LE LUCI DEL TITANIC HUGH BREWSTER - TRADUZIONE DI
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Hugh Brewster LE LUCI del TITANIC Traduzione di Linda Rosaschino
Titolo originale: Gilded lives, fatal voyage © 2012 by Hugh Brewster Language rights handled by Agenzia Letteraria Internazionale, Milano, Italy Per l’immagine di copertina l’Editore resta a disposizione degli aventi diritto. Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl - Cormano (MI) I Edizione 2012 © 2012 - Edizioni Piemme Spa 20145 Milano - Via Tiziano, 32 info@edizpiemme.it - www.edizpiemme.it
Prologo Un insieme non comune Illuminata dalle luci del sottomarino la statuetta di una dea greca giaceva sul soffice fondale oceanico circon- data da pezzi di carbone, lavandini di porcellana, vas- soi d’argento, piccole finestre a filigrana, una testa di bambola in ceramica, bottiglie di champagne e molto altro ancora. Non si era mai vista un’esposizione sotto- marina di oggetti tanto bizzarri e disparati. Ma dovendo esplorare il resto dell’area del naufragio del Titanic, il sottomarino Alvin si allontanò ben presto da quel campo di detriti. All’inizio di agosto del 1986 l’esploratore Robert Ballard e la sua squadra facevano ritorno alla Woods Hole Oceanographic Institution, in Massachusetts, con al seguito chilometri di pellicola ci- nematografica e centinaia di fotografie. Per tutto l’anno successivo lavorai alla realizzazione di un libro sulla scoperta e sull’esplorazione del relitto del Titanic riu- nendo insieme le immagini e i dati del dottor Ballard. Per mia fortuna avevo al fianco Ken Marschall, il pit- tore divenuto celebre per le sue rappresentazioni del Titanic; una vera miniera d’informazioni sulla nave. Quando gli domandai della dea greca lui tirò fuori una foto del salone di prima classe, uno degli ambienti co- 9
muni più eleganti del transatlantico. Sul caminetto di marmo troneggiava fiera una statuetta identica a quella avvistata sul fondo dell’oceano. Era una riproduzione dell’Artemide di Versailles, la celebre scultura romana che per volere di Luigi XIV era stata collocata nella Grande Galerie del suo palazzo. Alla statuetta era stato riservato un posto d’onore nel salone del Titanic, che nel 1912 veniva descritto in una rivista di ingegneria navale come un luogo di particolare ricercatezza, ispi- randosi ogni dettaglio al palazzo di Versailles. L’Arte- mide del Titanic, tuttavia, era stata realizzata in una volgare lega di zinco dorato. Sul fondo dell’oceano la doratura si era corrosa ed era rimasto solo il metallo grigio e opaco. La statuetta in lega di zinco ben simbo- leggia il tramonto dell’età d’oro e la nave scintillante che l’ospitava l’ultimo baluardo di un’epoca prima del suo fatale declino. Ma il Titanic non ha perso nulla del suo splendore. Nell’anno del suo centenario è ancora ciò che Walter Lord, l’autore di Titanic, la vera storia, definì «il soggetto inaffondabile». La sua tragica vicenda ha ispirato centi- naia di libri, film e siti web, tanto da fare apparire rischio- so varare un’altra imbarcazione in acque così trafficate. Eppure, nella maggior parte dei resoconti del disastro, il Titanic è il protagonista e i passeggeri hanno semplice- mente ruoli secondari. Ma chi erano queste persone? E cosa le aveva spinte a compiere la traversata fatale? Per Lily May Futrelle, i suoi compagni di viaggio era- no «un insieme non comune di bellissime donne e di uomini brillanti». Si trattava di un gruppo di personag- gi particolari – secondo gli storici delle navi di linea nes- 10
