LA RUSSIA E LA GUERRA CHE - VERRA' di A. Vinco - sollevazione

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LA RUSSIA E LA GUERRA CHE - VERRA' di A. Vinco - sollevazione
LA RUSSIA E LA GUERRA CHE
VERRA’ di A. Vinco

                                          Volentieri
pubblichiamo queste considerazioni di A. Vinco.

Roberto G., assiduo lettore di sollevazione, in un suo
commento al mio articolo E’ LA TERZA GUERRA MONDIALE ha
scritto:

«Ad esempio la Russia è un paese autonomo dal punto di vista
militare ma sul resto non direi. Con Putin ha conquistato una
certa autonomia politica ma basta un Medvedev qualsiasi per
vederla compromessa. E quanti Medvedev ci sono in Russia? Non
ha un’autonomia comunicativa nè un’ideologia precisa, non è in
grado di offrire un suo punto di vista sulla contemporaneità e
sulla storia che contrasti quello imperiale. E’ vero che
grazie all’autonomia militare ha potuto salvare la testa di
Assad ma nulla ha potuto sulla sua reputazione. Assad è
rimasto il cattivo della guerra in Siria ed i buoni sono i
curdi ed i caschi bianchi per i quali si sono spese financo le
stelle di Hollywood».

Roberto merita una risposta, il suo commento merita di essere
integralmente letto. Con lui vogliamo rispondere a quanti
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ancora vivono la guerra ibrida e non ideologica del presente
con gli occhi e il pensiero ideologizzato (sia esso marxista o
liberista) del secolo passato.

Il capitalismo politico di Nikolai Patrushev

Milanovic e Aresu hanno utilizzato la categoria di
“capitalismo politico” per descrivere la lotta interimperiale
di questo contesto storico. Il concetto è giusto, è sbagliata
però l’applicazione.

Gli Stati Uniti non sono propriamente un modello di
capitalismo politico, rimangono l’ideocrazia del liberismo
imperialista, che oggettivamente resiste dal secolo scorso a
oggi. Fascismo e nazismo non furono ideocrazie, ma regimi di
sviluppo e modernizzazione sociopolitica e economica a seguito
del Diktat antitaliano e antitedesco di Versailles, l’URSS non
fu più una ideocrazia dal 1941, quando dovette tornare al
nazionalismo grande russo, secondo Mao addirittura
all’imperialismo neozarista, per non morire del tutto. In
definitiva dunque, l’unica autentica “ideologia ideocratica”
del ‘900 fu il liberismo statunitense.

Crollata     l’URSS,    Patrushev,     dotatissimo     quadro
dell’intelligence russa, rileggeva la storia novecentesca alla
luce delle considerazioni di A. Smith, Ivan Ilyn, Huntington e
della geopolitica centroeuropea degli Anni Trenta e Quaranta.
Arrivò alla conclusione che liberalismo e marxismo erano due
facce della medesima medaglia, in quanto anteponevano
l’astratto concetto ideologico allo storicismo culturale della
civiltà; in seguito comprese, prima di ogni altro statista,
l’inevitabilità del declino del ciclo del liberismo
imperialista statunitense e l’astrattezza antistorica del
modello liberista tecnocratico di UE.

Lo stalinismo impose il comunismo mediante la sostanza della
grande nazione russa (1), antiasiatica e antislamica, mentre
Patrushev ricalibra la civiltà russa e il Ruskiy Mir in base
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alla visione di Impero multiculturale e multirazziale; la
burocrazia sovietica, che non credeva più alla validità
scientifica del marxismo sin dal 1941, finisce per sostituirlo
con il vago proposito di un comunitarismo solidaristico
russofilo di natura internazionalista che, nei fatti,
scontenta un po’ tutti, da Praga a Budapest. Già dalla metà
degli anni ’90, nel periodo della catastrofe El’cin,
Patrushev, l’ideologo della Rinascita russa, teorizzò
esplicitamente il “capitalismo politico”, in larga parte di
stato.

Che significa capitalismo politico? Che il capitalismo
controllato dallo Stato e dall’elite militare diviene un’arma
e uno strumento dell’Impero russo, superando così
l’immobilismo reazionario della tarda burocrazia sovietica.
Gli USA, come detto, non sono un capitalismo politico, ma
un’ideocrazia elitista basata sul liberismo e sulla linea
geopolitica che vede costantemente il rinato Impero russo come
primo nemico.

La Cina non è un capitalismo politico, almeno nel senso di
Patrushev, in quanto l’elite mandarina studia ancora con
profitto i testi di Marx e Engels che Patrushev ha gettato
nelle fiamme. Il termine “Socialismo di mercato con
caratteristiche cinesi”, pur con le sue ambiguità, ci pare
perciò più corretto. Dalla prova di forza della “guerra
fredda” e della successiva globalizzazione, è stata del resto
l’elite mandarina a uscire più forte rispetto al liberismo
statunitense. Di certo, le sconfitte militari americane in
Ucraina e nel Grande Medio Oriente, sono frutto della
realpolitik del Cremlino, più che dell’espansionismo
mercantilista di Pechino.

Dunque, a differenza di quanto pensa Roberto G, la Russia dei
nostri giorni è l’unico modello di un nuovo pensiero
geopolitico e strategico, moderno e flessibile, che non solo
si è concretizzato in capitalismo politico di Stato ma si è
stabilizzato e ha resistito ai più pesanti attacchi
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concentrici da guerra ibrida. Patrushev, non Trump né Deng
Xiaoping, è perciò il Machiavelli o il Mazzini dei nostri
tempi.

Quello vissuto dalla Russia di Putin dal 2014 a oggi è un vero
e proprio Risorgimento, che la pone politicamente in uno
stadio più avanzato e rispetto agli USA, ancora fermi al
neoliberismo e di conseguenza alla logica dello scambio
ineguale, e rispetto alla Cina, ancora ferma al neomarxismo
come recitano i manuali di stato. La Russia vive e progetta
come una superpotenza del 2020, Cina e USA ancora come potenze
novecentesche.

Il declino USA

Proprio in base a tali considerazioni strategiche, Patrushev
previde con anni di anticipo il declino del ciclo liberista.
La retorica dei diritti individuali, di cui il ciclo
ideocratico liberista non può far a meno, avrebbe portato
l’occidente a una stato di latente guerra di tutti contro
tutti. Lo stiamo vedendo ora proprio negli USA! Inoltre, come
è noto, gli USA si affermarono nel secondo conflitto mondiale
grazie alla produzione su larga scala di tipo automobilistico
che forniva al gigante nord-americano un notevole vantaggio,
decisivo, sull’Asse Roma-Berlino-Tokyo.

Oggi, viceversa, l’erosione della manifattura USA è diventata
addirittura una questione di sicurezza nazionale, che
richiederebbe un vero intervento militare ma gli apparati
militari statunitensi non hanno né la competenza né la
capacità per organizzare la rinascita del manifatturiero.
Tutti i tentativi dei Governi Obama I e II e dell’ultimo,
Governo Trump, per restaurare la potenza industriale interna
sono falliti.

