La Grande Depressione degli anni '30 - Carlo Massa scuola

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La Grande Depressione degli anni '30 - Carlo Massa scuola
La Grande Depressione degli anni ‘30

     0) Premessa.
In queste pagine, dopo una descrizione dei fatti sostanzialmente in linea con quanto in genere viene
proposto dai libri scolastici (tant’è che sono sicuro non contraddirà quanto avete letto sul vostro di storia), troverete
una loro interpretazione che, invece, è ancora raramente riportata dai testi delle superiori
nonostante da qualche decennio sia sempre più condivisa dagli storici dell’economia e ormai sia
prevalente fra gli esperti dell’argomento.
Già sapete della maggior “debolezza” delle scienze sociali (economia, sociologia ecc.) rispetto a quelle
“dure” (fisica, chimica, biologia ecc.): per le prime è molto più difficile provare sperimentalmente la fallacia
(= falsità) delle teorie [se sostengo che diminuendo la pressione dell’aria la temperatura di ebollizione dell’acqua si alza, chiunque può
facilmente verificare che l’asserzione è sbagliata (è sufficiente una pentola a pressione e verificare i tempi di cottura); assai più problematico, invece, è
verificare la falsità dell’idea che diminuendo la durata legale dei brevetti le spese per ricerca e studi aumentano). Ecco, allora,
che mentre più nessuno dubita che la luce viaggi sempre a (circa) 300.000 km/s, assai spesso invece
capita che una vicenda economica sia interpretata e spiegata in più di un modo e nessuno possa
onestamente essere certo di quale sia quello più corretto, così che posizioni decisamente diverse
continuano a coesistere anche per lunghissimo tempo perfino all’interno della cerchia degli
studiosi più competenti.
Chi, come me, è un’orecchiante di economia e di storia economica, col tempo si fa comunque
una sua idea del perché le vicende storiche si sono svolte in un certo modo, ed è inevitabile che
questa sua idea sia influenzata dal sentirsi più vicino a una o all’altra delle due categorie in cui
l’economista Sergio Ricossa ha insegnato a suddividere i pensatori sociali: i “perfettisti” (come
Bentham, Marx e Keynes), convinti che l’uomo possa superare ogni proprio limite e che la Ragione
sia in condizione di governare il mondo, e gli “imperfettisti” (come Smith, Shumpeter e Hayek), certi
che l’uomo mai risolverà il problema della scarsità e che ogni tentativo per farlo e giungere così
alla perfezione sociale porti verso grandi guai e sofferenze.
Non dovete fraintendere il fine di queste pagine: non intendo portarvi verso il mio radicato
imperfettismo e convincervi così della preferibilità del “mercato” e del suo processo di
regolazione della società “bottom-up” rispetto al “piano” col suo processo inverso “top-down”; e
certamente non voglio sostenere che il libero mercato sia perfetto e lo stato sia sempre inutile.
Questa posizione, piuttosto irragionevole, fa il paio con l’altra, opposta e totalmente folle, di chi
pensa (come l’ex commissario all’emergenza Covid Domenico Arcuri) che la direzione e regolazione pubblica
dell’azione economica sia comunque da preferire alle libere decisioni individuali.
La mia sola intenzione è analizzare per voi (senza troppi particolari tecnici per non annoiarvi troppo, sempre ammesso che
mi leggiate) la crisi più famosa della contemporaneità alla luce delle mie conoscenze e sulla base delle
idee che ritengo meglio spieghino i fatti economici-finanziari-monetari del passato e del presente.
Se, col tempo, approfondirete gli studi economici e storici e vi appassionerete all’argomento,
avrete allora il diritto di valutare quale delle interpretazioni dei fatti vi sembra più verosimile;
se, invece, vi dedicherete ad altre cose, allora vi prego di non sposare alcuna posizione ma, al
contrario, di rimanere umilmente nel dubbio, così che alle domande “la Crisi del ’29 fu il frutto di un
fallimento del mercato o di errate scelte della politica?” e “la politica economica dell’amministrazione
Roosewelt risollevò gli USA dalla Grande Depressione oppure ne prolungò la durata?” l’unica risposta che
dovrete dare è “non mi esprimo, ne so troppo poco! So solo che queste questioni sono ancora dibattute”.
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1) Qualche dato (più in generale)
Uno degli gli errori più gravi che si commettono quando in un testo si inseriscono delle tabelle
di dati o dei grafici è quello di non citarne la fonte, ed è esattamente ciò che farò in un paio di
casi. I motivi che mi spingono a non sempre rispettare questa regola basilare sono principalmente:
- perché alcuni dati sono frutto di un mio assemblaggio di varie fonti, e riportarle tutte mi scoccia;
- perché vorrei stimolarvi a verificarne la correttezza andando voi a cercarne altri per confrontarli
  con quelli da me proposti, magari per poi contestarli;
- perché se farete qualche ricerca probabilmente troverete informazioni espresse in altri modi, e
  così dovrete elaborarle affinché diventino confrontabili con i dati riportati da me, quasi sempre
  nella forma di “numeri indici” (cioè non di dati assoluti bensì relativi); così facendo, vi eserciterete e
  migliorerete la vostra capacità di maneggiare la statistica descrittiva.

                                     Nota alla lettura di tabelle e grafici
L’attendibilità dei dati economici diminuisce sempre più man mano il fenomeno che si vuole
descrivere si allontana nel passato (la qualità dei dati migliora perché col tempo l’interesse e le tecniche nell’annotare i
fatti economici si sono gradualmente consolidati), cosicché valori di grandezze come il PIL pro capite o i
volumi di commercio internazionale sono altamente affidabili se riguardano gli ultimi decenni,
lo sono già meno quando si tratta della prima metà del secolo scorso, per farsi sempre più
incerti arretrando nei secoli fino a diventare esercizi piuttosto arditi per il primo millennio e
quasi senza alcun senso per i millenni precedenti.
Ecco, allora, che leggendo ad esempio la tabella 1 (frutto di elaborazioni basate su di un noto e impegnativo lavoro
dell’economista inglese Angus Maddison) possiamo ampiamente fidarci solo delle ultime tre o quattro
colonne (anni dal 1960 al 2016) ma non dobbiamo stupirci se altri studi ugualmente seri mostrano
per l’anno 1913 valori che si discostano anche del 10% da quelli proposti da Maddison; se poi
indietreggiamo al 1700 allora l’intervallo di confidenza si fa ancor più ampio, stimabile in un +/-
20% per arrivare anche a circa un +/- 40% quando si tratta dei secoli precedenti.
Per quanto i dati “assoluti” siano incerti, il loro confronto (e cioè i dati “relativi”, ad esempio il rapporto fra
i PIL pro capite dell’Italia e della Gran Bretagna alla fine del 15° secolo) è molto più attendibile: i 3.030 $ (in
potere d’acquisto 2011) dell’Italia dell’anno 1500 potrebbero anche essere 2.500 o 4.000 $, così come i
1.700 $ della Gran Bretagna possono essere anche 1.400 o 2.200 $, ma se nella determinazione
dei due valori che confrontiamo abbiamo seguito le stesse procedure e adottato gli stessi criteri,
allora possiamo essere certi che l’Italia in quell’epoca aveva un PIL pro capite maggiore di circa il
75% [ (3.030 – 1.700) / 1.700 = 78%] di quello degli (ancora) buzzurri, bianchicci e incivili britannici. È
lo stesso motivo per cui se ho un Alano di 60 kg e un Breton di 15 kg e li peso entrambi con la
stessa bilancia starata, potrei anche sbagliare grossolanamente i dati assoluti (che, magari, risultano 40
kg e 10 kg), ma se per i due cani ho usato la stessa bilancia, allora il dato relativo, e cioè il rapporto
fra i dati assoluti sbagliati, risulta comunque giusto, identico a quello fra i dati assoluti corretti (il
peso dell’Alano risulta pur sempre il quadruplo di quello del Breton).

