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Andrea Gianasso LA NATURA NON HA MANGIATO LA MELA
l’etica è una cosa troppo seria perché se ne possa parlare seriamente 2
la non esistenza non esiste CAPITOLO 1 3
X0 si sedette un po’ all’indietro sulla scomoda seggiola in ferro da giardino, appoggiandosi allo schienale con evidente soddisfazione. Poi, con molta calma, si accese una sigaretta e si voltò verso il bar, per vedere se fosse in arrivo il caffè. “E dai”, fece X1 che era seduto di fronte a lui, dal lato opposto del tavolino, “smettila di fumare, lo sai che fa male. Adesso qui, col nuovo governo, sembra addirittura che il fumo sarà proibito del tutto… Si sta capovolgendo tutto, anche altre cose saranno proibite che in passato non lo erano e altre, che lo erano, saranno invece…”. X0 lo guardò con calma, non era irritato del rimprovero, non era irritato mai. “Non ti capisco, X1, non ti ho capito mai. Tutto ciò che faccio, per te non va mai bene”. Aspirò voluttuosamente una boccata di fumo, poi disse: “E poi sai benissimo che, volendo, noi potremmo tranquillamente dire che questo nuovo governo non esiste. Che anche questa sigaretta non esiste”. Gettò via il mozzicone. “Facciamo che non abbiamo ancora inventato l’esistenza delle cose. E magari neanche il tempo”. X1 lo guardò con curiosità. Questa, delle invenzioni, era una delle idee fisse di X0 e, se fosse esistito il tempo, avrebbe detto che lo era da sempre. Lui non aveva nulla in contrario a confrontarsi con quell’altra parte di se stesso che era X0 ma aveva una mentalità più pratica, se si faceva qualcosa voleva 4
capire il come e il perché. Per lui, capire X0 non era possibile. Ed era giusto che così fosse. “Ascolta”, disse X0, “adesso ti dico la mia idea….”. Ahmed strisciò per uscire dalla tenda. Erano ormai tre giorni che lui e Amhina si trovavano lì, sulla spiaggia vicino a Ventimiglia e, ancora, non erano riusciti a passare la frontiera, a trovare il modo per raggiungere il loro sogno, la Francia. La Francia dove, superato il primo momento, loro sapevano che si sarebbero aperte prospettive importanti, un lavoro, la casa, i figli… che ancora non c’erano. Stavano però per arrivare. Amhina era ormai agli sgoccioli, ancora pochi giorni e, poi, anche l’idea di passare il confine potevano dimenticarla. Disperato, cominciò a chiedersi come risolvere il problema, magari accantonando per il momento la prospettiva francese. Il problema non era mangiare, nei mesi passati dopo la fuga da Damasco aveva imparato bene molte cose e, adesso, era molto bravo a rubare. Doveva assolutamente trovare un posto dove stare, al riparo dal freddo, dalla pioggia se non anche dalla neve, prima o poi l’inverno sarebbe arrivato. Rientrò nella tenda dove, su un materassino tutto sommato abbastanza comodo e al caldo sotto una montagna di plaid, Amhina ancora dormiva. La accarezzò sul viso e lasciò scorrere la mano sul ventre, teso e pieno di promesse. La svegliò dolcemente, dicendole di stare tranquilla, che sarebbe stato via un 5
po’. Lei rispose con poche parole quasi incomprensibili, forse non voleva far trasparire anche la sua preoccupazione e, dopo averlo baciato, solo un accenno di bacio, si voltò dall’altra parte come per continuare a dormire. Ahmed sapeva che così non era. Che, appena si fosse allontanato, si sarebbe alzata e avrebbe iniziato a fare quelle pochissime cose che, in una situazione come la loro, una donna poteva fare per imitare ciò che avrebbe fatto in una casa, in una vera casa: mettere in ordine per quanto possibile, lavarsi al meglio, preparare quel poco che c’era da mangiare, scambiare chiacchiere e confidenza con gli altri clandestini. Amhina aveva fiducia nel suo uomo. Così come erano arrivati fin lì, sarebbero riusciti a raggiungere la meta. Quando e come non aveva importanza, qualsiasi situazione sarebbe stata meglio di quello che avevano lasciato. Pensava a Damasco. I bombardamenti, le aggressioni e, in ultimo, la persecuzione della polizia dopo che Ahmed si era lasciato andare a dire qualcosa in più di quello che si poteva e si doveva dire. La fuga, probabilmente appena in tempo. Ahmed si era spostato nelle vicinanze, era vicino alla ferrovia. Alcuni terreni erano recintati e altri no, molti erano incolti e trascurati. Lui si muoveva cercando di non farsi notare. Aveva lasciato le dune sabbiose vicine al mare, stava attraversando una zona 6
piuttosto sporca di detriti e di immondizie abbandonate. Seguì una stradina che, tempo addietro, doveva essere stata asfaltata e, dietro ad una curva, giunse al cancello di ingresso di una casa. Oddio, una casa ma anche, in un certo senso, un rudere, era abbandonata, malconcia, alcune tegole del tetto sporgevano da quello che era rimasto della grondaia, i muri erano anneriti e mostravano i mattoni in zone che, una volta, erano probabilmente intonacate. Non riusciva a staccare lo sguardo dal portoncino di ingresso, ermeticamente chiuso e dalle finestre, malconce anch’esse e con le ante delle persiane mezzo staccate. Notò che il cortile, si capiva che a suo tempo era stato un giardino, era recintato, aveva una cancellata in ferro verso la strada ma, sui lati rimanenti, aveva una recinzione metallica che, in alcuni punti, appariva pericolante. In una zona, era stata addirittura piegata a terra, sicché era facile scavalcarla ed entrare. Così fece, senza neppure pensarci. Si avvicinò alle finestre del piano terreno, dotate di inferriate vecchie e all’apparenza non molto resistenti e, infatti, una di esse era parzialmente divelta. Qualcuno forse aveva già tentato di entrare, come adesso avrebbe potuto cercare di fare lui. Si allontanò un poco, guardò ancora tutta la casa, ne fece il giro attorno. Fermandosi davanti al portoncino, notò che era chiuso ma che il telaio, forse 7