La Silicon Valley non è datrice di istanza finale e
l’avanguardismo tecnologico USA, peraltro messo in fortissima
discussione dalle ultime scoperte cinesi, non è in grado di
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combattere la disgregazione sociale avanzante, la distanza
sempre più percepibile tra l’America delle coste e le altre
Americhe, la fine in sostanza del cosiddetto “sogno
americano”, che ha costituito la quintessenza dell’ideocrazia
liberista e della retorica del dirittismo individualistico,
con i giganti del GAFAM che puntano ormai apertamente al
totalitarismo globalista neofeudale. Per questo il capitalismo
statunitense è un capitalismo liberale oligarchico, non un
capitalismo politico.

Di conseguenza, le considerazioni di Roberto G sul presunto
unipolarismo vigente sono smentite da una lettura dei fatti in
linea con il concetto Hibrid Warfare. Gli Usa non sono più
indipendenti né industrialmente né economicamente, si reggono
ormai esclusivamente sulla potenza geopolitica del dollaro,
che è però nelle mani, in larghissima parte, di Pechino,
Tokyo, Riad, Doha. La linea Patrushev fu temprata dal crollo
sovietico, la linea sovranista e liberista Trump non sembra in
grado di poter evitare il crollo americano, la linea Biden o
del Great Reset è la classica dottrina del neoliberismo
oligarchico imperialista aggiornata alla luce dell’ormai
prossimo primato tecnologico di Pechino e del primato
geopolitico di Mosca.

Il nemico alle porte

L’elite russa sa bene che la guerra è già in atto, potrebbe
miracolosamente fermarsi o prendere forme mai viste prima.
Solo una guerra mondiale potrà infatti salvare, o
definitivamente annientare, gli USA. Lo scorso 20 maggio Qiao
Liang, influente generale in pensione, teorico della “guerra
senza limiti”, ha affermato senza peli sulla lingua che il
nazionalismo confuciano han, antioccidentale per sua stessa
natura, ha il vento della storia dalla propria parte. Fermarsi
ora sarebbe un delitto verso le nuove generazioni cinesi.

Pechino marcia verso il primato globale e verso un nuovo
ordine strategico che sostituisca allo scambio ineguale
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liberal-capitalista una sorta di “armonia democratico-
confuciana globalizzata”, secondo la versione fornita
dall’elite mandarina. Esclusa la guerra nucleare, in quanto
nessuno è disposto a lanciare il primo ordigno senza conoscere
il danno del contraccolpo avversario ma nemmeno gli effetti su
larga scala, rimangono le vie della guerra convenzionale
globale o quella del conflitto regionale tra USA e Cina, come
prevede tra le righe il documento strategico presentato da
Indopacom: Regaining the Advantage (2020-2026). Il Comando
Indopacifico scarta l’ipotesi Taiwan, un vantaggio tattico per
Pechino, prefigura invece come scenario centrale quello delle
isole dell’arcipelago Spratly.

Pechino   punta   invece   a   Taiwan,   anche   in   omaggio
all’inevitabile mobilitazione nazionalista di più d’un
miliardo di cinesi e delle varie comunità fuori frontiera.
Viceversa, Mosca immagina scaramucce continue ma terribili e
micidiali proprio sul teatro europeo o balcanico, per impedire
anzitutto il benessere materiale e psicologico europeo, punto
dolente, per il liberismo imperialista USA, delle
contraddizioni sociali mondiali.

La Germania, ormai alle prese con una vera e propria crisi
strutturale, non potrà continuare sui suoi standard se non
appoggiandosi sempre più su Pechino. Anche volesse sostenere
Berlino la nuova amministrazione Biden non potrebbe, a livello
qualitativo, fornire ai tedeschi il medesimo aiuto industriale
e tecnologico che la Cina è, invece, già in grado di
sostenere. Se Xi Jinping ha scelto l’Italia, con il suo
trasversale partito cinese (che va dalla Destra sociale di
Geraci sino a Prodi, passando per Bettini, Rizzo e D’Alema),
come retrovia politico-diplomatico, ha scelto però Berlino
come hub tecnologico-industriale della propria offensiva
europea. Mosca sarà inevitabilmente attratta in questa
perversa ragnatela, per quanto farà di tutto per serbare la
propria neutralità strategica.

Di fronte alla classica, e sconsiderata, fiammata russofoba,
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caratteristica     delle    amministrazioni     democratiche
statunitensi, ove Putin fosse messo con le spalle al muro, in
questo particolare momento storico non sarebbe da escludere,
come ipotesi realistica, uno scenario nord-coreano a Mosca:
necessaria militarizzazione della vita civile e ritirata
strategica nella fortezza Rus’.

Tali conseguenze sarebbero del tutto imprevedibili per gli
USA, che non sono stati in grado di gestire Pyongyang negli
ultimi decenni. Le cose sarebbero, a quel punto, ben peggiori
per l’Occidente di fronte a un Impero dal potenziale
geopolitico, geoeconomico e militare come è quello russo. Un
quadro evidentemente ben distante dai vari Medvedev al
Cremlino che immagina Roberto prefigurando una nuova Yalta con
gli USA di Biden. Siamo invece del parere che Vladimir Putin
si sia rivelato, soprattutto dal 2014, un ottimo interprete
politico soggettivo della linea strategica di civiltà di
Patrushev (Ruskiy Mir) o del capitalismo politico di Stato
etico.

NOTE

1) “Conversazioni con Stalin” di Gilas sono a nostro avviso
l’autentico testamento storico e politico dello stalinismo

CHE GUERRA È QUESTA?                                     di
Moreno Pasquinelli
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Libia solo per il petrolio?

C’è molto di più. E’ Maurizio Molinari che su LA STAMPA di oggi segnala come
il Paese sia un campo di battaglia geopolitico, in particolare:

  «Le milizie di al-Serraji possono contare su armi e militari della
  Turchia, mentre, sul fronte opposto i maggiori contributi bellici arrivano
  da
  Emirati Arabi ed Egitto. E’ uno scontro non solo di potere ma soprattutto
  religioso perché si contrappongono visioni concorrenti dell’Islam sunnita.
  Per
  Ankara la Fratellanza Musulmana è la più pura espressione dell’Islam
  politico
  mentre per Il Cairo e Abu Dhabi si tratta di pericolosi terroristi».

Giusta chiave di lettura quella di
Molinari, che segnala quindi come la Libia sia un nuovo tassello del più
ampio
conflitto che dilania il Grande Medio Oriente, conflitto che vede la Siria
come
epicentro e che oramai, com’era inevitabile, ha trascinato nel suo vortice il
Mediterraneo. E qui vien fuori il patetico ruolo dell’Italia — paese
subimperialista sovraordinato non solo dall’imperialismo americano ma pure da
quello carolingio. L’Italia, nonostante sia il centro
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geografico del
Mediterraneo, mai come ora è stata condannata svolgere il ruolo di comparsa.
Il
governo immagina di camuffare la propria nullità con mosse da avanspettacolo
e
poi facendo appello ad un’azione (sic?) congiunta dell”Unione europea. Il
nulla invoca il niente. La Ue è costretta ad assistere impotente alle mosse
altrui e ad aggrapparsi al cessate il fuoco deciso da Putin ed Erdogan.
Vedremo
se questo sarà rispettato (da Egitto, sauditi ed Emirati) o se invece non
assisteremo ad una ulteriore libanizzazione del conflitto con nuovi
cambiamenti
di fronte.