sun altro elenco di passeggeri dell’epoca aveva mai van- tato tanti nomi illustri. Per Lady Duff Gordon, il Titanic era «un piccolo mondo in cerca di svago». E il mondo di allora era davvero più piccolo del nostro: la popola- zione degli Stati Uniti e del Canada era un terzo di quel- la di oggi, e quella della Gran Bretagna era un terzo di quella attuale, inoltre la ricchezza e il potere erano con- centrati in cerchie molto più ristrette. Chi compiva re- golarmente traversate oceaniche in prima classe trovava quasi sempre qualche conoscente a bordo. Se è innegabile che sulla nave ci fossero ricchi sfac- cendati, una nuova classe di americani che avevano case a Parigi o facevano regolarmente la traversata per tra- scorre la stagione mondana invernale a Londra o sul continente, è vero anche che molte delle cabine di pri- ma classe del Titanic erano occupate da gente di succes- so che lavorava sodo. L’artista e scrittore Frank Millet, per esempio, si recava a Washington per partecipare al progetto per il Lincoln Memorial. Il suo amico, l’assi- stente alla Casa Bianca Archie Butt, stava tornando per prepararsi a un’estenuante campagna per le presiden- ziali. Charles Hays, presidente di una compagnia ferro- viaria, era diretto in Canada per l’apertura del nuovo albergo della sua società, il Château Laurier di Ottawa. La stessa Lady Duff Gordon era una stilista inglese di successo che aveva impegni urgenti nel suo atelier di New York. Walter Lord definì l’incontro casuale di quelle personalità di spicco «uno squisito microcosmo del mondo edoardiano». In America il Titanic è spesso descritto come uno spaccato rappresentativo dell’età d’oro, l’epoca di rapi- da industrializzazione e di creazione della ricchezza ne- 11
gli Stati Uniti che ebbe inizio negli anni Settanta del xix secolo e terminò con l’introduzione delle imposte sul reddito nel 1913 e lo scoppio della Prima guerra mon- diale l’anno successivo. Il naufragio è visto talvolta co- me il campanello d’allarme per una società soddisfatta di sé che di lì a poco avrebbe conosciuto la catastrofe nelle trincee del Fronte Occidentale. Come osservò l’attrice e poetessa Blanche Oelrichs, era come se un regista avesse stabilito che dovesse esserci un piccolo segnale, un lampo d’orrore prima della rovina. Alla vigilia della pubblicazione del libro di Robert Ballard, Il ritrovamento del Titanic, nel 1987, chiesi a Walter Lord, il decano degli storici del Titanic, di scri- vere un’introduzione. Walter Lord rifletté sul fascino che il Titanic continua a esercitare e concluse: «...viene da pensare che il Titanic sia l’esempio perfet- to di qualcosa che noi tutti possiamo comprendere. La progressione di una qualsiasi tragedia che segna la nostra vita: dall’incredulità iniziale si passa a un lento e graduale disagio che culmina con la completa con- sapevolezza finale. Ognuno di noi conosce questa se- quenza e la guarda svolgersi ripetutamente sul Tita- nic, sempre al ralenti». Mentre la tragedia del Titanic si svolge ancora una volta in queste pagine, spero che gli straordinari perso- naggi che la popolano contribuiranno a illuminare un mondo allo stesso tempo lontano e vicino al nostro, e a fare comprendere ancora una volta la gravità di questo disastro epocale. 12
1 Sul molo di Cherbourg Mercoledì 10 aprile 1912, ore 15.40 Il Titanic era in ritardo. Per i passeggeri di prima classe che erano a bordo del Train Transatlantique, giunto da poco alla stazione di Cherbourg, era una vera seccatura. Il viaggio da Pa- rigi – durato sei ore – era già stato abbastanza lungo. Quanto tempo avrebbero dovuto aspettare in quella minuscola stazione annerita dalla fuliggine prima di imbarcarsi sul nuovo transatlantico della White Star al- la volta di New York? Mentre i passeggeri scendevano dal treno, sul bina- rio c’era un viavai frenetico. I facchini correvano da una parte all’altra in mezzo alla folla che si spintonava. Dei passeggeri si agitavano per il timore di aver perso i bagagli, altri discutevano su una mancia, e intanto rap- presentanti della Thomas Cook cercavano di placare gli animi di chi protestava per il ritardo. In breve, era un pandemonio. In mezzo alla confusione c’era anche Nicholas Mar- tin, il responsabile dell’ufficio parigino della White Star, giunto a Cherbourg in vesti di mediatore qualora 15