per la vetustà o forse anche perché già sforzato in passato, era parzialmente staccato dagli stipiti e le zanche di ancoraggio apparivano anche visibili in alcune zone. Si chiese quanto avrebbe potuto ancora resistere. Poi, agendo d’impulso, prese una breve rincorsa e provò a sfondarlo con una spallata. Senza riuscirci, ma ottenendo qualche risultato. Il portoncino, prima fermo nella sua posizione, risultava ora spostabile di pochi millimetri e ancora più risultò muovibile dopo ulteriori spallate, senza però staccarsi dalla muratura. Quando capì che, comunque, non avrebbe ceduto, si sedette su una panchina in cemento sotto un traliccio metallico che, in passato, aveva probabilmente avuto le funzioni di pergolato. Guardandosi attorno vide, rovesciato per terra, un grosso vaso da fiori di quelli a ciotola, in cemento, che prima di cadere era sostenuto da un pilastrino, anch’esso in cemento, che ancora stava lì, infilato nel suo basamento. Lo prese, era molto pesante ma, a fatica, riuscì a sollevarlo. Tenendolo orizzontale, si mise ad una certa distanza dal portoncino e prese la rincorsa. Come pensava, l’urto fu violento ma il legno del portoncino resistette all’urto. Non così le zanche di ancoraggio, che si staccarono dal muro e il portoncino cadde all’indietro, lasciando aperto il vano dell’ingresso. Solo in quel momento, la frenesia che fino allora lo aveva guidato cessò improvvisamente. Ahmed si chiese se tutto il trambusto che aveva creato con le sue 8
spallate e i suoi interventi di demolizione non erano alle volte stati visti o sentiti da qualcuno, se veramente la zona era così deserta come sembrava. Non successe nulla. Dopo alcuni minuti, che a lui sembrarono lunghissimi, si fece coraggio ed entrò. C’era un piccolo ingresso su cui si affacciavano due porte e partiva una scala per il piano superiore. Le due camere erano evidentemente la camera di soggiorno e la cucina, con anche una vecchia stufa a legna, con il forno e tutto. Andò al piano di sopra, due camere da letto e un bagno. Tutto era sottosopra, come accade quando si verificano furti in una casa disabitata, ma c’erano ancora materassi, coperte, un po’ di tutto. Prese la sua decisione. Lì, Amhina poteva fare un figlio e lui, al momento, non è che avesse molte scelte possibili. “A volte mi chiedo” disse X1 “se abbiamo fatto bene a fare tutto questo. Non mi sembra che il campionario di umanità che si vede qui sia poi chissaché”. X0 e X1 erano insieme nella discoteca, la luce intermittente era fastidiosa quasi quanto il rumore assordante della musica. L’ambiente era però simpatico e i presenti, quasi tutti, anche quelli drogati, sembravano allegri. In ogni caso, avevano certamente messo da parte quelle che sono normalmente considerate le preoccupazioni della vita di tutti i giorni. X0, dopo essersi sistemato sul uno dei divanetti blu 9
di cui il locale era abbondantemente fornito, sorseggiò con aperto piacere il cuba libre che teneva in mano e sorrise: “Ma se eri d’accordo anche tu, l’esistenza e il tempo ci servono per esprimerci, cominciavo a trovare poco interessante...”. “Sarà, ma secondo me è tutto un gran casino. Intanto, abbiamo inventato l’esistenza e il tempo, ma perché metterli assieme?” “Ma no, ma no. Partiamo dall’esistenza. Per come l’abbiamo inventata, è legata al tempo, mica può farne a meno. Ed è anche la cosa più semplice ed evidente al mondo! Chi ha cercato di andare più a fondo si è solo complicato inutilmente la vita. Che senso ha dire, come ha detto qualcuno, penso dunque sono? Non ha senso, perché la non esistenza non esiste! Sono... e basta! Va bene che li abbiamo inventati noi, ma certe volte gli esseri umani mi sembrano affetti da una follia generalizzata”. X1 continuò nelle sue considerazioni personali: “E poi, che senso ha modificare quello che è semplice, l’esistenza appunto, per imporre a tutto una progressione forzata in una dimensione come il tempo, che potevamo anche benissimo fare a meno di inventarci. Così, abbiamo anche dovuto inventare gli avvenimenti, le cose che prima non erano successe ed ad un certo punto sono successe e, in questo modo, le cose si sono complicate. Guarda Ahmed, per esempio....”. 10
Nell’accampamento, si fa per dire, dei clandestini, c’era aria di mobilitazione. Qualcuno aveva lanciato l’idea di lasciar perdere il passaggio verso la Francia sulla costa e spostarsi a nord, sulle montagne. Da qualche parte esisteva un valico possibile. Da quanto avevano saputo, bisognava però trovare il modo di farsi portare almeno fino a Limone, meglio fino a Vinadio. Lì, poi, c’era Mahmoud che avrebbe potuto guidarli e fornire le giuste indicazioni. Il problema era trovare i soldi per pagare qualcuno che li trasportasse fin lì all’interno di un camion chiuso, erano circa una ventina e che li facesse uscire di notte. I soldi, quindi, bisognava assolutamente trovarli. Ahmed non partecipava a questi discorsi, non aveva tempo, sapeva che mai avrebbe potuto trascinare Amhina a scavalcare una montagna. Doveva invece cercare Chacha, solo Chacha poteva aiutarlo. La trovò intenta a fregare un panno all’interno di una tinozza semipiena di acqua di un colore indefinibile, ma Ahmed non aveva tempo per soffermarsi su queste cose. “Chacha...” disse con voce concitata e, contemporaneamente, perentoria e supplichevole, “Chacha, sai di Amhina. Devo portarla via di qui, ho trovato un posto, mi devi aiutare, la devi aiutare, solo tu lo puoi fare...”. Nessuna risposta. Chacha stava immobile, fissava assorta un punto lontano, non si poteva capire quale, 11
senza rispondere. Poi si alzò e si mise a pulire per terra, chissà perché, da pulire non c’era nulla. Ahmed la prese contemporaneamente per le due braccia, stringendole forte: “Chacha!” Yoosuf, che tacitamente aveva assunto la guida del gruppo, chiese: “Chi sa dove si possono trovare?”. Parlava dei soldi, naturalmente. Nessuno rispose. Dopo un po’, visto che nessuno parlava, parlò il piccolo Minushi che, avendo ormai otto anni, era già praticamente adulto e, dovendosi guadagnare da vivere, era andato a rubacchiare nel supermercato sullo slargo dell’Aurelia. Disse: “Alle casse del supermercato, ho visto i soldi, sono tenuti nel cassetto di sotto, nascosti, ma sono lì... tanti”. Yoosuf si grattò la nuca. Era un nero alto, atletico, forte, ispirava fiducia e, qualunque cosa avesse deciso, gli altri lo avrebbero seguito. Era inoltre abituato a decidere, subito, la vita gli aveva insegnato che i tentennamenti e i dubbi sono la peggior compagnia che si possa avere. Disse quindi, come se la proposta di un bambino di otto anni fosse una sorta di oracolo: “Bisogna fare in fretta, dobbiamo farceli dare spaventandoli. Non abbiamo armi ma possiamo fingere di averne. Qualche coltello o qualcos’altro lo troveremo. 12