Al riguardo della Ue Romano Prodi scrive oggi
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su IL MESSAGGERO:

  «L’Unione
  Europea è oggi considerata dagli Usa un pericoloso concorrente nel campo
  commerciale e un alleato inutile nel campo militare, mentre aumentano le
  distanze e si moltiplicano le frizioni nel campo strettamente politico. Di
  fronte a questo mutamento del quadro di riferimento, non è invece cambiata
  nemmeno di un millimetro la strategia europea. Le divisioni nella politica
  estera continuano come prima con la conseguenza che, con l’affievolirsi
  della
  solidarietà atlantica, viene lasciato sempre più spazio ad altre potenze
  regionali, anche nei teatri di maggiore interesse per noi. Il caso della
  Libia
  è di per se stesso esemplare. Le divisioni europee hanno fatto in modo che
  il
  destino di un paese così vicino sia oggi conteso fra Russia e Turchia.
  Tutto ciò,
  impensabile anche solo pochi mesi fa, ci deve fare riflettere su come sia
  difficile dare concreta attuazione al disegno “geopolitico”che è alla base
  del
  progetto della nuova Commissione Europea. È infatti impossibile mettere in
  atto
  una strategia globale quando non si riesce ad avere un ruolo attivo nemmeno
  in
  un ambito regionale».

Detto in parole
povere Prodi ci sta dicendo che sul teatro libico-mediterraneo è stato messo
a
nudo che l’Unione europea è un organismo moribondo, ove si palesa il
fallimento
del disegno geopolitico di farne un polo imperialistico globale. Non c’è e
non
ci può essere, tanto più in un orizzonte policentrico, una potenza che non
sia
anzitutto una potenza militare globale.
La “Guerra dei Trent’anni”

Ma torniamo al Grande Medio Oriente. La Libia è un nuovo
tassello (non sarà l’ultimo perché tutto il Maghreb rischia di
essere trascinato nella mischia) del più ampio conflitto che
dilania quell’area.

Ogni analogia va presa con le pinze, ma il Grande Medio
Oriente vive la sua “Guerra dei Trent’anni”, il conflitto che
devastò l’Europa tra il 1618 e il 1648 e che si concluse con
la Pace di Westfalia, da cui sorse la moderna Europa della
nazioni — Europa delle nazioni sovrane che l’élite eurocratica
ha tentato velleitariamente di seppellire con un terzo
tentativo di unificazione; i primi due furono quello
napoleonico e quindi quello hitleriano.

Una guerra, quella che dilania l’area, destinata quindi a
durare a lungo, e il cui esito finale sarà necessariamente una
ridefinizione di mappe a confini, con Stati che spariranno e
nuovi che sorgeranno.

La Siria, dicevamo, è l’epicentro di questo conflitto. Per la
precisione il teatro è quello del Mashrek, la Mezzaluna
Fertile, l’ampia zona che va dal Nilo e all’Eufrate, che
coinvolge dunque paesi come l’Egitto, la Giordania, il Libano,
la Siria e l’Iraq e, ovviamente la Palestina.

Un peso in ultima istanza determinante ce l’ha dunque Israele
(la principale potenza non solo militare dell’area), il cui
disegno strategico (mai negato dai sionisti) è il Grande
Israele, che va, dal Nilo all’Eufrate, la Mezzaluna Fertile
appunto — vedi mappa in alto. Israele fino ad ora si è tenuta
ai margini della guerra ma si prepara a dire l’ultima parola,
ovvero a gettare sulla bilancia tutto il suo peso quando si
tratterà di siglare, semmai questo avverrà, la nuova Pace di
Westaflia. In questa prospettiva Israele non può che vedere di
buon occhio l’attuale conflitto tra le medie potenze islamiche
coinvolte: più si dissanguano più Israele rafforza le proprie
posizioni, e più si potrà realizzare in futuro il suo grande
sogno espansionista.

Data la posta in palio si capisce come non possano che essere
coinvolti sia la super-potenza americana che la Russia
putiniana, ma il ruolo decisivo ce l’hanno le medie potenze
della regione: Turchia, Iran, Egitto e Arabia Saudita —
sbaglia chi le considera solo pedine di USA o Russia.

La Siria appunto — vero e proprio ginepraio come lo fu e molto
probabilmente tornerà ad essere il Libano — ove è iniziato lo
scontro per l’egemonia nel mondo islamico. Uno scontro
duplice: da una parte tra il campo sunnita e quello shiita
(con l’Iran capofila di quest’ultimo), dall’altra entro il
campo sunnita (con Turchia e Qatar da un lato e Arabia
Saudita, Emirati ed Egitto dall’altro).

A destra un’aggiornata mappa russa con l’attuale (provvisoria) partizione della
Siria dopo l’accordo Russo-Turco. L’ampia zona colorata in ocra sotto controllo
dell’alleanza russo-iraniana-forze proAsssad. La zona celeste a Sud sotto
controllo USA. La zona in verde chiaro a Nord Est sotto controllo curdo. A Nord
Est in marrone la sacca di Idlib sotto controllo dei guerriglieri sunniti del
fronte Jabhat Fatah al-Sham. Lungo la frontiera del Nord le ampie zone sotto
controllo turco. Clicca per ingrandire

Iniziata in Siria nel 2013 questa nuova Guerra dei Trent’anni,
proprio come accadde in Europa, ha visto diversi
capovolgimenti di fronte, rotture e momentanee ricomposizioni
tattiche di alleanze. Altre ne vedremo. Ma alcune linee di
fondo sono già evidenti.

La Siria come Stato nazione unitario e sovrano non esiste più,
consiste in uno spezzatino di vari protettorati: una zona in
mano al blocco Russia-Iran-Assad, un’altra in mano ai turchi,
una in mano ai ribelli guidati dal al-Nusra (oggi Jabhat Fatah
al-Sham), un’altra in mano agli americani, vaste zone contese
(con l’ISIS ancora in agguato). Una libanizzazione che
riguarda anche l’Iraq e spazzerà via domani altri stati della
regione. Una libanizzazione, ripetiamo e precisiamo il
concetto, che avvantaggia Israele e la superpotenza americana,
e pregiudica in modo letale la costituzione di un campo anti-
sionista e antimperialista, che quindi andrebbe contrastata
con forza.

L’Iran in un vicolo cieco

La Repubblica Islamica dell’Iran invoca un fronte
antimperialista ed anti-sionista, ed anzi si considera, oltre
che roccaforte di questo campo, la sua prima linea. Sorgono
tre domande alle quali è necessario dare una risposta. La
prima: si potranno cacciare le potenze imperialiste dalla
regione, USA e Israele in testa, senza una generale
sollevazione delle masse popolari? La seconda: potrà sorgere
una vasto e unitario fronte antimperialista e anti-sionista a
guida persiana nel Grande Medio Oriente? E quindi la terza:
potrà mai l’Iran avere l’egemonia in questo fronte?

Alle tre domande corrispondono tre no.