Nota alla nota: nella tabella 1, i valori ante XX secolo relativi ai paesi dell’Asia sono in carattere diverso perché contestati
da altri storici (in particolare Paul Bairoch, Giovanni Federico e Paolo Malanima) i quali ritengono che la metodologia
adottata nel progetto Maddison sottostimi i redditi pro capite dei paesi non europei e in particolare di quelli asiatici.

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Tabella 1

GDP (PPP) per capita in 2011 International Dollars        https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_regions_by_past_GDP_(PPP)_per_capita (e mie elaborazioni)

COUNTRY            1           1000     1500     1600       1700       1850       1913       1929        1937        1960       1973        1995            2016

          U.S.A.       -          -        -        -           -       2.830      8.100      10.550     10.450      18.060     26.600      39.390      53.020

        ITALIA     1.500        1.250    3.030    2.780       3.010      3.020      4.700      5.640       5.670     10.920      19.630      32.060     33.420

           U.K.        500      1.120    1.700    1.690       2.370      4.250      8.050      8.600       9.720     13.510      18.800      27.450     37.330

NETHERLANDS            600      1.150    2.620    4.790       3.790      4.250      7.290     10.240       9.780     14.910      23.540      33.650     45.600

      FRANCE           600      1.130    1.750    1.660       1.750      2.630      5.730      7.750       7.380     12.170      21.100      30.140     37.120

    GERMANY            500      1.130    2.310    1.630       1.900      2.890      7.370      8.180       9.460     15.570      24.170      34.580     44.690

        SPAIN      1.050        1.250    1.480    1.560       1.420      2.020      3.630      4.940       3.140       5.960     13.770      24.470     30.110

      POLAND           -          -      1.040    1.270       1.200      1.200      3.380      4.120       3.730       6.250     10.390      10.950         24.840

FORMER USSR            500        -      1.000    1.000       1.100      1.400      3.040      2.980       4.630       8.480     13.020       8.650         18.640

        JAPAN              -    1.100    1.150    1.200       1.300      1.500      2.700      3.190       3.640       6.280     17.990      31.580     37.470

        CHINA              -    1.250    1.400    1.450       1.350      1.200        790         800        825         840      1.210       3.370     12.570

         INDIA             -    1.200    1.300     1320        1250      1.000        900         970        900       1.000      1.140       2.050         6.130

       GREECE      1.400          -        -        -           -        1.940      2.360      4.510       5.330       6.050     14.730      19.790     22.570

        EGYPT      1.200        1.050    1.200      -           -        1.900      2.800            -           -     2.640      3.450       7.400     11.350

  ARGENTINA            -          -        -        -           -        2.200      6.670      7.670       7.250       9.770     13.990      14.100     18.880

          CHILE        -          -        -        -           -        1.200      4.220      4.950       4.430       5.910      6.700      12.360     21.700

                                                                                                                                                   3
(ri)Partiamo da quanto già vi scrissi in “Qualche considerazione sullo sviluppo economico”:
“… negli ultimi due secoli il modo in cui l’uomo vive sulla Terra si è enormemente trasformato,
molto di più di quanto abbia fatto nelle decine di migliaia d’anni dell’intera epoca preistorica e
nelle migliaia del Neolitico, così che i tremila anni che separano il mondo del mio trisnonno
Prospero (nato appena all’inizio dell’800 e morto “solo” 150 anni fa) da quello dei primi faraoni egizi e dei primi
re o imperatori sono molto più “brevi” degli ultimi due secoli.
Se Giulio Cesare o Alessandro Magno o perfino Mosè fossero stati catapultati nel tempo fino a
essere ospiti di mio trisnonno Prospero nella sua casa in via Emilia S. Pietro 7, in quella casa e in
quella Reggio di duecento anni fa si sarebbero ambientati in poco tempo, e ciò in quanto
sarebbero stati in grado di capire rapidamente quel mondo di inizio Ottocento: certo, il calesse di
Prospero e le pochissime carrozze che circolavano erano un po’ diverse da quelle dei loro tempi,
ma il modo di viaggiare era comunque identico (se ci si muoveva sul terreno si doveva ancora farlo a piedi o col
cavallo, e se si andava per mare le navi erano solo un po’ più grandi di duemila anni prima, ma erano ancora in legno e a
spingerle era pur sempre o il vento o la forza delle braccia dei rematori) , come uguale era il sistema per far luce di
notte (con candele e lanterne, e l’unica cosa diversa era che nelle lanterne mio trisnonno bruciava più spesso olio minerale e
più di rado quello vegetale; le candele, invece, erano ancora le stesse) , e assai simili erano anche le attività
lavorative [ la gran parte delle persone lavorava ancora la terra e lo faceva, più o meno, nello stesso modo in cui la si lavorava
duemila anni prima (con tecniche agrarie abbastanza simili e la sola energia delle braccia e degli animali da tiro), mentre la parte della
popolazione che non faceva il contadino era una piccola minoranza: qualcuno era artigiano (il fabbro, il sarto, il maniscalco, il produttore
di candele ecc.), qualcuno commerciante, qualcuno oste, c’era poi il barbiere-cavadenti, il muratore, il cuoco, l’attore, il musicista, il
prete, lo spazzacamino, il contabile ecc., ma tutti insieme questi erano circa un terzo dei soli contadini] e, contadino o no, se
un qualsiasi lavoratore dell’antichità si fosse trovato nell’epoca di mio trisnonno, sarebbe riuscito
a guadagnarsi da vivere facendo ancora il suo solito mestiere, ne sarebbe stato capace perché
quell’attività era cambiata assai poco e così le sue conoscenze sarebbero risultate adeguate.
Poi, nel giro di pochissime generazioni (sono solo quattro quelle che separano me dal mio trisnonno), il modo di
vivere è cambiato assai più di quanto abbia fatto prima in migliaia d’anni; il buon Prospero,
tornasse a vivere, del mondo di oggi capirebbe invece nulla e non saprebbe minimamente
cavarsela, nonostante le capacità professionali che tutti, nella sua epoca, gli riconoscevano; tanto
di ciò che per noi è normale e ovvio lo sbigottirebbe: i treni, le automobili, i trattori, gli aerei, la
luce elettrica, i frigoriferi, i telefoni, i televisori, i cinema, i computer, le biro, gli ospedali con le loro
attrezzature, le vaccinazioni, i social-network, le previsioni del tempo, i supermercati ecc. sono
tutte cose che non era stato in grado nemmeno di immaginare, e la sua meraviglia sarebbe ben
poco minore di quella che avrebbe Giulio Cesare alla vista del nostro mondo. Cesare e Prospero,
nonostante i quasi due millenni che li separano, hanno vissuto in mondi molto più simili fra loro di
quanto non lo siano il nostro e quello di due secoli fa.”
Nella tabella della pagina precedente trovate un’implicita conferma a queste righe: se
confrontate i dati delle tre colonne relative agli anni 1, 1850 e 2016 verificherete che il valore
annualmente prodotto sotto forma di beni e servizi utili per soddisfare esigenze e desideri si è
in media solo circa triplicato nei primi 1850 anni dell’era cristiana, mentre nei successivi 170
anni si è moltiplicato, in media, per circa 15. Come dire che le ultime sei o sette generazioni
hanno percorso, galoppando, il quintuplo della strada che le precedenti sessanta o settanta
generazioni avevano fatto arrancando penosamente per allontanarsi dalla miseria e brutalità
del mondo preistorico.
La velocità con cui da un paio di secoli viaggia l’umanità è quindi circa 50 volte superiore a
quella con cui progrediva nei secoli preindustriali, e in effetti c’è sostanziale concordia fra
gli storici dell’economia nello stimare il tasso annuo medio di crescita di lunghissimo
periodo in circa lo 0,5 per mille nei secoli precedenti il XIX e circa il 2,5% negli ultimi due.