Voglio cinque con me quando entreremo, saremo poco armati ma spaventeremo tutti col nostro numero. Due staranno fuori in un furgone che possiamo rubare stanotte, per entrare in azione se qualcosa non andasse come deve. Ci servirà per allontanarci subito. Il tutto deve durare pochissimo, ci siamo capiti?” Guardò tutti i presenti e nessuno fiatò. Disse: “Ahmed, tu sei capace a rubare le automobili e non dai nell’occhio, perché non sei nero. Lo farai stanotte con Ghaalib, trovate quella giusta, un furgone a più posti. Domani starai al volante mentre noi entreremo nel supermercato. Avrete la vostra parte, come tutti”. Il colpo venne programmato per l’indomani, all’ora di pranzo, per lasciare il tempo alle casse del supermercato di riempirsi di denaro. Ahmed, ora, era fermo nello slargo insieme a Ghaalib, al volante del furgone a nove posti che aveva rubato. Gli altri erano arrivati a piedi perché, se fosse giunto nel piazzale un pulmino carico di otto neri, la cosa avrebbe potuto creare una qualche agitazione. Si erano distribuiti nelle vicinanze, per familiarizzarsi con la zona in attesa dell’ora e del segnale stabilito. Pensava ad Amhina. Chacha si era limitata a dire: “Ti faccio una lista di quello che serve, tela pulita, acqua calda, asciugamani, un po’ di .... Portami da lei”. 13
L’aveva visitata nella tenda, poi aveva detto: “Bisogna fare in fretta, dov’è quel posto? Andiamoci subito”. Avevano raccattato le loro cose lasciando la tenda, oltretutto non era sua, era di Ghaalib. Avevano spiegato la situazione ai vicini di tenda che, soprattutto, avevano voluto essere rassicurati sul fatto che l’indomani lui sarebbe stato presente e avrebbe fatto quanto gli era stato richiesto. Erano poi partiti in tre, muovendosi velocemente, anche Amhina, nonostante si vedesse che faceva una certa fatica. Avevano attraversato le dune e le aree disabitate, a volte facendo dei giri dove prima era passato semplicemente scavalcando gli ostacoli. Erano finalmente giunti, stanchi, nel cortile della casa che cercavano, dove aveva spostato e appoggiato al muro la porta che aveva abbattuto, in modo da far sembrare che fosse semplicemente aperta. All’interno, Amhina aveva preso in mano la situazione esaminando tutto con attenzione. Si vedeva che aveva una sola cosa in mente, il suo sguardo passava continuamente dalla stufa al resto della cucina, come immaginandola già provvista di tutto il necessario. Al piano di sopra lei e Chacha, per prima cosa, avevano rifatto il letto, riordinando tutto il possibile. Si era chiesto come facessero le donne a fare così tante cose. Così in fretta. Allora aveva detto: “Io vado, ho l’elenco di tutto... Arrivo il prima possibile”. 14
Tutto era andato bene, tutto sarebbe andato bene. Lo vedeva come un segno di benevolenza del destino. Il figlio sarebbe nato, poi avrebbero potuto seguire gli altri in Francia, adesso non c’era tempo. Doveva procurarsi anche un po’ di soldi, erano necessari essendoci un bambino con tutte le sue esigenze. Quel giorno, però, tutto si sarebbe risolto. Aveva fiducia in Yoosuf e, anche, in se stesso. Intanto, aveva portato tutto quello che era scritto nell’elenco e, anche, da mangiare e da bere. Chacha, dopo aver predisposto tutto quanto necessario perché diceva che la cosa era più vicina di quanto loro non pensassero, si era sistemata al piano terreno, su un materasso per terra. Quella notte avevano dormito, lui e Amhina, in un letto, un vero letto che sembrava un sogno. Al mattino, dopo un veloce spuntino, si erano salutati ma, questa volta, con un abbraccio vero e un bacio vero, perché era giunto il momento. Poi, lui era andato, aveva le sue cose da fare. “Guarda Ahmed, per esempio ....”, disse X1, “guarda come il tempo gli sta modificando la vita. Ha dovuto aspettare più di otto mesi ma poi, addirittura in anticipo, è arrivata l’ora. Ha dovuto cambiare tutti i suoi programmi. E non solo lui, anche tutti i suoi compagni”. “Ma va, non gli sta capitando proprio nulla. E’ normale routine della vita”. 15
X1 divenne ancora più meditabondo: “Già, la vita. Anche quella abbiamo inventato. Però...”. “Pronto, carabinieri?” “Pronto, qui è la Stazione 12, desidera?” “Senta, mi hanno rubato la macchina, il furgone. Un furgone nove posti, l’avevo lasciato qualche minuto davanti alla stazione… senza le chiavi. Un’ora fa. Ma è sparito!” “Deve venire, può fare la denuncia, faremo le ricerche…” “Non posso, adesso non posso, ho un appuntamento che devo esserci… senta, per ora le lascio la targa”. “Mi spiace, non possiamo muoverci sulla base di una telefonata, le ripeto, venga a fare la denuncia”. “Senta, sono amico del Maresciallo Bentivoglio, ditegli che ha telefonato Marco Ranieri, lui sa chi sono…”. Tutto si svolse in pochi minuti. Yoosuf, che si trovava vicino all’ingresso del supermercato, chiamò con voce forte Lufti. Lufti non esisteva, era il segnale. In cinque si avvicinarono a lui e, quando furono vicini, Yoosuf si avviò per entrare, senza dare nell’occhio ma infilandosi in fretta, mentre entrava, una calzamaglia sulla testa. Così fecero gli altri. Si avvicinarono poi alle casse, dalla 16
parte dell’uscita e, tutti, tirarono fuori un grosso coltello, mettendolo ben in vista. Yoosuf, l’unico che parlava italiano, gridò in modo da essere sentito da tutti: “Aprite le casse! Dateci i soldi! Subito…. tutti! Se no ammazziamo tutti!”. Le cassiere, che erano tutte donne, sembrarono più stupite che spaventate, non erano nuove a situazioni del genere. Si limitarono ad aprire il tiretto della cassa ma Yoosuf, con il coltello alzato verso il viso della donna, gridò in modo che tutti sentissero: “Tutti i soldi ho detto!” e, per farsi meglio capire, sbatté forte il manico del coltello sopra il tiretto superiore che si staccò dai supporti cadendo per terra. Rimasero così in vista, nel tiretto sottostante, pacchetti di banconote, molte da cinquanta e alcune da cento. Yoosuf le prese alla rinfusa mettendosele in tasca con la mano sinistra, sempre tenendo il coltello ben in vista con l’altra mano. Le altre cassiere, adesso un po’ più spaventate, fecero scorrere il tiretto superiore e gli altri del gruppo arraffarono mazzette di banconote. Meno una, una ragazza giovane e molto spaventata che, dopo aver armeggiato un po’ in modo confuso con i tiretti, senza riuscire ad aprire quello inferiore, si mise a gridare: “Non posso! Non riesco! Sto male…!” e, cosi facendo, cadde dal sedile e si accasciò per terra. Haashim, che aveva più o meno la sua stessa età e stava di fronte a lei con il coltello, un po’ spaventato anche lui, diede a sua volta un colpo al tiretto con il 17