Un grande fronte antimperialista potrà infatti sorgere solo ad
una essenziale condizione, che entrino in scena le grandi
masse oppresse della regione. Piaccia o meno queste sono
anzitutto arabe e di fede sunnita. Piaccia e non piaccia esse,
per cause storiche profonde, considerano

  L’accerchiamento americano dell’Iran

l’Iran un corpo estraneo. Troppo forte e radicata la
diffidenza, in certi casi ostilità aperta sia verso il
nazionalismo grande-persiano (che i sunniti iracheni bollano
come “safavide”), sia verso la “empia eresia” shiita — il
takfirismo dell’ISIS è solo la forma patologica di questa
atavica avversione.Dice qualcosa o no che il proditorio
attacco con cui il Pentagono ha giustiziato Suleimani non ha
suscitato tra le masse arabe oppresse alcuno slancio di
solidarietà verso l’Iran?

Sintomatici, al contrario, alcuni festeggiamenti avvenuti, sia
in Iraq che in Siria. Si possono certo biasimare quanto si
vuole queste lugubri esultanze, ma queste sono la punta di un
iceberg, il sintomo di un dato di realtà a cui non si può
sfuggire, e che obbliga i vertici della Repubblica Islamica
dell’Iran a riflettere con senso strategico e, secondo noi, a
compiere una necessaria autocritica.

Giusto o sbagliato?

E’ stato giusto o sbagliato dare il semaforo verde
all’invasione e allo squartamento dell’Iraq da parte della
coalizione imperialista capeggiata dagli USA per poi giungere
all’abominio di amministrare con essi il Paese in more uxorio?
E’ stato strategicamente corretto, all’inizio della guerra
civile siriana, invece che adoprarsi per una soluzione
politica negoziata con i settori meno oltranzisti della
maggioranza sunnita e la sinistra nazionalista siriana,
schierarsi armi e bagagli con la minoranza alawita — come del
resto Ahmadinejad, quando era ancora al potere a Tehran,
sembrava invece suggerire? E’ stata una mossa che ha dato
frutti spingere il governo iracheno nonché le milizie filo-
iraniane di Shibl al-Zaidi (Forze di Mobilitazione Popolare) a
sparare facendo più di un centinaio di vittime contro le
enormi manifestazioni di protesta popolare (ancora in corso)
culminate nell’occupazione, a Baghdad, della centralissima
Piazza Tahrir.

Ergo: sono sicuri, a Tehran, che siano state azzeccate le
ultime mosse strategiche e tattiche volute da Suleimani? Detto
con parole più chiare: è stato forse perspicace aver fatto
leva sulla divisione settaria e confessionale e con ciò,
invece di smorzare la “fitna”, di alimentarla? Non corre
l’Iran il rischio che ciò si risolva in un boomerang con il
rischio che il malcontento interno contro l’austerità — vedi
le proteste di un mese fa e quelle attuali per i funerali
delle vittime dell’aereo civile abbattuto dai Pasdaran per
errore — dilaghi?

Di sicuro queste domande se le stanno ponendo a Tehran, prova
ne sia la risposta di molto basso profilo data agli americani
dopo l’assassinio di Suleimani, segno inequivocabile che una
guerra guerreggiata con gli USA e i loro alleati il regime
iraniano non la desidera e vuole evitarla.

La Repubblica Islamica dell’Iran sembra finita in un vicolo
cieco. Pare a noi che sia necessaria, e probabile, una doppia
svolta, sul piano interno e della politica estera. I prossimi
mesi ci diranno che
La preponderanate presenza militare USA in Medio Oriente

tipo di svolta avremo, se consisterà in un’apertura all’imperialismo
americano e alle pressioni della borghesia nazionale o se, al contrario, si
farà appello alla fine della “fitna” e verrà messo in discussione il modello
capitalistico di rapina verso un potere effettivamente popolare. Fonte: Campo
Antimperialista

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L’IRAN     E    LA    GUERRA
ASIMMETRICA (ANTIMPERIALISTA)
di A. Vinco

    Imaagine icastica: Suleimani abbraccia l’Imam Hussein
                      presente Khomeini
Riceviamo e volentieri pubblichiamo

«La Scienza nucleare è benefica ma dal momento che non è stata
associata all’Amore per l’umanità e per gli Oppressi, ha
portato ai peggiori disastri contro l’ordine divino. L’Iran ha
la capacità di sviluppare le bombe nucleari, ma lo abbiamo
evitato e continueremo a evitarlo con fermezza e coraggio,
poichè costruire e conservare bombe nucleari, come usarle, è
haram, è proibito dalla Fede islamica». (Seyyed Alì Khamenei,
Guida Suprema della Rivoluzione Iraniana)

Il liberale plutocrate “di destra” Donald Trump — protagonista
di crimini di guerra, in Medio Oriente, come tutti i liberali
imperialisti statunitensi negli ultimi anni cento anni —
sembrava ieri esultare, per nascondere il suo timore. La
mobilitazione di massa di un intero popolo, quello iraniano,
che vuole la guerra mondiale antimperialista non può lasciare
indifferente la lobby sionista saudita che domina l’Occidente.
Con Trump, al fianco di Trump, esultavano per nascondere il
timore gli organi di stampa del liberalismo occidentale “di
sinistra” antitrumpiano.

Questo a ulteriore prova del fatto che la Repubblica Islamica
dell’Iran è dal 1979 l’antagonista strategico
dell’imperialismo “post-liberale” occidentale. Il Comitato
Centrale di P101, l’8 gennaio 2020, tira in ballo la
precedente “epoca di collaborazione” tra le milizie irakene
filoiraniane e le forze armate americane contro l’Isis. Ciò
non contraddice affatto la logica di guerra frontale del
terrore che si ha formalmente dal febbraio 1979,
sostanzialmente dal 22 Settembre 1980 contro l’Iran
rivoluzionario.

La guerra ortodossa e frontale si adegua, storicamente, a
fasi, più o meno lunghe, di guerra ibrida non ortodossa
qualora l’Avversario si mostri un osso più duro del previsto.
La Francia napoleonica resistette per 11 anni circa
all’assalto della talassocrazia anglosassone. Il Giappone
Imperiale di Hideki Tojo resistette per nove anni al terrore
globale del liberalismo occidentale-atomico plutocratico, che
iniziò a imporre sanzioni e restrizioni economiche di ogni
tipo al Giappone (il paese più povero al mondo di materie
prime) dal 1936: e avrebbe resistito all’infinito, nonostante
il crimine liberale contro Dio, il più grande, probabilmente,
mai verificatosi nella storia del genere umano, di Hiroshima e
Nagasaki, ove l’Imperatore non avesse imposto unilateralmente
lo stop alla Resistenza antioccidentale del popolo nipponico.
La Repubblica Islamica dell’Iran sta resistendo invece ad un
assalto imperialista mondiale, guidato dalla decisiva lobby
filoisraeliana occidentale, da 41 anni.
Nella foto: Esmail Qaani, successore di Suleimani con alle
spalle le bandiere di: Pasdaran (Iran), Basiji (Iran),
Hezbollah (Libano), Ansarullah (Yemen), Hashd Shabi-PNF
(Iraq), HAMAS (Palestina), Liwa Fatemiyoun (Afghanistan), Liwa
Zainebiyoun (Pakistan)

