LE LUCI DEL TITANIC HUGH BREWSTER - TRADUZIONE DI

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Hugh Brewster

  LE LUCI
del TITANIC
     Traduzione di
   Linda Rosaschino
Titolo originale: Gilded lives, fatal voyage
                  © 2012 by Hugh Brewster
	Language rights handled by Agenzia Letteraria Internazionale,
                  Milano, Italy

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Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl - Cormano (MI)

I Edizione 2012

© 2012 - Edizioni Piemme Spa
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Prologo

        Un insieme non comune

Illuminata dalle luci del sottomarino la statuetta di una
dea greca giaceva sul soffice fondale oceanico circon-
data da pezzi di carbone, lavandini di porcellana, vas-
soi d’argento, piccole finestre a filigrana, una testa di
bambola in ceramica, bottiglie di champagne e molto
altro ancora. Non si era mai vista un’esposizione sotto-
marina di oggetti tanto bizzarri e disparati.
   Ma dovendo esplorare il resto dell’area del naufragio
del Titanic, il sottomarino Alvin si allontanò ben presto
da quel campo di detriti. All’inizio di agosto del 1986
l’esploratore Robert Ballard e la sua squadra facevano
ritorno alla Woods Hole Oceanographic Institution, in
Massachusetts, con al seguito chilometri di pellicola ci-
nematografica e centinaia di fotografie. Per tutto l’anno
successivo lavorai alla realizzazione di un libro sulla
scoperta e sull’esplorazione del relitto del Titanic riu-
nendo insieme le immagini e i dati del dottor Ballard.
   Per mia fortuna avevo al fianco Ken Marschall, il pit-
tore divenuto celebre per le sue rappresentazioni del
Titanic; una vera miniera d’informazioni sulla nave.
Quando gli domandai della dea greca lui tirò fuori una
foto del salone di prima classe, uno degli ambienti co-

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muni più eleganti del transatlantico. Sul caminetto di
marmo troneggiava fiera una statuetta identica a quella
avvistata sul fondo dell’oceano. Era una riproduzione
dell’Artemide di Versailles, la celebre scultura romana
che per volere di Luigi XIV era stata collocata nella
Grande Galerie del suo palazzo. Alla statuetta era stato
riservato un posto d’onore nel salone del Titanic, che
nel 1912 veniva descritto in una rivista di ingegneria
navale come un luogo di particolare ricercatezza, ispi-
randosi ogni dettaglio al palazzo di Versailles. L’Arte-
mide del Titanic, tuttavia, era stata realizzata in una
volgare lega di zinco dorato. Sul fondo dell’oceano la
doratura si era corrosa ed era rimasto solo il metallo
grigio e opaco. La statuetta in lega di zinco ben simbo-
leggia il tramonto dell’età d’oro e la nave scintillante
che l’ospitava l’ultimo baluardo di un’epoca prima del
suo fatale declino.
   Ma il Titanic non ha perso nulla del suo splendore.
Nell’anno del suo centenario è ancora ciò che Walter
Lord, l’autore di Titanic, la vera storia, definì «il soggetto
inaffondabile». La sua tragica vicenda ha ispirato centi-
naia di libri, film e siti web, tanto da fare apparire rischio-
so varare un’altra imbarcazione in acque così trafficate.
Eppure, nella maggior parte dei resoconti del disastro, il
Titanic è il protagonista e i passeggeri hanno semplice-
mente ruoli secondari. Ma chi erano queste persone? E
cosa le aveva spinte a compiere la traversata fatale?

   Per Lily May Futrelle, i suoi compagni di viaggio era-
no «un insieme non comune di bellissime donne e di
uomini brillanti». Si trattava di un gruppo di personag-
gi particolari – secondo gli storici delle navi di linea nes-

