fece X1 che era seduto di fronte a lui, dal
lato opposto del tavolino, “smettila di fumare, lo sai
che fa male. Adesso qui, col nuovo governo, sembra
addirittura che il fumo sarà proibito del tutto… Si sta
capovolgendo tutto, anche altre cose saranno proibite
che in passato non lo erano e altre, che lo erano,
saranno invece…”.
    X0 lo guardò con calma, non era irritato del
rimprovero, non era irritato mai.
    “Non ti capisco, X1, non ti ho capito mai. Tutto ciò
che faccio, per te non va mai bene”.
    Aspirò voluttuosamente una boccata di fumo, poi
disse:
    “E poi sai benissimo che, volendo, noi potremmo
tranquillamente dire che questo nuovo governo non
esiste. Che anche questa sigaretta non esiste”.
    Gettò via il mozzicone.
    “Facciamo che non abbiamo ancora inventato
l’esistenza delle cose. E magari neanche il tempo”.
    X1 lo guardò con curiosità. Questa, delle invenzioni,
era una delle idee fisse di X0 e, se fosse esistito il
tempo, avrebbe detto che lo era da sempre.
    Lui non aveva nulla in contrario a confrontarsi con
quell’altra parte di se stesso che era X0 ma aveva una
mentalità più pratica, se si faceva qualcosa voleva

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capire il come e il perché. Per lui, capire X0 non era
possibile. Ed era giusto che così fosse.
  “Ascolta”, disse X0, “adesso ti dico la mia idea….”.

    Ahmed strisciò per uscire dalla tenda.
    Erano ormai tre giorni che lui e Amhina si trovavano
lì, sulla spiaggia vicino a Ventimiglia e, ancora, non
erano riusciti a passare la frontiera, a trovare il modo
per raggiungere il loro sogno, la Francia.
    La Francia dove, superato il primo momento, loro
sapevano che si sarebbero aperte prospettive
importanti, un lavoro, la casa, i figli… che ancora non
c’erano.
    Stavano però per arrivare. Amhina era ormai agli
sgoccioli, ancora pochi giorni e, poi, anche l’idea di
passare il confine potevano dimenticarla.
    Disperato, cominciò a chiedersi come risolvere il
problema, magari accantonando per il momento la
prospettiva francese. Il problema non era mangiare, nei
mesi passati dopo la fuga da Damasco aveva imparato
bene molte cose e, adesso, era molto bravo a rubare.
    Doveva assolutamente trovare un posto dove stare,
al riparo dal freddo, dalla pioggia se non anche dalla
neve, prima o poi l’inverno sarebbe arrivato.
    Rientrò nella tenda dove, su un materassino tutto
sommato abbastanza comodo e al caldo sotto una
montagna di plaid, Amhina ancora dormiva. La
accarezzò sul viso e lasciò scorrere la mano sul ventre,
teso e pieno di promesse. La svegliò dolcemente,
dicendole di stare tranquilla, che sarebbe stato via un

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po’. Lei rispose con poche parole quasi incomprensibili,
forse non voleva far trasparire anche la sua
preoccupazione e, dopo averlo baciato, solo un
accenno di bacio, si voltò dall’altra parte come per
continuare a dormire.
   Ahmed sapeva che così non era. Che, appena si
fosse allontanato, si sarebbe alzata e avrebbe iniziato a
fare quelle pochissime cose che, in una situazione
come la loro, una donna poteva fare per imitare ciò che
avrebbe fatto in una casa, in una vera casa: mettere in
ordine per quanto possibile, lavarsi al meglio,
preparare quel poco che c’era da mangiare, scambiare
chiacchiere e confidenza con gli altri clandestini.
   Amhina aveva fiducia nel suo uomo. Così come
erano arrivati fin lì, sarebbero riusciti a raggiungere la
meta. Quando e come non aveva importanza, qualsiasi
situazione sarebbe stata meglio di quello che avevano
lasciato.
   Pensava a Damasco. I bombardamenti, le aggressioni
e, in ultimo, la persecuzione della polizia dopo che
Ahmed si era lasciato andare a dire qualcosa in più di
quello che si poteva e si doveva dire. La fuga,
probabilmente appena in tempo.

   Ahmed si era spostato nelle vicinanze, era vicino
alla ferrovia. Alcuni terreni erano recintati e altri no,
molti erano incolti e trascurati. Lui si muoveva
cercando di non farsi notare. Aveva lasciato le dune
sabbiose vicine al mare, stava attraversando una zona

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piuttosto sporca di detriti e di immondizie
abbandonate.
   Seguì una stradina che, tempo addietro, doveva
essere stata asfaltata e, dietro ad una curva, giunse al
cancello di ingresso di una casa.
   Oddio, una casa ma anche, in un certo senso, un
rudere, era abbandonata, malconcia, alcune tegole del
tetto sporgevano da quello che era rimasto della
grondaia, i muri erano anneriti e mostravano i mattoni
in zone che, una volta, erano probabilmente
intonacate.
   Non riusciva a staccare lo sguardo dal portoncino di
ingresso, ermeticamente chiuso e dalle finestre,
malconce anch’esse e con le ante delle persiane mezzo
staccate. Notò che il cortile, si capiva che a suo tempo
era stato un giardino, era recintato, aveva una
cancellata in ferro verso la strada ma, sui lati
rimanenti, aveva una recinzione metallica che, in
alcuni punti, appariva pericolante. In una zona, era
stata addirittura piegata a terra, sicché era facile
scavalcarla ed entrare.
   Così fece, senza neppure pensarci.
   Si avvicinò alle finestre del piano terreno, dotate di
inferriate vecchie e all’apparenza non molto resistenti
e, infatti, una di esse era parzialmente divelta.
Qualcuno forse aveva già tentato di entrare, come
adesso avrebbe potuto cercare di fare lui.
   Si allontanò un poco, guardò ancora tutta la casa,
ne fece il giro attorno. Fermandosi davanti al
portoncino, notò che era chiuso ma che il telaio, forse

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per la vetustà o forse anche perché già sforzato in
passato, era parzialmente staccato dagli stipiti e le
zanche di ancoraggio apparivano anche visibili in
alcune zone.
   Si chiese quanto avrebbe potuto ancora resistere.
Poi, agendo d’impulso, prese una breve rincorsa e
provò a sfondarlo con una spallata. Senza riuscirci, ma
ottenendo qualche risultato. Il portoncino, prima fermo
nella sua posizione, risultava ora spostabile di pochi
millimetri e ancora più risultò muovibile dopo ulteriori
spallate, senza però staccarsi dalla muratura.
   Quando capì che, comunque, non avrebbe ceduto,
si sedette su una panchina in cemento sotto un
traliccio metallico che, in passato, aveva probabilmente
avuto le funzioni di pergolato. Guardandosi attorno
vide, rovesciato per terra, un grosso vaso da fiori di
quelli a ciotola, in cemento, che prima di cadere era
sostenuto da un pilastrino, anch’esso in cemento, che
ancora stava lì, infilato nel suo basamento.
   Lo prese, era molto pesante ma, a fatica, riuscì a
sollevarlo. Tenendolo orizzontale, si mise ad una certa
distanza dal portoncino e prese la rincorsa.
   Come pensava, l’urto fu violento ma il legno del
portoncino resistette all’urto. Non così le zanche di
ancoraggio, che si staccarono dal muro e il portoncino
cadde     all’indietro,   lasciando    aperto  il   vano
dell’ingresso.
   Solo in quel momento, la frenesia che fino allora lo
aveva guidato cessò improvvisamente. Ahmed si chiese
se tutto il trambusto che aveva creato con le sue

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spallate e i suoi interventi di demolizione non erano
alle volte stati visti o sentiti da qualcuno, se veramente
la zona era così deserta come sembrava.
    Non successe nulla.
    Dopo alcuni minuti, che a lui sembrarono
lunghissimi, si fece coraggio ed entrò. C’era un piccolo
ingresso su cui si affacciavano due porte e partiva una
scala per il piano superiore. Le due camere erano
evidentemente la camera di soggiorno e la cucina, con
anche una vecchia stufa a legna, con il forno e tutto.
Andò al piano di sopra, due camere da letto e un
bagno. Tutto era sottosopra, come accade quando si
verificano furti in una casa disabitata, ma c’erano
ancora materassi, coperte, un po’ di tutto.
    Prese la sua decisione. Lì, Amhina poteva fare un
figlio e lui, al momento, non è che avesse molte scelte
possibili.