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Stiamo parlando di tassi medi d’incremento di lungo periodo, di trend secolari al cui interno si
trovano periodi più o meno prolungati di crescita e di decrescita di varia velocità che si alternano.
 Figura 1 Fonte: Malanima (2011) e Broadberry et al (2011), Maddison Project ( http://www.ggdc.net/maddison/maddison-project/

                                                                                              Il grafico 1, a scala
                                                                                              logaritmica, confronta il
                                                                                              PIL pro-capite (a $ USA costanti
                                                                                              del 1990 in parità di potere d’acquisto)
                                                                                              dell’Italia del Centro
                                                                                              Nord (e dell’intera penisola dopo
                                                                                              il 1861) con quello della
                                                                                              Inghilterra e del Galles
                                                                                              (dell’intera Gran Bretagna dopo il
                                                                                              1870) e dà un’idea di quanto
                                                                                              possa essere diverso lo
                                                                                              sviluppo economico fra
                                                                                              due paesi nel corso dei
                                                                                              secoli.

              Figura 2 Fonte: Baffigi e altri (2011)

                                                                                               Il grafico 2, sempre con
                                                                                               scala         logaritmica,
                                                                                               rappresenta il PIL pro-
                                                                                               capite italiano dall’unità
                                                                                               al 2010 (anche qui in $ USA
                                                                                               costanti del 1990 PPP).

                                                                        L’ho inserito sia perché
                                                                       segnala bene come la
                                                                       seconda guerra mondiale
                                                                       abbia     inciso     sulla
                                                                       economia italiana ben più
                                                                       pesantemente        degli
                                                                       effetti della crisi “post
                                                                       ‘29”, ma anche perché
nell’ultimo scorcio della curva vi potete trovare la conferma del declino del trend di crescita
italiano di cui ho scritto nei recenti appunti sul Next Generation EU.

                                                                                                                            5
2) Quanto fu grave la crisi.
In attesa che qualche giovane brillantissimo scienziato sociale inventi il “feliciometro” sognato
dal perfettista Jeremy Bentham, credo che il modo più efficace per valutare la gravità di una
crisi economica sia ancora basarsi sul P.I.L., calcolando la mancata produzione di valore (di beni
destinati alla vendita all’utilizzatore finale o distribuiti in cambio delle imposte) nel periodo di crisi rispetto a quello che
si sarebbe potuto produrre se fosse continuato l’ordinario trend di crescita (che ipotizzo nel + 2,5% annuo).
Approfitto dell’occasione per un breve contemporaneo ripasso di economia e di ragioneria: da
Relazioni internazionali sapete che il P.I.L. lo si può anche determinare come somma dei
“valori aggiunti” ottenuti dai produttori di beni (beni offerti in vendita o distribuiti in cambio delle imposte, ché il
valore, pur elevato, delle favole raccontate dai genitori ai bimbi che si svegliano in lacrime dopo un incubo notturno non rientra nel PIL),
mentre da Economia aziendale e dalla riclassificazione del conto economico avete imparato che
il “Valore Aggiunto” è la differenza fra il valore della produzione aziendale meno il valore dei
fattori produttivi a breve ciclo di utilizzo acquisiti da altre aziende. Abbinando i due concetti, si
capisce il significato di quel “lordo” che quasi sempre aggettiva il “Prodotto Interno”: nella
sommatoria di tutti i “valori aggiunti” aziendali ci sono ancora dentro gli ammortamenti e le
svalutazioni delle immobilizzazioni, il che significa, quindi, che il PIL ha ancora al suo interno
il valore consumato [per effetto dell’usura e dell’obsolescenza (= superamento tecnologico)] dei fattori produttivi di
lunga durata, ovvero case e altri edifici, impianti, macchinari e attrezzature aziendali ma anche
strade, ferrovie, dighe, fogne, porti e altre infrastrutture solitamente pubbliche.
Poiché stimare queste perdite di valore (gli ammortamenti e le svalutazioni delle immobilizzazioni di proprietà della
P.A.) è particolarmente difficile e poco attendibile, allora si preferisce calcolare il Prodotto Interno
Lordo, e cioè la somma dei “valori aggiunti”, e non il Prodotto Interno Netto [che coinciderebbe, prova a
verificarlo pensandoci un po’ su, con la somma dei risultati operativi aziendali (EBIT) più i redditi dei lavoratori dipendenti].

La produzione è un dato di flusso, cioè un dato il cui valore ha senso se riferito a un periodo [e
non a un istante, perché senza tempo non può esserci azione e quindi nemmeno produzione: dell’istante si fa la fotografia, come lo
Stato Patrimoniale aziendale; di un periodo si fa il filmato, come il Conto Economico aziendale. E se di un intero territorio si fa solo il
Conto Economico (cioè si determina il PIL) e non lo Stato Patrimoniale (come invece si fa di una singola azienda) è per quella difficoltà di valutare
le immobilizzazioni “pubbliche” di cui ho già scritto (quanto vale la Torre di Pisa? Quanto la strada del Cerreto? Quanto il fiume Po?) ], perciò per
valutare la gravità di una crisi occorre tenere conto sia dell’entità della riduzione della produzione,
sia della lunghezza del periodo per il quale questa perdita di produzione si è protratta.
La tabella 2 e il relativo grafico (nella prossima pagina) credo evidenzino in modo sufficientemente
chiaro entrambi gli aspetti dell’intensità e della durata che la GD ebbe in alcuni paesi; dal
confronto fra le varie righe della tabella o anche fra le linee del grafico appare chiara, fra l’altro,
la diversa intensità con cui la crisi impattò sulle varie economie: la più colpita risultò, e non di
poco, quella americana, mentre Germania e Gran Bretagna ne uscirono prima e con meno
danni. Non preoccupatevi, non analizzeremo dati e cause delle crisi di ognuno dei cinque paesi:
ci limiteremo a dare un occhiata agli USA e, in modo ancor meno approfondito, all’Italia.
La tabella 2 e il grafico 3 che da essa scaturisce confermano quanto appare dalla colonne 1929 e 1937
della tabella 1 a pagina 3: la crisi colpì estesamente nel mondo in gran parte dei paesi.
Attenzione: non dovete pensare che se il PIL pro capite del 1937 è, come ad esempio nel caso
degli USA, il linea con quello pre crisi [10.450 (per il 1937) contro 10.550 (per il 1929)] allora il terreno perso
fu recuperato: come ho già detto, il confronto deve più correttamente essere fatto tra il risultato
effettivo (i 10.450 $ del 1937) e il livello che ragionevolmente si sarebbe raggiunto nell’ipotesi di
non crisi, cioè nel caso che fosse continuato il trend di crescita medio di lungo periodo, stimabile
– vedi fine pagina 4 – in circa il 2,5% annuo.

                                                                                                                                           6
La tabella 3 segnala, nel riquadro relativo agli USA, che nel 1938 i redditi erano mediamente
inferiori del 36% di quelli che realisticamente si sarebbero avuti in assenza di crisi.

