LA FUGA DI BRUNA Novembre 1943, un viaggio avventuroso per raggiungere l'Italia liberata - Cierre Edizioni

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Bruna Mistè Meneguzzo

LA FUGA
DI BRUNA
Novembre 1943, un viaggio avventuroso
per raggiungere l’Italia liberata
La storia del tentativo di Bruna Mistè di passare la linea
Gustav per raggiungere l’Italia liberata. Insieme ad un
gruppo di uomini – formato da ex prigionieri alleati fuggiti
dai campi di concentramento e militari italiani scampati ai
nazifascisti – con un equipaggiamento di fortuna, la giova-
ne partigiana vicentina affronta un viaggio a piedi attraver-
so il massiccio della Maiella già innevato.
Un racconto vivace e fresco, scritto sulla base di appunti
presi durante la fuga: il freddo, il coraggio e la paura, gli
incontri con una popolazione stremata, che si dimostra no-
nostante tutto solidale con i fuggiaschi, ai quali a volte dà e
a volte chiede conforto.
Percorsi della memoria 91.
In copertina: Bruna Mistè Meneguzzo negli anni ’40.

isbn 978-88-5520-045-5

© 2020 Cierre edizioni
via Ciro Ferrari, 5
37066 Sommacampagna, Verona
tel. 045 8581572, fax 045 8589883
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Bruna Mistè Meneguzzo

 LA FUGA DI BRUNA
Novembre 1943, un viaggio avventuroso
    per raggiungere l’Italia liberata

             a cura di Luisa Spencer

                  Cierre edizioni
rEsistenze - Memoria e storia delle donne in Veneto
Ti amo
Mamma
Indice

11   Come in un film, di Anna Meneguzzo
13   La chiamavano “La Pasionaria”, di Marco Meneguzzo
15   Introduzione, di Luisa Spencer

21   La fuga di Bruna
Bruna Mistè Meneguzzo
11 gennaio 1920 - 1° giugno 2005
Come in un film

                   di Anna Meneguzzo

    Riscoprire la Storia, anzi, la Guerra, attraverso il rac-
conto descrittivo di poche giornate che mescolano banali
quotidianità, normali conversazioni, con l’obiettivo am-
bizioso di oltrepassare le linee nemiche naziste e raggiun-
gere gli Alleati per poi liberare l’Italia ripartendo da Bari.
    Per me soprattutto riscoprire mia madre, anzi la
mamma, guardando questa ragazza di 23 anni, la stessa
età di mia figlia, che ricercata come partigiana, decide
di scappare a Sulmona da sola e da lì scalare la Maiel-
la con degli anfibi di Chissàchi, dormendo sulle pietre,
mangiando solo grazie alla sobria magnanimità dei con-
tadini, con un drappello di soldati fuggiaschi di varie
nazioni che, come lei, stanno fuggendo dai nazifascisti.
    Le onde gravitazionali non sono nulla a confronto
della rivoluzione spazio temporale che questo breve rac-
conto mi ha causato. Mia mamma: giovane come una
figlia, capace di entusiasmi infantili per un fiore o una
fresca mattinata in tempo di guerra, col rischio incom-
bente di morire il giorno stesso. Entusiasmi che peraltro
ha sempre avuto anche nei suoi 80 anni e di cui ho be-
neficiato con leggerezza da figlia. E mia madre: adulta e
responsabile, avventata e avventurosa, come può essere
solo chi ha sia la coscienza che bisogna cambiare la sto-
ria, sia l’incoscienza per tentare di farlo.
12                  Bruna Mistè Meneguzzo

   Ho guardato mia mamma combattere la guerra co-
me se fosse stato un film, ogni tanto svegliandomi per
dirmi che no, era successo davvero, era successo solo
75 anni fa e quella non è un’attrice, è una donna che,
ventenne, ha rischiato la vita perché noi vivessimo in un
paese libero e democratico.
   Ed era mia mamma, una grande donna. Così grande
da aver perfino sorvolato sulla sua grandezza.
La chiamavano “La Pasionaria”

                  di Marco Meneguzzo

    Ricordando la riservatezza silenziosa di mia madre,
faccio fatica a pensare che all’indomani della fine della
guerra, in paese la chiamassero “La Pasionaria”, e fos-
sero andati in delegazione a riceverla, tornata dal Sud
dove era riuscita a riparare dopo le vicende narrate nel
suo scritto, e le altre che con molta ritrosia raccontava
ogni tanto, su nostra richiesta di figli.
    Però è accaduto davvero. Da bambini, questi raccon-
ti persi un po’ in una nebbia mitica, si dipanavano ai
nostri occhi e nella nostra mente come frammenti visivi
di un film, ma appunto come fossero qualcosa accaduta
sullo schermo, con un immancabile lieto fine, e con una
sceneggiatura in cui i buoni avrebbero sempre prevalso
sui cattivi. Del resto, se la mamma era lì a raccontarcelo,
doveva essere così...
    Oggi, che la spensieratezza - o l’incoscienza - della
giovinezza è lontana, mi capita di pensare spesso a que-
gli episodi, che non sono stati il frutto di un momento,
di una singola circostanza, in cui l’eroismo è più facile,
ma di una meditata e prolungata necessità. Non solo
di sfuggire a minacciate rappresaglie, ma la necessità di
“fare la cosa giusta”.
    Mia madre ha fatto la cosa giusta. Per sé, in quel
momento, ma anche per me, che sarei nato molti anni
14                  Bruna Mistè Meneguzzo

