LA RUSSIA E LA GUERRA CHE - VERRA' di A. Vinco - sollevazione
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LA RUSSIA E LA GUERRA CHE VERRA’ di A. Vinco Volentieri pubblichiamo queste considerazioni di A. Vinco. Roberto G., assiduo lettore di sollevazione, in un suo commento al mio articolo E’ LA TERZA GUERRA MONDIALE ha scritto: «Ad esempio la Russia è un paese autonomo dal punto di vista militare ma sul resto non direi. Con Putin ha conquistato una certa autonomia politica ma basta un Medvedev qualsiasi per vederla compromessa. E quanti Medvedev ci sono in Russia? Non ha un’autonomia comunicativa nè un’ideologia precisa, non è in grado di offrire un suo punto di vista sulla contemporaneità e sulla storia che contrasti quello imperiale. E’ vero che grazie all’autonomia militare ha potuto salvare la testa di Assad ma nulla ha potuto sulla sua reputazione. Assad è rimasto il cattivo della guerra in Siria ed i buoni sono i curdi ed i caschi bianchi per i quali si sono spese financo le stelle di Hollywood». Roberto merita una risposta, il suo commento merita di essere integralmente letto. Con lui vogliamo rispondere a quanti
ancora vivono la guerra ibrida e non ideologica del presente con gli occhi e il pensiero ideologizzato (sia esso marxista o liberista) del secolo passato. Il capitalismo politico di Nikolai Patrushev Milanovic e Aresu hanno utilizzato la categoria di “capitalismo politico” per descrivere la lotta interimperiale di questo contesto storico. Il concetto è giusto, è sbagliata però l’applicazione. Gli Stati Uniti non sono propriamente un modello di capitalismo politico, rimangono l’ideocrazia del liberismo imperialista, che oggettivamente resiste dal secolo scorso a oggi. Fascismo e nazismo non furono ideocrazie, ma regimi di sviluppo e modernizzazione sociopolitica e economica a seguito del Diktat antitaliano e antitedesco di Versailles, l’URSS non fu più una ideocrazia dal 1941, quando dovette tornare al nazionalismo grande russo, secondo Mao addirittura all’imperialismo neozarista, per non morire del tutto. In definitiva dunque, l’unica autentica “ideologia ideocratica” del ‘900 fu il liberismo statunitense. Crollata l’URSS, Patrushev, dotatissimo quadro dell’intelligence russa, rileggeva la storia novecentesca alla luce delle considerazioni di A. Smith, Ivan Ilyn, Huntington e della geopolitica centroeuropea degli Anni Trenta e Quaranta. Arrivò alla conclusione che liberalismo e marxismo erano due facce della medesima medaglia, in quanto anteponevano l’astratto concetto ideologico allo storicismo culturale della civiltà; in seguito comprese, prima di ogni altro statista, l’inevitabilità del declino del ciclo del liberismo imperialista statunitense e l’astrattezza antistorica del modello liberista tecnocratico di UE. Lo stalinismo impose il comunismo mediante la sostanza della grande nazione russa (1), antiasiatica e antislamica, mentre Patrushev ricalibra la civiltà russa e il Ruskiy Mir in base
alla visione di Impero multiculturale e multirazziale; la burocrazia sovietica, che non credeva più alla validità scientifica del marxismo sin dal 1941, finisce per sostituirlo con il vago proposito di un comunitarismo solidaristico russofilo di natura internazionalista che, nei fatti, scontenta un po’ tutti, da Praga a Budapest. Già dalla metà degli anni ’90, nel periodo della catastrofe El’cin, Patrushev, l’ideologo della Rinascita russa, teorizzò esplicitamente il “capitalismo politico”, in larga parte di stato. Che significa capitalismo politico? Che il capitalismo controllato dallo Stato e dall’elite militare diviene un’arma e uno strumento dell’Impero russo, superando così l’immobilismo reazionario della tarda burocrazia sovietica. Gli USA, come detto, non sono un capitalismo politico, ma un’ideocrazia elitista basata sul liberismo e sulla linea geopolitica che vede costantemente il rinato Impero russo come primo nemico. La Cina non è un capitalismo politico, almeno nel senso di Patrushev, in quanto l’elite mandarina studia ancora con profitto i testi di Marx e Engels che Patrushev ha gettato nelle fiamme. Il termine “Socialismo di mercato con caratteristiche cinesi”, pur con le sue ambiguità, ci pare perciò più corretto. Dalla prova di forza della “guerra fredda” e della successiva globalizzazione, è stata del resto l’elite mandarina a uscire più forte rispetto al liberismo statunitense. Di certo, le sconfitte militari americane in Ucraina e nel Grande Medio Oriente, sono frutto della realpolitik del Cremlino, più che dell’espansionismo mercantilista di Pechino. Dunque, a differenza di quanto pensa Roberto G, la Russia dei nostri giorni è l’unico modello di un nuovo pensiero geopolitico e strategico, moderno e flessibile, che non solo si è concretizzato in capitalismo politico di Stato ma si è stabilizzato e ha resistito ai più pesanti attacchi
concentrici da guerra ibrida. Patrushev, non Trump né Deng Xiaoping, è perciò il Machiavelli o il Mazzini dei nostri tempi. Quello vissuto dalla Russia di Putin dal 2014 a oggi è un vero e proprio Risorgimento, che la pone politicamente in uno stadio più avanzato e rispetto agli USA, ancora fermi al neoliberismo e di conseguenza alla logica dello scambio ineguale, e rispetto alla Cina, ancora ferma al neomarxismo come recitano i manuali di stato. La Russia vive e progetta come una superpotenza del 2020, Cina e USA ancora come potenze novecentesche. Il declino USA Proprio in base a tali considerazioni strategiche, Patrushev previde con anni di anticipo il declino del ciclo liberista. La retorica dei diritti individuali, di cui il ciclo ideocratico liberista non può far a meno, avrebbe portato l’occidente a una stato di latente guerra di tutti contro tutti. Lo stiamo vedendo ora proprio negli USA! Inoltre, come è noto, gli USA si affermarono nel secondo conflitto mondiale grazie alla produzione su larga scala di tipo automobilistico che forniva al gigante nord-americano un notevole vantaggio, decisivo, sull’Asse Roma-Berlino-Tokyo. Oggi, viceversa, l’erosione della manifattura USA è diventata addirittura una questione di sicurezza nazionale, che richiederebbe un vero intervento militare ma gli apparati militari statunitensi non hanno né la competenza né la capacità per organizzare la rinascita del manifatturiero. Tutti i tentativi dei Governi Obama I e II e dell’ultimo, Governo Trump, per restaurare la potenza industriale interna sono falliti. La Silicon Valley non è datrice di istanza finale e l’avanguardismo tecnologico USA, peraltro messo in fortissima discussione dalle ultime scoperte cinesi, non è in grado di