                    Tabella 2 (e grafico 3)                                       PIL per capita 1929 = 100
                                              1930       1931       1932    1933        1934       1935        1936       1937        1938      1939
                      IT                       96         93        93       92          92        96          94         100         101       107
                     USA                       94         84        80       69          73        80          89         92          89        92
                     GB                        99         96        93       94          100       104         108        110         113       113
                     GER                       99         95        87       86          94        98          106        112         121       133
                      FR                       97         94        87       89          89        88          89         93          96        102

                                                                           PIL pro capite 1929= 100
                                                                     IT           USA             GB          GER           FR

                                             130
                                             120
                                              110
                            pil pro capite

                                             100
                                              90
                                              80
                                              70
                                              60
                                              50
                                                 1930        1931     1932        1933      1934       1935      1936     1937       1938     1939
                                                                                                  anno

       ITA   (tabella 3)                     1929        1930       1931     1932         1933      1934       1935      1936        1937      1938

       PIL atteso
                                     100,0           102,5      105,1       107,7        110,4     113,1      116,0     118,9    121,8       124,9
       PIL reale                       100             96         93          93           92        92         96        94       100         101
                                               -     -    6,5   - 12,1      - 14,7       - 18,4    - 21,1     - 20,0    - 24,9   - 21,8       -24%
       U.S.A. (tabella 3)                    1929        1930       1931     1932         1933      1934       1935      1936        1937      1938

       PIL atteso
                                     100,0           102,5      105,1       107,7        110,4     113,1      116,0     118,9    121,8       124,9
       PIL reale                       100             94         84          80           69        73         80        89       92           89
                                               -     -    8,5   - 21,1      - 27,7       - 41,4    - 40,1     - 36,0    - 29,9   - 29,8      -36%
       GB     (tabella 3)                    1929        1930       1931     1932         1933      1934       1935      1936        1937      1938

       PIL atteso
                                     100,0           102,5      105,1       107,7        110,4     113,1      116,0     118,9    121,8       124,9
       PIL reale                       100             99         96          93           94        100        104       108      110         113
                                               -     -    3,5   -    9,1    - 14,7       - 16,4    - 13,1     - 12,0    - 10,9   - 11,8      -12%
       GER (tabella 3)                       1929        1930       1931     1932         1933      1934       1935      1936        1937      1938

       PIL atteso
                                     100,0           102,5      105,1       107,7        110,4     113,1      116,0     118,9    121,8       124,9
       PIL reale                       100             99         95          87           86        94         98        106      112         121
                                               -     -    3,5   - 10,1      - 20,7       - 24,4    - 19,1     - 18,0    - 12,9   -    9,8     -4%
       FR    (tabella 3)                     1929        1930       1931     1932         1933      1934       1935      1936        1937      1938

       PIL atteso
                                     100,0           102,5      105,1       107,7        110,4     113,1      116,0     118,9    121,8       124,9
       PIL reale                       100             97         94          87           89        89         88        89       93           96
                                               -     -    5,5   - 11,1      - 20,7       - 21,4    - 24,1     - 28,0    - 29,9   - 28,8      -29%
NB: eventuali piccole differenze in un dato presente in più tabelle possono essere dovute alla diversa fonte di provenienza.

                                                                                                                                                       7
Quanto fu grave la GD degli Stati Uniti lo si intuisce ancor meglio guardando il grafico 5 che
  riporta l’andamento del tasso di disoccupazione USA tra il 1910 e il 1960 e in cui l’anomalia del
  decennio 1930 – 1939 appare in tutta evidenza: in tutti gli altri periodi la disoccupazione oscillò
  intorno al 5% (con una punta massima dell’8% nel ’21-’22), mentre tra il 1930 e il ’34 s’impennò fino a
  superare il 20% e rimase superiore al 15%, il triplo dell’ordinario, fino a che Roosevelt, con
  l’attacco giapponese a Pearl Harbor, riuscì a fare entrare in guerra gli USA; e la guerra, come
  suo solito, sconvolse tutto spazzando via anche la disoccupazione e permettendo, al suo
  termine, all’economia di ricominciare su basi completamente nuove.
                  Grafico 4 G.D P. USA                                                       Grafico 5 Tasso di disoccupazione U.S.A.

  Prima di cominciare a trattare le cause della crisi voglio mostrare un’ultima tabella e il suo grafico:
  Tabella 4 (e grafico 6)                       GDP per capita 1913 = 100                                   I dati in tabella dicono che, ad es., il PIL
                                                                                                            pro capite dopo i guasti della 1a GM era
           1920     1921     1922        1923      1924      1925      1926        1927      1928    1929
                                                                                                            nel 1920 tornato ai livelli prebellici (del 1913)
   IT      92        90      90          102       106       111       111         110       116     120    solo negli USA, mentre nella Germania
  USA      100       97      99          110       110       110       115         114       113     119    massacrata dal trattato di Versailles i
  GB       87        84      89          93        95        100       97          102       103     107    redditi erano ancora del 23% (77 – 100) più
  GER      77        85      90          78        90        97        99          107       118     111    bassi. Attenzione! Il 92 dell’Italia 1920 non
                                                                                                            è confrontabile, ad es., con l’87 della GB!
      FR   92        98      103         108       117       120       121         120       128     133    In tabella 1 si legge, infatti, che il PIL pro
                                                                                                            capite dell’Italia era nel 1913 poco più
                                     PIL pro capite 1913 = 100                                              della metà di quello britannico (4.700 €
                                    IT          USA          GB            GER          FR                  contro 8.050), così come il 92 della Francia
140
                                                                                                            non è confrontabile con il 77 tedesco: la
130                                                                                                         tabella e il grafico qui a fianco ci dicono
120                                                                                                         che nel 1920 in Francia il PIL pro capite
                                                                                                            era pari al 92% (e quindi dell’8% più basso)
110
                                                                                                            di quello del 1913; quello in Germania
100                                                                                                         era il 77% (e quindi dell’23% più basso) di
 90
                                                                                                            quanto era prima della guerra eccetera.

 80
                                                                                                            Ma leggendo la tabella 1 possiamo ricavare
                                                                                                            che nonostante le porcate anti tedesche
 70                                                                                                         imposte soprattutto dai francesi nella
 60                                                                                                         sciagurata “pace di Versailles”, il PIL
                                                                                                            procapite tedesco restava testardamente
 50                                                                                                         superiore a quello francese, infatti:
   1920     1921      1922        1923         1924       1925      1926         1927     1928      1929
  Francia:         PIL1913 = 5.730 $ → PIL1920 = 5.730 x 92% → PIL1920 = 5.272 $
  Germania:        PIL1913 = 7.370 $ → PIL1920 = 7.370 x 77% → PIL1920 = 5.675 $
  Italia PIL1920: 4.700 x 92% = 4.324 $;               U.S.A. PIL1920: 8.100 x 100% = 8.100 €;                   GB PIL1920: 8.050 x 87% = 7.000 $.
                                                                                                                                               8
Quanto fin qui detto giustifica certamente tutta l’attenzione che, da decenni, gli storici
dell’economia (e non solo) prestano alla GD, e la merita perché ha avuto conseguenze maggiori
di quelle provocate dalle crisi economiche precedenti e successive (almeno per ora); conseguenze
massimamente rilevanti sotto tre aspetti:
   ✓ le dimensioni, in termini di estensione geografica: coinvolse quasi tutto il mondo
     sviluppato; gli unici paesi a non risentirne, se non in minima misura, furono il Giappone
     e l’Unione Sovietica, e quest’ultima in virtù del suo sostanziale isolamento dal resto del
     mondo e della sua arretratezza economica;
   ✓ le dimensioni, in termini di perdita di ricchezza prodotta (e cioè di diminuzione dei redditi);
   ✓ le conseguenze sociali e politiche che ne conseguirono, e cioè la crescita rapidissima in
     tutte le economie sviluppate del welfare e dell’intervento pubblico nell’economia (che
     divenne la regola e portò ovunque a un forte aumento della spesa pubblica e della tassazione dei cittadini) e la
     presa del potere, peraltro in modo democratico, di Hitler in Germania (i tedeschi nel luglio del
      1932 votarono Hitler non a causa dell’iperinflazione di dieci anni prima, ormai superata da vari anni, ma perché quella crisi
      partita e “importata” dagli USA più che triplicò in un paio di anni la disoccupazione in Germania (al momento di quelle elezioni
      il tasso di disoccupazione superava il 30%).