   “A volte mi chiedo” disse X1 “se abbiamo fatto bene
a fare tutto questo. Non mi sembra che il campionario
di umanità che si vede qui sia poi chissaché”.
   X0 e X1 erano insieme nella discoteca, la luce
intermittente era fastidiosa quasi quanto il rumore
assordante della musica. L’ambiente era però
simpatico e i presenti, quasi tutti, anche quelli drogati,
sembravano allegri. In ogni caso, avevano certamente
messo da parte quelle che sono normalmente
considerate le preoccupazioni della vita di tutti i giorni.
   X0, dopo essersi sistemato sul uno dei divanetti blu

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di cui il locale era abbondantemente fornito, sorseggiò
con aperto piacere il cuba libre che teneva in mano e
sorrise:
   “Ma se eri d’accordo anche tu, l’esistenza e il tempo
ci servono per esprimerci, cominciavo a trovare poco
interessante...”.
   “Sarà, ma secondo me è tutto un gran casino.
Intanto, abbiamo inventato l’esistenza e il tempo, ma
perché metterli assieme?”
   “Ma no, ma no. Partiamo dall’esistenza. Per come
l’abbiamo inventata, è legata al tempo, mica può farne
a meno. Ed è anche la cosa più semplice ed evidente al
mondo! Chi ha cercato di andare più a fondo si è solo
complicato inutilmente la vita. Che senso ha dire,
come ha detto qualcuno, penso dunque sono? Non ha
senso, perché la non esistenza non esiste! Sono... e
basta! Va bene che li abbiamo inventati noi, ma certe
volte gli esseri umani mi sembrano affetti da una follia
generalizzata”.
   X1 continuò nelle sue considerazioni personali:
   “E poi, che senso ha modificare quello che è
semplice, l’esistenza appunto, per imporre a tutto una
progressione forzata in una dimensione come il tempo,
che potevamo anche benissimo fare a meno di
inventarci. Così, abbiamo anche dovuto inventare
gli avvenimenti, le cose che prima non erano successe
ed ad un certo punto sono successe e, in questo modo,
le cose si sono complicate. Guarda Ahmed, per
esempio....”.

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Nell’accampamento, si fa per dire, dei clandestini,
c’era aria di mobilitazione. Qualcuno aveva lanciato
l’idea di lasciar perdere il passaggio verso la Francia
sulla costa e spostarsi a nord, sulle montagne. Da
qualche parte esisteva un valico possibile. Da quanto
avevano saputo, bisognava però trovare il modo di farsi
portare almeno fino a Limone, meglio fino a Vinadio.
Lì, poi, c’era Mahmoud che avrebbe potuto guidarli e
fornire le giuste indicazioni.
    Il problema era trovare i soldi per pagare qualcuno
che li trasportasse fin lì all’interno di un camion
chiuso, erano circa una ventina e che li facesse uscire
di notte. I soldi, quindi, bisognava assolutamente
trovarli.
    Ahmed non partecipava a questi discorsi, non aveva
tempo, sapeva che mai avrebbe potuto trascinare
Amhina a scavalcare una montagna. Doveva invece
cercare Chacha, solo Chacha poteva aiutarlo.
    La trovò intenta a fregare un panno all’interno di
una tinozza semipiena di acqua di un colore
indefinibile, ma Ahmed non aveva tempo per
soffermarsi su queste cose.
    “Chacha...”     disse   con    voce   concitata   e,
contemporaneamente, perentoria e supplichevole,
“Chacha, sai di Amhina. Devo portarla via di qui, ho
trovato un posto, mi devi aiutare, la devi aiutare, solo
tu lo puoi fare...”.
    Nessuna risposta. Chacha stava immobile, fissava
assorta un punto lontano, non si poteva capire quale,

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senza rispondere. Poi si alzò e si mise a pulire per
terra, chissà perché, da pulire non c’era nulla.
   Ahmed la prese contemporaneamente per le due
braccia, stringendole forte:
   “Chacha!”

   Yoosuf, che tacitamente aveva assunto la guida del
gruppo, chiese:
   “Chi sa dove si possono trovare?”.
   Parlava dei soldi, naturalmente. Nessuno rispose.
Dopo un po’, visto che nessuno parlava, parlò il piccolo
Minushi che, avendo ormai otto anni, era già
praticamente adulto e, dovendosi guadagnare da
vivere, era andato a rubacchiare nel supermercato
sullo slargo dell’Aurelia. Disse:
   “Alle casse del supermercato, ho visto i soldi, sono
tenuti nel cassetto di sotto, nascosti, ma sono lì...
tanti”.
   Yoosuf si grattò la nuca. Era un nero alto, atletico,
forte, ispirava fiducia e, qualunque cosa avesse deciso,
gli altri lo avrebbero seguito. Era inoltre abituato a
decidere, subito, la vita gli aveva insegnato che i
tentennamenti e i dubbi sono la peggior compagnia che
si possa avere.
   Disse quindi, come se la proposta di un bambino di
otto anni fosse una sorta di oracolo:
   “Bisogna fare in fretta, dobbiamo farceli dare
spaventandoli. Non abbiamo armi ma possiamo fingere
di averne. Qualche coltello o qualcos’altro lo troveremo.

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Voglio cinque con me quando entreremo, saremo poco
armati ma spaventeremo tutti col nostro numero. Due
staranno fuori in un furgone che possiamo rubare
stanotte, per entrare in azione se qualcosa non
andasse come deve. Ci servirà per allontanarci subito.
Il tutto deve durare pochissimo, ci siamo capiti?”
    Guardò tutti i presenti e nessuno fiatò.
    Disse:
    “Ahmed, tu sei capace a rubare le automobili e non
dai nell’occhio, perché non sei nero. Lo farai stanotte
con Ghaalib, trovate quella giusta, un furgone a più
posti. Domani starai al volante mentre noi entreremo
nel supermercato. Avrete la vostra parte, come tutti”.
    Il colpo venne programmato per l’indomani, all’ora
di pranzo, per lasciare il tempo alle casse del
supermercato di riempirsi di denaro.