si fosse presentata una circostanza come quella. Mentre i carrelli carichi di bauli e di valige di cuoio venivano sospinti lungo il binario, lui si muoveva tra i capannelli di passeggeri irrequieti, e gesticolando animatamente gridava per richiamare l’attenzione: «Signori, vi prego di pazientare ancora un poco, il Titanic è partito in ri- tardo da Southampton, e in questo momento sta attra- versando la Manica. Le lance saranno pronte per l’im- barco non più tardi delle cinque e mezzo.» Fra i personaggi bisognosi di rassicurazioni c’era un uomo alto e magro con un paio di mustacchi neri e sul volto un’espressione spazientita. Il milionario america- no John Jacob Astor IV era il passeggero più ricco fra coloro in attesa di imbarcarsi sul Titanic, ed era anche amico del presidente della White Star Line, J. Bruce Ismay. Solo dieci settimane prima Astor e la sua giova- ne moglie, Madeleine, avevano compiuto la traversata da New York a bordo della nave gemella del Titanic, l’Olympic, in compagnia di Ismay. Astor era un cultore della puntualità e continuava a tirare fuori dalla tasca del panciotto l’orologio d’oro per sbirciare l’ora. In quell’occasione l’impazienza di Astor era dovuta alla salute malferma della moglie, incinta di diversi mesi. La preoccupazione per lei lo aveva indotto ad assumere un’infermiera che la assistesse durante il viaggio. Mar- tin fece in modo che il gruppo di Astor, che compren- deva l’infermiera, una cameriera, un cameriere e un terrier Airedale, venisse condotto rapidamente all’in- terno della stazione. Molto meno esigenti erano gli oltre cento passeggeri di terza classe, per lo più emigranti libanesi e siriani, con alcuni bulgari e croati, che si stavano docilmente 16
sistemando sulle panchine di legno accanto alle valige di vimini e alle borse di stoffa. Dopo avere lasciato i loro villaggi avevano viaggiato per giorni, e qualche ora in più faceva poca differenza. Anche per un viaggiatore esperto come il celebre ar- tista e scrittore Frank Millet i ritardi erano una cosa da prendere con filosofia. Quello che non gli andava a ge- nio era trascorrere ore interminabili in una sala d’atte- sa soffocante, assordato dalle voci squillanti degli altri americani. Come molti espatriati statunitensi, Millet aveva maturato un certo disprezzo nei confronti dei compatrioti – e delle compatriote – meno sofisticati. In particolare non sopportava quelle americane petulanti che dominavano i mariti e si portavano appresso mi- nuscoli cagnolini, come avrebbe scritto il mattino se- guente in una lettera indirizzata all’amico Alfred Par- sons. Solitamente Frank Millet non era così scontroso, era infatti noto per la squisita cortesia e il sorriso disarmante. Se quel giorno d’aprile era di cattivo umore, la colpa era da imputare alla stanchezza. Aveva appena trascor- so un mese a Roma, e per lui era stato un inferno. Come direttore della nuova American Academy of Art nella Città Eterna, Millet si era trovato a dover affrontare una miriade di difficoltà di ordine amministrativo. Negli Stati Uniti lo attendevano altri impegni. A Wa- shington il progetto di un tempio dorico per il Lincoln Memorial, a New York l’annuale riunione del consiglio d’amministrazione dell’American Academy, seguita da un viaggio nel Wisconsin, dove aveva avuto l’incarico di realizzare alcuni affreschi per la sede del governo di quello stato. Era un tour de force massacrante per un 17
uomo che avrebbe compiuto sessantasei anni in no- vembre, ma Frank Millet non si era mai accontentato di fare una cosa per volta. Era un artista, sebbene costan- temente sedotto dall’idea di esplorare altri campi della conoscenza. Per questo motivo, conduceva una vita da vagabondo. E durante il suo vagabondare, Millet aveva sviluppa- to la straordinaria abilità di trovarsi sempre al centro degli eventi più significativi della sua epoca; dalla Guer- ra Civile Americana, alla costruzione della White City per l’Esposizione di Chicago del 1893 al conflitto nelle Filippine durante la guerra ispano-americana, fino al viaggio inaugurale del Titanic. Come scrisse ironica- mente un critico d’arte, l’inerzia non era certo uno dei suoi difetti. Millet era sposato con Elizabeth “Lily” Merrill, la sorella minore di uno dei