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sun altro elenco di passeggeri dell’epoca aveva mai van-
tato tanti nomi illustri. Per Lady Duff Gordon, il Titanic
era «un piccolo mondo in cerca di svago». E il mondo
di allora era davvero più piccolo del nostro: la popola-
zione degli Stati Uniti e del Canada era un terzo di quel-
la di oggi, e quella della Gran Bretagna era un terzo di
quella attuale, inoltre la ricchezza e il potere erano con-
centrati in cerchie molto più ristrette. Chi compiva re-
golarmente traversate oceaniche in prima classe trovava
quasi sempre qualche conoscente a bordo.
   Se è innegabile che sulla nave ci fossero ricchi sfac-
cendati, una nuova classe di americani che avevano case
a Parigi o facevano regolarmente la traversata per tra-
scorre la stagione mondana invernale a Londra o sul
continente, è vero anche che molte delle cabine di pri-
ma classe del Titanic erano occupate da gente di succes-
so che lavorava sodo. L’artista e scrittore Frank Millet,
per esempio, si recava a Washington per partecipare al
progetto per il Lincoln Memorial. Il suo amico, l’assi-
stente alla Casa Bianca Archie Butt, stava tornando per
prepararsi a un’estenuante campagna per le presiden-
ziali. Charles Hays, presidente di una compagnia ferro-
viaria, era diretto in Canada per l’apertura del nuovo
albergo della sua società, il Château Laurier di Ottawa.
La stessa Lady Duff Gordon era una stilista inglese di
successo che aveva impegni urgenti nel suo atelier di
New York. Walter Lord definì l’incontro casuale di
quelle personalità di spicco «uno squisito microcosmo
del mondo edoardiano».
   In America il Titanic è spesso descritto come uno
spaccato rappresentativo dell’età d’oro, l’epoca di rapi-
da industrializzazione e di creazione della ricchezza ne-

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gli Stati Uniti che ebbe inizio negli anni Settanta del xix
secolo e terminò con l’introduzione delle imposte sul
reddito nel 1913 e lo scoppio della Prima guerra mon-
diale l’anno successivo. Il naufragio è visto talvolta co-
me il campanello d’allarme per una società soddisfatta
di sé che di lì a poco avrebbe conosciuto la catastrofe
nelle trincee del Fronte Occidentale. Come osservò
l’attrice e poetessa Blanche Oelrichs, era come se un
regista avesse stabilito che dovesse esserci un piccolo
segnale, un lampo d’orrore prima della rovina.
   Alla vigilia della pubblicazione del libro di Robert
Ballard, Il ritrovamento del Titanic, nel 1987, chiesi a
Walter Lord, il decano degli storici del Titanic, di scri-
vere un’introduzione. Walter Lord rifletté sul fascino
che il Titanic continua a esercitare e concluse:

  «...viene da pensare che il Titanic sia l’esempio perfet-
  to di qualcosa che noi tutti possiamo comprendere.
  La progressione di una qualsiasi tragedia che segna la
  nostra vita: dall’incredulità iniziale si passa a un lento
  e graduale disagio che culmina con la completa con-
  sapevolezza finale. Ognuno di noi conosce questa se-
  quenza e la guarda svolgersi ripetutamente sul Tita-
  nic, sempre al ralenti».

   Mentre la tragedia del Titanic si svolge ancora una
volta in queste pagine, spero che gli straordinari perso-
naggi che la popolano contribuiranno a illuminare un
mondo allo stesso tempo lontano e vicino al nostro, e a
fare comprendere ancora una volta la gravità di questo
disastro epocale.

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        Sul molo di Cherbourg

Mercoledì 10 aprile 1912, ore 15.40

Il Titanic era in ritardo.
   Per i passeggeri di prima classe che erano a bordo
del Train Transatlantique, giunto da poco alla stazione
di Cherbourg, era una vera seccatura. Il viaggio da Pa-
rigi – durato sei ore – era già stato abbastanza lungo.
Quanto tempo avrebbero dovuto aspettare in quella
minuscola stazione annerita dalla fuliggine prima di
imbarcarsi sul nuovo transatlantico della White Star al-
la volta di New York?
   Mentre i passeggeri scendevano dal treno, sul bina-
rio c’era un viavai frenetico. I facchini correvano da
una parte all’altra in mezzo alla folla che si spintonava.
Dei passeggeri si agitavano per il timore di aver perso i
bagagli, altri discutevano su una mancia, e intanto rap-
presentanti della Thomas Cook cercavano di placare
gli animi di chi protestava per il ritardo. In breve, era
un pandemonio.
   In mezzo alla confusione c’era anche Nicholas Mar-
tin, il responsabile dell’ufficio parigino della White
Star, giunto a Cherbourg in vesti di mediatore qualora