   Ahmed, ora, era fermo nello slargo insieme a
Ghaalib, al volante del furgone a nove posti che aveva
rubato.
   Gli altri erano arrivati a piedi perché, se fosse giunto
nel piazzale un pulmino carico di otto neri, la cosa
avrebbe potuto creare una qualche agitazione. Si erano
distribuiti nelle vicinanze, per familiarizzarsi con la
zona in attesa dell’ora e del segnale stabilito.
   Pensava ad Amhina.
   Chacha si era limitata a dire:
   “Ti faccio una lista di quello che serve, tela pulita,
acqua calda, asciugamani, un po’ di .... Portami da lei”.

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L’aveva visitata nella tenda, poi aveva detto:
   “Bisogna fare in fretta, dov’è quel posto? Andiamoci
subito”.
   Avevano raccattato le loro cose lasciando la tenda,
oltretutto non era sua, era di Ghaalib. Avevano
spiegato la situazione ai vicini di tenda che,
soprattutto, avevano voluto essere rassicurati sul fatto
che l’indomani lui sarebbe stato presente e avrebbe
fatto quanto gli era stato richiesto.
   Erano poi partiti in tre, muovendosi velocemente,
anche Amhina, nonostante si vedesse che faceva una
certa fatica. Avevano attraversato le dune e le aree
disabitate, a volte facendo dei giri dove prima era
passato semplicemente scavalcando gli ostacoli. Erano
finalmente giunti, stanchi, nel cortile della casa che
cercavano, dove aveva spostato e appoggiato al muro la
porta che aveva abbattuto, in modo da far sembrare
che fosse semplicemente aperta.
   All’interno, Amhina aveva preso in mano la
situazione esaminando tutto con attenzione. Si vedeva
che aveva una sola cosa in mente, il suo sguardo
passava continuamente dalla stufa al resto della
cucina, come immaginandola già provvista di tutto il
necessario.
   Al piano di sopra lei e Chacha, per prima cosa,
avevano rifatto il letto, riordinando tutto il possibile.
   Si era chiesto come facessero le donne a fare così
tante cose. Così in fretta. Allora aveva detto:
“Io vado, ho l’elenco di tutto... Arrivo il prima
possibile”.

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Tutto era andato bene, tutto sarebbe andato bene.
Lo vedeva come un segno di benevolenza del destino. Il
figlio sarebbe nato, poi avrebbero potuto seguire gli
altri in Francia, adesso non c’era tempo.
    Doveva procurarsi anche un po’ di soldi, erano
necessari essendoci un bambino con tutte le sue
esigenze. Quel giorno, però, tutto si sarebbe risolto.
Aveva fiducia in Yoosuf e, anche, in se stesso.
    Intanto, aveva portato tutto quello che era scritto
nell’elenco e, anche, da mangiare e da bere. Chacha,
dopo aver predisposto tutto quanto necessario perché
diceva che la cosa era più vicina di quanto loro non
pensassero, si era sistemata al piano terreno, su un
materasso per terra.
    Quella notte avevano dormito, lui e Amhina, in un
letto, un vero letto che sembrava un sogno. Al mattino,
dopo un veloce spuntino, si erano salutati ma, questa
volta, con un abbraccio vero e un bacio vero, perché
era giunto il momento.
    Poi, lui era andato, aveva le sue cose da fare.

  “Guarda Ahmed, per esempio ....”, disse X1, “guarda
come il tempo gli sta modificando la vita. Ha dovuto
aspettare più di otto mesi ma poi, addirittura in
anticipo, è arrivata l’ora. Ha dovuto cambiare tutti i
suoi programmi. E non solo lui, anche tutti i suoi
compagni”.
  “Ma va, non gli sta capitando proprio nulla. E’
normale routine della vita”.

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X1 divenne ancora più meditabondo:
  “Già, la vita. Anche quella abbiamo inventato.
Però...”.

   “Pronto, carabinieri?”
   “Pronto, qui è la Stazione 12, desidera?”
   “Senta, mi hanno rubato la macchina, il furgone. Un
furgone nove posti, l’avevo lasciato qualche minuto
davanti alla stazione… senza le chiavi. Un’ora fa. Ma è
sparito!”
   “Deve venire, può fare la denuncia, faremo le
ricerche…”
   “Non posso, adesso non posso, ho un appuntamento
che devo esserci… senta, per ora le lascio la targa”.
   “Mi spiace, non possiamo muoverci sulla base di
una telefonata, le ripeto, venga a fare la denuncia”.
   “Senta, sono amico del Maresciallo Bentivoglio,
ditegli che ha telefonato Marco Ranieri, lui sa chi
sono…”.

   Tutto si svolse in pochi minuti.
   Yoosuf, che si trovava vicino all’ingresso del
supermercato, chiamò con voce forte Lufti.
   Lufti non esisteva, era il segnale. In cinque si
avvicinarono a lui e, quando furono vicini, Yoosuf si
avviò per entrare, senza dare nell’occhio ma infilandosi
in fretta, mentre entrava, una calzamaglia sulla testa.
Così fecero gli altri. Si avvicinarono poi alle casse, dalla

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parte dell’uscita e, tutti, tirarono fuori un grosso
coltello, mettendolo ben in vista. Yoosuf, l’unico che
parlava italiano, gridò in modo da essere sentito da
tutti:
   “Aprite le casse! Dateci i soldi! Subito…. tutti! Se no
ammazziamo tutti!”.
   Le cassiere, che erano tutte donne, sembrarono più
stupite che spaventate, non erano nuove a situazioni
del genere. Si limitarono ad aprire il tiretto della cassa
ma Yoosuf, con il coltello alzato verso il viso della
donna, gridò in modo che tutti sentissero:
   “Tutti i soldi ho detto!” e, per farsi meglio capire,
sbatté forte il manico del coltello sopra il tiretto
superiore che si staccò dai supporti cadendo per terra.
   Rimasero così in vista, nel tiretto sottostante,
pacchetti di banconote, molte da cinquanta e alcune
da cento. Yoosuf le prese alla rinfusa mettendosele in
tasca con la mano sinistra, sempre tenendo il coltello
ben in vista con l’altra mano.
   Le altre cassiere, adesso un po’ più spaventate,
fecero scorrere il tiretto superiore e gli altri del gruppo
arraffarono mazzette di banconote. Meno una, una
ragazza giovane e molto spaventata che, dopo aver
armeggiato un po’ in modo confuso con i tiretti, senza
riuscire ad aprire quello inferiore, si mise a gridare:
   “Non posso! Non riesco! Sto male…!” e, cosi facendo,
cadde dal sedile e si accasciò per terra.
   Haashim, che aveva più o meno la sua stessa età e
stava di fronte a lei con il coltello, un po’ spaventato
anche lui, diede a sua volta un colpo al tiretto con il

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manico del coltello ma lo stesso non si staccò né il
tiretto inferiore si aprì. Cercò, con la sinistra, di farlo
aprire, senza riuscirci. Intanto, i presenti che fino a
quel momento erano rimasti immobili e silenziosi,
cominciarono ad agitarsi, cominciarono a sentirsi voci:
   “Ma che succede?”,
   “Insomma…”,
   “State fermi!”.
   Finché Yoosuf, per evitare problemi, si mise a
lanciare urli minacciosi che, effettivamente, ottennero
lo scopo di zittire e immobilizzare tutti i presenti. Poi
corse verso l’uscita, seguito dagli altri.
   Meno uno, Haashim. Aveva cercato di afferrare soldi
dalla cassa, solo quei pochi del tiretto superiore, che a
loro volta caddero per terra. Si era chinato e aveva
cercato di raccoglierli, fermandosi a guardare la
ragazza per terra. Forse temeva che fosse morta.
   I cinque, Yoosuf in testa, si fermarono indecisi di
fronte all’uscita, non potevano lasciarlo lì, sarebbe
stato un pericolo per tutti. Yoosuf lanciò un grido in
senegalese e Haashim, alzando la testa, si rese conto
della situazione. Abbandonò tutto, anche il coltello e
corse verso i compagni. Uscendo, secondo gli accordi,
tutti si tolsero la calzamaglia e finsero di uscire
normalmente, come semplici clienti del supermercato.
   Proprio lì di fronte avrebbero dovuto farsi trovare
Ahmed e Ghaalib, con il furgone con le porte già
aperte, ma non c’erano.
   Yoosuf, sempre in senegalese, disse semplicemente:
   “Via tutti!”