dopo, e non tanto per la democrazia o la libertà con tut-
ta la retorica che segue, ma proprio per me... si dice che
il buon insegnante - e mia madre lo era - insegna quello
che è prima di quello che sa, e per far questo è necessario
l’esempio. Il suo esempio ce l’ho sempre davanti, nono-
stante non me l’abbia mai fatto pesare, e si concretizza
in una domanda: “io, sarei stato capace di fare quello
che ha fatto?”
    È questo dubbio irrisolto che mi spinge ad essere un
uomo migliore.
Introduzione

                    di Luisa Spencer

    Brunetta Misté era nata l’11 gennaio 1920 a Valda-
gno, in provincia di Vicenza. Da bambina si era trasfe-
rita in Piemonte con la famiglia, per esigenze di lavoro
dei genitori. Nel 1938, dopo la morte del padre, tornò a
Valdagno. Frequentò il Liceo Pigafetta di Vicenza dove
conobbe i professori Dal Pra e Faggin che l’introdusse-
ro nel gruppo antifascista di Vicenza, facente capo alla
medaglia d’oro Antonio Giuriolo.
    Dopo il liceo si iscrisse alla facoltà di matematica
dell’università di Padova, dove fu incaricata di formare
gruppi antifascisti nell’ambiente studentesco e operaio
di Valdagno. Individuata e fermata dai carabinieri, fu
convocata alla casa del fascio di Valdagno e Vicenza,
diffidata e minacciata.
    Nonostante il clima di paura e di persecuzione, fondò
a Valdagno una sezione di Giustizia e Libertà, assieme a
dirigenti antifascisti vicentini: Licisco Magagnato (dopo
la guerra direttore del Museo di Castelvecchio), il valda-
gnese Sergio Perin (in seguito consigliere regionale del
Veneto) Bene Galla ed Enrico Melen. Il suo incarico spe-
cifico era redigere e distribuire materiale di propaganda.
    Nel maggio del ’43 quasi tutto il gruppo che si riuni-
va a casa sua la sera fu arrestato e tradotto nelle carceri
di San Biagio a Vicenza. La casa fu perquisita e messa a
16                   Bruna Mistè Meneguzzo

soqquadro, ma Bruna era fuori e sfuggì all’arresto. Per
ragioni chiaramente politiche, il provveditore agli Stu-
di le ordinò di lasciare il suo incarico di insegnamento
presso la scuola tecnica industriale di Valdagno, che ave-
va ottenuto nonostante fosse ancora studentessa. Ormai
il suo arresto era imminente, decise allora di darsi alla
clandestinità fino dal 25 luglio del ’43.
    Con la caduta di Mussolini Bruna riprese in pieno
l’attività organizzando uno sciopero nella zona di Val-
dagno e compiendo atti di sabotaggio contro le truppe
tedesche.
    A Recoaro (stazione termale pochi chilometri a nord
di Valdagno) c’era un nutrito contingente tedesco, co-
mandato da Albert Kesselring. Inoltre tra Valdagno e Re-
coaro erano distribuiti alcuni depositi di documenti del
ministero dell’interno della Repubblica Sociale Italiana,
in particolare i fascicoli dell’Ovra, la polizia segreta che
schedava tutte le persone sospette di antifascismo.
    Tra la fine del ’43 e l’inizio del ’44 le formazioni par-
tigiane cominciavano ad organizzarsi ed armarsi. Dopo
l’8 settembre, Bruna era strettamente sorvegliata dal ca-
pitano delle brigate nere di Valdagno, Tomasi. Fu invitata
dal comando antifascista di Vicenza ad abbandonare la
zona del vicentino per organizzare nuclei partigiani in
altre zone. Scelse la zona di Sulmona, perché vicina alla
linea Gustav e perché sapeva che il vescovo della diocesi,
Mons. Luciano Mercante, già parroco di Cornedo Vicen-
tino, l’avrebbe messa in contatto con i gruppi antifascisti
della zona. Fu così che venne a contatto con alcune fami-
glie, tra le quali i Cantelmi e i De Gregorio.
    Qualche settimana dopo il suo arrivo, decise di ten-
tare di passare la linea Gustav attraversando i monti
della Maiella. Superate le montagne, con difficoltà ma
La fuga di Bruna                  17

aiutata con generosità dalla gente del posto, fu catturata
da una pattuglia tedesca e internata nel campo di pri-
gionia Fonte d’Amore.
    Riuscì a fuggire e a raggiungere il territorio libero nel
gennaio del ’44. Con grandi disagi raggiunse Bari, dove
però non riuscì a continuare i suoi studi perché all’uni-
versità non esistevano facoltà scientifiche. In compenso
lavorò presso il giornale socialista della regione diretto
da Eugenio Laricchiuta e organizzò la prima sezione
femminile del partito socialista della città.
    Nel frattempo la brigata nera di Valdagno, per avere
informazioni sulla sua fuga, aveva minacciato e inter-
rogata più volte sua madre da cui, però, non riuscì ad
ottenere nulla.
    Il 29 novembre del 1944 fu arrestata anche la sorella
minore di Bruna, Bertilla Mistè. Anche lei impegnata
nella Resistenza, faceva parte della brigata Stella, bat-
taglione “Amalia” (dal nome di una compagna caduta)
formato da un folto numero di donne, alcune combat-
tenti in armi, altre staffette. Catturata in seguito all’ar-
resto di un’altra appartenente della brigata, fu torturata
e trattenuta nelle carceri di S. Biagio di Vicenza dall’i-
nizio dicembre del ’44 fino alla Liberazione.
    Al ritorno a Valdagno dopo la Liberazione Bruna si
laureò e iniziò ad insegnare. Si sposò con Franco Me-
neguzzo, pittore e scultore, e si trasferì a Milano dove
nacquero i suoi due figli. La sua vita fu dedicata al suo
lavoro di insegnante e alla famiglia.
    È morta a Valdagno nel 2005.