Ma la strategia dei sionisti e degli imperialisti, sconfitti
sul campo in ben tre casi dall’Hezbollah Libanese, è sempre la
stessa da 40 anni ad oggi. Armano il vicino, come fu nel caso
dell’Irak saddamista, per scagliarlo contro l’Iran; addestrano
o tollerano feroci e spietati terroristi e stragisti di
bandiera Saudita per utilizzarli, quando e se vi riescono,
contro le milizie iraniane; colpiscono, con metodi
terroristici vietati da ogni convenzione internazionale, gli
alleati strategici dello Stato Rivoluzionario dell’Iran, dalla
Siria baathista all’Hezbollah, dal Venezuela bolivarista alla
Rivoluzione Yemenita; compiono crimini di stato, come quello
del Generale Soleimani, come a decine ne hanno compiuti o
fatti compiere contro dirigenti di primo piano e ayatollah
iraniani; non osano però attaccare direttamente, boots on the
ground, l’Iran. Di contro, le milizie iraniane, nel teatro
strategico irakeno, nel quale l’esercito statunitense che vi
si trova illeggittimamente si è macchiato di violenze tali di
cui l’opinione pubblica occidentale non ha la minima
consapevolezza, hanno affrontato a viso aperto il nemico
americano, così come nella Siria liberata la bandiera
dell’Iran e della Forza Quds ha significato concretamente la
riscossa degli Oppressi e la disintegrazione dei piani
strategici del sionismo e delle monarchie reazionarie
filoccidentali del Golfo. La finalità strategica dei
neoconservatori, della lobby evangelico-sionista e dei
plutocrati sauditi, che tiene in ostaggio la destra liberale
trumpiana, è la medesima della sinistra liberale clintoniana:
portare la Nazione iraniana al collasso economico, strangolare
il popolo persiano con il laccio del Terrore parallelo
sanzionista, orientando così l’inevitabile delusione verso lo
Stato sulla via di una Rivoluzione Colorata a Tehran.
L’omicidio del Generale Soleimani, come quello di Isoroku
Yamamoto (18 aprile 1943), mette in risalto la quintessenza
disumana e subdola del liberalismo plutocratico USA, ma non
danneggia, come si crede, la strategia dello Stato Profondo
iraniano. La quintessenza vile e codarda dell’americanismo,
secondo Alessandro Di Battista.

Scrivevamo, ormai un mese fa, che quella di Soleimani era
ormai una vera e propria Scuola di Resistenza antimperialista.
Scuola di Pensiero e Azione che trascendeva l’individuo o il
Generale Soleimani
(https://sollevazione.blogspot.com/2019/12/qasim-soleimani-e-i
l-destino-delliran.html). Di conseguenza Esmail Qaani
(Comandante della Forza Quds dal 3 Gennaio 2020) avrà modo di
mostrare al mondo la sua concreta Strategia antimperialista in
difesa dei deboli, degli sfruttati, degli Oppressi. La
reggenza Qaani ha preso avvio con l’operazione “Soleimani
Martire”; ma la vera missione Qaani sarà una operazione
strategica probabilmente lunghissima caratterizzata dalla
grande pazienza, dalla flessibilità e dalla continua e
consapevole lucidità che una simile missione – la definitiva
Liberazione degli Oppressi del Medio Oriente dal secolare
terrorismo razzista e imperialista post-liberale – porta
inevitabilmente con sè. Il mondo ha ieri sospeso il fiato per
una diversione tattica rappresentata dal lancio di qualche
missile verso una base USA in Iraq, non cogliendo
probabilmente il vero significato politico e geopolitico della
intera questione. Il Medio Oriente ha pagato il secolare
dominio statunitense-saudita-israeliano con circa nove milioni
di civili morti e con una scia ininterrotta ed infinita di
sangue e dolore: con il 2020, questo secolare dominio di
oppressione e terrore ha definitivamente esaurito la sua
spinta storica. Il popolo iraniano e quello di Gaza, come
larga parte di quello irakeno, libanese, yemenita, bahraini,
vogliono la guerra globale antimperialista e la vendetta per
la martirizzazione del Generale Soleimani. L’elite
rivoluzionaria, raccolta attorno alla Guida Suprema, più
prudente e moderata, vuole invece una concordata e diplomatica
mediazione con le forze non occidentali e non
filoisraeliane,come possono essere Russia e Turchia, per
evitare l’escalation globale della guerra. Ma la sostanza è
ormai fuori discussione: l’abbandono del Medio Oriente da
parte delle forze terroristiche di occupazione americana e la
necessaria fine di ogni sostegno saudita o israeliano a
terroristi modello Isis.

SE GUERRA HA DA ESSERE…

Comunicato n. 1/2020 del Comitato Centrale di P101

Fuori gli imperialisti dal Medio
oriente!

La criminale uccisione del generale Qassem Soleimani segna un
salto di qualità nella politica aggressiva dell’imperialismo
americano in Medio oriente. Dopo la rottura dell’accordo sul
nucleare, l’imposizione di pesanti sanzioni, è questo l’ultimo
scalino di un’escalation contro l’Iran che potrebbe condurre
alla guerra.

In questo quadro torna centrale l’Iraq. Dopo le due
aggressioni imperialiste (1991 e 2003), dopo le sanzioni che
affamarono quel popolo tra le due guerre, neppure l’eroica
resistenza popolare seguita all’invasione di 17 anni fa riuscì
a cacciare del tutto gli americani dal paese. Le divisioni
settarie, soprattutto quelle di natura religiosa, consentirono
infatti agli USA (accordo del 2008) un ritiro non disastroso,
tale da mantenere una presenza militare ed una forte influenza
politica sul governo di Bagdad.

In 12 anni ne è passata di acqua sotto i ponti. L’epoca della
collaborazione di fatto tra le milizie filo-iraniane e le
forze armate americane contro l’Isis (si pensi alla battaglia
per riconquistare Kirkuk) è finita da tempo. Adesso
l’imperialismo statunitense ha nel mirino la Repubblica
Islamica dell’Iran, in primo luogo l’influenza di Teheran nel
Paese dei due fiumi.
Clicca per ingrandire. Presenza militare USA in Medio oriente nel maggio 2015 ..

Sbaglia chi pensa che l’uccisione di Soleimani sia stata
principalmente il frutto della personalità disturbata di
Trump. Certe azioni non sono mai decise d’impulso, sono invece
tasselli di una strategia ben pianificata tendente a
raggiungere obiettivi altrettanto precisi. Quali possono
essere questi obiettivi è presto detto: a) riaffermare il
potere americano nella regione, b) spingere l’Iran in un
vicolo cieco, c) prendere il controllo sostanziale dell’Iraq.

Rispetto a quest’ultimo punto è probabile che i decisori di
Washington abbiano valutato come estremamente favorevole il
quadro di spaccatura del paese — perfino dentro il campo
shiita — che è emerso dalle manifestazioni popolari degli
ultimi mesi. Talvolta, però, certi calcoli si scontrano con la
realtà. Sta di fatto che il parlamento di Bagdad ha deliberato
finalmente l’espulsione delle truppe americane dall’Iraq.