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Allora, sempre secondo gli accordi, si allontanarono
a piedi in fretta, ma in direzioni diverse, mescolandosi
con i passanti, con la mamme con le carrozzine, con
gruppetti di giovani in cerca di svago, con coppie di
anziani in passeggiata. C’erano anche altri neri, come
loro, ormai erano diventati abituali, non sollevavano
particolare curiosità.
   Riuscirono, in un modo o nell’altro, ad allontanarsi,
grazie, forse, proprio al fatto di non aver trovato la
vettura. Infilarsi in fretta in sei, neri, sulla stessa auto,
avrebbe potuto insospettire.

   Sul lato opposto dello slargo Ahmed e Ghaalib
stavano immobili sotto gli occhi di tre carabinieri, due
dei quali armati mentre il terzo, dopo aver guardato la
targa, continuava a rivolgere loro domande in un
linguaggio incomprensibile.
   Ad un certo punto arrivò un uomo di corsa, agitato,
disse:
“C’è stata una rapina… al supermercato… erano in
sei… tutti neri!”.
   L’appuntato era vecchio del mestiere, due più due fa
sempre quattro, fece un cenno di mettere le manette ai
due. Verificò, mentre parlava concitato al cellulare, che
fossero fatti salire sulla gazzella, poi corse verso il
supermercato. Tutto era avvenuto in pochi minuti.

  Amhina sentiva in testa un grande ronzio, stava

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male, respirava a fatica. Soprattutto, stentava a
mettere ordine nei pensieri. Ahmed era andato quella
mattina per recuperare i soldi, sarebbe tornato presto,
glielo aveva promesso.
    Perché non c’era?
    Anche Chacha non c’era.
    Provò a chiamarla ma non riusciva a parlare,
sentiva solo il ronzio nella testa, le parole dalla bocca
non uscivano. Si abbandonò sul letto e cercò di
rilassarsi. Poco per volta, a frammenti, alcune cose le
tornarono alla mente.
    Il parto, iniziato appena dopo la partenza di Ahmed.
Lei non era preoccupata ma Chacha aveva insistito per
farle bere qualcosa, non sapeva cosa fosse. Tuttavia,
tutto dipendeva da lei, obbedì docilmente.
    Poi le doglie, sempre più lunghe, sempre più forti,
mentre a lei sembrava che le forze le mancassero
sempre di più e, soprattutto, diventava sempre più
difficile capire cosa stesse succedendo, anche se
riusciva a capire i comandi di Chacha:
    “Spingi!”
    Il parto era iniziato, era dolorosissimo, sembrava
non finisse mai e, quando le sembrò di sentire il vagito
di un bambino, perse la conoscenza.
    Cos’era successo?
    Perché Ahmed non c’era?
    Perché Chacha non c’era?
    Mentre le forze le ritornavano e la mente poco per
volta diventava più chiara, il vagito del bambino le
giunse veramente all’orecchio e, senza più badare a

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nulla, si rivolse sull’altro lato del letto, dove
effettivamente il bambino c’era, era stato lavato, era
bellissimo.
   Lo prese delicatamente, lo strinse a sé, lo accostò al
petto per provare a nutrirlo già fin da subito, anche se,
almeno così le sembrò, senza grandi risultati. Poi,
alzatasi a fatica, iniziò a guardarsi attorno.
   Tutto era in ordine, evidentemente sbagliava a
preoccuparsi, ogni cosa si sarebbe chiarita, doveva
solo aspettare il ritorno di Ahmed, avrebbe continuato
nel frattempo a curarsi del piccolo.
   Era pomeriggio inoltrato quando venne di nuovo
presa dall’ansietà. Che Chacha non ci fosse poteva
dipendere da molte cose ma Ahmed... Ahmed non
poteva tardare così tanto.
   Allora cominciò a pensare che forse era successo
qualcosa. Volle sforzarsi di pensare in positivo, volle
convincersi che era solo questione di aspettare ancora
un po’.
   Quando però altre ore furono passate, quando
ormai il cielo era quasi buio e nessuno si era fatto vivo,
venne presa da una sorta di disperazione e sentì di
dover fare qualcosa.
   Doveva cercare Ahmed, magari era solo lì vicino e
per chissà quale motivo non aveva potuto raggiungere
la casa O, forse, la casa non l’aveva più trovata, si era
confuso, sì certo, quella doveva essere la spiegazione
più logica, bastava uscire a cercarlo, almeno nelle
vicinanze. Comunque, qualunque cosa sarebbe stata
meglio che restare lì, da sola, ad aspettare.

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Si sentiva male in tutto il corpo ma adesso che
poteva fare qualcosa si sentiva più forte, il senso di
confusione in testa era passato. Provò ancora ad
attaccare il bambino al seno, forse qualcosa era
riuscita a dargli, adesso lo poteva posare sul letto nel
nido che gli aveva preparato con qualche panno e
qualche coperta.
   Poi, dopo essersi più o meno vestita, era uscita sulla
strada, aveva guardato da tutte le parti, aveva iniziato
a muoversi a fatica nella vaga oscurità, un po’ a
casaccio, sempre sforzandosi di guardare e senza
azzardarsi a chiamare ad alta voce.
   Inciampò in qualcosa e cadde a terra, si poteva
vedere poco ma si accorse che erano i binari del treno.
Le sembrava di ricordare, quando erano arrivati, che
portassero in una zona più aperta e cominciò a
seguirli, camminando in mezzo alle rotaie.
   Invece si era sbagliata. Ai lati dei binari, avanzando,
si formarono man mano due ripide pareti, coperte di
erbe e un verde fitto e disordinato.
   Stava per tornare indietro quando sentì il fischio e il
rumore del treno in arrivo. Allora, velocemente, uscì
dai binari e cercò di salire sulla riva laterale,
aggrappandosi con le mani agli arbusti.
   Si accorse con spavento che la situazione era
precaria, i piedi tendevano a scivolare. Mentre il treno
passava, le mancarono le forze. Sentì cedere il
sostegno dei piedi e, dovendo spostare tutto lo sforzo
sulle mani, cedettero anche gli arbusti.
   Scivolò di lato e cadde verso i binari, cercando

                            22
disperatamente di mettersi in posizione orizzontale in
modo da cadere parallela di fianco agli stessi. Riuscì
nella manovra e si trovò distesa a terra mentre il treno
finiva il suo passaggio, ormai era l’ultimo vagone.
   Alzò la testa per vedere meglio.
   Quando lo spigolo del predellino, che sporgeva dalla
sagoma del vagone, la colpì violentemente sulla fronte
non sentì alcun dolore, non sentì nulla. Ormai, non
poteva sentire più nulla.