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si fosse presentata una circostanza come quella. Mentre
i carrelli carichi di bauli e di valige di cuoio venivano
sospinti lungo il binario, lui si muoveva tra i capannelli
di passeggeri irrequieti, e gesticolando animatamente
gridava per richiamare l’attenzione: «Signori, vi prego
di pazientare ancora un poco, il Titanic è partito in ri-
tardo da Southampton, e in questo momento sta attra-
versando la Manica. Le lance saranno pronte per l’im-
barco non più tardi delle cinque e mezzo.»
    Fra i personaggi bisognosi di rassicurazioni c’era un
uomo alto e magro con un paio di mustacchi neri e sul
volto un’espressione spazientita. Il milionario america-
no John Jacob Astor IV era il passeggero più ricco fra
coloro in attesa di imbarcarsi sul Titanic, ed era anche
amico del presidente della White Star Line, J. Bruce
Ismay. Solo dieci settimane prima Astor e la sua giova-
ne moglie, Madeleine, avevano compiuto la traversata
da New York a bordo della nave gemella del Titanic,
l’Olympic, in compagnia di Ismay. Astor era un cultore
della puntualità e continuava a tirare fuori dalla tasca
del panciotto l’orologio d’oro per sbirciare l’ora. In
quell’occasione l’impazienza di Astor era dovuta alla
salute malferma della moglie, incinta di diversi mesi. La
preoccupazione per lei lo aveva indotto ad assumere
un’infermiera che la assistesse durante il viaggio. Mar-
tin fece in modo che il gruppo di Astor, che compren-
deva l’infermiera, una cameriera, un cameriere e un
terrier Airedale, venisse condotto rapidamente all’in-
terno della stazione.
    Molto meno esigenti erano gli oltre cento passeggeri
di terza classe, per lo più emigranti libanesi e siriani,
con alcuni bulgari e croati, che si stavano docilmente

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sistemando sulle panchine di legno accanto alle valige
di vimini e alle borse di stoffa. Dopo avere lasciato i
loro villaggi avevano viaggiato per giorni, e qualche ora
in più faceva poca differenza.
   Anche per un viaggiatore esperto come il celebre ar-
tista e scrittore Frank Millet i ritardi erano una cosa da
prendere con filosofia. Quello che non gli andava a ge-
nio era trascorrere ore interminabili in una sala d’atte-
sa soffocante, assordato dalle voci squillanti degli altri
americani. Come molti espatriati statunitensi, Millet
aveva maturato un certo disprezzo nei confronti dei
compatrioti – e delle compatriote – meno sofisticati. In
particolare non sopportava quelle americane petulanti
che dominavano i mariti e si portavano appresso mi-
nuscoli cagnolini, come avrebbe scritto il mattino se-
guente in una lettera indirizzata all’amico Alfred Par-
sons.
   Solitamente Frank Millet non era così scontroso, era
infatti noto per la squisita cortesia e il sorriso disarmante.
Se quel giorno d’aprile era di cattivo umore, la colpa
era da imputare alla stanchezza. Aveva appena trascor-
so un mese a Roma, e per lui era stato un inferno. Come
direttore della nuova American Academy of Art nella
Città Eterna, Millet si era trovato a dover affrontare
una miriade di difficoltà di ordine amministrativo.
   Negli Stati Uniti lo attendevano altri impegni. A Wa-
shington il progetto di un tempio dorico per il Lincoln
Memorial, a New York l’annuale riunione del consiglio
d’amministrazione dell’American Academy, seguita da
un viaggio nel Wisconsin, dove aveva avuto l’incarico
di realizzare alcuni affreschi per la sede del governo di
quello stato. Era un tour de force massacrante per un

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uomo che avrebbe compiuto sessantasei anni in no-
vembre, ma Frank Millet non si era mai accontentato di
fare una cosa per volta. Era un artista, sebbene costan-
temente sedotto dall’idea di esplorare altri campi della
conoscenza. Per questo motivo, conduceva una vita da
vagabondo.
   E durante il suo vagabondare, Millet aveva sviluppa-
to la straordinaria abilità di trovarsi sempre al centro
degli eventi più significativi della sua epoca; dalla Guer-
ra Civile Americana, alla costruzione della White City
per l’Esposizione di Chicago del 1893 al conflitto nelle
Filippine durante la guerra ispano-americana, fino al
viaggio inaugurale del Titanic. Come scrisse ironica-
mente un critico d’arte, l’inerzia non era certo uno dei
suoi difetti.
   Millet era sposato con Elizabeth “Lily” Merrill, la
sorella minore di uno dei suoi compagni di classe ad
Harvard. Lily era una ragazza americana molto bella,
una di quelle creature sicure e determinate nei con-
fronti delle quali Millet avrebbe in seguito rivelato la
propria intolleranza. Al loro matrimonio uno dei testi-
moni era stato Mark Twain, colui che aveva coniato la
definizione di età d’oro.
   Nel 1885 Lily e Frank avevano fondato una colonia
di artisti nel villaggio di Broadway, nel Worcestershire.
Fra i personaggi che frequentavano la loro casa si con-
tavano Henry James, che diede notorietà a Broadway
decantandolo come un villaggio perfetto, e uno dei
suoi protetti, il pittore John Singer Sargent, l’autore di
un ritratto di Lily Millet, dove appare vestita con un
abito bianco, uno scialle lilla e i capelli neri raccolti in
nodo sul capo. Ventisei anni dopo Lily portava ancora