    Fino a qui i dati fattuali sulla vicenda di Bruna par-
tigiana, in parte desunta da una sua lettera al Ministero
del Tesoro per ottenere lo stato di perseguitata politica
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antifascista, in parte dalla conoscenza di alcuni eventi
della lotta partigiana raccolti dalla voce dei protagonisti
o da testi di storia locale1.
    Dal periodo milanese dei Meneguzzo iniziano i
miei ricordi di Bruna e della sua famiglia. La incontra-
vo durante l’estate nei mesi che trascorreva col marito
nella loro casa di Valdagno. Avevano un appartamento
pieno dei quadri, di oggetti raffinati di design: Franco
Meneguzzo ha lavorato con Bruno Munari a Milano, è
stato pittore e scultore. Bruna e Franco erano per me i
portatori di una cultura meno provinciale, intellettuali
raffinati e affascinanti. Le discussioni sull’arte moderna
erano mi erano difficili da seguire, ma mi hanno dato
tanto: mi hanno insegnato un linguaggio diverso, dei
punti di vista nuovi, delle aperture al mondo.
    Raramente si parlava di lotta partigiana, sempre di
politica. L’unico episodio della lotta partigiana, segnata
da fatti tragici nel vicentino come in altre parti d’Ita-
lia, la raccontava Franco e riguardava suo padre, che era
stato arrestato in contrada Campanella di Valdagno da
un gruppo di tedeschi in ritirata verso le montagne del
Carega, per raggiungere una via di fuga verso il nord
attraverso la Val d’Adige. Dopo averlo usato come scudo
umano, i tedeschi lo fucilarono. Ho visto i quadri che
Franco Meneguzzo ha dipinto dopo la morte del padre:
balenii rosso fuoco, abissi di nero.
    Bruna non mi ha mai raccontato della sua attività
di partigiana e nemmeno della sua fuga, qualcosa mi
aveva detto confusamente mia madre che è sempre stata

1
 Dal Lago Maurizio, Valdagno durante l’occupazione tedesca, brossu-
ra, Mediafactory, 2014, e Gianni A. Cisotto, Vittorio Sandri, Sergio
Perin (1919-1971), Cierre edizioni, 2014.
La fuga di Bruna                   19

sua amica. Quando, più avanti nel tempo, mi sono resa
conto del suo ruolo nella Resistenza, era troppo tardi
per interrogarla perché non c’era più.
    Non sapevo che avesse scritto qualcosa sulle sue vi-
cende. Sua figlia Anna ha trascritto con fatica un mano-
scritto che, sono sicura, ha redatto per i suoi figli, e forse
anche per se stessa. È così ben scritto, così leggermente
ironico che vi si può intravvedere Bruna: intelligente,
razionale, appassionata e dolcissima. I riferimenti ai
luoghi, le descrizioni del paesaggio sono frutto di un
ricordo vivissimo, di una passione per la montagna. La
vivacità della descrizione del suo viaggio mi fa pensare
che il suo racconto sia basato su appunti, forse un diario,
scritto durante la fuga.
    In quel momento storico l’Abruzzo era terra di con-
fino, a Casoli c’era un campo di concentramento dove
furono internati anche i Nagler di Trieste. Kubi Nagler
era il fidanzato di Rita Rosani, medaglia d’oro per la
Resistenza. Da lì , con i suoi genitori, fu deportato in
Germania. Per Natalia e Leone Ginzburg e i loro tre
figli, tra il ’40 e il ’43 fu un confino attenuato dall’acco-
glienza affettuosa di Pizzoli (L’Aquila). La scrittrice lo
ricorda come il periodo più felice della sua vita.
    L’Abruzzo era anche una terra legata alla speranza di
libertà. Così è stata per Bruna. Aveva 23 anni, era una
giovane donna piena di vita e di coraggio, in compagnia
di uomini sconosciuti o quasi, ha portato a termine un
percorso difficile e avventuroso, tra freddo, fame e paura.
    Il modo in cui Bruna ha deciso di ricordare la sua
fuga fa ritornare il dubbio che, unita a una specie di
delusione politica, una strana reticenza abbia segnato la
vita delle partigiane come lei, sopravvissute alle persecu-
zioni nazifasciste.
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    C’è una determinazione forte, da parte delle storiche
di genere, di lavorare in una prospettiva di restituzione.
Le ricercatrici di rEsistenze, considerano importanti e
illuminanti le vicende delle donne resistenti che hanno
perseguito attivamente, coraggiosamente e in maniera
determinata le idee di libertà, giustizia e democrazia per
crearci una vita migliore.
    Possiamo ora esprimere il senso di grande ricono-
scenza con la restituzione alla memoria della loro espe-
rienza unica.
    Ringrazio Emanuela Meneguzzo Borgo, nipote di
Bruna, che mi ha passato il memoriale. Con una pre-
fazione di suo figlio Luigi lo ha pubblicato e distribuito
nelle scuole di Recoaro, in una edizione privata in occa-
sione del 25 aprile 2019.
    Grazie ai figli di Bruna, Anna e Marco Meneguzzo,
che l’hanno messo a disposizione. Soprattutto, grazie,
Bruna, per la tua vita coraggiosa.