manico del coltello ma lo stesso non si staccò né il tiretto inferiore si aprì. Cercò, con la sinistra, di farlo aprire, senza riuscirci. Intanto, i presenti che fino a quel momento erano rimasti immobili e silenziosi, cominciarono ad agitarsi, cominciarono a sentirsi voci: “Ma che succede?”, “Insomma…”, “State fermi!”. Finché Yoosuf, per evitare problemi, si mise a lanciare urli minacciosi che, effettivamente, ottennero lo scopo di zittire e immobilizzare tutti i presenti. Poi corse verso l’uscita, seguito dagli altri. Meno uno, Haashim. Aveva cercato di afferrare soldi dalla cassa, solo quei pochi del tiretto superiore, che a loro volta caddero per terra. Si era chinato e aveva cercato di raccoglierli, fermandosi a guardare la ragazza per terra. Forse temeva che fosse morta. I cinque, Yoosuf in testa, si fermarono indecisi di fronte all’uscita, non potevano lasciarlo lì, sarebbe stato un pericolo per tutti. Yoosuf lanciò un grido in senegalese e Haashim, alzando la testa, si rese conto della situazione. Abbandonò tutto, anche il coltello e corse verso i compagni. Uscendo, secondo gli accordi, tutti si tolsero la calzamaglia e finsero di uscire normalmente, come semplici clienti del supermercato. Proprio lì di fronte avrebbero dovuto farsi trovare Ahmed e Ghaalib, con il furgone con le porte già aperte, ma non c’erano. Yoosuf, sempre in senegalese, disse semplicemente: “Via tutti!” 18
Allora, sempre secondo gli accordi, si allontanarono a piedi in fretta, ma in direzioni diverse, mescolandosi con i passanti, con la mamme con le carrozzine, con gruppetti di giovani in cerca di svago, con coppie di anziani in passeggiata. C’erano anche altri neri, come loro, ormai erano diventati abituali, non sollevavano particolare curiosità. Riuscirono, in un modo o nell’altro, ad allontanarsi, grazie, forse, proprio al fatto di non aver trovato la vettura. Infilarsi in fretta in sei, neri, sulla stessa auto, avrebbe potuto insospettire. Sul lato opposto dello slargo Ahmed e Ghaalib stavano immobili sotto gli occhi di tre carabinieri, due dei quali armati mentre il terzo, dopo aver guardato la targa, continuava a rivolgere loro domande in un linguaggio incomprensibile. Ad un certo punto arrivò un uomo di corsa, agitato, disse: “C’è stata una rapina… al supermercato… erano in sei… tutti neri!”. L’appuntato era vecchio del mestiere, due più due fa sempre quattro, fece un cenno di mettere le manette ai due. Verificò, mentre parlava concitato al cellulare, che fossero fatti salire sulla gazzella, poi corse verso il supermercato. Tutto era avvenuto in pochi minuti. Amhina sentiva in testa un grande ronzio, stava 19
male, respirava a fatica. Soprattutto, stentava a mettere ordine nei pensieri. Ahmed era andato quella mattina per recuperare i soldi, sarebbe tornato presto, glielo aveva promesso. Perché non c’era? Anche Chacha non c’era. Provò a chiamarla ma non riusciva a parlare, sentiva solo il ronzio nella testa, le parole dalla bocca non uscivano. Si abbandonò sul letto e cercò di rilassarsi. Poco per volta, a frammenti, alcune cose le tornarono alla mente. Il parto, iniziato appena dopo la partenza di Ahmed. Lei non era preoccupata ma Chacha aveva insistito per farle bere qualcosa, non sapeva cosa fosse. Tuttavia, tutto dipendeva da lei, obbedì docilmente. Poi le doglie, sempre più lunghe, sempre più forti, mentre a lei sembrava che le forze le mancassero sempre di più e, soprattutto, diventava sempre più difficile capire cosa stesse succedendo, anche se riusciva a capire i comandi di Chacha: “Spingi!” Il parto era iniziato, era dolorosissimo, sembrava non finisse mai e, quando le sembrò di sentire il vagito di un bambino, perse la conoscenza. Cos’era successo? Perché Ahmed non c’era? Perché Chacha non c’era? Mentre le forze le ritornavano e la mente poco per volta diventava più chiara, il vagito del bambino le giunse veramente all’orecchio e, senza più badare a 20
nulla, si rivolse sull’altro lato del letto, dove effettivamente il bambino c’era, era stato lavato, era bellissimo. Lo prese delicatamente, lo strinse a sé, lo accostò al petto per provare a nutrirlo già fin da subito, anche se, almeno così le sembrò, senza grandi risultati. Poi, alzatasi a fatica, iniziò a guardarsi attorno. Tutto era in ordine, evidentemente sbagliava a preoccuparsi, ogni cosa si sarebbe chiarita, doveva solo aspettare il ritorno di Ahmed, avrebbe continuato nel frattempo a curarsi del piccolo. Era pomeriggio inoltrato quando venne di nuovo presa dall’ansietà. Che Chacha non ci fosse poteva dipendere da molte cose ma Ahmed... Ahmed non poteva tardare così tanto. Allora cominciò a pensare che forse era successo qualcosa. Volle sforzarsi di pensare in positivo, volle convincersi che era solo questione di aspettare ancora un po’. Quando però altre ore furono passate, quando ormai il cielo era quasi buio e nessuno si era fatto vivo, venne presa da una sorta di disperazione e sentì di dover fare qualcosa. Doveva cercare Ahmed, magari era solo lì vicino e per chissà quale motivo non aveva potuto raggiungere la casa O, forse, la casa non l’aveva più trovata, si era confuso, sì certo, quella doveva essere la spiegazione più logica, bastava uscire a cercarlo, almeno nelle vicinanze. Comunque, qualunque cosa sarebbe stata meglio che restare lì, da sola, ad aspettare. 21
Si sentiva male in tutto il corpo ma adesso che poteva fare qualcosa si sentiva più forte, il senso di confusione in testa era passato. Provò ancora ad attaccare il bambino al seno, forse qualcosa era riuscita a dargli, adesso lo poteva posare sul letto nel nido che gli aveva preparato con qualche panno e qualche coperta. Poi, dopo essersi più o meno vestita, era uscita sulla strada, aveva guardato da tutte le parti, aveva iniziato a muoversi a fatica nella vaga oscurità, un po’ a casaccio, sempre sforzandosi di guardare e senza azzardarsi a chiamare ad alta voce. Inciampò in qualcosa e cadde a terra, si poteva vedere poco ma si accorse che erano i binari del treno. Le sembrava di ricordare, quando erano arrivati, che portassero in una zona più aperta e cominciò a seguirli, camminando in mezzo alle rotaie. Invece si era sbagliata. Ai lati dei binari, avanzando, si formarono man mano due ripide pareti, coperte di erbe e un verde fitto e disordinato. Stava per tornare indietro quando sentì il fischio e il rumore del treno in arrivo. Allora, velocemente, uscì dai binari e cercò di salire sulla riva laterale, aggrappandosi con le mani agli arbusti. Si accorse con spavento che la situazione era precaria, i piedi tendevano a scivolare. Mentre il treno passava, le mancarono le forze. Sentì cedere il sostegno dei piedi e, dovendo spostare tutto lo sforzo sulle mani, cedettero anche gli arbusti. Scivolò di lato e cadde verso i binari, cercando 22