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i capelli in quel modo, anche se nel frattempo si erano
ingrigiti.
   Nell’aprile del 1912 anche Frank mostrava i segni
degli anni e il suo volto, un tempo bello, ricordava un
gufo gioviale. Mentre camminava lungo l’atrio piastrel-
lato della stazione di Cherbourg, i suoi tratti rifletteva-
no la fatica per il mese trascorso a Roma. Lily lo aveva
raggiunto verso la fine del suo soggiorno nella Città
Eterna. Due giorni prima erano partiti per Parigi, e da lì
avevano proseguito il viaggio separatamente. In quel
momento Lily doveva essere quasi arrivata a Russell
House, la grande canonica di pietra dove aveva cresciu-
to una figlia e due figli.
   Per Millet, invece, negli ultimi anni Russell House
era stata più un punto d’appoggio che una vera casa. I
suoi viaggi lo portavano spesso negli Stati Uniti, dove
dipingeva affreschi rappresentanti figure storiche e mi-
tologiche che ben si adattavano agli edifici neoclassici
che stavano sorgendo nel suo paese natale.
   La passione dell’America per il neoclassicismo aveva
raggiunto l’apice durante l’Esposizione Colombiana di
Chicago del 1893 con la White City, una spettacolare
serie di cupole, porticati, colonnati e logge dipinti inte-
ramente di bianco e di notte illuminati da lampadine
elettriche bianche. Frank Millet era l’uomo che aveva
reso bianca la White City. Frank aveva anche realizzato
gli affreschi per il padiglione dello stato di New York e
aveva dipinto alcune grandi figure alate sul soffitto del
Palazzo delle Belle Arti, che ospitava la più grande
esposizione di arte americana mai vista negli Stati Uniti.
   Le opere d’arte americane esposte a Chicago erano
all’origine dell’idea di creare un’accademia a Roma do-

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ve gli artisti potessero studiare l’arte classica. J. Pier-
pont Morgan aveva accettato di sostenere finanziaria-
mente l’American Academy, ma in cambio aveva
chiesto al noto architetto Charles McKim di progettare
una biblioteca privata che ospitasse la sua collezione di
libri e manoscritti rari. «Voglio un gioiello» aveva di-
chiarato Morgan, e il progetto di McKim per la Mor-
gan Library, ispirato al Rinascimento italiano, è ancora
oggi uno dei tesori architettonici di New York.
   J.P. Morgan viaggiava molto e faceva continue acqui-
sizioni per le sue collezioni, e a sessantacinque anni il
suo interesse per gli affari non dava segni di declino.
Fra i suoi progetti di quel periodo c’era la creazione di
una grande associazione navale internazionale che rica-
vasse ingenti utili dalle lucrose rotte transatlantiche.
Nel giugno del 1902 aveva acquistato la prestigiosa
White Star Line dalla Gran Bretagna e l’aveva fusa con
altre acquisizioni nel settore navale formando una so-
cietà chiamata International Mercantile Marine. Nel
1904 Morgan aveva nominato presidente il principale
azionista della White Star Line, il quarantunenne J. Bru-
ce Ismay, figlio del defunto fondatore della compagnia
di navigazione. Il secondo azionista era Lord William
J. Pirrie, 57 anni, presidente del consiglio di ammini-
strazione della Harland and Wolff, la società di costru-
zioni navali dalla quale uscivano le navi della White
Star. Pirrie era stato il capo dei negoziatori che avevano
trattato con gli uomini di Morgan e venne inserito nel
consiglio di amministrazione della nuova società.
   Il governo britannico aveva acconsentito all’acquisi-
zione della White Star da parte di Morgan, che in que-
sto modo aveva fatto sfoggio del potere economico