                                 Verona 8 novembre 2019
LA FUGA DI BRUNA
Dormii poco quella notte, poco e male. Mi ero co-
ricata assai tardi dopo aver completato i preparativi per
la partenza; nello zaino militare avevo messo biancheria
e una quantità di cosette necessarie e avevo cercato di
ammorbidire con del grasso gli scarponi anch’essi mili-
tari e usati, sbucati da non so dove all’ultimo momento.
D’accordo con Suor Pia per la sveglia del mattino dopo,
ero salita in camera ben decisa a dormire. La camera in
verità non era troppo intima: si trattava del dormitorio
di un collegio femminile allora deserto, causa la guerra
e la vicinanza del fronte.
    Mi ero distesa sotto le coperte e avevo chiuso gli oc-
chi; ma il sonno non veniva, anzi il cervello lucidissimo
lavorava febbrilmente. Ripensavo agli ultimi avveni-
menti, la partenza improvvisa e segreta da casa circa un
mese prima, il viaggio estenuante, l’arrivo alla desolata
stazione di Sulmona, l’albergo e poi il collegio in cui
mi ero stabilita.
    Suor Pia, la superiora, aveva pensato subito ad in-
trodurmi presso alcune famiglie della cittadina, magari
fornendo su di me notizie strampalate e contradditorie
inventate secondo l’estro del momento. Essa conosceva
tutti; piccola e vivace la si vedeva sbucare da un vicolo
o da un portone in qualsiasi ora del giorno. Possede-
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va una radio ben nascosta, udiva le notizie e correva a
spargerle tra i conoscenti. Avendo la certezza di potersi
fidare di me, mi aveva presentato parecchi prigionie-
ri alleati, fuggiti dai vicini campi di concentramento
dopo l’8 settembre. È incredibile il numero di questi
fuggiaschi nascosti a Sulmona e nei dintorni, special-
mente nelle case più povere. Mi domando ancor oggi
come potevano quelle famiglie mantenerli, con il com-
mercio pressoché paralizzato, le fabbriche bombardate,
i viveri della tessera scarsissimi o addirittura inesistenti,
gli armenti dimezzati dai tedeschi e i raccolti saccheg-
giati; senza dire che pochissimi volevano lavorare con
i tedeschi e senza tener conto delle interminabili file di
profughi dei paesi “evacuati”, che dovevano pur vivere
della carità del prossimo.
    Avevo conosciuto dunque un campionario di allea-
ti inglesi, americani, francesi, anche cecoslovacchi. Le
case, antiche com’erano e piene di nascondigli segreti,
sembravano costruite apposta per occultare qualche co-
sa. Entrando non si vedeva anima viva all’infuori della
padrona di casa; ma poco dopo si aprivano porticine
dissimulate, o calavano scalette a pioli, o si alzavano bo-
tole e compariva Robert, o William, o Tom, o Jim e ma-
gari tre o quattro insieme, radunatisi per giocare a carte,
attraverso tetti e soffitte: fuori i tedeschi vegliavano.
    Io portavo le notizie del fronte e mi fermavo a chiac-
chierare, fabbricando sigarette con un po’ di tabacco
che avevo. Solo nelle case dove c’erano vecchi mi ca-
pitava di non poter entrare, perché quelli avrebbero so-
spettato anche di loro stessi, tanta era la paura di venire
scoperti: le pene in verità erano assai gravi; la più mite
consisteva nella deportazione della famiglia in un cam-
po di concentramento mentre la casa veniva incendiata.
La fuga di Bruna                 25

    Una sera da Suor Pia avevo conosciuto la la signora
Cantelmi. Era venuta con la giovane cognata e tutt’e
due erano agitate. Più tardi avevo saputo che tutto il
giorno avevano camminato per i dintorni alla ricerca di
tre inglesi che dall’8 settembre tenevano in casa e che,
sparpagliatisi per la campagna per evitare un rastrella-
mento tedesco, non avevano più trovato la via del ritor-
no. La signora mi aveva invitata per l’indomani ed io
ero stata ben lieta di andare a casa sua, perché mi aveva
ispirato una subitanea simpatia.
    Due dei prigionieri erano tornati; erano ufficiali en-
trambi: uno ingegnere, residente a Singapore, piuttosto
anziano, educatissimo e sommamente taciturno. È pur
vero che non sapeva neppure ‘grazie’ in italiano, aven-
do dichiarato con irremovibile convinzione che non gli
inglesi avrebbero avuto bisogno di imparare l’italiano,
bensì gli italiani l’inglese. Questione di opinioni. L’altro
era diverso, molto giovane, un viso roseo e liscio sor-
montato da un simpatico ciuffo di capelli tizianeschi;
si muoveva con circospezione silenziosamente, sedeva
sull’orlo della seggiola, ascoltava e rispondeva compun-
to. Si chiamava Fergus.
    In seguito, presa un po’ di confidenza, mi aveva par-
lato di alcune sue aspirazioni poetiche e drammatiche e
avevamo cercato di tradurre alla meglio qualche sua po-
esia. Aveva studiato l’italiano con passione e lo parlava
davvero benino; serviva da interprete per il compagno.
Io avevo preso l’abitudine di passare i pomeriggi in casa
Cantelmi. Battevo il pesante anello sulla grossa borchia
nel portone e appena qualcuno mi riconosceva, correva
ad aprirmi. Sopra, oltre a Fergus ed Ely (l’altro prigio-
niero), c’erano il signor Cantelmi, che se ne stava na-
scosto per evitare di lavorare con i tedeschi, e Samuele,
26                   Bruna Mistè Meneguzzo