suoi compagni di classe ad Harvard. Lily era una ragazza americana molto bella, una di quelle creature sicure e determinate nei con- fronti delle quali Millet avrebbe in seguito rivelato la propria intolleranza. Al loro matrimonio uno dei testi- moni era stato Mark Twain, colui che aveva coniato la definizione di età d’oro. Nel 1885 Lily e Frank avevano fondato una colonia di artisti nel villaggio di Broadway, nel Worcestershire. Fra i personaggi che frequentavano la loro casa si con- tavano Henry James, che diede notorietà a Broadway decantandolo come un villaggio perfetto, e uno dei suoi protetti, il pittore John Singer Sargent, l’autore di un ritratto di Lily Millet, dove appare vestita con un abito bianco, uno scialle lilla e i capelli neri raccolti in nodo sul capo. Ventisei anni dopo Lily portava ancora 18
i capelli in quel modo, anche se nel frattempo si erano ingrigiti. Nell’aprile del 1912 anche Frank mostrava i segni degli anni e il suo volto, un tempo bello, ricordava un gufo gioviale. Mentre camminava lungo l’atrio piastrel- lato della stazione di Cherbourg, i suoi tratti rifletteva- no la fatica per il mese trascorso a Roma. Lily lo aveva raggiunto verso la fine del suo soggiorno nella Città Eterna. Due giorni prima erano partiti per Parigi, e da lì avevano proseguito il viaggio separatamente. In quel momento Lily doveva essere quasi arrivata a Russell House, la grande canonica di pietra dove aveva cresciu- to una figlia e due figli. Per Millet, invece, negli ultimi anni Russell House era stata più un punto d’appoggio che una vera casa. I suoi viaggi lo portavano spesso negli Stati Uniti, dove dipingeva affreschi rappresentanti figure storiche e mi- tologiche che ben si adattavano agli edifici neoclassici che stavano sorgendo nel suo paese natale. La passione dell’America per il neoclassicismo aveva raggiunto l’apice durante l’Esposizione Colombiana di Chicago del 1893 con la White City, una spettacolare serie di cupole, porticati, colonnati e logge dipinti inte- ramente di bianco e di notte illuminati da lampadine elettriche bianche. Frank Millet era l’uomo che aveva reso bianca la White City. Frank aveva anche realizzato gli affreschi per il padiglione dello stato di New York e aveva dipinto alcune grandi figure alate sul soffitto del Palazzo delle Belle Arti, che ospitava la più grande esposizione di arte americana mai vista negli Stati Uniti. Le opere d’arte americane esposte a Chicago erano all’origine dell’idea di creare un’accademia a Roma do- 19
ve gli artisti potessero studiare l’arte classica. J. Pier- pont Morgan aveva accettato di sostenere finanziaria- mente l’American Academy, ma in cambio aveva chiesto al noto architetto Charles McKim di progettare una biblioteca privata che ospitasse la sua collezione di libri e manoscritti rari. «Voglio un gioiello» aveva di- chiarato Morgan, e il progetto di McKim per la Mor- gan Library, ispirato al Rinascimento italiano, è ancora oggi uno dei tesori architettonici di New York. J.P. Morgan viaggiava molto e faceva continue acqui- sizioni per le sue collezioni, e a sessantacinque anni il suo interesse per gli affari non dava segni di declino. Fra i suoi progetti di quel periodo c’era la creazione di una grande associazione navale internazionale che rica- vasse ingenti utili dalle lucrose rotte transatlantiche. Nel giugno del 1902 aveva acquistato la prestigiosa White Star Line dalla Gran Bretagna e l’aveva fusa con altre acquisizioni nel settore navale formando una so- cietà chiamata International Mercantile Marine. Nel 1904 Morgan aveva nominato presidente il principale azionista della White Star Line, il quarantunenne J. Bru- ce Ismay, figlio del defunto fondatore della compagnia di navigazione. Il secondo azionista era Lord William J. Pirrie, 57 anni, presidente del consiglio di ammini- strazione della Harland and Wolff, la società di costru- zioni navali dalla quale uscivano le navi della White Star. Pirrie era stato il capo dei negoziatori che avevano trattato con gli uomini di Morgan e venne inserito nel consiglio di amministrazione della nuova società. Il governo britannico aveva acconsentito all’acquisi- zione della White Star da parte di Morgan, che in que- sto modo aveva fatto sfoggio del potere economico 20