combattere la disgregazione sociale avanzante, la distanza sempre più percepibile tra l’America delle coste e le altre Americhe, la fine in sostanza del cosiddetto “sogno americano”, che ha costituito la quintessenza dell’ideocrazia liberista e della retorica del dirittismo individualistico, con i giganti del GAFAM che puntano ormai apertamente al totalitarismo globalista neofeudale. Per questo il capitalismo statunitense è un capitalismo liberale oligarchico, non un capitalismo politico. Di conseguenza, le considerazioni di Roberto G sul presunto unipolarismo vigente sono smentite da una lettura dei fatti in linea con il concetto Hibrid Warfare. Gli Usa non sono più indipendenti né industrialmente né economicamente, si reggono ormai esclusivamente sulla potenza geopolitica del dollaro, che è però nelle mani, in larghissima parte, di Pechino, Tokyo, Riad, Doha. La linea Patrushev fu temprata dal crollo sovietico, la linea sovranista e liberista Trump non sembra in grado di poter evitare il crollo americano, la linea Biden o del Great Reset è la classica dottrina del neoliberismo oligarchico imperialista aggiornata alla luce dell’ormai prossimo primato tecnologico di Pechino e del primato geopolitico di Mosca. Il nemico alle porte L’elite russa sa bene che la guerra è già in atto, potrebbe miracolosamente fermarsi o prendere forme mai viste prima. Solo una guerra mondiale potrà infatti salvare, o definitivamente annientare, gli USA. Lo scorso 20 maggio Qiao Liang, influente generale in pensione, teorico della “guerra senza limiti”, ha affermato senza peli sulla lingua che il nazionalismo confuciano han, antioccidentale per sua stessa natura, ha il vento della storia dalla propria parte. Fermarsi ora sarebbe un delitto verso le nuove generazioni cinesi. Pechino marcia verso il primato globale e verso un nuovo ordine strategico che sostituisca allo scambio ineguale
liberal-capitalista una sorta di “armonia democratico- confuciana globalizzata”, secondo la versione fornita dall’elite mandarina. Esclusa la guerra nucleare, in quanto nessuno è disposto a lanciare il primo ordigno senza conoscere il danno del contraccolpo avversario ma nemmeno gli effetti su larga scala, rimangono le vie della guerra convenzionale globale o quella del conflitto regionale tra USA e Cina, come prevede tra le righe il documento strategico presentato da Indopacom: Regaining the Advantage (2020-2026). Il Comando Indopacifico scarta l’ipotesi Taiwan, un vantaggio tattico per Pechino, prefigura invece come scenario centrale quello delle isole dell’arcipelago Spratly. Pechino punta invece a Taiwan, anche in omaggio all’inevitabile mobilitazione nazionalista di più d’un miliardo di cinesi e delle varie comunità fuori frontiera. Viceversa, Mosca immagina scaramucce continue ma terribili e micidiali proprio sul teatro europeo o balcanico, per impedire anzitutto il benessere materiale e psicologico europeo, punto dolente, per il liberismo imperialista USA, delle contraddizioni sociali mondiali. La Germania, ormai alle prese con una vera e propria crisi strutturale, non potrà continuare sui suoi standard se non appoggiandosi sempre più su Pechino. Anche volesse sostenere Berlino la nuova amministrazione Biden non potrebbe, a livello qualitativo, fornire ai tedeschi il medesimo aiuto industriale e tecnologico che la Cina è, invece, già in grado di sostenere. Se Xi Jinping ha scelto l’Italia, con il suo trasversale partito cinese (che va dalla Destra sociale di Geraci sino a Prodi, passando per Bettini, Rizzo e D’Alema), come retrovia politico-diplomatico, ha scelto però Berlino come hub tecnologico-industriale della propria offensiva europea. Mosca sarà inevitabilmente attratta in questa perversa ragnatela, per quanto farà di tutto per serbare la propria neutralità strategica. Di fronte alla classica, e sconsiderata, fiammata russofoba,
caratteristica delle amministrazioni democratiche statunitensi, ove Putin fosse messo con le spalle al muro, in questo particolare momento storico non sarebbe da escludere, come ipotesi realistica, uno scenario nord-coreano a Mosca: necessaria militarizzazione della vita civile e ritirata strategica nella fortezza Rus’. Tali conseguenze sarebbero del tutto imprevedibili per gli USA, che non sono stati in grado di gestire Pyongyang negli ultimi decenni. Le cose sarebbero, a quel punto, ben peggiori per l’Occidente di fronte a un Impero dal potenziale geopolitico, geoeconomico e militare come è quello russo. Un quadro evidentemente ben distante dai vari Medvedev al Cremlino che immagina Roberto prefigurando una nuova Yalta con gli USA di Biden. Siamo invece del parere che Vladimir Putin si sia rivelato, soprattutto dal 2014, un ottimo interprete politico soggettivo della linea strategica di civiltà di Patrushev (Ruskiy Mir) o del capitalismo politico di Stato etico. NOTE 1) “Conversazioni con Stalin” di Gilas sono a nostro avviso l’autentico testamento storico e politico dello stalinismo CHE GUERRA È QUESTA? di Moreno Pasquinelli
Libia solo per il petrolio? C’è molto di più. E’ Maurizio Molinari che su LA STAMPA di oggi segnala come il Paese sia un campo di battaglia geopolitico, in particolare: «Le milizie di al-Serraji possono contare su armi e militari della Turchia, mentre, sul fronte opposto i maggiori contributi bellici arrivano da Emirati Arabi ed Egitto. E’ uno scontro non solo di potere ma soprattutto religioso perché si contrappongono visioni concorrenti dell’Islam sunnita. Per Ankara la Fratellanza Musulmana è la più pura espressione dell’Islam politico mentre per Il Cairo e Abu Dhabi si tratta di pericolosi terroristi». Giusta chiave di lettura quella di Molinari, che segnala quindi come la Libia sia un nuovo tassello del più ampio conflitto che dilania il Grande Medio Oriente, conflitto che vede la Siria come epicentro e che oramai, com’era inevitabile, ha trascinato nel suo vortice il Mediterraneo. E qui vien fuori il patetico ruolo dell’Italia — paese subimperialista sovraordinato non solo dall’imperialismo americano ma pure da quello carolingio. L’Italia, nonostante sia il centro
geografico del Mediterraneo, mai come ora è stata condannata svolgere il ruolo di comparsa. Il governo immagina di camuffare la propria nullità con mosse da avanspettacolo e poi facendo appello ad un’azione (sic?) congiunta dell”Unione europea. Il nulla invoca il niente. La Ue è costretta ad assistere impotente alle mosse altrui e ad aggrapparsi al cessate il fuoco deciso da Putin ed Erdogan. Vedremo se questo sarà rispettato (da Egitto, sauditi ed Emirati) o se invece non assisteremo ad una ulteriore libanizzazione del conflitto con nuovi cambiamenti di fronte. Al riguardo della Ue Romano Prodi scrive oggi
su IL MESSAGGERO: «L’Unione Europea è oggi considerata dagli Usa un pericoloso concorrente nel campo commerciale e un alleato inutile nel campo militare, mentre aumentano le distanze e si moltiplicano le frizioni nel campo strettamente politico. Di fronte a questo mutamento del quadro di riferimento, non è invece cambiata nemmeno di un millimetro la strategia europea. Le divisioni nella politica estera continuano come prima con la conseguenza che, con l’affievolirsi della solidarietà atlantica, viene lasciato sempre più spazio ad altre potenze regionali, anche nei teatri di maggiore interesse per noi. Il caso della Libia è di per se stesso esemplare. Le divisioni europee hanno fatto in modo che il destino di un paese così vicino sia oggi conteso fra Russia e Turchia. Tutto ciò, impensabile anche solo pochi mesi fa, ci deve fare riflettere su come sia difficile dare concreta attuazione al disegno “geopolitico”che è alla base del progetto della nuova Commissione Europea. È infatti impossibile mettere in atto una strategia globale quando non si riesce ad avere un ruolo attivo nemmeno in un ambito regionale». Detto in parole povere Prodi ci sta dicendo che sul teatro libico-mediterraneo è stato messo a nudo che l’Unione europea è un organismo moribondo, ove si palesa il fallimento del disegno geopolitico di farne un polo imperialistico globale. Non c’è e non ci può essere, tanto più in un orizzonte policentrico, una potenza che non sia anzitutto una potenza militare globale.