                                                                                                                             9
3) “Cambi”, moneta “forte” e moneta “debole”.
Poiché il prossimo argomento, le cause della GD, coinvolge, tra i tanti, anche i concetti di
“deflazione”, di “svalutazione” e di “regime di cambi fissi” è opportuno dedicare ora qualche riga
affinché tutti abbiate sufficientemente chiaro il significato dell’espressione “forza” applicato
alla moneta e cosa siano e che conseguenze portino i “cambi fissi”.
Cominciamo dal cambio.
Si è in un regime di cambi “fissi” fra due monete quando chi ha la responsabilità della gestione
di una moneta (e cioè, almeno da un paio di secoli, quasi sempre lo stato attraverso un suo organo chiamato Banca Centrale) si
impegna a scambiare una unità della propria moneta con un quantitativo prefissato di un’altra
[esempio 1 Lira in cambio di 1/90 di Sterlina era, come vedremo fra poco, il cambio con la sterlina britannica che lo stato italiano fissò
nel 1926, impegnandosi in questo modo a vendere (consegnare) una sterlina accontentandosi di sole 90 lire; la cosa può anche
essere vista così: chi si fosse presentato in B.d’I. con 90.000 lire poteva consegnarle e pretendere di uscire con ben 1.000 sterline in
tasca, il 60% in più delle 625 sterline che avrebbe invece ricevuto se il cambio fosse rimasto a 144 come era qualche mese prima della
decisione di fissarlo a “quota 90” (e ti invito a prendere la calcolatrice e verificare la correttezza dei numeri che ho scritto].

Ma come può fare la B.d’It. (ad esempio, ma vale per qualsiasi B.C.) a mantenere la promessa di vendere
sterline (ad esempio, ma la cosa vale per un’altra qualsiasi valuta estera) al prezzo unitario (ad esempio) di 90 lire?
Per poter vendere e quindi consegnare qualcosa, moneta o bene che sia, ci sono solo due strade:
quella cosa bisogna produrla oppure quella cosa bisogna prima farsela dare da qualcuno.
Se la cosa da consegnare non è un quantitativo di prosciutto ma è un quantitativo di valuta estera
[ad es. un certo numero di sterline (£)] allora la prima strada dobbiamo scartarla: le sterline, infatti, non
possono essere prodotte da nessuno al di fuori della Banca Centrale inglese (e se la B.C. di un altro paese
si mette a produrle arrivano le cannoniere inglesi davanti alle sue coste e i bombardieri della R oyal Air Force nei suoi cieli).

La seconda via, che per lo scambio di monete è poi l’unica, comprende in realtà due percorsi:
a) comprare (come in genere fa il salumiere con il prosciutto) oppure b) farsi prestare (come in genere fa una banca con i soldi)
la cosa che serve per poterla poi consegnare.

Il percorso a) (comprare prima la cosa che si deve o si vuole poi consegnare) applicato alla valuta estera (ad esempio alla £)
coincide quasi sempre con l’attività di commercio internazionale: le sterline, infatti, non si
comprano quasi mai dal produttore (cioè dalla BC inglese) ma si comprano da chiunque le abbia e sia
disposto a cederle in cambio di qualcos’altro; sto parlando, quindi, delle esportazioni: la
vendita da parte della Ferrari SpA di una F8 Spider a Paul McCartney di Londra in cambio di
200.000 £ la si può vedere come l’acquisto, da parte di un residente in Italia, di 200.000 sterline
al prezzo di un’auto F8 Spider nuova di pacca. Ecco, quindi, che nei periodi in cui gli
esportatori italiani consegnano a soggetti esteri che pagano in £ un quantitativo di beni che vale
di più del valore dei beni che gli importatori italiani ricevono da soggetti esteri che pretendono
di essere pagati in £, allora in quei periodi il quantitativo di sterline disponibile in Italia
aumenta (le “riserve valutarie” italiane in £ aumentano). Più in generale, una bilancia commerciale in attivo
(Esportazioni > Importazioni) porta a un incremento delle riserve valutarie e a una diminuzione dei
beni disponibili per i residenti, cioè arricchisce finanziariamente la popolazione residente
ma riduce il suo tenore di vita [quella popolazione soddisfa meno desideri perché avendoli esportati ha meno
beni a disposizione, “stringe la cinghia”, (nell’esempio, la popolazione italiana dovrà vivere con una F8 Spider in meno), risparmia oggi
per avere la possibilità in futuro di consumare di più, quando potrà comprare beni prodotti col sudore dei residenti all’estero
pagandoli con le riserve accumulate nel passato).

                                                                                                                               10
Ecco che siamo arrivati all’uso delle “riserve valutarie” (attenzione: il termine “Riserve” qui va inteso non in
senso ragionieristico-aziendale di fonte di finanziamento: è invece da intendere proprio come gruzzolo di denaro, come
denaro accantonato in un qualche cassetto, seppure di denaro avente corso legale in un altro paese); ma il
quantitativo di sterline (o, più in generale, di valuta estera) disponibile per fare pagamenti in valuta può
essere incrementato anche attraverso l’altra strada [il percorso b)]: indebitarsi in valuta, cioè
chiedere in prestito £ impegnandosi a restituirle in un futuro più o meno lontano e a pagare un
prezzo (gli interessi) per l’uso che se ne fa.

È, questa, l’ultima strada che rimane quando la bilancia commerciale è in passivo (cioè le
importazioni sono > delle esportazioni) e le riserve valutarie si stanno esaurendo (devo comprare merci
dall’estero, le devo pagare in £, non ho più £, allora le sterline che mi servono le chiedo in prestito, le incasso promettendo
di restituirle in futuro e le uso subito per pagare i beni che importo).

Con l’indebitamento in valuta si posticipa il problema (kick the can, detto all’inglese), lo si congela
per tutto il periodo del prestito ma anche lo si aggrava appesantendolo degli interessi che
vengono giustamente pretesi da chi presta la valuta.

Da quanto esposto ne discende che se si vuole mantenere il cambio fisso durante un periodo in
cui la bilancia commerciale è in deficit allora è inevitabile che o si riducano le riserve valutarie
o si aumentino i debiti in valuta.

Ora passiamo al concetto di “forza” di una moneta.
Una moneta si dice forte quando col tempo può comprare più beni, così in patria come
all’estero, e ciò accade quando i prezzi restano stabili (o diminuiscono) e il tasso di cambio si apprezza
(e cioè scendono anche i prezzi delle altre monete) marcatamente (marcatamente perché piccole variazioni non interessano).

All’opposto una moneta di dice debole quando col tempo può comprare meno merci e servizi,
in patria e all’estero, e ciò accade quando i prezzi salgono e il tasso di cambio si deprezza
marcatamente (cioè quando anche i prezzi per comprare le altre monete aumentano).
In generale una moneta è forte perché la sua quantità è scarsa, la domanda di beni moderata, la
loro produzione è massiccia, la produttività dell’economia progredisce e i costi di produzione (in
particolare quelli del lavoro e quelli dell’energia, sebbene quest’ultimi oggi non rilevino più come un tempo) sono contenuti.

Sempre in generale, una moneta è debole perché la sua quantità aumenta velocemente, la
domanda di merci è eccessiva, la produzione e la produttività non aumentano a sufficienza (o
addirittura declinano) e i costi (in particolare quelli del lavoro e quelli dell’energia) sono crescenti.