americano, ma aveva anche fornito prestiti e sovvenzio- ni alla concorrente Cunard Line per la costruzione del- le navi di linea più grandi e più veloci del mondo, il Lusitania e il Mauretania – con la condizione che fosse- ro disponibili a prestare servizio in tempo di guerra. Nell’estate del 1907 il Lusitania aveva compiuto un viaggio inaugurale da record. Pirrie e Ismay non aveva- no perso tempo a progettare la risposta della White Star. Avrebbero usato il denaro di Morgan per costrui- re tre dei transatlantici più grandi e più lussuosi del mondo. Nel giro di un anno la Harland and Wolff ave- va preparato i progetti per due navi gigantesche, e a metà dicembre era stata posata la lamiera di chiglia del- la prima nave, l’Olympic. Il 31 marzo del 1909 era toc- cato alla nave gemella, che si sarebbe chiamata Titanic. Una terza nave, inizialmente chiamata Gigantic, sareb- be stata costruita in seguito. Il 31 maggio 1911 J. Bruce Ismay, Lord Pirrie e J.P. Morgan avevano presenziato alla cerimonia del varo del Titanic. La folla di più di un migliaio di spettatori aveva riconosciuto immediatamente Morgan grazie alle innumerevoli vignette apparse sui giornali, che lo rap- presentavano come il tipico riccone americano. I baffi spioventi e il grosso naso paonazzo ben si prestavano alle caricature. La cerimonia del varo era stata sobria. Non c’erano state né madrina né bottiglia di champagne infiocchet- tata. Non era nello stile della White Star. A mezzogior- no e cinque era stato sparato un razzo, seguito da altri due, e lo scafo di quasi 26.000 tonnellate era scivolato lentamente nel fiume Lagan accompagnato dall’esul- tanza della folla e dai fischi dei rimorchiatori. Una sot- 21
tile patina bianca prodotta dalle tonnellate di sego, olio di balena e sapone usati per facilitare lo scivolamento si era allargata sull’acqua quando la nave era stata arresta- ta dalle catene dell’ancora. Lo scafo del Titanic aveva cominciato a oscillare dolcemente nel fiume mentre l’Olympic, appena ultimato, attendeva poco distante. Il varo era andato secondo i piani e Lord Pirrie, estremamente compiaciuto, aveva offerto un pranzo a Morgan, Ismay e ad altri ospiti selezionati negli uffici del cantiere navale. Diverse centinaia di altri ospiti era- no stati intrattenuti al Grand Central Hotel di Belfast, dove un terzo pranzo era stato organizzato per i rap- presentanti della stampa. Al pranzo per la stampa la costruzione dei «leviatani», l’Olympic e il Titanic, era stata salutata come un esempio della vitalità e degli istinti progressisti della razza anglosassone: la «potente repubblica dell’Ovest» e il Regno Unito erano entram- be nazioni anglosassoni ed erano divenute ancora più unite grazie alla loro cooperazione. Dopo il pranzo J.P. Morgan e Bruce Ismay si erano imbarcati sull’Olympic insieme ad altri ospiti ed erano partiti per Liverpool. Esattamente sette mesi dopo, il 31 dicembre 1911, a New York, Morgan era salito di nuovo a bordo dell’Olympic, stavolta diretto a Sout- hampton. Dall’Inghilterra aveva proseguito alla volta dell’Egitto, dove aveva trascorso l’inverno in un’oasi del deserto chiamata Khargeh supervisionando gli sca- vi dei ruderi romani e di un cimitero protocristiano. A metà marzo Morgan era a Roma, e il mattino del 3 apri- le 1912 si era incontrato con Frank Millet in cima al Gianicolo per esaminare i progetti e il sito del nuovo edificio dell’American Academy. Come la Morgan Li- 22