La “Guerra dei Trent’anni” Ma torniamo al Grande Medio Oriente. La Libia è un nuovo tassello (non sarà l’ultimo perché tutto il Maghreb rischia di essere trascinato nella mischia) del più ampio conflitto che dilania quell’area. Ogni analogia va presa con le pinze, ma il Grande Medio Oriente vive la sua “Guerra dei Trent’anni”, il conflitto che devastò l’Europa tra il 1618 e il 1648 e che si concluse con la Pace di Westfalia, da cui sorse la moderna Europa della nazioni — Europa delle nazioni sovrane che l’élite eurocratica ha tentato velleitariamente di seppellire con un terzo tentativo di unificazione; i primi due furono quello napoleonico e quindi quello hitleriano. Una guerra, quella che dilania l’area, destinata quindi a durare a lungo, e il cui esito finale sarà necessariamente una ridefinizione di mappe a confini, con Stati che spariranno e nuovi che sorgeranno. La Siria, dicevamo, è l’epicentro di questo conflitto. Per la precisione il teatro è quello del Mashrek, la Mezzaluna Fertile, l’ampia zona che va dal Nilo e all’Eufrate, che coinvolge dunque paesi come l’Egitto, la Giordania, il Libano, la Siria e l’Iraq e, ovviamente la Palestina. Un peso in ultima istanza determinante ce l’ha dunque Israele (la principale potenza non solo militare dell’area), il cui disegno strategico (mai negato dai sionisti) è il Grande Israele, che va, dal Nilo all’Eufrate, la Mezzaluna Fertile appunto — vedi mappa in alto. Israele fino ad ora si è tenuta ai margini della guerra ma si prepara a dire l’ultima parola,
ovvero a gettare sulla bilancia tutto il suo peso quando si tratterà di siglare, semmai questo avverrà, la nuova Pace di Westaflia. In questa prospettiva Israele non può che vedere di buon occhio l’attuale conflitto tra le medie potenze islamiche coinvolte: più si dissanguano più Israele rafforza le proprie posizioni, e più si potrà realizzare in futuro il suo grande sogno espansionista. Data la posta in palio si capisce come non possano che essere coinvolti sia la super-potenza americana che la Russia putiniana, ma il ruolo decisivo ce l’hanno le medie potenze della regione: Turchia, Iran, Egitto e Arabia Saudita — sbaglia chi le considera solo pedine di USA o Russia. La Siria appunto — vero e proprio ginepraio come lo fu e molto probabilmente tornerà ad essere il Libano — ove è iniziato lo scontro per l’egemonia nel mondo islamico. Uno scontro duplice: da una parte tra il campo sunnita e quello shiita (con l’Iran capofila di quest’ultimo), dall’altra entro il campo sunnita (con Turchia e Qatar da un lato e Arabia Saudita, Emirati ed Egitto dall’altro). A destra un’aggiornata mappa russa con l’attuale (provvisoria) partizione della
Siria dopo l’accordo Russo-Turco. L’ampia zona colorata in ocra sotto controllo dell’alleanza russo-iraniana-forze proAsssad. La zona celeste a Sud sotto controllo USA. La zona in verde chiaro a Nord Est sotto controllo curdo. A Nord Est in marrone la sacca di Idlib sotto controllo dei guerriglieri sunniti del fronte Jabhat Fatah al-Sham. Lungo la frontiera del Nord le ampie zone sotto controllo turco. Clicca per ingrandire Iniziata in Siria nel 2013 questa nuova Guerra dei Trent’anni, proprio come accadde in Europa, ha visto diversi capovolgimenti di fronte, rotture e momentanee ricomposizioni tattiche di alleanze. Altre ne vedremo. Ma alcune linee di fondo sono già evidenti. La Siria come Stato nazione unitario e sovrano non esiste più, consiste in uno spezzatino di vari protettorati: una zona in mano al blocco Russia-Iran-Assad, un’altra in mano ai turchi, una in mano ai ribelli guidati dal al-Nusra (oggi Jabhat Fatah al-Sham), un’altra in mano agli americani, vaste zone contese (con l’ISIS ancora in agguato). Una libanizzazione che riguarda anche l’Iraq e spazzerà via domani altri stati della regione. Una libanizzazione, ripetiamo e precisiamo il concetto, che avvantaggia Israele e la superpotenza americana, e pregiudica in modo letale la costituzione di un campo anti- sionista e antimperialista, che quindi andrebbe contrastata con forza. L’Iran in un vicolo cieco La Repubblica Islamica dell’Iran invoca un fronte antimperialista ed anti-sionista, ed anzi si considera, oltre che roccaforte di questo campo, la sua prima linea. Sorgono
tre domande alle quali è necessario dare una risposta. La prima: si potranno cacciare le potenze imperialiste dalla regione, USA e Israele in testa, senza una generale sollevazione delle masse popolari? La seconda: potrà sorgere una vasto e unitario fronte antimperialista e anti-sionista a guida persiana nel Grande Medio Oriente? E quindi la terza: potrà mai l’Iran avere l’egemonia in questo fronte? Alle tre domande corrispondono tre no. Un grande fronte antimperialista potrà infatti sorgere solo ad una essenziale condizione, che entrino in scena le grandi masse oppresse della regione. Piaccia o meno queste sono anzitutto arabe e di fede sunnita. Piaccia e non piaccia esse, per cause storiche profonde, considerano L’accerchiamento americano dell’Iran l’Iran un corpo estraneo. Troppo forte e radicata la diffidenza, in certi casi ostilità aperta sia verso il nazionalismo grande-persiano (che i sunniti iracheni bollano