Anche in economia gli eccessi sono dannosi (“gli eccessi sono dannosi” equivale a “il male fa male”, perciò la frase è
piuttosto stupida e ne sono consapevole), e infatti sia una moneta molto forte, sia una moneta molto debole
frenano il progresso economico, e lo frenano perché provocano instabilità nell’economia e
distorcono la distribuzione del reddito (dato di flusso) e della ricchezza (dato di stock). In questo modo
sia l’eccessiva forza sia la debolezza della moneta possono causare pesanti ripercussioni non
solo economiche ma anche sociali, politiche e istituzionali (e di esempi la storia ne è piena).

                                                                                                                     11
Limitandoci all’Italia e al periodo storico oggetto del programma di quinta, le fasi in cui la
nostra moneta ha sperimentato un eccesso di forza o di debolezza dono state cinque; infatti la
Lira è stata troppo forte in due fasi: 1f) 1873 – 1895 e, ancor più, 2f) 1926 – 1936 ; la lira è stata
invece eccessivamente debole soprattutto in conseguenza della prima guerra mondiale (purtroppo
da noi vinta) 1d) 1914-1920 e della seconda guerra mondiale (fortunatamente da noi persa) 2d) 1940-1947, ma
anche in periodo di pace 3d) fra il 1968 e il 1996.

1f) 1873 – 1895: in questa ventina d’anni i prezzi all’ingrosso diminuirono di oltre il 25% (quello
del grano subì un calo del - 40%) e anche i prezzi delle altre monete diminuirono (cioè il valore della lira
aumentò, il cambio si rafforzò), sebbene in misura minore e concentrata nel triennio 1881 – 1883.
La produttività risultò deludente anche a causa del protezionismo doganale acuito nel 1887
dall’ultimo governo De Pretis; il tutto contribuì a far sì che il periodo immediatamente
successivo, e in particolare tra il 1889 – 1893 furono anni di disordine monetario e creditizio che
videro il crollo del sistema bancario italiano sulla cui rovina sorse, nel 1894, la Banca d’Italia (la
quale prima affiancò il Banco di Sicilia e il Banco di Napoli come ente emittente moneta e poi, nel 1926, divenne l’unica emittente).

2f) nel 1926, in meno di un anno, il cambio della lira si rafforzò del 70% [il prezzo della Sterlina scese
da 154 a 90 (la famosa “quota 90”) per scelta politica esplicitata da Mussolini nel discorso sulla “battaglia economica in
difesa della lira” (tenuto nel 1926)] e in poco più di un anno i prezzi all’ingrosso diminuirono del 30%; in
seguito, tra il 1928 e il 1934 complice anche la GD internazionale, la deflazione dei prezzi
all’ingrosso continuò a un ritmo di quasi il 10% l’anno e di nuovo in questo periodo la
produttività italiana cessò di crescere. Nei primi anni ’30 ci fu la più grave crisi finanziaria e
industriale della nostra storia: solo a stento si riuscì a evitare il fallimento delle principali tre
banche (Banca commerciale italiana, Credito italiano e Banco di Roma) e di grandissime industrie, e a fatica si
riuscì a evitare il fallimento giuridicamente formale di una cottissima Banca d’Italia (e il livello di
cottura raggiunto dalla BdI di allora lo si percepisce bene pensando che le sue passività superavano del 40% - 50% il totale dell’attivo).

Le due fasi storiche di peggior debolezza della Lira sono, invece, connesse con le guerre mondiali:

1d) nel 1914 – 1920 i prezzi all’ingrosso [i prezzi all’ingrosso sono più significativi dei prezzi al consumo perché
meno manovrati dalla politica, e questo è ancor più valido nei periodi di guerra quando molti prezzi al consumo sono
imposti dal governo (che in questo modo provoca la nascita del cosiddetto “mercato nero” i cui prezzi, però, ben difficilmente sono riportati da
statistiche affidabili)] aumentarono di 6 volte in 6 anni [il che equivale a un’inflazione annua del 33%, cioè un
aumento medio annuo di circa 1/3 (1,336 = 5,8)]; il cambio crollò da 5 a 20 lire per $ USA. Al di là degli
oltre 500.000 soldati morti, l’economia italiana uscì dalla guerra trasformata e in profondo
squilibrio; l’inflazione colpì fortemente i redditi fissi e le tensioni sociali si fecero preoccupanti.
2d) nel 1940 – 1948 i prezzi all’ingrosso esplosero di 45 volte [equivalente di un’inflazione media di circa il
60% l’anno (1,618 = 45)] e il cambio precipitò da 20 a 576 per dollaro. Al di là dei quasi 500.000 morti
(ma questa volta la metà delle vittime fu fra la popolazione civile) molti italiani erano semplicemente alla fame e le
condizioni sanitarie pietose a tal punto da dover implorare l’aiuto dei vincitori (in realtà solo degli USA).

3d) La più forte inflazione in tempi di pace fu tra il 1969 e il 1996: i prezzi al consumo si
moltiplicarono per 13, equivalente a un’inflazione annua media del 10% (1,1027 = 13,1) e il cambio
col marco da 156 arrivò alle mitiche 990 del novembre 1996, il valore che venne fissato per il
rientro della Lira nello SME (Sistema Monetario Europeo) e quindi la base per il cambio con l’euro.

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[Il primo gennaio 2002, giorno in cui le banconote e le monete metalliche con il logo € sopra hanno cominciato a circolare, è una data
di assai scarsa importanza pratica: in realtà l’euro circolava tranquillamente in Italia e in tanti altri paesi europei con tanti loghi diversi
ma perfettamente interscambiabili già da tre anni; il primo gennaio 1999 è già una data più importante, essendo il momento in cui
l’euro ha cominciato a essere scambiato ufficialmente nei mercati finanziari mondiali; ma dal punto di vista sostanziale della politica
monetaria l’abbandono del potere decisionale da parte delle banche centrali nazionali avvenne a fine 1996, perciò quest’anno, 2021,
sarà un quarto di secolo da quando tanti paesi europei, tra cui l’Italia, hanno perso la loro “sovranità monetaria” abdicando in favore
d’una allora costituenda Banca Centrale comune, la BCE (che però è più nota, all’inglese, come ECB)].

Continuo con la storia recentissima segnalando che l’inizio dell’inflazione, nell’anno 1969,
coincise con la fine del “boom economico” italiano, che divenne rapidamente solo e sempre più
un ricordo del passato; la crescita del PIL rallentò dall’oltre 5% a meno del 2% della metà degli
anni ’90 e, soprattutto, cominciò a ristagnare la produttività, vale a dire, usando l’efficace
definizione di Carlo Cipolla, “la capacità di produrre cose che piacciano al mondo”.

Ma se un’inflazione elevata, così come una deflazione pesante, fa male alla crescita economica,
una moneta stabile è condizione solo necessaria ma non certo anche sufficiente per lo sviluppo,
tanto è vero che da ormai da un quarto di secolo la nostra moneta è stabile e nonostante questo
l’economia italiana sta sperimentando la sua peggiore stagione da Cavour in poi.

Preservare la stabilità dei prezzi è certo essenziale, ma la ripresa della economia italiana da
questa profondissima crisi strutturale che, assai più di quella aggiuntiva innescata dalla
pandemia, rischia di pregiudicare pesantemente il vostro futuro dipende dalla combinazione tra
la politica economica e la capacità delle imprese di esprimere qualità imprenditoriale. Ma di
questo si è parlato negli appunti sul Next Generation E.U.