                           23
Il concetto di infinito si può usare
quello che non si può fare è che non si può capire

          CAPITOLO 2

               24
“Sai cosa ti dico?”, disse X0 prendendo un
tramezzino, “secondo me ad Ahmed si dovrebbe dare la
palma del miglior padre del mondo. Per sé non si
preoccupa di nulla ma per sua moglie, per il futuro
bambino, fa qualunque cosa, anche rischiando grosso.
E non gli è neppure andata bene”.
   X1 di tramezzini ne aveva già presi tre o quattro, ma
quel vernissage cominciava a stancarlo.
   Va bene le pittura contemporanea però, a tutto, ci
dovrebbe essere un limite. Un foglio bianco con una
macchia di inchiostro in un angolo e, in aggiunta,
infiniti e retorici discorsi pseudoculturali per
convincere che si tratta di provocazioni volute, di
esperimenti mai fatti in precedenza da nessuno, di
tutta una serie di circostanze che, sommate fra loro,
giustificano e anzi rendono appetibile l’acquisto
dell’opera ad un prezzo che per avere i soldi bisognava
fare un mutuo.
   Lasciò da parte il vernissage e spostò la sua
attenzione su quanto detto da X0:
   “Ahmed non mi pare proprio che meriti alcuna
medaglia. Ma ti pare? Partecipare, anche se
dall’esterno, ad una rapina in un supermercato in
un’ora di punta! Con dei coltelli! Qualcuno avrebbe
potuto farsi male”.
   “Ma no, lo sai benissimo, i coltelli erano solo di
figura, per intimorire!”.
   “Sì, intimorire! Ma tagliavano per davvero. Una
cassiera è stata male, Haashim, mentre la aggrediva,
era più spaventato di lei. Tutto questo avrebbe potuto

                           25
creare una situazione difficile, dove i coltelli….. No, no,
non si può permettere che avvengano cose del genere.
Se lo avessimo previsto quando abbiamo inventato
l’esistenza…”.
    “L’esistenza di che?”.
    “L’esistenza di tutto. E’ stato facile, no? Mettere
assieme un po’ di dimensioni, ce ne sono quante ne
vogliamo, riempire il tutto con materia ed ecco fatto”.
    “Sai benissimo che l’insieme delle dimensioni e della
materia non porta, non ha portato e non porterà da
nessuna parte. Quindi, le cose non stanno come dici.
Vedi…”.

   Giorgio spense il televisore con un clic del
telecomando, era stanco di quello che sentiva, continui
programmi sul nuovo governo e sulle magnifiche sorti
e progressive che il paese, doverosamente, doveva
attendersi.
   Martina ancora non era arrivata. Lei insegnava
matematica ed era tempo di scrutini, a volte facevano
in fretta, a volte andavano per le lunghe. Lui, invece, il
suo lavoro di avvocato lo svolgeva con orari ferrei, a
mezzogiorno faceva un intervallo di non più di tre
quarti d’ora, per un piattino al bar sotto lo studio ma
alle diciotto, se non c’erano incontri particolari,
smetteva e tornava a casa.
   C’erano sempre tante cose da fare, tante cose che
Martina gli elencava al mattino. A volte richiedevano
lavoretti di casa, a volte acquisti. Per la verità, la

                            26
maggior parte dei lavori e delle pratiche da svolgere se
le accollava lei, anche grazie ad una maggior quantità
di tempo a disposizione e una certa flessibilità degli
orari. Oltre che molto bella, era veramente brava e
Giorgio le voleva molto bene.
   Vivevano insieme da tre anni e, se non fosse stato
per il bambino non nato per le complicazioni
sopraggiunte all’ultimo momento, per di più con la
previsione di non poterne più avere, tutto sarebbe
andato benissimo. Invece.
   Sentì il rumore del portoncino che si apriva, la sentì
entrare e, istintivamente, si alzò dal divano e le andò
incontro. Martina lo guardò appena, aveva il volto
stanco e stravolto, appese qualcosa ad un
attaccapanni e posò la borsetta sulla sedia vicina. Poi
gli diede un bacio distratto e passò alle comunicazioni
ufficiali.
   “Basta, non ne posso più, Perrero non è un
insegnate, è un farabutto! Vuole a tutti i costi far
passare Esposito, farlo promuovere contro tutti e
contro tutto! Abbiamo discusso per ore. Ma io non ho
ceduto. Ma sai com’è, gli altri erano tutti contrari,
come me, ma, alla resa dei conti, si stavano tirando
indietro. Addirittura, Ferraris era disposto ad alzare la
sua insufficienza, grave, ti ripeto, grave. E trasformarla
in una sufficienza piena. Per quieto vivere! Non è
possibile…”.
   “Dai, non te la prendere. Sono cose che succedono,
non merita farsi il sangue cattivo. Stasera, se sei
d’accordo, ti volevo proporre di andare a mangiare una

                            27
pizza, c’è la nuova pizzeria, “La Siciliana”, che avevamo
detto che avremmo voluto provare”.
   “Avevamo però anche detto che la pizza è cosa
napoletana, cosa c’entra la Sicilia?”.
   “Non c’è nulla al mondo che non c’entri con la
Sicilia. La Sicilia racchiude in sé l’intero universo, ha
la risposta a tutto, ha tutto. Non hai mai sentito i
siciliani parlare della Sicilia?”.
   “No, dico davvero. Scherzi a parte. Stasera non me
la sento. Non ne ho voglia. Facciamo un altro giorno”.
   Giorgio, che si era sognato una margherita
strabordante di mozzarella, arricchita con olive e
capperi, tornò sconsolato alla televisione. La previsione
era quella di tornare a fare zapping tra un programma
e l’altro, in attesa di qualcosa per cena che Martina,
che era andata a farsi la doccia, avrebbe poi preparato.
   Nessuna possibilità, a quell’ora, di guardare una
partita, anche eventualmente non del Torino, purché
giocata bene. Lui, per convinzione personale e anche
per tradizione di famiglia, era torinista e, questo, era
motivo di continue e infinite discussioni con i colleghi
e i collaboratori, quasi tutti iuventini. Lui, anche in
questo, era ferreo: i veri torinesi tengono per il Torino.
Solo il resto del mondo era iuventino. A meno che si
trattasse di altre squadre, da considerare italiane ma,
di fatto, straniere: il Milan, il Napoli, la Roma eccetera.
   Continuò quindi lo zapping, con veloci visioni
soprattutto di scenette di pubblicità, tutte uguali fra
loro anche se tutte diverse. Non appena queste
immagini apparivano, istintivamente il pollice si

                            28
spostava sul clic: “uffa, ancora pubblicità!”. Tutto
questo anche se, proprio per evitare questi immediati
cambiamenti di canale, chi costruiva questi spot faceva
di tutto per farli sembrare, come prima impressione,
scene di un film o di un telegiornale. Si chiese, per
l’ennesima volta, come fosse possibile. Evidentemente,
l’eccesso di uso della televisione ai fini pubblicitari
aveva sviluppato negli utenti una sensibilità
particolare.
    Martina entrò con aria ancora più rabbuiata di
prima, aveva in mano una lettera. Giorgio l’aveva già
vista ma non l’aveva aperta, era indirizzata a lei e
portava il timbro del comune di Ventimiglia.
    La casa di Ventimiglia era di Martina. La lettera
veniva dal Comune. Quindi, riguardava la casa che
loro avevano abbandonato a se stessa dopo gli ultimi
furti e dopo aver scartato l’idea di continuare a
spendere soldi per la manutenzione.
    Oltretutto, la posizione vicino alla ferrovia non era la
migliore e, negli ultimi tempi, avevano trovato più
allegro andare in vacanza con amici in villaggi turistici
di vario genere, con possibilità di cambiare ogni anno,
vedere posti nuovi e nessun lavoro da fare per la
pulizia, la preparazione dei pasti e, anche,
l’organizzazione dei divertimenti.
    Martina era furibonda:
    “L’IMU, capisci? L’IMU. Non hanno accettato la
nostra denuncia come rudere abbandonato, vogliono
che paghiamo tutto! Bisogna fare ricorso!”.
    “Aspetta, guarda che la casa è veramente un rudere,