come “safavide”), sia verso la “empia eresia” shiita — il takfirismo dell’ISIS è solo la forma patologica di questa atavica avversione.Dice qualcosa o no che il proditorio attacco con cui il Pentagono ha giustiziato Suleimani non ha suscitato tra le masse arabe oppresse alcuno slancio di solidarietà verso l’Iran? Sintomatici, al contrario, alcuni festeggiamenti avvenuti, sia in Iraq che in Siria. Si possono certo biasimare quanto si vuole queste lugubri esultanze, ma queste sono la punta di un iceberg, il sintomo di un dato di realtà a cui non si può sfuggire, e che obbliga i vertici della Repubblica Islamica dell’Iran a riflettere con senso strategico e, secondo noi, a compiere una necessaria autocritica. Giusto o sbagliato? E’ stato giusto o sbagliato dare il semaforo verde all’invasione e allo squartamento dell’Iraq da parte della coalizione imperialista capeggiata dagli USA per poi giungere all’abominio di amministrare con essi il Paese in more uxorio? E’ stato strategicamente corretto, all’inizio della guerra civile siriana, invece che adoprarsi per una soluzione politica negoziata con i settori meno oltranzisti della maggioranza sunnita e la sinistra nazionalista siriana, schierarsi armi e bagagli con la minoranza alawita — come del resto Ahmadinejad, quando era ancora al potere a Tehran, sembrava invece suggerire? E’ stata una mossa che ha dato frutti spingere il governo iracheno nonché le milizie filo-
iraniane di Shibl al-Zaidi (Forze di Mobilitazione Popolare) a sparare facendo più di un centinaio di vittime contro le enormi manifestazioni di protesta popolare (ancora in corso) culminate nell’occupazione, a Baghdad, della centralissima Piazza Tahrir. Ergo: sono sicuri, a Tehran, che siano state azzeccate le ultime mosse strategiche e tattiche volute da Suleimani? Detto con parole più chiare: è stato forse perspicace aver fatto leva sulla divisione settaria e confessionale e con ciò, invece di smorzare la “fitna”, di alimentarla? Non corre l’Iran il rischio che ciò si risolva in un boomerang con il rischio che il malcontento interno contro l’austerità — vedi le proteste di un mese fa e quelle attuali per i funerali delle vittime dell’aereo civile abbattuto dai Pasdaran per errore — dilaghi? Di sicuro queste domande se le stanno ponendo a Tehran, prova ne sia la risposta di molto basso profilo data agli americani dopo l’assassinio di Suleimani, segno inequivocabile che una guerra guerreggiata con gli USA e i loro alleati il regime iraniano non la desidera e vuole evitarla. La Repubblica Islamica dell’Iran sembra finita in un vicolo cieco. Pare a noi che sia necessaria, e probabile, una doppia svolta, sul piano interno e della politica estera. I prossimi mesi ci diranno che
La preponderanate presenza militare USA in Medio Oriente tipo di svolta avremo, se consisterà in un’apertura all’imperialismo americano e alle pressioni della borghesia nazionale o se, al contrario, si farà appello alla fine della “fitna” e verrà messo in discussione il modello capitalistico di rapina verso un potere effettivamente popolare. Fonte: Campo Antimperialista Sostieni SOLLEVAZIONE e Programma 101
L’IRAN E LA GUERRA ASIMMETRICA (ANTIMPERIALISTA) di A. Vinco Imaagine icastica: Suleimani abbraccia l’Imam Hussein presente Khomeini Riceviamo e volentieri pubblichiamo «La Scienza nucleare è benefica ma dal momento che non è stata associata all’Amore per l’umanità e per gli Oppressi, ha portato ai peggiori disastri contro l’ordine divino. L’Iran ha la capacità di sviluppare le bombe nucleari, ma lo abbiamo evitato e continueremo a evitarlo con fermezza e coraggio, poichè costruire e conservare bombe nucleari, come usarle, è haram, è proibito dalla Fede islamica». (Seyyed Alì Khamenei, Guida Suprema della Rivoluzione Iraniana) Il liberale plutocrate “di destra” Donald Trump — protagonista di crimini di guerra, in Medio Oriente, come tutti i liberali imperialisti statunitensi negli ultimi anni cento anni — sembrava ieri esultare, per nascondere il suo timore. La mobilitazione di massa di un intero popolo, quello iraniano,
che vuole la guerra mondiale antimperialista non può lasciare indifferente la lobby sionista saudita che domina l’Occidente. Con Trump, al fianco di Trump, esultavano per nascondere il timore gli organi di stampa del liberalismo occidentale “di sinistra” antitrumpiano. Questo a ulteriore prova del fatto che la Repubblica Islamica dell’Iran è dal 1979 l’antagonista strategico dell’imperialismo “post-liberale” occidentale. Il Comitato Centrale di P101, l’8 gennaio 2020, tira in ballo la precedente “epoca di collaborazione” tra le milizie irakene filoiraniane e le forze armate americane contro l’Isis. Ciò non contraddice affatto la logica di guerra frontale del terrore che si ha formalmente dal febbraio 1979, sostanzialmente dal 22 Settembre 1980 contro l’Iran rivoluzionario. La guerra ortodossa e frontale si adegua, storicamente, a fasi, più o meno lunghe, di guerra ibrida non ortodossa qualora l’Avversario si mostri un osso più duro del previsto. La Francia napoleonica resistette per 11 anni circa all’assalto della talassocrazia anglosassone. Il Giappone Imperiale di Hideki Tojo resistette per nove anni al terrore globale del liberalismo occidentale-atomico plutocratico, che iniziò a imporre sanzioni e restrizioni economiche di ogni tipo al Giappone (il paese più povero al mondo di materie prime) dal 1936: e avrebbe resistito all’infinito, nonostante il crimine liberale contro Dio, il più grande, probabilmente, mai verificatosi nella storia del genere umano, di Hiroshima e Nagasaki, ove l’Imperatore non avesse imposto unilateralmente lo stop alla Resistenza antioccidentale del popolo nipponico. La Repubblica Islamica dell’Iran sta resistendo invece ad un assalto imperialista mondiale, guidato dalla decisiva lobby filoisraeliana occidentale, da 41 anni.