un carabiniere che dopo l’armistizio si era rifugiato per
caso lì, e lì era rimasto beatamente, visto che stava bene.
    L’occupazione principale dei quattro uomini era
quella di fabbricare sigarette; e non è da dire che fos-
se cosa da poco. Bisognava preoccuparsi di far seccare
bene al sole le foglie di noce e di ciliegio (tabacco non
esisteva a Sulmona); poi tagliar le foglie in sottilissime
strisce con la forbice; indi cercare carta il più possibile
adatta al bisogno e ritagliarla; infine arrotolare la siga-
retta. Più difficile però era fumarla: un gusto acre e forte
penetrava nei polmoni e provocava tosse violenta; per
fortuna a metà, asciugata la saliva che manteneva unita
la carta, la sigaretta si apriva in mano e non se ne parlava
più, si doveva buttar via. Posso assicurare che tre sigaret-
te al giorno erano più che sufficienti.
    Si parlava del più e del meno e soprattutto si studia-
va la carta geografica: conoscevamo anche i più piccoli
luoghi della zona di guerra, percorrendo col desiderio
l’avanzata alleata. Invece questa proseguiva lentissima,
sebbene ci fosse stata una splendida estate di San Mar-
tino. «Il Signore fa loro la culla – soleva dire la signora
Cantelmi – ma questi inglesi non ci si vogliono dondo-
lare». Sentivamo radio Londra parecchie volte al gior-
no, tesi nell’ansia di qualche notizia importante, mentre
solo la conquista di qualche sperduto villaggio veniva
annunciata per due o tre giorni di seguito. L’attesa co-
minciava a divenire snervante.
    Già qualche prigioniero aveva tentato di passare il
fronte; molti altri studiavano itinerari su sdrucite carte
salvate chissà come. L’idea era venuta anche a Fergus
ed io avevo cercato di dissuaderlo, avendo sentito che
tutti i passi montani erano custoditi, che i paesi dei
dintorni erano stati forzatamente evacuati dalla popo-
La fuga di Bruna   27
28                   Bruna Mistè Meneguzzo

lazione, che il cammino era impervio e che molti di
quelli che erano partiti, dopo aver vagabondato qual-
che giorno, erano tornati al punto di partenza. Tutte
ragioni che giudicavo validamente atte a far rinunciare
a qualsiasi disegno balzano.
    Penso ora che molto influisse la mia completa igno-
ranza della circostante zona montagnosa e che se avessi
conosciuto bene i luoghi molte delle difficoltà, che mi
parevano insormontabili, sarebbero automaticamente
cadute. Del resto erano cadute ugualmente, in modo
del tutto inatteso.
    Il venerdì si era presentato in casa Cantelmi un uffi-
ciale d’aviazione di Bologna, naturalmente in borghese,
mandato da una fidatissima famiglia sulmontina. Gli era
giunto all’orecchio il vago progetto di Fergus ed era ve-
nuto a proporgli di partire senz’altro insieme la domenica
all’alba. Parlava con eccitazione, a gesti leggermente enfa-
tici. Lo avevo giudicato un po’ fanfarone, ma tutto mi era
parso straordinariamente facile a realizzarsi: una proposta
pratica ed imminente aveva cancellato tutti i miei dubbi.
    «Vengo anch’io – avevo detto – sono pratica di mon-
tagna e non sarò di peso». E la signora di rincalzo: «ma
sì la signorina ha coraggio da vendere e saprà sempre
cavarsela». Enzo, l’ufficiale, non aveva fatto obiezioni e
avevamo studiato l’itinerario sulla mia carta del Tou-
ring: ascesa del monte Morrone subito fuori Sulmona
per evitare Pacentro evacuato e il guado San Leonardo
custodito dai tedeschi; scesi a fianco del Morrone affron-
tare le alture sopra Campo di Giove, sempre evitando i
villaggi; attraversare la Maiella tra la Tavola Rotonda e
il Monte Amaro; scendere l’altro versante fino a Palena,
risalire sui monti Pizi, ridiscendere verso Quadri e qui
attraversare il fiume Sangro. Facile!
La fuga di Bruna                 29

    «E poi – aveva soggiunto Enzo – possibile che fra
tanta gente e soprattutto fra tanti monti i tedeschi ven-
gano a scoprire proprio noi? Io ho un binocolo e una
bussola e troveremo bene qualche pastore per chiedere
informazioni».
    «Senz’altro – avevo detto – andrà tutto bene».
    «Ci vediamo dunque domenica alle 6 precise, sulla
strada di Pacentro».
    Una stretta di mano ed era sparito lasciandoci lieve-
mente straniti a guardarci in faccia l’un l’atro. Poi Ely
aveva brontolato qualche cosa ed era stato come un se-
gnale per una smaniosa attività.
    «Ai viveri penso io», aveva dichiarato la signora.
    «Io ho bisogno di scarponi», avevo detto.
    «Penso io».
    «E di uno zaino».
    «Penso io».
    «Ed io allora a cosa devo pensare?».
    «Pensate alla salute», e già stava cercando indumenti
di lana.