disperatamente di mettersi in posizione orizzontale in modo da cadere parallela di fianco agli stessi. Riuscì nella manovra e si trovò distesa a terra mentre il treno finiva il suo passaggio, ormai era l’ultimo vagone. Alzò la testa per vedere meglio. Quando lo spigolo del predellino, che sporgeva dalla sagoma del vagone, la colpì violentemente sulla fronte non sentì alcun dolore, non sentì nulla. Ormai, non poteva sentire più nulla. 23
Il concetto di infinito si può usare quello che non si può fare è che non si può capire CAPITOLO 2 24
“Sai cosa ti dico?”, disse X0 prendendo un tramezzino, “secondo me ad Ahmed si dovrebbe dare la palma del miglior padre del mondo. Per sé non si preoccupa di nulla ma per sua moglie, per il futuro bambino, fa qualunque cosa, anche rischiando grosso. E non gli è neppure andata bene”. X1 di tramezzini ne aveva già presi tre o quattro, ma quel vernissage cominciava a stancarlo. Va bene le pittura contemporanea però, a tutto, ci dovrebbe essere un limite. Un foglio bianco con una macchia di inchiostro in un angolo e, in aggiunta, infiniti e retorici discorsi pseudoculturali per convincere che si tratta di provocazioni volute, di esperimenti mai fatti in precedenza da nessuno, di tutta una serie di circostanze che, sommate fra loro, giustificano e anzi rendono appetibile l’acquisto dell’opera ad un prezzo che per avere i soldi bisognava fare un mutuo. Lasciò da parte il vernissage e spostò la sua attenzione su quanto detto da X0: “Ahmed non mi pare proprio che meriti alcuna medaglia. Ma ti pare? Partecipare, anche se dall’esterno, ad una rapina in un supermercato in un’ora di punta! Con dei coltelli! Qualcuno avrebbe potuto farsi male”. “Ma no, lo sai benissimo, i coltelli erano solo di figura, per intimorire!”. “Sì, intimorire! Ma tagliavano per davvero. Una cassiera è stata male, Haashim, mentre la aggrediva, era più spaventato di lei. Tutto questo avrebbe potuto 25
creare una situazione difficile, dove i coltelli….. No, no, non si può permettere che avvengano cose del genere. Se lo avessimo previsto quando abbiamo inventato l’esistenza…”. “L’esistenza di che?”. “L’esistenza di tutto. E’ stato facile, no? Mettere assieme un po’ di dimensioni, ce ne sono quante ne vogliamo, riempire il tutto con materia ed ecco fatto”. “Sai benissimo che l’insieme delle dimensioni e della materia non porta, non ha portato e non porterà da nessuna parte. Quindi, le cose non stanno come dici. Vedi…”. Giorgio spense il televisore con un clic del telecomando, era stanco di quello che sentiva, continui programmi sul nuovo governo e sulle magnifiche sorti e progressive che il paese, doverosamente, doveva attendersi. Martina ancora non era arrivata. Lei insegnava matematica ed era tempo di scrutini, a volte facevano in fretta, a volte andavano per le lunghe. Lui, invece, il suo lavoro di avvocato lo svolgeva con orari ferrei, a mezzogiorno faceva un intervallo di non più di tre quarti d’ora, per un piattino al bar sotto lo studio ma alle diciotto, se non c’erano incontri particolari, smetteva e tornava a casa. C’erano sempre tante cose da fare, tante cose che Martina gli elencava al mattino. A volte richiedevano lavoretti di casa, a volte acquisti. Per la verità, la 26
maggior parte dei lavori e delle pratiche da svolgere se le accollava lei, anche grazie ad una maggior quantità di tempo a disposizione e una certa flessibilità degli orari. Oltre che molto bella, era veramente brava e Giorgio le voleva molto bene. Vivevano insieme da tre anni e, se non fosse stato per il bambino non nato per le complicazioni sopraggiunte all’ultimo momento, per di più con la previsione di non poterne più avere, tutto sarebbe andato benissimo. Invece. Sentì il rumore del portoncino che si apriva, la sentì entrare e, istintivamente, si alzò dal divano e le andò incontro. Martina lo guardò appena, aveva il volto stanco e stravolto, appese qualcosa ad un attaccapanni e posò la borsetta sulla sedia vicina. Poi gli diede un bacio distratto e passò alle comunicazioni ufficiali. “Basta, non ne posso più, Perrero non è un insegnate, è un farabutto! Vuole a tutti i costi far passare Esposito, farlo promuovere contro tutti e contro tutto! Abbiamo discusso per ore. Ma io non ho ceduto. Ma sai com’è, gli altri erano tutti contrari, come me, ma, alla resa dei conti, si stavano tirando indietro. Addirittura, Ferraris era disposto ad alzare la sua insufficienza, grave, ti ripeto, grave. E trasformarla in una sufficienza piena. Per quieto vivere! Non è possibile…”. “Dai, non te la prendere. Sono cose che succedono, non merita farsi il sangue cattivo. Stasera, se sei d’accordo, ti volevo proporre di andare a mangiare una 27
pizza, c’è la nuova pizzeria, “La Siciliana”, che avevamo detto che avremmo voluto provare”. “Avevamo però anche detto che la pizza è cosa napoletana, cosa c’entra la Sicilia?”. “Non c’è nulla al mondo che non c’entri con la Sicilia. La Sicilia racchiude in sé l’intero universo, ha la risposta a tutto, ha tutto. Non hai mai sentito i siciliani parlare della Sicilia?”. “No, dico davvero. Scherzi a parte. Stasera non me la sento. Non ne ho voglia. Facciamo un altro giorno”. Giorgio, che si era sognato una margherita strabordante di mozzarella, arricchita con olive e capperi, tornò sconsolato alla televisione. La previsione era quella di tornare a fare zapping tra un programma e l’altro, in attesa di qualcosa per cena che Martina, che era andata a farsi la doccia, avrebbe poi preparato. Nessuna possibilità, a quell’ora, di guardare una partita, anche eventualmente non del Torino, purché giocata bene. Lui, per convinzione personale e anche per tradizione di famiglia, era torinista e, questo, era motivo di continue e infinite discussioni con i colleghi e i collaboratori, quasi tutti iuventini. Lui, anche in questo, era ferreo: i veri torinesi tengono per il Torino. Solo il resto del mondo era iuventino. A meno che si trattasse di altre squadre, da considerare italiane ma, di fatto, straniere: il Milan, il Napoli, la Roma eccetera. Continuò quindi lo zapping, con veloci visioni soprattutto di scenette di pubblicità, tutte uguali fra loro anche se tutte diverse. Non appena queste immagini apparivano, istintivamente il pollice si 28