Nella foto: Esmail Qaani, successore di Suleimani con alle spalle le bandiere di: Pasdaran (Iran), Basiji (Iran), Hezbollah (Libano), Ansarullah (Yemen), Hashd Shabi-PNF (Iraq), HAMAS (Palestina), Liwa Fatemiyoun (Afghanistan), Liwa Zainebiyoun (Pakistan) Ma la strategia dei sionisti e degli imperialisti, sconfitti sul campo in ben tre casi dall’Hezbollah Libanese, è sempre la stessa da 40 anni ad oggi. Armano il vicino, come fu nel caso dell’Irak saddamista, per scagliarlo contro l’Iran; addestrano o tollerano feroci e spietati terroristi e stragisti di bandiera Saudita per utilizzarli, quando e se vi riescono, contro le milizie iraniane; colpiscono, con metodi terroristici vietati da ogni convenzione internazionale, gli alleati strategici dello Stato Rivoluzionario dell’Iran, dalla Siria baathista all’Hezbollah, dal Venezuela bolivarista alla Rivoluzione Yemenita; compiono crimini di stato, come quello del Generale Soleimani, come a decine ne hanno compiuti o fatti compiere contro dirigenti di primo piano e ayatollah iraniani; non osano però attaccare direttamente, boots on the ground, l’Iran. Di contro, le milizie iraniane, nel teatro strategico irakeno, nel quale l’esercito statunitense che vi si trova illeggittimamente si è macchiato di violenze tali di cui l’opinione pubblica occidentale non ha la minima consapevolezza, hanno affrontato a viso aperto il nemico americano, così come nella Siria liberata la bandiera dell’Iran e della Forza Quds ha significato concretamente la riscossa degli Oppressi e la disintegrazione dei piani strategici del sionismo e delle monarchie reazionarie
filoccidentali del Golfo. La finalità strategica dei neoconservatori, della lobby evangelico-sionista e dei plutocrati sauditi, che tiene in ostaggio la destra liberale trumpiana, è la medesima della sinistra liberale clintoniana: portare la Nazione iraniana al collasso economico, strangolare il popolo persiano con il laccio del Terrore parallelo sanzionista, orientando così l’inevitabile delusione verso lo Stato sulla via di una Rivoluzione Colorata a Tehran. L’omicidio del Generale Soleimani, come quello di Isoroku Yamamoto (18 aprile 1943), mette in risalto la quintessenza disumana e subdola del liberalismo plutocratico USA, ma non danneggia, come si crede, la strategia dello Stato Profondo iraniano. La quintessenza vile e codarda dell’americanismo, secondo Alessandro Di Battista. Scrivevamo, ormai un mese fa, che quella di Soleimani era ormai una vera e propria Scuola di Resistenza antimperialista. Scuola di Pensiero e Azione che trascendeva l’individuo o il Generale Soleimani (https://sollevazione.blogspot.com/2019/12/qasim-soleimani-e-i l-destino-delliran.html). Di conseguenza Esmail Qaani (Comandante della Forza Quds dal 3 Gennaio 2020) avrà modo di mostrare al mondo la sua concreta Strategia antimperialista in difesa dei deboli, degli sfruttati, degli Oppressi. La reggenza Qaani ha preso avvio con l’operazione “Soleimani Martire”; ma la vera missione Qaani sarà una operazione strategica probabilmente lunghissima caratterizzata dalla grande pazienza, dalla flessibilità e dalla continua e consapevole lucidità che una simile missione – la definitiva Liberazione degli Oppressi del Medio Oriente dal secolare terrorismo razzista e imperialista post-liberale – porta inevitabilmente con sè. Il mondo ha ieri sospeso il fiato per una diversione tattica rappresentata dal lancio di qualche missile verso una base USA in Iraq, non cogliendo probabilmente il vero significato politico e geopolitico della intera questione. Il Medio Oriente ha pagato il secolare dominio statunitense-saudita-israeliano con circa nove milioni
di civili morti e con una scia ininterrotta ed infinita di sangue e dolore: con il 2020, questo secolare dominio di oppressione e terrore ha definitivamente esaurito la sua spinta storica. Il popolo iraniano e quello di Gaza, come larga parte di quello irakeno, libanese, yemenita, bahraini, vogliono la guerra globale antimperialista e la vendetta per la martirizzazione del Generale Soleimani. L’elite rivoluzionaria, raccolta attorno alla Guida Suprema, più prudente e moderata, vuole invece una concordata e diplomatica mediazione con le forze non occidentali e non filoisraeliane,come possono essere Russia e Turchia, per evitare l’escalation globale della guerra. Ma la sostanza è ormai fuori discussione: l’abbandono del Medio Oriente da parte delle forze terroristiche di occupazione americana e la necessaria fine di ogni sostegno saudita o israeliano a terroristi modello Isis. SE GUERRA HA DA ESSERE… Comunicato n. 1/2020 del Comitato Centrale di P101 Fuori gli imperialisti dal Medio
oriente! La criminale uccisione del generale Qassem Soleimani segna un salto di qualità nella politica aggressiva dell’imperialismo americano in Medio oriente. Dopo la rottura dell’accordo sul nucleare, l’imposizione di pesanti sanzioni, è questo l’ultimo scalino di un’escalation contro l’Iran che potrebbe condurre alla guerra. In questo quadro torna centrale l’Iraq. Dopo le due aggressioni imperialiste (1991 e 2003), dopo le sanzioni che affamarono quel popolo tra le due guerre, neppure l’eroica resistenza popolare seguita all’invasione di 17 anni fa riuscì a cacciare del tutto gli americani dal paese. Le divisioni settarie, soprattutto quelle di natura religiosa, consentirono infatti agli USA (accordo del 2008) un ritiro non disastroso, tale da mantenere una presenza militare ed una forte influenza politica sul governo di Bagdad. In 12 anni ne è passata di acqua sotto i ponti. L’epoca della collaborazione di fatto tra le milizie filo-iraniane e le forze armate americane contro l’Isis (si pensi alla battaglia per riconquistare Kirkuk) è finita da tempo. Adesso l’imperialismo statunitense ha nel mirino la Repubblica Islamica dell’Iran, in primo luogo l’influenza di Teheran nel Paese dei due fiumi.