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americano, ma aveva anche fornito prestiti e sovvenzio-
ni alla concorrente Cunard Line per la costruzione del-
le navi di linea più grandi e più veloci del mondo, il
Lusitania e il Mauretania – con la condizione che fosse-
ro disponibili a prestare servizio in tempo di guerra.
Nell’estate del 1907 il Lusitania aveva compiuto un
viaggio inaugurale da record. Pirrie e Ismay non aveva-
no perso tempo a progettare la risposta della White
Star. Avrebbero usato il denaro di Morgan per costrui-
re tre dei transatlantici più grandi e più lussuosi del
mondo. Nel giro di un anno la Harland and Wolff ave-
va preparato i progetti per due navi gigantesche, e a
metà dicembre era stata posata la lamiera di chiglia del-
la prima nave, l’Olympic. Il 31 marzo del 1909 era toc-
cato alla nave gemella, che si sarebbe chiamata Titanic.
Una terza nave, inizialmente chiamata Gigantic, sareb-
be stata costruita in seguito.
   Il 31 maggio 1911 J. Bruce Ismay, Lord Pirrie e J.P.
Morgan avevano presenziato alla cerimonia del varo
del Titanic. La folla di più di un migliaio di spettatori
aveva riconosciuto immediatamente Morgan grazie alle
innumerevoli vignette apparse sui giornali, che lo rap-
presentavano come il tipico riccone americano. I baffi
spioventi e il grosso naso paonazzo ben si prestavano
alle caricature.
   La cerimonia del varo era stata sobria. Non c’erano
state né madrina né bottiglia di champagne infiocchet-
tata. Non era nello stile della White Star. A mezzogior-
no e cinque era stato sparato un razzo, seguito da altri
due, e lo scafo di quasi 26.000 tonnellate era scivolato
lentamente nel fiume Lagan accompagnato dall’esul-
tanza della folla e dai fischi dei rimorchiatori. Una sot-

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tile patina bianca prodotta dalle tonnellate di sego, olio
di balena e sapone usati per facilitare lo scivolamento si
era allargata sull’acqua quando la nave era stata arresta-
ta dalle catene dell’ancora. Lo scafo del Titanic aveva
cominciato a oscillare dolcemente nel fiume mentre
l’Olympic, appena ultimato, attendeva poco distante.
   Il varo era andato secondo i piani e Lord Pirrie,
estremamente compiaciuto, aveva offerto un pranzo a
Morgan, Ismay e ad altri ospiti selezionati negli uffici
del cantiere navale. Diverse centinaia di altri ospiti era-
no stati intrattenuti al Grand Central Hotel di Belfast,
dove un terzo pranzo era stato organizzato per i rap-
presentanti della stampa. Al pranzo per la stampa la
costruzione dei «leviatani», l’Olympic e il Titanic, era
stata salutata come un esempio della vitalità e degli
istinti progressisti della razza anglosassone: la «potente
repubblica dell’Ovest» e il Regno Unito erano entram-
be nazioni anglosassoni ed erano divenute ancora più
unite grazie alla loro cooperazione.
   Dopo il pranzo J.P. Morgan e Bruce Ismay si erano
imbarcati sull’Olympic insieme ad altri ospiti ed erano
partiti per Liverpool. Esattamente sette mesi dopo, il
31 dicembre 1911, a New York, Morgan era salito di
nuovo a bordo dell’Olympic, stavolta diretto a Sout-
hampton. Dall’Inghilterra aveva proseguito alla volta
dell’Egitto, dove aveva trascorso l’inverno in un’oasi
del deserto chiamata Khargeh supervisionando gli sca-
vi dei ruderi romani e di un cimitero protocristiano. A
metà marzo Morgan era a Roma, e il mattino del 3 apri-
le 1912 si era incontrato con Frank Millet in cima al
Gianicolo per esaminare i progetti e il sito del nuovo
edificio dell’American Academy. Come la Morgan Li-