In questo modo ogni legittimazione alla presenza militare
americana è stata cancellata, ma di certo Washington se ne
infischierà, dato che l’imperialismo a stelle e strisce non
intende certo abbandonare le sue basi, tanto meno nel momento
in cui, come oggi, i suoi rapporti con la Turchia sono sempre
più critici.

Nel riaffermare l’obiettivo della cacciata degli USA e della
NATO dal Medio oriente, MPL-Programma 101 sottolinea la
necessità del ritiro immediato dei 900 militari italiani
presenti in Iraq.

              clicca per ingrandire

Su questo punto, come sulla gravità dell’azione americana, la
politica italiana o tace (come nel caso indecoroso del
governo) o dice cose di una gravità inaudita, come quelle
pronunciate da Salvini. Parole, quelle del capoccia della
Lega, che chiariscono fino in fondo come ci si trovi di fronte
ad un falso sovranista, in realtà un servo sciocco della
cupola imperiale di Washington.

Ma il silenzio — sia quello del governo, che quello di un
finto sovranismo che non sa neppure riconoscere i veri
interessi nazionali — diventa ancora più significativo se si
passa ad esaminare la grave situazione libica.

Il governo Conte (ma su questo neppure Salvini ha qualcosa da
eccepire) ha di fatto abbandonato la Libia al suo destino.
Eppure, nel 2016, l’Italia (con il sostegno in pompa magna
tanto dell’ONU che dell’UE) aveva concorso ad insediare al
Serraj a capo del governo di Tripoli.

In questo modo le truppe del generale Haftar — dietro alle
quali c’è il sostegno militare ed economico del blocco Arabia
Saudita-Emirati-Egitto-Israele, nonché quello della Francia —
puntano dalla primavera scorsa alla conquista di Tripoli per
poi spartirsi, a beneficio dei protettori di cui sopra, le
risorse energetiche del paese. Adesso, dopo mesi di assedio
alla capitale da parte di questa compagnia di ventura basata
in Cirenaica, ci si scandalizza dell’intervento della Turchia
a sostegno del governo al Serraj!

       … e la presenza militare USA oggi

Come antimperialisti siamo innanzitutto a difesa
dell’indipendenza della Libia. Ma se le truppe di Haftar non
verranno fermate, quell’indipendenza sarà comunque persa. E
sarà persa a tutto vantaggio delle forze più reazionarie della
regione. Quelle schierate al 100% con gli USA ed Israele.

Come si vede la situazione è complessa e pericolosa, tanto in
Medio oriente che nel Nord Africa. E’ una situazione che
coinvolge in vari modi anche l’Italia, mettendo in luce sia le
conseguenze dell’appartenenza alla NATO, sia quelle di essere
membri di un’Unione Europea che certo non può andare contro
agli interessi francesi in Libia.
Per riconquistare la sovranità nazionale si dovrà dunque
uscire sia dal Patto atlantico che dall’UE, facendo
dell’Italia un Paese neutrale, capace di sviluppare relazioni
amichevoli con i paesi del Medio oriente, per la libertà dei
popoli e l’indipendenza delle nazioni di quella regione.

– Massima unità contro l’imperialismo americano e il sionismo!
– Sostegno alle resistenze antimperialiste fino alla vittoria
finale!

* Fonte: Programma 101

LA SIRIA, LA RUSSIA E                                     IL
TRAMONTO   DELLA NATO                                     di
Alberto Negri

  I combattenti dell’ESL (Esercito Siriano Libero),
ovvero gli ascari dell’esercito turco nella battaglia
      per cacciare i curdi dal Nord della Siria
[ mercoledì 16 ottobre 2019 ]
IN UNA SETTIMANA IL MONDO è
                CAMBIATO
                       di Alberto Negri
In una settimana il mondo è cambiato: è arrivato il Capo,
quello vero. Questa non è una guerra come le altre: il mondo
uscito dal crollo del muro di Berlino nell’89 è cambiato
ancora una volta. In pochi giorni sono stati bruciati 30 anni
di storia, forse li ha guadagnati Putin diventato il vero co-
gestore della politica internazionale.

Mentre gli Usa rinunciavano a proteggere i curdi, la loro
«fanteria» contro il Califfato. Le truppe russe ora colmano il
vuoto lasciato dagli Stati uniti e fanno interposizione tra i
due Raìs, Assad ed Erdogan, e i curdi. Un sincronismo quasi
perfetto da apparire concordato.

LA RUSSIA vede davanti a sé un obiettivo: stabilire che niente
sarà più fatto contro gli interessi di Mosca. Non ci sarà più
un altro Kosovo (’99), non ci dovrà più essere neppure
un’altra Libia (2011) e nemmeno rivoluzioni «colorate»,
Venezuela compreso. Quanto all’allargamento futuro della Nato,
l’atlantismo, nemico giurato della Russia, sembra sul viale
del tramonto. Il fatto più evidente è che la Turchia ha
disgregato un’Alleanza che da 70 anni sembrava la più solida
del mondo. Erdogan ha sbeffeggiato gli appelli di Trump,
dell’Europa e del segretario Nato Stoltenberg, ormai uno
stralunato e imbarazzante commesso viaggiatore. Si tratta di
un evento epocale: gli americani che avevano nei curdi i loro
maggiori alleati nella lotta all’Isis li hanno abbandonati per
non scontrarsi con la Turchia, membro della Nato dal 1953, che
ospita 24 basi e i missili puntati contro Mosca e Teheran.

UNA SITUAZIONE assurda. In queste condizioni la Nato non ha
più senso, a meno che non venga radicalmente riformata.Cosa
non semplice, non si può dare un calcio alla Turchia come con
la finale 2020 di Champions a Istanbul, l’unica vera sanzione
che forse sarà attuata davvero. La Turchia viene cooptata nel
fronte occidentale negli anni Cinquanta per fare da antemurale
all’Unione Sovietica, cioè a quel mondo comunista che veniva
ritenuto il nemico più micidiale. E ora Erdogan, che usa i
jihadisti contro curdi ma anche contro l’Occidente e ricatta
l’Europa con i profughi, è diventato l’avversario più
pericoloso.

NON SOLO: Putin, che con l’Iran sostiene Assad, è l’unico che
può frenare Erdogan o negoziare con lui non da perdente ma da
protagonista serio su cose serie come Idlib, il Rojava, il
futuro della Siria, il sistema anti-missile S-400, il
nucleare, il gas russo di cui Ankara è il maggiore acquirente.
Certo, come scriveva lunedì sul manifesto Manlio Dinucci, è
dura ammettere che si è rivoltato contro un alleato in cui la
Nato ha investito 5 miliardi di dollari e che rappresenta un
succulento mercato bellico occidentale.

MA TECNICAMENTE la Nato non ci serve più a niente visto gli
Usa hanno rinunciato al loro ruolo di guida dell’Ovest: in
poche parole Trump non solo ha abbandonato i curdi ma anche
l’Europa e il Medio Oriente in mano alla Russia, l’unico stato
che oggi fa vincere le guerre e non abbandona gli alleati.
Tanto è vero che Putin è andato in Arabia Saudita a
rassicurare Riad di fronte all’Iran, alleato di Mosca in
Siria.