spostava sul clic: “uffa, ancora pubblicità!”. Tutto questo anche se, proprio per evitare questi immediati cambiamenti di canale, chi costruiva questi spot faceva di tutto per farli sembrare, come prima impressione, scene di un film o di un telegiornale. Si chiese, per l’ennesima volta, come fosse possibile. Evidentemente, l’eccesso di uso della televisione ai fini pubblicitari aveva sviluppato negli utenti una sensibilità particolare. Martina entrò con aria ancora più rabbuiata di prima, aveva in mano una lettera. Giorgio l’aveva già vista ma non l’aveva aperta, era indirizzata a lei e portava il timbro del comune di Ventimiglia. La casa di Ventimiglia era di Martina. La lettera veniva dal Comune. Quindi, riguardava la casa che loro avevano abbandonato a se stessa dopo gli ultimi furti e dopo aver scartato l’idea di continuare a spendere soldi per la manutenzione. Oltretutto, la posizione vicino alla ferrovia non era la migliore e, negli ultimi tempi, avevano trovato più allegro andare in vacanza con amici in villaggi turistici di vario genere, con possibilità di cambiare ogni anno, vedere posti nuovi e nessun lavoro da fare per la pulizia, la preparazione dei pasti e, anche, l’organizzazione dei divertimenti. Martina era furibonda: “L’IMU, capisci? L’IMU. Non hanno accettato la nostra denuncia come rudere abbandonato, vogliono che paghiamo tutto! Bisogna fare ricorso!”. “Aspetta, guarda che la casa è veramente un rudere, 29
possiamo dimostrarlo. Abbiamo le fotografie, ne possiamo fare altre, adesso sarà messa anche peggio. Credo che sia meglio che, prima, andiamo in comune a parlare”. “Andare? E quando? Io ho gli scrutini, tu sei sempre preso dai tuoi impegni e dai tuoi incontri”. “Non è vero, ieri mi hai detto che domani non hai nessuna riunione a scuola. Io, se riesco, posso liberarmi. Possiamo partire alle sette, alle dieci possiamo già essere là, facciamo qualche fotografia col cellulare e andiamo in Comune”. “E se non ci ricevono? Non abbiamo prenotato, non conosciamo neppure gli orari”. “No, gli orari sono scritti qui, sulla lettera che ti hanno spedito. Con questa non possono non riceverci”. Martina non rispose, si passò le mani fra i capelli. Aveva dei capelli bellissimi, lunghi, di colore castano scuro che lei ravvivava con delle mèches dorate. “Va bene, andiamoci, ma il nervoso mi rimane comunque. Non ho più lo spirito né la voglia di arrabattarmi in cucina, andiamo in pizzeria, come volevi tu”. Giorgio, mentalmente, inviò un ringraziamento telepatico allo sconosciuto funzionario del comune di Ventimiglia che, con le sue lettere provvidenziali, permetteva ai cittadini di buona volontà di gustare le migliori pizze del mondo e la pizza della “Siciliana”, lo sentiva, era certamente fra le pizze migliori del mondo. 30
Erano in viaggio, sull’Autostrada dei Fiori, sentendo quel po’ di radio che l’infinita sequenza di gallerie permetteva di sentire. Parlavano poco, perché erano entrambi stanchi e mancavano ancora venti giorni per iniziare le ferie. Avevano deciso, con Emanuele e Margherita, di andare in Puglia, sole e mare, pesce, bagni e giri turistici, senza esagerare, nei dintorni. Forse, sarebbero potuti venire anche Matteo e Lella e, allora, la compagnia sarebbe stata quasi al completo. Per il momento, tuttavia, non c’era alcuna possibilità di riposo, solo lavoro, caldo e grane a non finire. Come questa della casa di Ventimiglia. Martina pensava ai soldi, al mutuo dell’alloggio, alle incerte entrate del marito, a volte buone e anche economicamente gratificanti ma che, in certi periodi, sparivano. Sapeva che era un bravo avvocato, sapeva che, indipendentemente dall’importanza e dalla previsione di parcella, seguiva ogni pratica con tutta l’attenzione necessaria. Ripeteva, spesso, che la professione non è un mestiere ma un’attività di servizio, una scelta di vita, la scelta di porre le proprie conoscenze al servizio dei clienti, per risolvere i loro problemi. Martina comprendeva e apprezzava questo atteggiamento ma faceva parte, come donna, di una categoria che aveva alle spalle secoli e secoli di esperienza di vita reale e concreta, senza le impennate utopistiche e idealistiche tipiche dei maschi e non poteva, quindi, evitare di valutare ogni situazione, compresa la loro vita in due, da un punto di vista 31
esclusivamente pratico e, in certi momenti, alcuni interrogativi si imponevano. Giorgio, invece, pensava a come risolvere il problema dell’IMU per la casa di Ventimiglia, doveva tornare al lavoro il più presto possibile, non solo per chiudere tutto quello che c’era da chiudere prima del periodo feriale ma, soprattutto, per essere presente e non perdere l’occasione di raggranellare nuovi incarichi. Soprattutto, l’incarico che si stava profilando, nato da un accenno di un cliente per il quale aveva svolto una difesa piuttosto semplice, per il recupero di un credito. Il nuovo incarico, invece, pare che avrebbe potuto riguardare un appalto di notevole importanza. Era, quindi, l’occasione che attendeva da tempo per farsi conoscere in quel campo e non era quindi, certamente, un’occasione di importanza secondaria. Intanto, erano arrivati a Ventimiglia, erano usciti dall’autostrada e, destreggiandosi nel solito traffico di macchine italiane e francesi, erano arrivati alla deviazione verso la stradina lungo la ferrovia che, rispetto al passato, si presentava ancora più malmessa. Chissà da quanto tempo non si faceva più un minimo di pulizia. Svoltarono l’ultima curva e videro la casa, sempre uguale, sempre abbandonata, sempre con la recinzione mezzo divelta. Provarono ad aprire il cancello, chissà se la serratura funzionava ancora. Non funzionava. Fecero un mezzo giro ed entrarono scavalcando la recinzione mezzo abbattuta. Avvicinandosi all’ingresso, 32
videro che lo stesso era aperto completamente. Anzi, non c’era neppure più la porta, era stata appoggiata alla parete poco più in là, ma che era successo? Entrarono e non notarono nulla di particolare, se non il fatto che la cucina pareva essere stata utilizzata in qualche modo. Qualche vagabondo quindi era entrato, aveva abbattuto la porta e si era installato lì, bisognava fare attenzione, poteva essere al piano di sopra. Non salirono quindi immediatamente, stettero fermi a metà scala cercando di sentire se c’era qualche rumore, qualche segno della presenza di qualcuno. Nulla. Entrarono nella camera da letto, anche lì la stanza pareva relativamente in ordine, sul letto c’era un groviglio di panni e coperte e Giorgio, con aria spazientita, stava per tirare via tutto. In quel momento sentirono, da quell’ammasso di stoffa, un qualcosa che, incredibilmente, avrebbe potuto somigliare al vagito di un neonato. Che era? Martina per prima si avvicinò, spostò i lembi del plaid che emergeva dal tutto e, al di sotto, vide un bambino, avvolto in uno straccio che a prima vista poteva anche sembrare un piccolo lenzuolo, che improvvisamente cominciò a lamentarsi e a piangere. Come mai un bambino appena nato si trovava lì? Da quanto tempo? Perché non c’era nessuno a sorvegliarlo? Aveva evidentemente bisogno di tutto e non c’era niente, non c’era nessuno. Martina lo prese in braccio e lo cullò un poco. Non sapeva cosa pensare. 33