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brary, anche quel palazzo – disegnato dall’architetto
Charles McKim – sarebbe stato ispirato al Rinascimen-
to italiano. Il giorno successivo il finanziere si era reca-
to a Firenze, dove Millet lo aveva raggiunto poco dopo,
forse per dare il proprio parere di esperto sulle nuove
acquisizioni di oggetti d’arte e antichità effettuate da
Morgan. «Pierpont comprerebbe qualsiasi cosa, da una
piramide a un dente di Maria Maddalena» aveva osser-
vato una volta sua moglie.
   Anche Morgan aveva progettato di partecipare al
viaggio inaugurale del Titanic, ma in seguito aveva cam-
biato idea, preferendo soggiornare alle terme di Aix-
les-Bains con la sua amante.
   Il 10 aprile, mentre Morgan si godeva le acque cura-
tive, Millet attendeva sulla costa della Normandia l’ar-
rivo della nuova nave di Morgan. Evitando gli america-
ni chiassosi che affollavano la sala d’aspetto, decise di
sgranchirsi le gambe dopo il lungo viaggio in treno. Di
fronte alla piccola Gare Maritime dal tetto a mansarda
c’erano le lance della White Star, il Traffic e il Nomadic,
a bordo delle quali stavano caricando i bagagli e i sac-
chi della posta. La banchina antistante la Gare Mariti-
me conduceva a un lungo pontile alla cui estremità
svettava un’antica torre di pietra. Era una tiepida gior-
nata primaverile e le nuvole che solcavano il cielo a
tratti lasciavano scorgere il sole. Frank di diresse sul
pontile per vedere se all’orizzonte compariva il Titanic.
Aveva bisogno di sgomberare la mente dalle meschine
questioni burocratiche che tanto lo avevano oppresso a
Roma. Era fermamente convinto di non voler perdere
tempo con quel genere di cose, a costo di rinunciare al
suo incarico.

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Per Lily Millet sarebbe stata una grossa delusione se
Frank avesse deciso di abbandonare la carica di capo
dell’American Academy. Era rimasta incantata da Villa
Aurelia, il palazzo cardinalizio del xvii secolo che gli
era stato assegnato insieme all’incarico. Adesso che i
suoi figli erano cresciuti, Lily si occupava di arreda-
menti e aveva grandi progetti per la villa e i suoi giardi-
ni, dai quali si dominava tutta Roma. Non le era difficile
immaginare le serate tranquille che lì avrebbe trascorso
durante la vecchiaia, finalmente riunita e riconciliata
con il marito girovago.
   Anche l’amico di Frank, Archie Butt, aveva ammira-
to la villa quando i due uomini vi avevano soggiornato
insieme, prima dell’arrivo di Lily. Dal 1910 la base più
o meno permanente di Frank era stata Washington
D.C., dove aveva diviso una casa con il maggiore Archi-
bald Willingham Butt, l’assistente militare del presiden-
te, noto come “Archie”. Era stato Frank a persuadere
Archie ad andare con lui a Roma il mese precedente e a
riposarsi un po’ prima delle elezioni presidenziali che si
sarebbero tenute in autunno. Il presidente Taft aveva
bisogno che il suo assistente fosse in forma per l’immi-
nente campagna elettorale, così aveva preparato per
Archie lettere di presentazione al papa e al re d’Italia in
modo che il suo viaggio avesse un’aura di ufficialità. A
Roma il maggiore Butt aveva avuto accesso alle dimore
più esclusive e aveva fatto tutto ciò che i medici gli ave-
vano severamente vietato, ma si era rimesso ed era fi-
nalmente pronto per tornare a casa. Prima di andare a
trovare suo fratello in Inghilterra, il maggiore Butt si era
recato in visita alle ambasciate di Berlino e di Parigi.
Proprio mentre Frank lasciava Parigi a bordo del Train

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Transatlantique, Archie era salito a bordo del Boat Train
alla stazione di Waterloo per imbarcarsi sul Titanic, che
sarebbe partito a mezzogiorno per Southampton.
   Alle cinque di quel pomeriggio, a Cherbourg, cari-
cati i bagagli a bordo delle lance, i passeggeri comin-
ciarono a dirigersi verso le passerelle. Per Frank fu un
sollievo. Non vedeva l’ora di cenare con Archie a bor-
do del Titanic e di ascoltare le sue buffe osservazioni
sugli altri passeggeri. Millet aveva detto spesso di non
essere un appassionato dei viaggi inaugurali: preferiva
le navi i cui ufficiali e il cui equipaggio avessero mag-
giore familiarità con l’imbarcazione. Ma i suoi impegni
in America non potevano attendere oltre. E se la nuova
nave di linea della White Star era all’altezza della pub-
blicità che le era stata riservata, alla fine di quella lunga
giornata avrebbe goduto di una cabina confortevole e
di un’ottima cena.

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