Clicca per ingrandire. Presenza militare USA in Medio oriente nel maggio 2015 .. Sbaglia chi pensa che l’uccisione di Soleimani sia stata principalmente il frutto della personalità disturbata di Trump. Certe azioni non sono mai decise d’impulso, sono invece tasselli di una strategia ben pianificata tendente a raggiungere obiettivi altrettanto precisi. Quali possono essere questi obiettivi è presto detto: a) riaffermare il potere americano nella regione, b) spingere l’Iran in un vicolo cieco, c) prendere il controllo sostanziale dell’Iraq. Rispetto a quest’ultimo punto è probabile che i decisori di Washington abbiano valutato come estremamente favorevole il quadro di spaccatura del paese — perfino dentro il campo shiita — che è emerso dalle manifestazioni popolari degli ultimi mesi. Talvolta, però, certi calcoli si scontrano con la realtà. Sta di fatto che il parlamento di Bagdad ha deliberato finalmente l’espulsione delle truppe americane dall’Iraq. In questo modo ogni legittimazione alla presenza militare americana è stata cancellata, ma di certo Washington se ne infischierà, dato che l’imperialismo a stelle e strisce non intende certo abbandonare le sue basi, tanto meno nel momento in cui, come oggi, i suoi rapporti con la Turchia sono sempre più critici. Nel riaffermare l’obiettivo della cacciata degli USA e della
NATO dal Medio oriente, MPL-Programma 101 sottolinea la necessità del ritiro immediato dei 900 militari italiani presenti in Iraq. clicca per ingrandire Su questo punto, come sulla gravità dell’azione americana, la politica italiana o tace (come nel caso indecoroso del governo) o dice cose di una gravità inaudita, come quelle pronunciate da Salvini. Parole, quelle del capoccia della Lega, che chiariscono fino in fondo come ci si trovi di fronte ad un falso sovranista, in realtà un servo sciocco della cupola imperiale di Washington. Ma il silenzio — sia quello del governo, che quello di un finto sovranismo che non sa neppure riconoscere i veri interessi nazionali — diventa ancora più significativo se si passa ad esaminare la grave situazione libica. Il governo Conte (ma su questo neppure Salvini ha qualcosa da eccepire) ha di fatto abbandonato la Libia al suo destino. Eppure, nel 2016, l’Italia (con il sostegno in pompa magna tanto dell’ONU che dell’UE) aveva concorso ad insediare al Serraj a capo del governo di Tripoli. In questo modo le truppe del generale Haftar — dietro alle quali c’è il sostegno militare ed economico del blocco Arabia Saudita-Emirati-Egitto-Israele, nonché quello della Francia —
puntano dalla primavera scorsa alla conquista di Tripoli per poi spartirsi, a beneficio dei protettori di cui sopra, le risorse energetiche del paese. Adesso, dopo mesi di assedio alla capitale da parte di questa compagnia di ventura basata in Cirenaica, ci si scandalizza dell’intervento della Turchia a sostegno del governo al Serraj! … e la presenza militare USA oggi Come antimperialisti siamo innanzitutto a difesa dell’indipendenza della Libia. Ma se le truppe di Haftar non verranno fermate, quell’indipendenza sarà comunque persa. E sarà persa a tutto vantaggio delle forze più reazionarie della regione. Quelle schierate al 100% con gli USA ed Israele. Come si vede la situazione è complessa e pericolosa, tanto in Medio oriente che nel Nord Africa. E’ una situazione che coinvolge in vari modi anche l’Italia, mettendo in luce sia le conseguenze dell’appartenenza alla NATO, sia quelle di essere membri di un’Unione Europea che certo non può andare contro agli interessi francesi in Libia.
Per riconquistare la sovranità nazionale si dovrà dunque uscire sia dal Patto atlantico che dall’UE, facendo dell’Italia un Paese neutrale, capace di sviluppare relazioni amichevoli con i paesi del Medio oriente, per la libertà dei popoli e l’indipendenza delle nazioni di quella regione. – Massima unità contro l’imperialismo americano e il sionismo! – Sostegno alle resistenze antimperialiste fino alla vittoria finale! * Fonte: Programma 101 LA SIRIA, LA RUSSIA E IL TRAMONTO DELLA NATO di Alberto Negri I combattenti dell’ESL (Esercito Siriano Libero), ovvero gli ascari dell’esercito turco nella battaglia per cacciare i curdi dal Nord della Siria [ mercoledì 16 ottobre 2019 ]
IN UNA SETTIMANA IL MONDO è CAMBIATO di Alberto Negri In una settimana il mondo è cambiato: è arrivato il Capo, quello vero. Questa non è una guerra come le altre: il mondo uscito dal crollo del muro di Berlino nell’89 è cambiato ancora una volta. In pochi giorni sono stati bruciati 30 anni di storia, forse li ha guadagnati Putin diventato il vero co- gestore della politica internazionale. Mentre gli Usa rinunciavano a proteggere i curdi, la loro «fanteria» contro il Califfato. Le truppe russe ora colmano il vuoto lasciato dagli Stati uniti e fanno interposizione tra i due Raìs, Assad ed Erdogan, e i curdi. Un sincronismo quasi perfetto da apparire concordato. LA RUSSIA vede davanti a sé un obiettivo: stabilire che niente sarà più fatto contro gli interessi di Mosca. Non ci sarà più un altro Kosovo (’99), non ci dovrà più essere neppure un’altra Libia (2011) e nemmeno rivoluzioni «colorate», Venezuela compreso. Quanto all’allargamento futuro della Nato, l’atlantismo, nemico giurato della Russia, sembra sul viale del tramonto. Il fatto più evidente è che la Turchia ha disgregato un’Alleanza che da 70 anni sembrava la più solida del mondo. Erdogan ha sbeffeggiato gli appelli di Trump, dell’Europa e del segretario Nato Stoltenberg, ormai uno stralunato e imbarazzante commesso viaggiatore. Si tratta di un evento epocale: gli americani che avevano nei curdi i loro maggiori alleati nella lotta all’Isis li hanno abbandonati per non scontrarsi con la Turchia, membro della Nato dal 1953, che ospita 24 basi e i missili puntati contro Mosca e Teheran. UNA SITUAZIONE assurda. In queste condizioni la Nato non ha più senso, a meno che non venga radicalmente riformata.Cosa non semplice, non si può dare un calcio alla Turchia come con la finale 2020 di Champions a Istanbul, l’unica vera sanzione