                             29
possiamo dimostrarlo. Abbiamo le fotografie, ne
possiamo fare altre, adesso sarà messa anche peggio.
Credo che sia meglio che, prima, andiamo in comune a
parlare”.
   “Andare? E quando? Io ho gli scrutini, tu sei sempre
preso dai tuoi impegni e dai tuoi incontri”.
   “Non è vero, ieri mi hai detto che domani non hai
nessuna riunione a scuola. Io, se riesco, posso
liberarmi. Possiamo partire alle sette, alle dieci
possiamo già essere là, facciamo qualche fotografia col
cellulare e andiamo in Comune”.
   “E se non ci ricevono? Non abbiamo prenotato, non
conosciamo neppure gli orari”.
   “No, gli orari sono scritti qui, sulla lettera che ti
hanno spedito. Con questa non possono non riceverci”.
   Martina non rispose, si passò le mani fra i capelli.
Aveva dei capelli bellissimi, lunghi, di colore castano
scuro che lei ravvivava con delle mèches dorate.
   “Va bene, andiamoci, ma il nervoso mi rimane
comunque. Non ho più lo spirito né la voglia di
arrabattarmi in cucina, andiamo in pizzeria, come
volevi tu”.
   Giorgio, mentalmente, inviò un ringraziamento
telepatico allo sconosciuto funzionario del comune di
Ventimiglia che, con le sue lettere provvidenziali,
permetteva ai cittadini di buona volontà di gustare le
migliori pizze del mondo e la pizza della “Siciliana”, lo
sentiva, era certamente fra le pizze migliori del mondo.

                           30
Erano in viaggio, sull’Autostrada dei Fiori, sentendo
quel po’ di radio che l’infinita sequenza di gallerie
permetteva di sentire. Parlavano poco, perché erano
entrambi stanchi e mancavano ancora venti giorni per
iniziare le ferie. Avevano deciso, con Emanuele e
Margherita, di andare in Puglia, sole e mare, pesce,
bagni e giri turistici, senza esagerare, nei dintorni.
    Forse, sarebbero potuti venire anche Matteo e Lella
e, allora, la compagnia sarebbe stata quasi al
completo. Per il momento, tuttavia, non c’era alcuna
possibilità di riposo, solo lavoro, caldo e grane a non
finire. Come questa della casa di Ventimiglia.
    Martina pensava ai soldi, al mutuo dell’alloggio, alle
incerte entrate del marito, a volte buone e anche
economicamente gratificanti ma che, in certi periodi,
sparivano. Sapeva che era un bravo avvocato, sapeva
che, indipendentemente dall’importanza e dalla
previsione di parcella, seguiva ogni pratica con tutta
l’attenzione necessaria. Ripeteva, spesso, che la
professione non è un mestiere ma un’attività di
servizio, una scelta di vita, la scelta di porre le proprie
conoscenze al servizio dei clienti, per risolvere i loro
problemi.
    Martina    comprendeva       e   apprezzava     questo
atteggiamento ma faceva parte, come donna, di una
categoria che aveva alle spalle secoli e secoli di
esperienza di vita reale e concreta, senza le impennate
utopistiche e idealistiche tipiche dei maschi e non
poteva, quindi, evitare di valutare ogni situazione,
compresa la loro vita in due, da un punto di vista

                            31
esclusivamente pratico e, in certi momenti, alcuni
interrogativi si imponevano.
   Giorgio, invece, pensava a come risolvere il
problema dell’IMU per la casa di Ventimiglia, doveva
tornare al lavoro il più presto possibile, non solo per
chiudere tutto quello che c’era da chiudere prima del
periodo feriale ma, soprattutto, per essere presente e
non perdere l’occasione di raggranellare nuovi
incarichi.
   Soprattutto, l’incarico che si stava profilando, nato
da un accenno di un cliente per il quale aveva svolto
una difesa piuttosto semplice, per il recupero di un
credito. Il nuovo incarico, invece, pare che avrebbe
potuto riguardare un appalto di notevole importanza.
Era, quindi, l’occasione che attendeva da tempo per
farsi conoscere in quel campo e non era quindi,
certamente, un’occasione di importanza secondaria.
   Intanto, erano arrivati a Ventimiglia, erano usciti
dall’autostrada e, destreggiandosi nel solito traffico di
macchine italiane e francesi, erano arrivati alla
deviazione verso la stradina lungo la ferrovia che,
rispetto al passato, si presentava ancora più
malmessa. Chissà da quanto tempo non si faceva più
un minimo di pulizia.
   Svoltarono l’ultima curva e videro la casa, sempre
uguale, sempre abbandonata, sempre con la recinzione
mezzo divelta. Provarono ad aprire il cancello, chissà
se la serratura funzionava ancora. Non funzionava.
Fecero un mezzo giro ed entrarono scavalcando la
recinzione mezzo abbattuta. Avvicinandosi all’ingresso,

                           32
videro che lo stesso era aperto completamente. Anzi,
non c’era neppure più la porta, era stata appoggiata
alla parete poco più in là, ma che era successo?
   Entrarono e non notarono nulla di particolare, se
non il fatto che la cucina pareva essere stata utilizzata
in qualche modo. Qualche vagabondo quindi era
entrato, aveva abbattuto la porta e si era installato lì,
bisognava fare attenzione, poteva essere al piano di
sopra.
   Non salirono quindi immediatamente, stettero fermi
a metà scala cercando di sentire se c’era qualche
rumore, qualche segno della presenza di qualcuno.
Nulla. Entrarono nella camera da letto, anche lì la
stanza pareva relativamente in ordine, sul letto c’era
un groviglio di panni e coperte e Giorgio, con aria
spazientita, stava per tirare via tutto.
   In quel momento sentirono, da quell’ammasso di
stoffa, un qualcosa che, incredibilmente, avrebbe
potuto somigliare al vagito di un neonato.
   Che era?
   Martina per prima si avvicinò, spostò i lembi del
plaid che emergeva dal tutto e, al di sotto, vide un
bambino, avvolto in uno straccio che a prima vista
poteva anche sembrare un piccolo lenzuolo, che
improvvisamente cominciò a lamentarsi e a piangere.
   Come mai un bambino appena nato si trovava lì?
Da quanto tempo? Perché non c’era nessuno a
sorvegliarlo? Aveva evidentemente bisogno di tutto e
non c’era niente, non c’era nessuno. Martina lo prese
in braccio e lo cullò un poco. Non sapeva cosa pensare.