L’unica notizia positiva per gli americani, riportata dal Wall
Street Journal, è che stanno vendendo ai sauditi delle
centrali nucleari.

L’importante per Trump, in fondo, è fatturare. Per gli Usa
Europa e Medio Oriente non sono più strategici: sono mercati
dove vendere armi e infrastrutture militari, mercenari
compresi che presto useremo anche noi al posto dei soldatini
di cioccolata.

I PIÙ STUPIDI sono i sauditi del principe assassino Mohammed
bin Salman cui Trump ha venduto armi per 100 miliardi di
dollari e sono stati colpiti in casa da un attacco che ha
ridotto di metà la produzione petrolifera. Ma queste armi non
servono a nulla perché gli imbelli sauditi stanno perdendo in
Yemen contro gli sciiti Houthi appoggiati da Teheran. E quindi
abbracciano anche Putin.

MA AVEVATE creduto veramente che gli Stati Uniti fossero
ancora disposti a morire per i curdi, gli arabi o gli europei?
Dopo i fallimenti dell’Afghanistan e dell’Iraq, a Washington
nessuno vuole morire per la nostra sicurezza. Non la pensa
così solo Trump. Anche Obama nel 2011 si era ritirato
dall’Iraq lasciando il Paese nel caos e poi in mano al
Califfato. La guerra all’Isis agli americani non è costata
neppure un morto Usa: sono stati uccisi invece 11mila curdi.

Se Erdogan ci ricatta, Trump ci prende in giro
sanguinosamente. I jihadisti europei scappano dalla carceri
curde? Se li volete andate a prenderveli, dice Trump. Più
chiaro di così.

Ma i sepolcri imbiancati che governano l’Europa dicono una
stupidaggine dietro l’altra. Per esempio decretano l’embargo
di armi contro la Turchia. Peccato che siamo proprio noi con
Leonardo-Finmeccanica a costruire le armi in Turchia: per
esempio i magnifici elicotteri Mangusta dell’Agusta-Westland.

EPPURE eravamo così felici quando incassavamo dai turchi:
commesse e posti di lavoro, che cosa vuoi di più? Alcuni
vorrebbero mettere sanzioni ad Ankara. Ebbene il 70% dei
prestiti delle aziende turche sono con banche europee e sono
centinaia se non migliaia le società delocalizzate in Turchia:
volete boicottare la pasta Barilla o Benetton adesso?

* Fonte: il manifesto del 16 ottobre 2019
Agli europei il Nuovo Mondo, senza una Nato vera, senza legge
e senza mediazioni, ma pieno di contraddizioni e con Putin al
comando, è piombato addosso come un treno in corsa. E ora il
tempo è scaduto.

I TEMPI CHE VIVIAMO, QUELLI
CHE VIVREMO di F.S.

[ domenica 21 luglio 2019 ]

Scrivevo pochi giorni fa come il “Deep state” occidentale, di
cui espressioni politiche son tanto i neo-cons quanto la
frazione Clinton, punti a disarcionare la Lega a trazione
salviniana di cui non può tollerare l’apparente volontà
strategica di legare Roma mediterranea alla Russia. In questo
senso, Salvini, come hanno scritti i reazionari fautori
dell’ordine globale liberale ed unipolare occidentale, è “il
politico più pericoloso che oggi vi sia”. Questo elemento dà
anche modo di comprendere i tempi che viviamo e che vivremo.

Alexander Svechin e la guerra non
ortodossa

Non fu la scuola tedesca l’ideatrice della guerra lampo, come
erroneamente si tramanda nell’ambito della storiografia
militare; fu invece il generale russo Aleksey Brusilov
(1853-1926) il quale dopo aver elaborato il concetto di
offensiva strategica, lo sperimentò con successo nell’estate
1916 nei frangenti della prima guerra mondiale, in quella che
sarà tramandata alla storia come l’ultima coraggiosa
iniziativa vittoriosa dell’esercito zarista. Allo stesso modo,
non sono stati gli americani, né tantomeno i cinesi, i teorici
della guerra ibrida ed asimmetrica di cui oggi si fa un gran
parlare: fu Alexander Svechin (1878-1938), cristiano ortodosso
nato ad Odessa e fervido patriota russo, ucciso impietosamente
ed inspiegabilmente dal terrore staliniano, oscura fase a cui
solo la “grande guerra patriottica” mise fine riconciliando il
popolo russo con lo stato sovietico;“i russi ritrovarono
finalmente la Patria…” disse ricordando quei tragici giorni
Alexander Solzenicyn, che cita peraltro in più contesti
Svechin con notevole ammirazione, ad esempio nel ciclo della
“Ruota Rossa”.

    Alexander Svechin
Svechin è probabilmente il genio strategico del XX secolo.
Gerasimov lo considera una personalità eccezionale, con idee
rivoluzionarie e anticipatrici, appartenente al piccolissimo
novero dei “fanatici” (nell’accezione positiva del termine)
pronti a dare la vita per la santa Russia.
  «Il nostro paese ha pagato con fiumi di sangue il non aver
  dato ascolto alle profezie di questo professore
 dell’Accademia dello Stato Maggiore». (V.Gerasimov, Il valore
 della scienza nella previsione).

Con decenni d’anticipo rispetto alla “Guerra senza limite” di
Liang Qiao-Xiangsui Wang o a quanto finirà per esporre in
Occidente il più dotato teorico del realismo liberale che ha
sviluppato anni fa l’idea globale di “superimperialismo
benigno”, l’ebreo-americano “neokautskyano” Richard Haas; con
decenni d’anticipo rispetto alle successive rivoluzioni
tecnologiche e alla Cyberwar, Svechin, solitario, intuì la
superiorità della tattica sulla strategia. Ciò significa non
solo necessità del superamento del vuoto o del brevissimo
limite spazio/temporale tra fase di guerra e fase di apparente
stasi, ma anche, in contrapposizione alla scuola giacobina-
napoleonica e a quella prussiana allora dominanti,
ridimensionamento della guerra d’assalto. L’onda lunga
dell’insigne pedagogia storica politica di Suvorov (1729-1800)
e Kutuzov (1745-1813), della quale la miglior e più vivida
rappresentazione ci è data in Guerra e pace di Tolstoj,
finisce così per ispirare Svechin.

Elaborando la visione della grande retrovia interna e dello
spazio territoriale di profondità, da cui conservare e
estrarre le strategiche materie prime, Svechin nei primi Anni
Trenta, critico moderato di Clausewitz ma deciso ammiratore di
Helmuth Von Moltke (1800-1891), si contrappone al
neobonapartismo del maresciallo Tuchacevskij, che verrà
anch’egli ucciso dal regime sovietico nel giugno del 1937,
teorizzando, ormai certo dell’arrivo della seconda guerra
mondiale, che la vittoria militare potrebbe anche
corrispondere ad una misera sconfitta geopolitica e politica o
viceversa.