brary, anche quel palazzo – disegnato dall’architetto Charles McKim – sarebbe stato ispirato al Rinascimen- to italiano. Il giorno successivo il finanziere si era reca- to a Firenze, dove Millet lo aveva raggiunto poco dopo, forse per dare il proprio parere di esperto sulle nuove acquisizioni di oggetti d’arte e antichità effettuate da Morgan. «Pierpont comprerebbe qualsiasi cosa, da una piramide a un dente di Maria Maddalena» aveva osser- vato una volta sua moglie. Anche Morgan aveva progettato di partecipare al viaggio inaugurale del Titanic, ma in seguito aveva cam- biato idea, preferendo soggiornare alle terme di Aix- les-Bains con la sua amante. Il 10 aprile, mentre Morgan si godeva le acque cura- tive, Millet attendeva sulla costa della Normandia l’ar- rivo della nuova nave di Morgan. Evitando gli america- ni chiassosi che affollavano la sala d’aspetto, decise di sgranchirsi le gambe dopo il lungo viaggio in treno. Di fronte alla piccola Gare Maritime dal tetto a mansarda c’erano le lance della White Star, il Traffic e il Nomadic, a bordo delle quali stavano caricando i bagagli e i sac- chi della posta. La banchina antistante la Gare Mariti- me conduceva a un lungo pontile alla cui estremità svettava un’antica torre di pietra. Era una tiepida gior- nata primaverile e le nuvole che solcavano il cielo a tratti lasciavano scorgere il sole. Frank di diresse sul pontile per vedere se all’orizzonte compariva il Titanic. Aveva bisogno di sgomberare la mente dalle meschine questioni burocratiche che tanto lo avevano oppresso a Roma. Era fermamente convinto di non voler perdere tempo con quel genere di cose, a costo di rinunciare al suo incarico. 23
Per Lily Millet sarebbe stata una grossa delusione se Frank avesse deciso di abbandonare la carica di capo dell’American Academy. Era rimasta incantata da Villa Aurelia, il palazzo cardinalizio del xvii secolo che gli era stato assegnato insieme all’incarico. Adesso che i suoi figli erano cresciuti, Lily si occupava di arreda- menti e aveva grandi progetti per la villa e i suoi giardi- ni, dai quali si dominava tutta Roma. Non le era difficile immaginare le serate tranquille che lì avrebbe trascorso durante la vecchiaia, finalmente riunita e riconciliata con il marito girovago. Anche l’amico di Frank, Archie Butt, aveva ammira- to la villa quando i due uomini vi avevano soggiornato insieme, prima dell’arrivo di Lily. Dal 1910 la base più o meno permanente di Frank era stata Washington D.C., dove aveva diviso una casa con il maggiore Archi- bald Willingham Butt, l’assistente militare del presiden- te, noto come “Archie”. Era stato Frank a persuadere Archie ad andare con lui a Roma il mese precedente e a riposarsi un po’ prima delle elezioni presidenziali che si sarebbero tenute in autunno. Il presidente Taft aveva bisogno che il suo assistente fosse in forma per l’immi- nente campagna elettorale, così aveva preparato per Archie lettere di presentazione al papa e al re d’Italia in modo che il suo viaggio avesse un’aura di ufficialità. A Roma il maggiore Butt aveva avuto accesso alle dimore più esclusive e aveva fatto tutto ciò che i medici gli ave- vano severamente vietato, ma si era rimesso ed era fi- nalmente pronto per tornare a casa. Prima di andare a trovare suo fratello in Inghilterra, il maggiore Butt si era recato in visita alle ambasciate di Berlino e di Parigi. Proprio mentre Frank lasciava Parigi a bordo del Train 24
Transatlantique, Archie era salito a bordo del Boat Train alla stazione di Waterloo per imbarcarsi sul Titanic, che sarebbe partito a mezzogiorno per Southampton. Alle cinque di quel pomeriggio, a Cherbourg, cari- cati i bagagli a bordo delle lance, i passeggeri comin- ciarono a dirigersi verso le passerelle. Per Frank fu un sollievo. Non vedeva l’ora di cenare con Archie a bor- do del Titanic e di ascoltare le sue buffe osservazioni sugli altri passeggeri. Millet aveva detto spesso di non essere un appassionato dei viaggi inaugurali: preferiva le navi i cui ufficiali e il cui equipaggio avessero mag- giore familiarità con l’imbarcazione. Ma i suoi impegni in America non potevano attendere oltre. E se la nuova nave di linea della White Star era all’altezza della pub- blicità che le era stata riservata, alla fine di quella lunga giornata avrebbe goduto di una cabina confortevole e di un’ottima cena. 25
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