   Così era trascorso anche il sabato e alle 7 di sera, ora
del coprifuoco, io ero in collegio con tutto l’occorrente
per la partenza. Delle suore solo la Superiora sapeva ed
era arrivata in camera mia con una bottiglia di cognac
prelevata dalle scorte segrete; mi aveva fatto alcune rac-
comandazioni e donato una medaglia benedetta. Avevo
poi preparato con grande cura lo zaino da montagna
e mi ero coricata. Ma il sonno non venne. Esaminai
il mio stato d’animo con obiettività. Come spesso mi
accade ero agitata trovandomi nella fase di passaggio
tra due concezioni di vita ben diverse: oggi vita meto-
dica, di abitudini, di contemplazione, di attesa passiva;
30                  Bruna Mistè Meneguzzo

domani vita attiva, ricca di imprevisti, di pericolo, per
cui occorreva iniziativa e prontezza. Sapevo che l’indo-
mani sarei stata calmissima, senza la minima esitazione,
senza rimpianti di sorta. Ma in quelle ultime ore potevo
ancora prospettarmi l’avventura da un punto di vista
pacifico e conservatore. Pensai alla difficoltà del cammi-
no, soprattutto al guado del Sangro in piena, ammesso
che non si potesse parlare di ponti; pensai all’estrema
incertezza a cui andavo incontro una volta attraversate
le linee. D’altra parte, rimanendo a Sulmona, correvo il
rischio di aspettare chissà quanto l’arrivo degli alleati,
restando senza soldi e senza la possibilità di guadagnare.
Avevo rosee, benché vaghe, speranze sull’ordinamento
della vita nelle terre liberate; allora credevo ancora fer-
mamente in alcuni principi sventolatici innanzi dalla
propaganda e dal nostro bisogno di fede.
    Pesai il pro e il contro accuratamente. Quando verso
l’alba presi sonno ero già entrata nel nuovo ordine di idee
e aspettavo con gioia l’inizio dell’avventura. Mi sveglia-
rono bruscamente; era piuttosto tardi e dovetti sbrigar-
mi. Nel parlatorio mi attendeva la signora Cantelmi con
tre donne: due portavano sulla testa gli zaini di Fergus
ed Ely in grandi panieri coperti di tela, la terza, Mariet-
ta, prese il mio ed uscimmo. Albeggiava. Le donne più
mattiniere uscivano di casa per recarsi a messa al richia-
mo delle campane; qualche carro era già in moto. Uscite
dall’abitato prendemmo la strada di Pacentro che dove-
va condurci ai piedi del Morrone. Là avrei incontrato
gli altri che, guidati dal signor Cantelmi, avevano preso
viottole di campagna per non farsi notare.
    Parlavo con la signora del più e del meno e pensavo a
parecchie cose eterogenee. Inconsciamente osservavo la
sagoma sparuta della vecchia Marietta, che mi cammi-
La fuga di Bruna                   31

nava davanti dondolandosi leggermente. Fui assorta dal
movimento ritmico del cesto sulla sua testa e delle an-
che scarne, poi dal latrato lontano, lamentoso di un cane.
Ogni tanto guardavo attraverso i campi ancora immersi
in una semi oscurità con l’illusione di intravedere gli altri.

    Giungemmo al luogo convenuto per prime, dopo
vennero gli uomini. Enzo attraversò guardingo la strada
e soffermatosi un attimo presso un cespuglio: «È tardi
– disse – c’è già troppa luce», e attaccò la montagna a
passo di corsa. La sua apprensione e l’evidente imperizia
in fatto di alpinismo mi misero di buon umore; salu-
tai un’ultima volta le donne e, caricatomi lo zaino sulla
schiena, mi avviai con passo metodico per la salita che
era subito erta e faticosa.
    Il primo tratto completamente ghiaioso ospitava al-
cuni ulivi dall’aspetto allucinato, abbarbicati faticosa-
mente al terreno; dopo non si trovavano che arbusti ed
erba rinsecchita dai primi geli. Raggiunsi agevolmente
gli altri che ansimavano, li sorpassai e proseguii avvan-
taggiandomi poco a poco; avevo raggiunto un sentiero
tracciato fra i sassi e la salita non mi era difficile. Mi vol-
si a guardare la meravigliosa conca sulmontina; il sole
stava sorgendo di là dai monti e già si vedevano i raggi
segnati dalla tenuissima nebbia mattutina. Poi apparve
il disco trionfante illuminando le cime opposte; un rag-
gio sfiorò il campanile più alto della cittadina e raggiun-
se il primo vetro, sprigionandone bagliori: e a poco a
poco tutti i vetri scintillarono. La valle fu lambita dalla
luce, vivificata, riscaldata; la guardai con affetto in un
ultimo saluto e ripresi il cammino.
    Raggiunsi il passo a 1800 m e mi sedetti per attende-
re gli altri. L’aspetto della montagna lassù era veramente
32   Bruna Mistè Meneguzzo
La fuga di Bruna                 33

imprevisto; lo sguardo, abituato allo squallore del ripido
versante sud-ovest appena lasciato, si trovava immerso
in una gloria di tinte riposanti e gioiose. I dolci declivi
delle conche poco profonde che si trovano sulla som-
mità del gruppo montagnoso erano ricoperti di pascoli,
qua e là interrotti da chiazze scure di boschetti; al centro
si espandeva verso sud una macchia di alberi ad alto
fusto del più splendido rosso che si possa immaginare:
una tinta cupa, calda,morbida. Più a nord pennellate di
ocra, giallo, verde, bruno si alternavano. Il paesaggio era
pervaso da un grande silenzio e da una completa im-
mobilità tanto da apparire irreale pur in una semplicità
estrema di linee; o forse appunto per questo.
    Appoggiai la testa sullo zaino e stetti supina a guar-
dare il cielo finché le palpebre mi si fecero pesanti e
inavvertitamente mi addormentai. Dopo qualche tem-
po mi svegliai d’un tratto e cercai i miei compagni: non
c’erano e l’atmosfera era sempre gravida di silenzio e il
sole alto in cielo. Cominciavo ad impensierirmi quando
finalmente giunse Enzo. Appena riprese fiato: «Acciden-
ti – mi disse – voi andate come il lampo. Ed io pensavo
che neppure sareste venuta stamattina!».
    «Non è una cosa eccezionale, sono montanara. Ma,
e gli altri?».
    «Vengono. Un pastore ci ha aiutati per lo zaino; ci
ha anche indicato una capanna non molto lontana da
qui per passare la notte». Mi sembrava di avere udito
che i tedeschi l’avevano visitata qualche giorno prima e
avevano trovato dei fuggiaschi e lo dissi.
    «Può darsi – proruppe – ma non c’è scelta. Non pos-
siamo proseguire molto, perché siamo stanchi. Quella
maledetta salita che non finiva mai, e sassi, ed erba, e
avanti. Non ne posso più».
34                   Bruna Mistè Meneguzzo