Per collegarmi con quelle pagine, ma anche per riempire l’ultima parte di questa, vi riporto sia l’incipit dello storico
discorso del 10 agosto 1946 di De Gasperi alla Conferenza di Pace di Parigi (della durata di meno di qualche
minuto), sia la prima parte del discorso (di oltre un’ora) tenuto dall’ex primo ministro Conte il 9 settembre 2019
per la fiducia al Senato al suo secondo governo; il loro confronto in termini di contenuto, forma e durata, credo
renda bene il livello di degrado raggiunto dalle nostre istituzioni (e quindi, purtroppo, raggiunto anche dal corpo
elettorale da cui le attuali istituzioni repubblicane e democratiche traggono la loro origine e il loro potere).

Alcide De Gasperi: «Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra
personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico che mi fa considerare come
imputato, l’essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni. Non corro io il
rischio di apparire come uno spirito angusto e perturbatore, che si fa portavoce di egoismi nazionali e di interessi
unilaterali? Ho il dovere, innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del mio popolo, di parlare
come italiano».
Giuseppe Conte, in arte “Giuseppi”: “Oggi ci presentiamo per chiedere a voi, rappresentanti del popolo italiano, la fiducia del nuovo
governo che sarà il mio compito guidare con disciplina e onore. Il programma che illustro non è un’elencazione di proposte eterogenee, né
tantomeno la sommatoria delle diverse posizioni delle forze politiche per sostenere questa iniziativa. È, al contrario, una sintesi programmatica che
disegna l'Italia del futuro, è un progetto di governo del Paese fortemente connotato sul piano politico, che annuncia risposte alle attese e bisogni dei
cittadini che ci impegniamo a realizzare con lavoro e impegno di donne e uomini che qui mi affiancano. Ha l'ambizione di delineare la società in cui
vogliamo vivere non solo noi stessi, ma che vogliamo consegnare ai figli e nipoti, nella consapevolezza che il patto che oggi proponiamo a voi si
proietta per essere sostenibile in una dimensione intergenerazionale. Questo progetto politico segna l'inizio di una nuova, che consideriamo
risolutiva, stagione riformatrice. Come più volte sollecitato dalle forze di maggioranza, presenta elementi e caratteristiche di novità: nuovo è nella
sua impostazione, nel suo impianto progettuale, nella determinazione a invertire gli indirizzi meno efficaci delle pregresse azioni, nelle modalità di
elaborazione di soluzioni ai bisogni dei cittadini, nuovo nel suo sforzo di affrontare le questioni più critiche. Si tratta di un progetto politico di ampia
portata anche culturale …” Sfido chiunque a capire, sprecando un’ora per la lettura integrale di tanto bla-bla-bla, in cosa
e come si sarebbe dovuto concretizzare il “progetto politico” contiano.

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4) Prima della crisi.
Che l’oggi sia il frutto di tutto ciò che è capitato nei precedenti circa 15 miliardi d’anni che ci
separano dal Big Bang è indiscutibile, ma è pure certo che partire da così indietro per descrivere
le cause della GD degli anni ’30 sia poco utile; per farlo, però, non si può ignorare come si sia
evoluta la situazione economica almeno nei decenni precedenti, e pure è necessario chiarire
subito che il crollo della borsa di New York di fine ottobre 1929 non può e non deve essere
ritenuto la causa della successiva decennale crisi economica (negli USA particolarmente grave e prolungata)
o, almeno, non molto più di quanto un fiocco di neve sceso sia responsabile del crollo del tetto
su cui è caduto. Quel “Martedì nero”, il “Big Crash” del 29/10/1929 può sensatamente essere preso
come data convenzionale dell’inizio di quella lunga crisi economica, ma non deve essere
considerato il fattore che l’ha provocata.
Cominciamo, quindi, col dare uno sguardo al periodo precedente e al decennio immediatamente
successivo alla disgraziatissima e totalmente insensata Prima Guerra mondiale [disgraziatissima
soprattutto perché contribuì a provocare, oltre a una ventina di milioni di morti, nefaste conseguenze politiche (comunismo,
fascismo e nazismo); insensata perché causata non da ragioni economiche (contrariamente a quello che diceva Lenin con le sue
str….te sullo scontro fra potenze capital-imperialiste per il dominio dei mercati) ma dall’irrazionalità del nazionalismo, e quindi fu,
come anche la seconda, una guerra figlia molto più della politica che dell’economia].
Nei quattro decenni che precedettero la Grande Guerra [quindi dalla fine della guerra Franco-Prussiana (1873) al
1914) l’economia europea crebbe, in media, a una buona velocità, all’incirca la stessa dei decenni
precedenti; i testi che parlano di una fase depressiva che sarebbe cominciata nel 1873 per
concludersi solo negli anni ’90 confondono “depressione” con “deflazione”: in quel quarto di
secolo non ci fu alcuna depressione; ci fu certamente un po’ di deflazione, vale a dire
diminuzione media dei prezzi (un’inflazione negativa che in alcuni anni toccò circa il - 3%) compreso anche il
prezzo del lavoro (i salari e in genere tutti i redditi diminuirono in termini monetari), ma i redditi reali aumentarono
in virtù del rafforzamento del potere d’acquisto dell’unità monetaria a sua volta causato,
principalmente, da un aumento troppo lento dell’offerta di moneta (la sempre più diffusa applicazione del
gold standard come sistema monetario creava rigidi vincoli alla quantità di moneta producibile). L’ultimo quarto del 19°
secolo è, quindi, un esempio di come la deflazione, purché non eccessiva, non pregiudichi la
crescita economica, esattamente come capita anche con l’inflazione quando si mantiene a livelli
bassi, non superiori a pochi punti percentuali all’anno.
Il costante aumento della produttività spinto dalla diffusione di miglioramenti tecnologici e
dalla progressiva alfabetizzazione anche degli strati più poveri della popolazione faceva
aumentare la produzione di beni più rapidamente di quanto si riuscisse ad aumentare la moneta
in circolazione (perché ancorata all’oro, la cui estrazione annua dalle miniere aumentava di poco), quindi i prezzi dei beni
tendevano a scendere, diminuendo più dei redditi e migliorando così il tenore di vita medio.
Ma la media, si sa, è una sintesi di tanti valori diversi, e in effetti non tutti i paesi, non tutti i
settori economici all’interno della stessa zona e non tutte le persone occupate nello stesso
settore economico godettero in quei decenni nella stessa misura del generale miglioramento
delle condizioni. Questo spiega sia le tensioni sociali all’interno di alcuni paesi, sia i flussi
migratori da una zona all’altra e anche il declino relativo di alcuni paesi rispetto ad altri.
Particolarmente significativa fu la perdita dello status di prima potenza mondiale della Gran
Bretagna: decenni di crescita inglese più lenta rispetto sia a quella degli USA, sia a quella della
Germania spostarono al di là dell’Atlantico il centro principale dell’economia mondiale e
portarono la potenza industriale tedesca a essere complessivamente comparabile con quella
britannica e addirittura più sviluppata nei settori tecnologicamente avanzati (siderurgia e meccanica).
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In estrema sintesi, si può quindi dire che:
1) nel 1914 la “Grande Guerra” interruppe un lungo periodo di buona crescita complessiva (seppure
non molto omogenea né costante), e provocò notevoli danni economici misurati da una diminuzione dei
redditi pro capite che tra il 1913 e il 1919 fu di circa il – 15% in Europa ma quasi di nulla negli
USA; il dato europeo, però, media la perdita di oltre il – 20% degli imperi centrali sconfitti
(sostanzialmente il Tedesco e l’Austroungarico) col circa – 10% delle potenze europee vittoriose (Gran Bretagna e
Francia, ché per definire “potenza” e “vittoriosa” l’Italia d’allora bisogna prima fumare roba molto pesante);