che forse sarà attuata davvero. La Turchia viene cooptata nel fronte occidentale negli anni Cinquanta per fare da antemurale all’Unione Sovietica, cioè a quel mondo comunista che veniva ritenuto il nemico più micidiale. E ora Erdogan, che usa i jihadisti contro curdi ma anche contro l’Occidente e ricatta l’Europa con i profughi, è diventato l’avversario più pericoloso. NON SOLO: Putin, che con l’Iran sostiene Assad, è l’unico che può frenare Erdogan o negoziare con lui non da perdente ma da protagonista serio su cose serie come Idlib, il Rojava, il futuro della Siria, il sistema anti-missile S-400, il nucleare, il gas russo di cui Ankara è il maggiore acquirente. Certo, come scriveva lunedì sul manifesto Manlio Dinucci, è dura ammettere che si è rivoltato contro un alleato in cui la Nato ha investito 5 miliardi di dollari e che rappresenta un succulento mercato bellico occidentale. MA TECNICAMENTE la Nato non ci serve più a niente visto gli Usa hanno rinunciato al loro ruolo di guida dell’Ovest: in poche parole Trump non solo ha abbandonato i curdi ma anche l’Europa e il Medio Oriente in mano alla Russia, l’unico stato che oggi fa vincere le guerre e non abbandona gli alleati. Tanto è vero che Putin è andato in Arabia Saudita a rassicurare Riad di fronte all’Iran, alleato di Mosca in Siria. L’unica notizia positiva per gli americani, riportata dal Wall Street Journal, è che stanno vendendo ai sauditi delle centrali nucleari. L’importante per Trump, in fondo, è fatturare. Per gli Usa Europa e Medio Oriente non sono più strategici: sono mercati dove vendere armi e infrastrutture militari, mercenari compresi che presto useremo anche noi al posto dei soldatini di cioccolata. I PIÙ STUPIDI sono i sauditi del principe assassino Mohammed
bin Salman cui Trump ha venduto armi per 100 miliardi di dollari e sono stati colpiti in casa da un attacco che ha ridotto di metà la produzione petrolifera. Ma queste armi non servono a nulla perché gli imbelli sauditi stanno perdendo in Yemen contro gli sciiti Houthi appoggiati da Teheran. E quindi abbracciano anche Putin. MA AVEVATE creduto veramente che gli Stati Uniti fossero ancora disposti a morire per i curdi, gli arabi o gli europei? Dopo i fallimenti dell’Afghanistan e dell’Iraq, a Washington nessuno vuole morire per la nostra sicurezza. Non la pensa così solo Trump. Anche Obama nel 2011 si era ritirato dall’Iraq lasciando il Paese nel caos e poi in mano al Califfato. La guerra all’Isis agli americani non è costata neppure un morto Usa: sono stati uccisi invece 11mila curdi. Se Erdogan ci ricatta, Trump ci prende in giro sanguinosamente. I jihadisti europei scappano dalla carceri curde? Se li volete andate a prenderveli, dice Trump. Più chiaro di così. Ma i sepolcri imbiancati che governano l’Europa dicono una stupidaggine dietro l’altra. Per esempio decretano l’embargo di armi contro la Turchia. Peccato che siamo proprio noi con Leonardo-Finmeccanica a costruire le armi in Turchia: per esempio i magnifici elicotteri Mangusta dell’Agusta-Westland. EPPURE eravamo così felici quando incassavamo dai turchi: commesse e posti di lavoro, che cosa vuoi di più? Alcuni vorrebbero mettere sanzioni ad Ankara. Ebbene il 70% dei prestiti delle aziende turche sono con banche europee e sono centinaia se non migliaia le società delocalizzate in Turchia: volete boicottare la pasta Barilla o Benetton adesso? * Fonte: il manifesto del 16 ottobre 2019 Agli europei il Nuovo Mondo, senza una Nato vera, senza legge e senza mediazioni, ma pieno di contraddizioni e con Putin al comando, è piombato addosso come un treno in corsa. E ora il
tempo è scaduto. I TEMPI CHE VIVIAMO, QUELLI CHE VIVREMO di F.S. [ domenica 21 luglio 2019 ] Scrivevo pochi giorni fa come il “Deep state” occidentale, di cui espressioni politiche son tanto i neo-cons quanto la frazione Clinton, punti a disarcionare la Lega a trazione salviniana di cui non può tollerare l’apparente volontà strategica di legare Roma mediterranea alla Russia. In questo senso, Salvini, come hanno scritti i reazionari fautori dell’ordine globale liberale ed unipolare occidentale, è “il politico più pericoloso che oggi vi sia”. Questo elemento dà anche modo di comprendere i tempi che viviamo e che vivremo. Alexander Svechin e la guerra non ortodossa Non fu la scuola tedesca l’ideatrice della guerra lampo, come
erroneamente si tramanda nell’ambito della storiografia militare; fu invece il generale russo Aleksey Brusilov (1853-1926) il quale dopo aver elaborato il concetto di offensiva strategica, lo sperimentò con successo nell’estate 1916 nei frangenti della prima guerra mondiale, in quella che sarà tramandata alla storia come l’ultima coraggiosa iniziativa vittoriosa dell’esercito zarista. Allo stesso modo, non sono stati gli americani, né tantomeno i cinesi, i teorici della guerra ibrida ed asimmetrica di cui oggi si fa un gran parlare: fu Alexander Svechin (1878-1938), cristiano ortodosso nato ad Odessa e fervido patriota russo, ucciso impietosamente ed inspiegabilmente dal terrore staliniano, oscura fase a cui solo la “grande guerra patriottica” mise fine riconciliando il popolo russo con lo stato sovietico;“i russi ritrovarono finalmente la Patria…” disse ricordando quei tragici giorni Alexander Solzenicyn, che cita peraltro in più contesti Svechin con notevole ammirazione, ad esempio nel ciclo della “Ruota Rossa”. Alexander Svechin Svechin è probabilmente il genio strategico del XX secolo. Gerasimov lo considera una personalità eccezionale, con idee rivoluzionarie e anticipatrici, appartenente al piccolissimo novero dei “fanatici” (nell’accezione positiva del termine)
pronti a dare la vita per la santa Russia. «Il nostro paese ha pagato con fiumi di sangue il non aver dato ascolto alle profezie di questo professore dell’Accademia dello Stato Maggiore». (V.Gerasimov, Il valore della scienza nella previsione). Con decenni d’anticipo rispetto alla “Guerra senza limite” di Liang Qiao-Xiangsui Wang o a quanto finirà per esporre in Occidente il più dotato teorico del realismo liberale che ha sviluppato anni fa l’idea globale di “superimperialismo benigno”, l’ebreo-americano “neokautskyano” Richard Haas; con decenni d’anticipo rispetto alle successive rivoluzioni tecnologiche e alla Cyberwar, Svechin, solitario, intuì la superiorità della tattica sulla strategia. Ciò significa non solo necessità del superamento del vuoto o del brevissimo limite spazio/temporale tra fase di guerra e fase di apparente stasi, ma anche, in contrapposizione alla scuola giacobina- napoleonica e a quella prussiana allora dominanti, ridimensionamento della guerra d’assalto. L’onda lunga dell’insigne pedagogia storica politica di Suvorov (1729-1800) e Kutuzov (1745-1813), della quale la miglior e più vivida rappresentazione ci è data in Guerra e pace di Tolstoj, finisce così per ispirare Svechin. Elaborando la visione della grande retrovia interna e dello spazio territoriale di profondità, da cui conservare e estrarre le strategiche materie prime, Svechin nei primi Anni Trenta, critico moderato di Clausewitz ma deciso ammiratore di Helmuth Von Moltke (1800-1891), si contrappone al neobonapartismo del maresciallo Tuchacevskij, che verrà anch’egli ucciso dal regime sovietico nel giugno del 1937, teorizzando, ormai certo dell’arrivo della seconda guerra mondiale, che la vittoria militare potrebbe anche corrispondere ad una misera sconfitta geopolitica e politica o viceversa. In epoca contemporanea, perciò, la fase strategica per il Nostro non è tanto decisa dall’abbagliante lampo dei missili o dalla fulmineità della pianificazione militare, quanto invece lo possa essere dal profondo intimo possesso di un pensiero politico tattico. Diversamente dall’opera di G.S. Isserson,