    Scelse con cura un cuscino di muschio e si lasciò cadere.
    «Beh, non scoraggiatevi, domani andrà molto me-
glio. È che voi non siete abituato a simili passeggiate e
bisognerà che prima di dormire vi massaggiate i polpac-
ci e le cosce».
    «Ho un unguento adatto – disse – io e gli altri ci
massaggeremo a vicenda».
    Si guardò la polvere sugli scarponi e, tratta dalla ta-
sca dello zaino una spazzola morbida, si diede a luci-
darli con amore. Intanto si giustificava dichiarando che
lui faceva il pilota e le montagne era abituato a vederle
dall’alto. Anche Fergus mi aveva confessato che la mon-
tagna più alta vista in Inghilterra era di 200 metri. Poi
entrò in funzione il binocolo; con esso esplorò metodi-
camente tutta la conca e le alture circostanti. Lo vidi
fissare insistentemente un punto e farsi serio: «C’è gente
– disse – c’hanno visto e si sono fermati».
    «Tedeschi?».
    «Non posso distinguere».
    Presi il binocolo e osservai attentamente: sette o otto
persone erano sedute immobili sui sassi del declivio di
fronte a noi.
    «Pare che ci siano delle donne, ma posso anche ingan-
narmi», poi si mossero, scendendo verso il prato. Anche
Fergus ed Ely, arrivati allora, vollero vedere. Intanto gli
altri, con movimenti resi più lenti dalla distanza, stava-
no attraversando il pascolo nella nostra direzione.
    Quando furono più vicini, Enzo scoppiò in una risa-
ta: «Belle donne!», mi disse. Già, belle donne. Quando
furono più vicini vedemmo che due di essi avevano sulle
spalle inverosimili coperte a quadroni di tinta violenta,
lacerate un po’ dappertutto e gli altri non erano in mi-
gliori condizioni quanto a indumenti. Ma le “perle” del-
La fuga di Bruna                   35

la compagnia erano costituite da due magnifici esem-
plari della più nera razza africana, lucidi e nerboruti,
con un casco di pelle in testa e pantaloni di tela; nessu-
no li capiva ed essi parlavano tra loro, disinteressandosi
del mondo intero.
    Parlò un giovane alto che aveva assunto evidentemen-
te il ruolo di capo. Disse di essere francese, ma di aver stu-
diato a Roma; gli altri erano compagni casuali di viaggio:
due tunisini, un inglese, un canadese e i due figli di Cam.
Gli chiedemmo dove volevano andare. Indicò il sud: «È
un cattivo affare, qui sotto c’è Sulmona e voi vi consegna-
te direttamente ai tedeschi. Tanto più che con quelle due
facce caliginose non potete passare inosservati».
    «Volevamo andare verso Castel di Sangro».
    «Non vi conviene, la strada è lunga e la regione sor-
vegliata». Indicò il sud, verso Castel di Sangro. Cer-
cammo di dissuaderlo perché quella regione era molto
sorvegliata e la strada lunga e c’era Sulmona da attraver-
sare. Allora si consigliarono tra loro, un tunisino ancora
adolescente proruppe: «Ils sont des éspions».
    Enzo si inalberò; ne nacque un breve battibecco, du-
rante il quale i due negri continuarono a ciarlare e a
ridere tra loro buttando la testa indietro e scoprendo i
denti scintillanti, nella perfetta incoscienza delle anime
semplici; era chiaro che nord e sud per essi si equivale-
vano: in fin dei conti avevano incontrato un capo che
avrebbe deciso per loro.

   Dopo poco le parti si calmarono; il francese parve
convinto delle nostre argomentazioni e si accomiatò. Se-
guimmo con gli occhi lo strano corteggio di straccioni
fino al vicino spartiacque e riprendemmo anche noi il
cammino.
36                   Bruna Mistè Meneguzzo

    Si levò una folata di vento che fece rabbrividire il bo-
sco, morì improvvisamente com’era nata, indi risorse più
gagliarda; nuvole grigie apparvero oltre le creste lontane.
    «Presto – dissi – si sta levando un temporale. La mon-
tagna non ha stagioni». Infatti il vento aumentava e le
nuvole ingigantivano in cielo; il sole impallidì e si eclissò
melanconicamente, lasciandoci infreddoliti. Allungam-
mo il passo. Per fortuna si era su un pianoro coperto di
erba e muschio che vegetava su un terreno soffice come
un tappeto. Quando giungemmo in vista della capanna
ci raggiunse con l’aria pungente un leggero piovasco che
ci spruzzò la faccia; un grato odore di timo e di umido si
sprigionò da terra ad allargarci le narici.
    Avevamo appena lasciato a destra una piccola mac-
chia di faggi e gli uomini, posato lo zaino, vi ritornaro-
no per raccogliere arbusti e rami secchi. Io entrai nella
capanna. Era costruita in pietra e consisteva in un’unica
stanza rettangolare con una porta non ben chiudibile,
un finestrino in fondo e un pertugio in alto; come unico
arredamento due letti fatti di un rudimentale telaio di
legno coperto da fascine e montato su quattro pali. Le
pareti erano nere e lucide come antracite per il fumo che
da anni si accumulava sulla pietra.
    Ad imitazione di altre che già vi erano, Fergus scolpì
sul muro la nostra data: 7 novembre 1943. Poi si diede
con gli altri ad accendere il fuoco in mezzo alla stan-
za, mentre io stavo già rammendando i pantaloni di
Ely strappati al primo capitombolo in modo veramente
da primato. I rami bagnati sfriggettero per parecchio
tempo, poi iniziarono una combustione che ci costrin-
se a fuggire all’aperto, malgrado tutta la nostra buona
volontà; un fumo acre, denso aveva riempito tutta la
capanna, si era convogliato verso il finestrino oscuran-
La fuga di Bruna   37
38                   Bruna Mistè Meneguzzo