                           33
O meglio, non pensava a nulla, se non a quelle che
potevano essere, in quel momento, le necessità più
importanti per il bambino.
   Tutto il tempo, e non era stato poco, che aveva
passato in attesa di avere quel figlio che poi non era
nato, era stato utilizzato per conoscere, o almeno
credere di conoscere tutto quello che c’era da sapere
sulle necessità dei bambini e, prima di tutto, dei
neonati. Tutto le tornava nella mente, in modo
prepotente.
   Giorgio le stava parlando ma lei non sentiva
neppure cosa stesse dicendo, non le importava. Le
importavano altre cose. Lo interruppe quindi con un
tono che non ammetteva né repliche, né perdite di
tempo:
   “Giorgio, subito, prendi subito un pezzo di carta e
una biro, ti detto tutto quello ti devi procurare. Subito.
Hai capito? Subito. In farmacia”.
   Giorgio non sapeva che dire, Martina non aveva mai
parlato in quel modo. Corse in macchina, prese una
biro e il taccuino che sempre portava con sé e tornò di
corsa:
   “In farmacia. Panni da neonato, tanti. Latte in
polvere, da neonato, biberon, completo di succhiotto.
Due copertine. Un cuscino e un materassino, qualcosa
di simile. Prodotti per pulirlo, lavarlo, asciugarlo.
Tutto, subito. Aspetta, ancora una cosa. Prendi uno
scaldavivande, che serva per scaldare il latte, a gas mi
raccomando, non elettrico! Prendi anche una piccola
bombola per il gas, di quelle da campeggio…. Non sai

                            34
dove trovarla? Fattelo dire, dire dove puoi trovarla!… E
vai, sei ancora lì?”.
   Giorgio aveva preso nota di tutto ma voleva dire
molte cose. Che facciamo? Chi avvertiamo? E se arriva
qualcuno? Come faccio a lasciarti qui sola? Disse tutte
queste cose in modo confuso e disordinato, ma
Martina non lo ascoltò neppure:
   “Ma vai, accidenti, bisogna fare in fretta!… Va bene,
va bene.. poi vedremo. Adesso vai, però. Vai!”.

    “Vedi”, disse X0, “il caso di Giorgio e Martina
dimostra quello che volevo dire. Noi abbiamo inventato
l’esistenza ma, se ben ti ricordi, con le dimensioni e la
materia non siamo arrivati da nessuna parte. Non
succedeva niente. Invece, mi sembra che a quei due
poveri disgraziati stia succedendo di tutto!”
    “Non dire cazzate, non sta succedendo proprio
niente. Adesso devono solo portare il piccolo, che tra
l’altro ha un po’ di fame ma sta benissimo, alla polizia
e fare la denuncia. Poi, avranno anche il tempo di
risolvere il problema dell’IMU con il Comune e
buonanotte”.
    “Vedi che non hai capito, sei tu che dici cazzate. Noi
vediamo quello che loro due non vedono. Vediamo
benissimo che, in Martina, è scattato qualcosa di
infinitamente grande, qualcosa che non ha nulla a che
fare con i metri di misura che si usano abitualmente,
qualcosa che ha a che fare con il rapporto fra una
donna e un bambino. E anche questo, se ti ricordi

                            35
bene, lo abbiamo inventato noi”.
    “Infinitamente grande, dici? Ma il concetto di
infinito sei sicuro che si possa usare?”.
    “Certo che si può usare. Quello che non si può fare
è che non si può capire. O meglio, quei due poveri
cristi non potranno mai capirlo e nessun uomo potrà
mai capirlo perché così sono stati inventati, senza la
possibilità di comprendere cose che invece, pensandoci
bene, da capire sono facilissime”.
    “Ma che dici, come si può dire che, per loro,
dovrebbe essere facile capire dove sta il termine di una
retta, un punto infinitamente lontano?
    “Ascoltami X1, le dimensioni le abbiamo inventate
noi, parlare del termine di una retta che si prolunga
all’infinito è come parlare di quanto è grande
l’universo. Come se l’universo potesse avere un
termine da qualche parte. E’ evidente che non è
possibile. L’universo è un tutt’uno con lo spazio in cui
è inserito e può anche non essere definibile con tre sole
dimensioni, può essere curvo, può essere sferico,
conico, cubico, cilindrico, piramidale, tutto quello che
vuoi… sempre infinito resta”.
    “Va bene, ma Martina…”.
    “Martina, il comportamento di Martina, è il
fondamento di tutto….”.

  Per Giorgio, non fu facile trovare tutto quello che
Martina aveva chiesto, arrivò che era mezzogiorno
passato, Martina era ancora nella stessa stanza,

                           36
sempre con il bambino in braccio.
   Quando arrivò, non disse: “finalmente!” o “era ora!”
ma, comunque, lo fece capire con lo sguardo. Cominciò
poi ad armeggiare con lo scaldavivande, sciolse il latte
in polvere, lo mescolò, lo scaldò, arrivò ad assaggiarlo
per verificare il risultato. Poi, preparato il biberon,
cercò di infilarlo nella bocca del bambino che, all’inizio,
lo rifiutò recisamente.
   Poco dopo, però, arrivatogli alla bocca il gusto e il
calore del latte, si attaccò al succhiotto come se non
volesse staccarsene più e, finalmente, il viso di Martina
divenne più normale, restando unicamente una specie
di espressione sognante. Finalmente Giorgio riuscì a
dire qualche cosa:
   “E adesso, che facciamo?”.
   Come a dire: “non possiamo restare qui, non
possiamo aspettare ancora… qualcosa dobbiamo fare!”.
   Aggiunse:
   “Oltretutto adesso è tardi, come facciamo ad
arrivare in tempo in Comune per l’IMU? Al pomeriggio
sono chiusi”:
   Martina lo guardò stupita:
   “Cosa c’entra l’IMU? Vai piuttosto in giro, cerca di
capire se qualcuno sa qualcosa… non dire che
abbiamo trovato un bambino, non cerchiamoci grane.
Solo sapere se qualcuno sa qualcosa! Chi c’era qui, se
arriverà qualcuno, chi ha visto qualcosa… insomma,
qualsiasi cosa!”.
   “Ma scusa, tanto lo sai che dobbiamo avvertire la
polizia! Cerchiamo di non perdere tempo!”.

                            37
“Sì, sì, va bene, la avvertiremo…. Intanto però cerca
di sapere qualcosa!”
    Giorgio si trovò di nuovo sulla stradina, ma non
c’era nessuno. Solo, ad un certo punto, vide arrivare
una sagoma dalla parte opposta al paese, era un uomo
massiccio, malvestito, con jeans sporchi e slabbrati sul
fondo, la barba lunga di giorni.
    Incontrandosi, passò vicino a lui senza modificare
l’andatura e l’espressione, sempre guardando avanti.
Giorgio, che sperava di essere quantomeno salutato e
di poter così in qualche modo attaccare discorso, fu
costretto a seguirlo accelerando il passo. Quando gli fu
vicino, disse:
    “Scusi..”.
    L’uomo rallentò l’andatura ma, sempre muovendosi
verso il paese, disse:
    “Sì?..”
    “Ascolti, scusi se la disturbo, noi, la mia compagna
ed io, siamo i proprietari di quella casa lì, siamo
arrivati da poche ore, abbiamo trovato aperto… Non è
che lei può dirci qualcosa?”.
    L’uomo si fermò senza guardarlo.
    “Cosa dovrei sapere?”.
    Giorgio disse:
    “Ma, veramente….”.
    Allora l’uomo si volse verso di lui e lo guardò in
faccia:
    “Senti, tu mi devi dire una cosa. Quello che vuoi che
ti dica lo dirai alla polizia?”.
    “Certamente! Devo sapere tutto il possibile! Lei sa