Nuove forme di combattimento. Un saggio di ricerca sulle guerre moderne (1940), Svechin considerava già dai primi Anni Trenta politicamente superato l’esempio della guerra lampo o le modalità offensiviste e strategiche. Il concetto di “guerra non ortodossa” implica anzitutto una possibile attenuazione politica e diplomatica della dimensione militare. L’apparato profondo industrial-militare americano ha saputo utilizzare per i propri fini, nel corso della guerra fredda, il concetto di “guerra non ortodossa” ben più di quanto abbia saputo fare lo stato profondo sovietico, che soprattutto nella tarda epoca brezneviana ha puntato erroneamente sul militare convenzionale, sbagliando obiettivo. La dottoressa finlandese Rauni Kilde prima di deviare in astrazioni ufologiche, dette la contezza di vari esperimenti indirizzati in tal senso dallo stato profondo occidentale, anche sul piano del controllo mentale di massa. La regolazione della bilancia Tentando di applicare oggi l’immortale lezione di Svechin, ci dobbiamo perciò per forza di cose ricollegare alla teoria della “regolazione” della bilancia di Haas. La regolazione
della bilancia interimperialista globale ha l’obiettivo esplicito di una ordinata gestione del declino relativo degli USA. Lo stesso Craig Van Grasstek, specialista americano del commercio con decenni di esperienza accademica e professionale, agente della globalizzazione unipolare per conto di istituzioni come la Banca Mondiale e OCDE, grande cultore del pensiero realista di Tucidide, ha scritto di recente: “Si può immaginare che nel corso di 10 anni i rapporti di forza tra le potenze imperialiste rimangano immutati? Assolutamente no”. Anche per i realisti liberali, l’ordine liberale, dogmaticamente imposto, ha messo in crisi tutto l’Occidente. L’ineguale sviluppo politico e economico porterebbe all’erosione del primato globale nord-americano, generato da un lato dalla stabilizzazione policentrica di altre potenze, dall’altra dall’indebolimento strutturale interno statunitense. Hass sostiene a tal riguardo che è quindi necessario prevenire una combinazione ostile di elementi in Europa, nel Golfo Persico, nell’Asia, stabilizzando “bilance accettabili” per l’interesse globale statunitense, prevenendo nella tattica oppositiva o antagonista ogni alterazione eccessivamente sovversiva del quadro geopolitico e geoeconomico tollerabile. Tuchačevskij, Michail Nikolajevič La dottrina Haas è una variante, ma realistica, almeno nelle
intenzioni, della globalizzazione gestita. Ciò che però oggi emerge a Washington nelle nuove dottrine dell’amministrazione Trump è la tesi centrale che proprio la linea dell’internazionalismo liberale avrebbe consentito ad avversari sistemici dell’Occidente come Russia e Cina di ritornare al centro della contesa globale. All’internazionalismo liberale, tra le righe, nella lotta di frazioni sistemiche occidentali, viene in definitiva anche addebitata la responsabilità politica e economica delle due guerre mondiali: l’ordine liberale globale avrebbe avuto bisogno di far crescere e avanzare le forze che poi lo avrebbero voluto spazzare via, come oggi sta avvenendo con la Cina socialconfuciana. E’ quello che VanGrasstek definisce “il paradosso dell’egemonia”: il mercato mondiale aperto, di cui la superpotenza egemone ha bisogno per rafforzare il proprio pluspotere strategico, non sarebbe affatto garanzia di pace ed equilibrio sistemico. VanGrasstek studia economicamente i due conflitti mondiali, deideologizza gli stessi movimenti storici di tipo fascista e bolscevico e rileva una certa costanza fenomenica in tale ciclo. «Negli anni dal 1917 al 2017, gli USA hanno combattuto 9 guerre dichiarate che si sono combattute per 41 anni. Hanno attraversato 18 recessioni durate 38 anni. Essendo le guerre frequenti la metà ma lunghe il doppio delle recessioni, ci si potrebbe aspettare che gli economisti dedichino tanta attenzione a questi fallimenti politici quanta ne dedicano ai fallimenti di mercato. Viceversa, le opere di scienza economica dedicata alla guerra non riempiono nemmeno il più modesto tra gli scaffali». VanGrasstek, legato allo stato profondo, sostiene però che il trumpismo nazionalpopolare e nazionalizzato durerà molto più a lungo dell’uomo politico Trump e che anche se Cina ed Usa non si impegnassero in conflitti diretti, i tempi che verranno saranno assai caotici. Secondo la linea trumpiana, le due guerre mondiali sarebbero state precedute da una mondializzazione liberoscambista per molti versi simili a quella odierna. Se ciò può esser vero per quanto riguarda la prima guerra mondiale, di assai ardua
definizione complessiva è il quadro caotico che precede la seconda guerra mondiale. Equilibrio e rottura dell’equilibrio, nello sviluppo ineguale, non possono che concretamente tradursi nella lotta per l’egemonia politica imperiale o imperialista e proprio il contesto strategico tipico dell’internazionalismo liberale favorirebbe, più di ogni altro, la logica della spartizione ineguale e dello sfruttamento, come mostrerebbe appunto la politica strategica migratoria mediante la quale si sottrae la “catena del valore” e la forza lavoro al continente africano. La trumpiana guerra mondiale dei dazi e delle sanzioni sembra per il momento ridisegnare l’ordine globale, rimettendo momentaneamente al centro l’Impero. Un eventuale fallimento del trumpismo riporterebbe però in auge il partito della guerra mondiale, la frazione Clinton o una nuova frazione neo- cons (che è del resto presente anche se non centralmente nella stessa amministrazione Trump), espressioni dirette del “Deep State” e della dottrina Haas. La frazione Clinton è quel partito elitista che sta provocando oltre modo l’Iran in questi giorni. Quello che è arrivato a Kiev nel 2014 sperando che Putin cadesse nel tranello dell’invasione russa per legittimare la terza guerra mondiale basata sul termonucleare – e in questa ottica si spiega l’ulteriore, enorme rafforzamento russo nel settore nucleare in questi ultimissimi anni. L’apparato militare-finanziario-mediatico occidentale è infatti, nonostante Trump, quasi totalmente diretto da clintoniani e ha fatto della UE l’agente tattico di una aggressiva e suicida politica russofoba. Momento Craxi della storia italiana Ispirandosi a un filone del pensiero risorgimentale, Bettino Craxi propose dalla metà degli anni ’80 la tattica della “pace nel Mediterraneo” con l’Italia in posizione centrale: apertura all’Urss e graduale disinnesco del progetto sionista e americano, basato sulla guerra di civiltà alla Palestina allora socialista e cristiana, ai regimi baathisti e alla
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