O meglio, non pensava a nulla, se non a quelle che potevano essere, in quel momento, le necessità più importanti per il bambino. Tutto il tempo, e non era stato poco, che aveva passato in attesa di avere quel figlio che poi non era nato, era stato utilizzato per conoscere, o almeno credere di conoscere tutto quello che c’era da sapere sulle necessità dei bambini e, prima di tutto, dei neonati. Tutto le tornava nella mente, in modo prepotente. Giorgio le stava parlando ma lei non sentiva neppure cosa stesse dicendo, non le importava. Le importavano altre cose. Lo interruppe quindi con un tono che non ammetteva né repliche, né perdite di tempo: “Giorgio, subito, prendi subito un pezzo di carta e una biro, ti detto tutto quello ti devi procurare. Subito. Hai capito? Subito. In farmacia”. Giorgio non sapeva che dire, Martina non aveva mai parlato in quel modo. Corse in macchina, prese una biro e il taccuino che sempre portava con sé e tornò di corsa: “In farmacia. Panni da neonato, tanti. Latte in polvere, da neonato, biberon, completo di succhiotto. Due copertine. Un cuscino e un materassino, qualcosa di simile. Prodotti per pulirlo, lavarlo, asciugarlo. Tutto, subito. Aspetta, ancora una cosa. Prendi uno scaldavivande, che serva per scaldare il latte, a gas mi raccomando, non elettrico! Prendi anche una piccola bombola per il gas, di quelle da campeggio…. Non sai 34
dove trovarla? Fattelo dire, dire dove puoi trovarla!… E vai, sei ancora lì?”. Giorgio aveva preso nota di tutto ma voleva dire molte cose. Che facciamo? Chi avvertiamo? E se arriva qualcuno? Come faccio a lasciarti qui sola? Disse tutte queste cose in modo confuso e disordinato, ma Martina non lo ascoltò neppure: “Ma vai, accidenti, bisogna fare in fretta!… Va bene, va bene.. poi vedremo. Adesso vai, però. Vai!”. “Vedi”, disse X0, “il caso di Giorgio e Martina dimostra quello che volevo dire. Noi abbiamo inventato l’esistenza ma, se ben ti ricordi, con le dimensioni e la materia non siamo arrivati da nessuna parte. Non succedeva niente. Invece, mi sembra che a quei due poveri disgraziati stia succedendo di tutto!” “Non dire cazzate, non sta succedendo proprio niente. Adesso devono solo portare il piccolo, che tra l’altro ha un po’ di fame ma sta benissimo, alla polizia e fare la denuncia. Poi, avranno anche il tempo di risolvere il problema dell’IMU con il Comune e buonanotte”. “Vedi che non hai capito, sei tu che dici cazzate. Noi vediamo quello che loro due non vedono. Vediamo benissimo che, in Martina, è scattato qualcosa di infinitamente grande, qualcosa che non ha nulla a che fare con i metri di misura che si usano abitualmente, qualcosa che ha a che fare con il rapporto fra una donna e un bambino. E anche questo, se ti ricordi 35
bene, lo abbiamo inventato noi”. “Infinitamente grande, dici? Ma il concetto di infinito sei sicuro che si possa usare?”. “Certo che si può usare. Quello che non si può fare è che non si può capire. O meglio, quei due poveri cristi non potranno mai capirlo e nessun uomo potrà mai capirlo perché così sono stati inventati, senza la possibilità di comprendere cose che invece, pensandoci bene, da capire sono facilissime”. “Ma che dici, come si può dire che, per loro, dovrebbe essere facile capire dove sta il termine di una retta, un punto infinitamente lontano? “Ascoltami X1, le dimensioni le abbiamo inventate noi, parlare del termine di una retta che si prolunga all’infinito è come parlare di quanto è grande l’universo. Come se l’universo potesse avere un termine da qualche parte. E’ evidente che non è possibile. L’universo è un tutt’uno con lo spazio in cui è inserito e può anche non essere definibile con tre sole dimensioni, può essere curvo, può essere sferico, conico, cubico, cilindrico, piramidale, tutto quello che vuoi… sempre infinito resta”. “Va bene, ma Martina…”. “Martina, il comportamento di Martina, è il fondamento di tutto….”. Per Giorgio, non fu facile trovare tutto quello che Martina aveva chiesto, arrivò che era mezzogiorno passato, Martina era ancora nella stessa stanza, 36
sempre con il bambino in braccio. Quando arrivò, non disse: “finalmente!” o “era ora!” ma, comunque, lo fece capire con lo sguardo. Cominciò poi ad armeggiare con lo scaldavivande, sciolse il latte in polvere, lo mescolò, lo scaldò, arrivò ad assaggiarlo per verificare il risultato. Poi, preparato il biberon, cercò di infilarlo nella bocca del bambino che, all’inizio, lo rifiutò recisamente. Poco dopo, però, arrivatogli alla bocca il gusto e il calore del latte, si attaccò al succhiotto come se non volesse staccarsene più e, finalmente, il viso di Martina divenne più normale, restando unicamente una specie di espressione sognante. Finalmente Giorgio riuscì a dire qualche cosa: “E adesso, che facciamo?”. Come a dire: “non possiamo restare qui, non possiamo aspettare ancora… qualcosa dobbiamo fare!”. Aggiunse: “Oltretutto adesso è tardi, come facciamo ad arrivare in tempo in Comune per l’IMU? Al pomeriggio sono chiusi”: Martina lo guardò stupita: “Cosa c’entra l’IMU? Vai piuttosto in giro, cerca di capire se qualcuno sa qualcosa… non dire che abbiamo trovato un bambino, non cerchiamoci grane. Solo sapere se qualcuno sa qualcosa! Chi c’era qui, se arriverà qualcuno, chi ha visto qualcosa… insomma, qualsiasi cosa!”. “Ma scusa, tanto lo sai che dobbiamo avvertire la polizia! Cerchiamo di non perdere tempo!”. 37
“Sì, sì, va bene, la avvertiremo…. Intanto però cerca di sapere qualcosa!” Giorgio si trovò di nuovo sulla stradina, ma non c’era nessuno. Solo, ad un certo punto, vide arrivare una sagoma dalla parte opposta al paese, era un uomo massiccio, malvestito, con jeans sporchi e slabbrati sul fondo, la barba lunga di giorni. Incontrandosi, passò vicino a lui senza modificare l’andatura e l’espressione, sempre guardando avanti. Giorgio, che sperava di essere quantomeno salutato e di poter così in qualche modo attaccare discorso, fu costretto a seguirlo accelerando il passo. Quando gli fu vicino, disse: “Scusi..”. L’uomo rallentò l’andatura ma, sempre muovendosi verso il paese, disse: “Sì?..” “Ascolti, scusi se la disturbo, noi, la mia compagna ed io, siamo i proprietari di quella casa lì, siamo arrivati da poche ore, abbiamo trovato aperto… Non è che lei può dirci qualcosa?”. L’uomo si fermò senza guardarlo. “Cosa dovrei sapere?”. Giorgio disse: “Ma, veramente….”. Allora l’uomo si volse verso di lui e lo guardò in faccia: “Senti, tu mi devi dire una cosa. Quello che vuoi che ti dica lo dirai alla polizia?”. “Certamente! Devo sapere tutto il possibile! Lei sa 38