                           38
qualcosa?”.
   L’uomo si era rimesso in marcia verso il paese,
senza più starlo ad ascoltare. Giorgio tornò in casa,
raccontò brevemente a Martina dell’incontro e
concluse:
   “Allora, adesso andiamo alla polizia?”.
   “Aspetta un attimo, dimmi bene. Quell’uomo non ti
ha detto di non sapere nulla, ti ha solo chiesto se
saresti andato dalla polizia. Non potevi dirgli che non
ci saresti andato?”.
   “Ma cosa dici, stai scherzando!”.
   “No, aspetta, prima di tutto dobbiamo sapere… Fai
una cosa, esci di nuovo, cercalo, fallo parlare,
promettigli qualunque cosa”:
   “Ma se ne è andato! Come faccio a trovarlo?”.
   “Non credo che se ne sia andato, secondo me ti sta
prendendo in giro. Prova a cercarlo, comunque, che ti
costa? Fallo per me”.
   Giorgio, malvolentieri, uscì nuovamente e cominciò
a percorrere la stradina nel senso di prima, ma non
c’era nessuno. Solo, ad un certo punto, un ragazzo in
costume, che pedalava su una bicicletta da corsa e che
gli passò accanto velocemente. Cambiò verso,
dirigendosi verso il paese e, dopo un tratto di strada
che gli parse infinito, quando stava per rinunciare e
tornare indietro, vide l’uomo che cercava da lontano,
anche lui incamminato verso il paese, lentamente.
Allora gli corse dietro, lo raggiunse che aveva il fiatone.
   Disse subito:
   “Scusi ancora, ci siamo sentiti prima, non volevo

                            39
dire che avrei detto tutto alla polizia… non avevo
capito…”.
   L’uomo lo guardò fissamente:
   “Sentimi bene, noi non ci conosciamo e non ci siamo
mai conosciuti. Detto questo, io potrei sapere
qualcosa. Come, ad esempio, il fatto che ieri una
donna che aveva partorito da poco è stata trovata
morta investita dal treno, qui vicino. Ne parlano anche
i giornali, ma è una notizia di poco interesse, era
evidentemente una clandestina…”.
   Smise di parlare e lo guardò fissamente, come per
rendersi conto dell’effetto delle sue parole. Poi
continuò:
   “Allora, non so cosa avete trovato nella casa. Ma se
non avvertite la polizia una cosa, nel vostro interesse,
ve la posso dire. Panicelli. Panicelli, a Ventimiglia. Però
dovete dire che il suo nome ve lo ha fatto Gianmario,
altrimenti non vi dirà nulla. Panicelli, Ventimiglia”.

                            40
non c’è nessun interrogativo da porsi
 quando si ha a che fare con l’infinito

CAPITOLO 3

    41
“Quello che ti volevo dire”, disse X0, “è che nel
comportamento di Martina c’è qualcosa di infinito”.
    “Può essere, se però mi dici di cosa stai parlando”.
    “Sto parlando del fatto che, dal preciso momento in
cui ha preso in braccio il bambino, un bambino
indifeso, solo e abbandonato, la sua realtà si è
capovolta. La Martina lucida e calcolatrice di ieri si è
trasformata e la trasformazione nella nuova realtà non
è una trasformazione che può essere misurata,
calcolata, contenuta fra due estremi. Estremi non ce
ne sono, è quella, è infinitamente quella”.
    “A me è sembrata molto lucida, ad esempio quando
ha elencato a Giorgio le cose da cercare e comprare per
il bambino… anzi, molto più lucida di lui”.
    “Non c’è dubbio, è proprio così. Martina oggi vede
tutto in modo chiarissimo, non ha nessun interrogativo
da porsi, come sempre avviene quando si ha a che fare
con l’infinito. E questo, per gli uomini, dovrebbe essere
un grande insegnamento”.
    “Non sono d’accordo con te. Secondo me, bisogna
riabilitare invece l’interrogativo, il dubbio. E’ il dubbio,
la necessità e la voglia di comprendere ciò che non si è
compreso, che conta veramente. E’ questo che rende la
vita degna di essere vissuta”.
    Questa volta fu X0 a restare meditabondo:
    “Già, anche la vita….”.

   Giorgio aveva raccontato tutto, anche se in modo un
po’ confuso. Il bambino dormiva beatamente in braccio

                             42
a Martina, aveva mangiato, niente altro lo interessava.
Era un bel bambino, con tanti capelli in testa. I
lineamenti, per quanto possibile vedere in un neonato,
erano molto regolari, più di quanto non ci si aspetti
normalmente da un neonato. Non era nero.
   Martina era stata a sentire, sempre tenendo il
bambino fra le braccia.
   “Dunque, quest’uomo non se n’era andato, ti
aspettava. Sapeva. Forse era qui quando siamo
arrivati”.
   “Però…”.
   “Però ti ha chiesto di non avvertire la polizia…”.
   “Sì, mi ha chiesto di non avvertire la polizia, dicendo
che sarebbe nel nostro interesse… che vorrà dire?”
   “Giorgio, fai due più due. Anzi, fai due. Noi. Non
siamo una coppia? Arriviamo qui e cosa troviamo?
Cosa può interessare una coppia di giovani? Come è
possibile che un bambino così sano e bello sia
abbandonato?”.
   Si fermò un attimo per eliminare una piega del
lenzuolino, che si stava formando davanti alla bocca
del bambino.
   “Ma lui cosa ti ha detto? Ti ha detto, e pensava che
la cosa ci avrebbe interessato, che qui vicino una
donna è stata trovata morta, travolta dal treno. Tutto
torna, mi sembra!”.
   “Torna cosa?”.
   Martina non rispose subito, si rendeva conto che il
momento era cruciale. Giorgio non aveva ancora capito
nulla. Tutto dipendeva da lei, da quello che sarebbe

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stata capace di fare per fargli capire.
   Non “convincerlo”, “fargli capire”. Fargli capire che
lei aveva fra le braccia un bambino, come avrebbe
potuto essere suo figlio. Suo figlio che, fino a ieri,
pensava che non avrebbe mai potuto vedere. Fargli
capire che ci sono certe cose, nella vita, che contano di
più di tutto il resto, di fronte alle quali non esistono
valutazioni di convenienza o meno, non esistono altre
scelte possibili. Era così e basta.
   Lei era così e basta, il bambino lo aveva in braccio,
lo voleva, anzi, lo sentiva già suo, era disposta a
qualunque cosa. Come fare per fargli capire?
   Allora gli disse:
   “Giorgio, vienimi vicino”.
   Lui non comprese, si avvicinò un poco.
   “Allunga le braccia verso di me. Così…. Adesso
prendilo e guardalo”.
   Lui lo prese con due mani, con precauzione.
   “Cosa vuol dire tutto questo?”.
   “Giorgio, guardalo. Sono tre anni che siamo insieme.
E’ vero?”.
   “Certo”.
   “Io aspettavo un bambino, è vero?”.
   “Lo so”.
   “Era un maschio, ti ricordi?”.
   “Sì”.
   “Gli avevamo anche dato un nome, Guglielmo, il
nome di tuo padre. Ti ricordi?”.
   “Sì”.
   “Il bambino io l’ho perso”.

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