In epoca contemporanea, perciò, la fase strategica per il
Nostro non è tanto decisa dall’abbagliante lampo dei missili o
dalla fulmineità della pianificazione militare, quanto invece
lo possa essere dal profondo intimo possesso di un pensiero
politico tattico. Diversamente dall’opera di G.S. Isserson,
Nuove forme di combattimento.
Un saggio di ricerca sulle guerre moderne (1940), Svechin
considerava già dai primi Anni Trenta politicamente superato
l’esempio della guerra lampo o le modalità offensiviste e

strategiche. Il concetto di “guerra non ortodossa” implica
anzitutto una possibile attenuazione politica e diplomatica
della dimensione militare.

L’apparato profondo industrial-militare americano ha saputo
utilizzare per i propri fini, nel corso della guerra fredda,
il concetto di “guerra non ortodossa” ben più di quanto abbia
saputo fare lo stato profondo sovietico, che soprattutto nella
tarda epoca brezneviana ha puntato erroneamente sul militare
convenzionale, sbagliando obiettivo. La dottoressa finlandese
Rauni Kilde prima di deviare in astrazioni ufologiche, dette
la contezza di vari esperimenti indirizzati in tal senso dallo
stato profondo occidentale, anche sul piano del controllo
mentale di massa.

La regolazione della bilancia

Tentando di applicare oggi l’immortale lezione di Svechin, ci
dobbiamo perciò per forza di cose ricollegare alla teoria
della “regolazione” della bilancia di Haas. La regolazione
della bilancia interimperialista globale ha l’obiettivo
esplicito di una ordinata gestione del declino relativo degli
USA. Lo stesso Craig Van Grasstek, specialista americano del
commercio con decenni di esperienza accademica e
professionale, agente della globalizzazione unipolare per
conto di istituzioni come la Banca Mondiale e OCDE, grande
cultore del pensiero realista di Tucidide, ha scritto di
recente: “Si può immaginare che nel corso di 10 anni i
rapporti di forza tra le potenze imperialiste rimangano
immutati? Assolutamente no”. Anche per i realisti liberali,
l’ordine liberale, dogmaticamente imposto, ha messo in crisi
tutto l’Occidente.

L’ineguale sviluppo politico e economico porterebbe
all’erosione del primato globale nord-americano, generato da
un lato dalla stabilizzazione policentrica di altre potenze,
dall’altra dall’indebolimento strutturale interno
statunitense. Hass sostiene a tal riguardo che è quindi
necessario prevenire una combinazione ostile di elementi in
Europa, nel Golfo Persico, nell’Asia, stabilizzando “bilance
accettabili” per l’interesse globale statunitense, prevenendo
nella tattica oppositiva o antagonista ogni alterazione
eccessivamente sovversiva del quadro geopolitico e
geoeconomico tollerabile.

  Tuchačevskij, Michail Nikolajevič

La dottrina Haas è una variante, ma realistica, almeno nelle
intenzioni, della globalizzazione gestita. Ciò che però oggi
emerge a Washington nelle nuove dottrine dell’amministrazione
Trump è la tesi centrale che proprio la linea
dell’internazionalismo liberale avrebbe consentito ad
avversari sistemici dell’Occidente come Russia e Cina di
ritornare al centro della contesa globale.
All’internazionalismo liberale, tra le righe, nella lotta di
frazioni sistemiche occidentali, viene in definitiva anche
addebitata la responsabilità politica e economica delle due
guerre mondiali: l’ordine liberale globale avrebbe avuto
bisogno di far crescere e avanzare le forze che poi lo
avrebbero voluto spazzare via, come oggi sta avvenendo con la
Cina socialconfuciana. E’ quello che VanGrasstek definisce “il
paradosso dell’egemonia”: il mercato mondiale aperto, di cui
la superpotenza egemone ha bisogno per rafforzare il proprio
pluspotere strategico, non sarebbe affatto garanzia di pace ed
equilibrio sistemico. VanGrasstek studia economicamente i due
conflitti mondiali, deideologizza gli stessi movimenti storici
di tipo fascista e bolscevico e rileva una certa costanza
fenomenica in tale ciclo.
  «Negli anni dal 1917 al 2017, gli USA hanno combattuto 9
  guerre dichiarate che si sono combattute per 41 anni. Hanno
  attraversato 18 recessioni durate 38 anni. Essendo le guerre
  frequenti la metà ma lunghe il doppio delle recessioni, ci si
  potrebbe aspettare che gli economisti dedichino tanta
  attenzione a questi fallimenti politici quanta ne dedicano ai
  fallimenti di mercato. Viceversa, le opere di scienza
  economica dedicata alla guerra non riempiono nemmeno il più
  modesto tra gli scaffali».

VanGrasstek, legato allo stato profondo, sostiene però che il
trumpismo nazionalpopolare e nazionalizzato durerà molto più a
lungo dell’uomo politico Trump e che anche se Cina ed Usa non
si impegnassero in conflitti diretti, i tempi che verranno
saranno assai caotici.
Secondo la linea trumpiana, le due guerre mondiali sarebbero
state precedute da una mondializzazione liberoscambista per
molti versi simili a quella odierna. Se ciò può esser vero per
quanto riguarda la prima guerra mondiale, di assai ardua
definizione complessiva è il quadro caotico che precede la
seconda guerra mondiale.

Equilibrio e rottura dell’equilibrio, nello sviluppo ineguale,
non possono che concretamente tradursi nella lotta per
l’egemonia politica imperiale o imperialista e proprio il
contesto strategico tipico dell’internazionalismo liberale
favorirebbe, più di ogni altro, la logica della spartizione
ineguale e dello sfruttamento, come mostrerebbe appunto la
politica strategica migratoria mediante la quale si sottrae la
“catena del valore” e la forza lavoro al continente africano.
La trumpiana guerra mondiale dei dazi e delle sanzioni sembra
per il momento ridisegnare l’ordine globale, rimettendo
momentaneamente al centro l’Impero. Un eventuale fallimento
del trumpismo riporterebbe però in auge il partito della
guerra mondiale, la frazione Clinton o una nuova frazione neo-
cons (che è del resto presente anche se non centralmente nella
stessa amministrazione Trump), espressioni dirette del “Deep
State” e della dottrina Haas. La frazione Clinton è quel
partito elitista che sta provocando oltre modo l’Iran in
questi giorni. Quello che è arrivato a Kiev nel 2014 sperando
che Putin cadesse nel tranello dell’invasione russa per
legittimare la terza guerra mondiale basata sul termonucleare
– e in questa ottica si spiega l’ulteriore, enorme
rafforzamento russo nel settore nucleare in questi ultimissimi
anni. L’apparato militare-finanziario-mediatico occidentale è
infatti, nonostante Trump, quasi totalmente diretto da
clintoniani e ha fatto della UE l’agente tattico di una
aggressiva e suicida politica russofoba.

Momento Craxi della storia italiana

Ispirandosi a un filone del pensiero risorgimentale, Bettino
Craxi propose dalla metà degli anni ’80 la tattica della “pace
nel Mediterraneo” con l’Italia in posizione centrale: apertura
all’Urss e graduale disinnesco del progetto sionista e
americano, basato sulla guerra di civiltà alla Palestina
allora socialista e cristiana, ai regimi baathisti e alla
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