2) anche il decennio successivo la fine della guerra fu un periodo di buona crescita, tant’è che il
reddito pro capite aumentò mediamente di circa il 30 % (più in Europa che negli USA), recuperando
presto e ampiamente le condizioni di vita prebelliche e superando così ovunque all’inizio del
1929 il livello di reddito pro capite raggiunto nel 1913 di almeno il 10%.
A fronte di questa migliorata capacità produttiva rispetto a quella di prima della guerra, la
situazione della fine degli anni ’20 nascondeva però un significativo squilibrio: il mondo, infatti,
entrò in guerra nel 1914 in buona salute sia economica che finanziaria; ne uscì, ovviamente, con
una brutalmente ridotta capacità di produrre beni utili in tempi di pace (passare dalla produzione di
cingolati ed elmetti a quella di biciclette e berretti non è semplicissimo), ma mentre nel giro di pochi anni i paesi
furono in genere capaci di riconvertire i loro apparati produttivi e ritrovare così l’equilibrio
economico (rendendo in questo modo disponibili annualmente ai loro abitanti beni di un valore superiore a quello che veniva
prodotto negli anni precedenti la guerra), lo stesso mondo non riuscì a recuperare l’ordine e l’equilibrio
finanziario d’anteguerra e, anzi, con lo scorrere degli anni ’20 gli squilibri si accentuarono.
I due paesi più fragili finanziariamente erano la Gran Bretagna e, ancor più, la Germania, e per
buona parte questa fragilità derivava dai continui e rilevanti deficit della bilancia commerciale,
cioè da importazioni costantemente assai superiori alle esportazioni. Come già visto a pagina 10,
il deficit commerciale implica, una volta esaurita la possibilità di utilizzare le proprie riserve
valutarie, l’indebitamento verso l’estero; infatti l’inizio degli anni ’30 vedeva tantissimi
operatori americani (banche, ma non solo) nella posizione di forti creditori nei confronti di aziende ed
enti pubblici europei (soprattutto – ma non solo – britannici e tedeschi: ad esempio, la costruzione di molte strade e
altre grandi opere pubbliche in vari lander fu finanziata da capitali USA).

Chi, come voi, ha ormai una consolidata dimestichezza con l’economia aziendale, sa che può
non esserci contraddizione fra un contemporaneo buon andamento economico e una cattiva
situazione finanziaria, sa, cioè, che l’efficienza economica non implica necessariamente la salute
finanziaria; ora potete estendere questo concetto dal micromondo dell’azienda a quello macro
di uno stato. La Germania degli anni ’20, in effetti, dimostrava una buona efficienza produttiva
ma al contempo era finanziariamente sbilanciata a causa soprattutto degli odiosi risarcimenti
pretesi dai vincitori [in realtà furono pretesi soprattutto dai rancorosi francesi (il noto aforisma di Jean Cocteau “i Francesi sono
Italiani di cattivo umore” credo sia troppo benevolo nei confronti dei cugini gallici). In un celebre saggio pubblicato nel 1919 subito dopo la
firma del Trattato, J.M. Keynes scrisse che quel documento non conteneva alcuna disposizione utile per risollevare economicamente
l'Europa e segnalava come “c'è nulla in esso che giovi a mutare in buoni vicini gli Imperi centrali sconfitti; né a recuperare la Russia” e
neppure a “promuovere in alcun modo un patto di solidarietà fra gli stessi Alleati. Il Trattato è deprecabile anche dal punto di vista
morale, essendo odiosa e ripugnante la politica volta a ridurre la Germania in servitù per una generazione e a degradare la vita di
milioni di esseri umani privando un'intera nazione della felicità”]  e della impossibilità di ridurre i consumi dei
cittadini tedeschi (il cui tenore di vita non era ulteriormente comprimibile) per aumentare gli investimenti necessari
alla ripresa economica e sperare così in un futuro migliore; per aumentare la percentuale della
produzione da indirizzare verso gli investimenti senza ridurre i consumi e nonostante il deflusso
monetario imposto dalle sanzioni non rimaneva altra strada che indebitarsi con l’estero.
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5) Le cause della crisi.
Per meglio comprendere le cause di quegli eventi ritengo opportuno suddividere l’argomento in
cinque parti o fasi:
5a) il crollo borsistico (ma anche il motivo del precedente svilupparsi della “bolla” speculativa che portò al crollo) e le
    sue immediate conseguenze;
5b) gli errori iniziali: 5b1) della FED (in pratica, la Banca Centrale USA); 5b2) del presidente Hoover;
5c) il diffondersi della crisi nelle economie degli altri paesi;
5d) il New Deal: 5d1) la quantità; 5d2) la qualità.
5e) il National Industria Recovery Act e
    il National Labor Relations Act.

                5a) Il crollo borsistico.
Prima di ogni repentina e profonda discesa dei
prezzi degli attivi quotati in borsa (principalmente
azioni e obbligazioni, cioè quote di aziende e crediti)
necessariamente c’è un periodo più o meno lungo in cui quei prezzi crescono                                    [e la cosa vale per
qualunque bene che sia scambiato liberamente in un qualsiasi mercato, anche per gli immobili, le materie prime, i francobolli da
collezione, le auto d’epoca o, quasi quattro secoli fa, i bulbi di tulipani, vedi La bolla dei tulipani (consob.it) ], e infatti i
principali indici delle borse statunitensi, Wall Street in testa, nei sette anni precedenti erano
quintuplicati (chi nel ‘22 avesse acquistato delle azioni di società USA avrebbe visto nel ‘29 il valore del suo investimento
mediamente moltiplicato per cinque, oltre ad avere ottenuto un reddito sotto forma di dividendi di (vado a memoria, quindi non sono sicuro
della correttezza del dato) circa il 5% annuo).

Nei libri si legge spesso che un fattore di quella crescita, particolarmente rapida nell’ultimo
anno, dei prezzi delle azioni è da cercare nella diffusione della pratica di farsi prestare i soldi
per effettuare gli acquisti, garantendo il prestito con il pegno delle stesse azioni.
In realtà, credo si sopravvaluti abbastanza l’importanza di questo fattore: la speculazione
borsistica a debito non era, infatti, una novità di quegli anni, e il “margine”, cioè livello di
garanzia richiesto dalle banche (in pratica, la parte di denaro proprio con il quale fare l’acquisto azionario) non era
minore rispetto alla media dei decenni precedenti e, anzi, dopo un momentaneo calo del 15%
della borsa nel corso del 1928 le aziende di credito aumentarono prudentemente il margine di
garanzia [insomma, le banche USA nel concedere prestiti di quel tipo furono a quel tempo meno avventate di quanto siano state
nei primi anni di questo secolo (e non solo le banche USA) quando arrivarono a concedere prestiti anche per oltre il 100% del valore
dell’immobile dato in garanzia, convinte che i prezzi delle case sarebbero cresciuti ancora (e anche rassicurate, almeno le banche USA, da una
particolare garanzia pubblica sui prestiti immobiliari) ].

[A dirla tutta, credo che probabilmente si sopravvaluti un po’ anche l’irragionevolezza dei prezzi raggiunti nel 1929 dalle azioni
americane: anche ai loro massimi di ottobre, il rapporto fra prezzi e utili non superò, infatti, il livello di 20 (un “P/E” di 20
significa che gli utili aziendali annui sono pari al 5% del valore borsistico della società), livello certamente elevato ma comunque
più basso di quello massimo già più volte raggiunto nel passato (e, tra l’altro, minore di quello attuale che è pari a circa 25)].

Un fattore della notevole crescita tra il 1922 e il 1929 dei corsi azionari certamente più rilevante
del “marging lending” fu la politica monetaria piuttosto espansiva attuata in quel periodo dalla
FED che permise una eccessiva velocità di aumento della quantità di moneta in circolazione.

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