qualcosa?”. L’uomo si era rimesso in marcia verso il paese, senza più starlo ad ascoltare. Giorgio tornò in casa, raccontò brevemente a Martina dell’incontro e concluse: “Allora, adesso andiamo alla polizia?”. “Aspetta un attimo, dimmi bene. Quell’uomo non ti ha detto di non sapere nulla, ti ha solo chiesto se saresti andato dalla polizia. Non potevi dirgli che non ci saresti andato?”. “Ma cosa dici, stai scherzando!”. “No, aspetta, prima di tutto dobbiamo sapere… Fai una cosa, esci di nuovo, cercalo, fallo parlare, promettigli qualunque cosa”: “Ma se ne è andato! Come faccio a trovarlo?”. “Non credo che se ne sia andato, secondo me ti sta prendendo in giro. Prova a cercarlo, comunque, che ti costa? Fallo per me”. Giorgio, malvolentieri, uscì nuovamente e cominciò a percorrere la stradina nel senso di prima, ma non c’era nessuno. Solo, ad un certo punto, un ragazzo in costume, che pedalava su una bicicletta da corsa e che gli passò accanto velocemente. Cambiò verso, dirigendosi verso il paese e, dopo un tratto di strada che gli parse infinito, quando stava per rinunciare e tornare indietro, vide l’uomo che cercava da lontano, anche lui incamminato verso il paese, lentamente. Allora gli corse dietro, lo raggiunse che aveva il fiatone. Disse subito: “Scusi ancora, ci siamo sentiti prima, non volevo 39
dire che avrei detto tutto alla polizia… non avevo capito…”. L’uomo lo guardò fissamente: “Sentimi bene, noi non ci conosciamo e non ci siamo mai conosciuti. Detto questo, io potrei sapere qualcosa. Come, ad esempio, il fatto che ieri una donna che aveva partorito da poco è stata trovata morta investita dal treno, qui vicino. Ne parlano anche i giornali, ma è una notizia di poco interesse, era evidentemente una clandestina…”. Smise di parlare e lo guardò fissamente, come per rendersi conto dell’effetto delle sue parole. Poi continuò: “Allora, non so cosa avete trovato nella casa. Ma se non avvertite la polizia una cosa, nel vostro interesse, ve la posso dire. Panicelli. Panicelli, a Ventimiglia. Però dovete dire che il suo nome ve lo ha fatto Gianmario, altrimenti non vi dirà nulla. Panicelli, Ventimiglia”. 40
non c’è nessun interrogativo da porsi quando si ha a che fare con l’infinito CAPITOLO 3 41
“Quello che ti volevo dire”, disse X0, “è che nel comportamento di Martina c’è qualcosa di infinito”. “Può essere, se però mi dici di cosa stai parlando”. “Sto parlando del fatto che, dal preciso momento in cui ha preso in braccio il bambino, un bambino indifeso, solo e abbandonato, la sua realtà si è capovolta. La Martina lucida e calcolatrice di ieri si è trasformata e la trasformazione nella nuova realtà non è una trasformazione che può essere misurata, calcolata, contenuta fra due estremi. Estremi non ce ne sono, è quella, è infinitamente quella”. “A me è sembrata molto lucida, ad esempio quando ha elencato a Giorgio le cose da cercare e comprare per il bambino… anzi, molto più lucida di lui”. “Non c’è dubbio, è proprio così. Martina oggi vede tutto in modo chiarissimo, non ha nessun interrogativo da porsi, come sempre avviene quando si ha a che fare con l’infinito. E questo, per gli uomini, dovrebbe essere un grande insegnamento”. “Non sono d’accordo con te. Secondo me, bisogna riabilitare invece l’interrogativo, il dubbio. E’ il dubbio, la necessità e la voglia di comprendere ciò che non si è compreso, che conta veramente. E’ questo che rende la vita degna di essere vissuta”. Questa volta fu X0 a restare meditabondo: “Già, anche la vita….”. Giorgio aveva raccontato tutto, anche se in modo un po’ confuso. Il bambino dormiva beatamente in braccio 42
a Martina, aveva mangiato, niente altro lo interessava. Era un bel bambino, con tanti capelli in testa. I lineamenti, per quanto possibile vedere in un neonato, erano molto regolari, più di quanto non ci si aspetti normalmente da un neonato. Non era nero. Martina era stata a sentire, sempre tenendo il bambino fra le braccia. “Dunque, quest’uomo non se n’era andato, ti aspettava. Sapeva. Forse era qui quando siamo arrivati”. “Però…”. “Però ti ha chiesto di non avvertire la polizia…”. “Sì, mi ha chiesto di non avvertire la polizia, dicendo che sarebbe nel nostro interesse… che vorrà dire?” “Giorgio, fai due più due. Anzi, fai due. Noi. Non siamo una coppia? Arriviamo qui e cosa troviamo? Cosa può interessare una coppia di giovani? Come è possibile che un bambino così sano e bello sia abbandonato?”. Si fermò un attimo per eliminare una piega del lenzuolino, che si stava formando davanti alla bocca del bambino. “Ma lui cosa ti ha detto? Ti ha detto, e pensava che la cosa ci avrebbe interessato, che qui vicino una donna è stata trovata morta, travolta dal treno. Tutto torna, mi sembra!”. “Torna cosa?”. Martina non rispose subito, si rendeva conto che il momento era cruciale. Giorgio non aveva ancora capito nulla. Tutto dipendeva da lei, da quello che sarebbe 43
stata capace di fare per fargli capire. Non “convincerlo”, “fargli capire”. Fargli capire che lei aveva fra le braccia un bambino, come avrebbe potuto essere suo figlio. Suo figlio che, fino a ieri, pensava che non avrebbe mai potuto vedere. Fargli capire che ci sono certe cose, nella vita, che contano di più di tutto il resto, di fronte alle quali non esistono valutazioni di convenienza o meno, non esistono altre scelte possibili. Era così e basta. Lei era così e basta, il bambino lo aveva in braccio, lo voleva, anzi, lo sentiva già suo, era disposta a qualunque cosa. Come fare per fargli capire? Allora gli disse: “Giorgio, vienimi vicino”. Lui non comprese, si avvicinò un poco. “Allunga le braccia verso di me. Così…. Adesso prendilo e guardalo”. Lui lo prese con due mani, con precauzione. “Cosa vuol dire tutto questo?”. “Giorgio, guardalo. Sono tre anni che siamo insieme. E’ vero?”. “Certo”. “Io aspettavo un bambino, è vero?”. “Lo so”. “Era un maschio, ti ricordi?”. “Sì”. “Gli avevamo anche dato un nome, Guglielmo, il nome di tuo padre. Ti ricordi?”. “Sì”. “Il bambino io l’ho perso”. 44
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