dolo totalmente e usciva come da una ciminiera in pie-
no funzionamento. Di tanto in tanto qualcuno di noi
tentava di avvicinarsi al fuoco per riscaldarsi, ma usciva
poco dopo lagrimando e tossendo. Aspettammo che il
fuoco si spegnesse e sgomberasse il fumo, indi entram-
mo al coperto.
    Attraverso le nuvole leggere si poteva scorgere ancora
l’azzurro del cielo, ma ormai il giorno declinava; una
schiarita ci portò l’ultimo raggio di sole. Mangiammo
e preparammo i letti di frasche prima del buio. Enzo si
lavò, si spazzolò con cura e, tirato fuori un flaconcino, si
dedicò con gli altri alla nobile arte del massaggio, lavo-
rando con grande meticolosità.
    La notte calò repentina, grandi ombre si stesero sulla
piccola radura e la avvolsero tutta; presto le nostre sago-
me si fecero incerte e ci apprestammo a dormire. A me
destinarono il giaciglio presso la porta e gli uomini si
acconciarono nell’altro in fondo e su arbusti secchi che
avevano portato dal bosco. Dopo un po’ di tempo in cui
qualche parola volava nel buio ad allacciare i nostri pen-
sieri, li sentii cedere al sonno e la vera notte cominciò.
    Io non riuscivo a dormire, presa da un’oscura agita-
zione che andava man mano aumentando. Il vento che
non era mai del tutto cessato durante il giorno riprese
con più vigore; s’infilava per le fessure della porta, usci-
va dal finestrino, radeva i fili d’erba più alti e s’impi-
gliava fra i rami del bosco, ululando sinistramente; una
seconda ventata si accaniva contro la capanna, si sper-
deva ed una terza riprendeva l’attacco, finché si susse-
guirono a ritmo ininterrotto e violento. L’aria cominciò
a penetrarmi nella carne e gli urli in una parte lontana
del cervello; la capanna ne era tutta permeata e gemeva
penosamente; i giacigli scricchiolavano presi da brividi
La fuga di Bruna                  39

leggeri. Allungai il braccio per constatare se lo zaino era
intatto: pensavo che dei topi ne avessero fatto scempio,
mi pareva di sentirli sotto la testa, tra foglia e foglia, ma
probabilmente non era che immaginazione. Strani ru-
mori si mescolavano al respiro pesante dei miei compa-
gni; il vento captava lontani mormorii, voci misteriose,
le ingigantiva come valanghe d’aria, le sospingeva, le fa-
ceva rotolare tra le pareti della baita, le sprigionava dalle
fessure contro il dorso delle cime, destando echi sonori.

    Non potevo dormire. Mi rammentai di quanto udito
sui prigionieri scoperti qualche giorno prima forse nel
medesimo luogo; sapevo che gli ex prigionieri di guerra
se ripresi, venivano ricondotti in un campo di concen-
tramento senza altra punizione, ma non avevo idea di
quello che poteva accadere ad un italiano preso con loro
in luoghi ed equipaggiamento evidentemente sospetti.
Una donna che non fosse né pastora né contadina pote-
va facilmente venire sospettata di spionaggio e pensavo
che spesso i tedeschi non andavano troppo per il sottile.
Mi rigirai, decisa a non essere pessimista e ad attendere
il sonno; ma il mio sistema nervoso era ormai diventato
ipersensibile e mi sorpresi con l’orecchio teso al rumore
delle foglie secche che turbinavano fuori, temendo di
individuare dei passi e delle voci; seguivo con gli occhi
le lancette fosforescenti del mio orologio da polso paren-
domi i minuti smisuratamente lunghi. Il primo barlume
dell’alba mi recò un sollievo enorme, forse anche perché
il vento era diminuito d’intensità; il quadratino di cielo
che intravvedevo in alto dal pertugio mi distese i nervi
e le membra si rilassarono in un estremo languore. Non
riuscii ormai più ad addormentarmi ma la crisi era supe-
rata e nessun orgasmo mi turbò più, neanche in seguito.
40                   Bruna Mistè Meneguzzo

    Mi alzai piano e sgusciai dalla porta scardinata
sull’erba bagnata di brina; tremavo e battevo i denti pel
freddo e la stanchezza. Scesi fino ad una pozza d’acqua
che luccicava poco più in basso, immersi le braccia e la
faccia nel liquido tanto freddo da togliere il respiro e mi
sentii assai meglio. Quando tornai alla capanna gli altri
erano desti e ci avviammo lentamente per la china.
    Fergus guardava avidamente il paese: mi disse che
dopo un anno e mezzo di campo di concentramento e
due mesi di segregazione a Sulmona, vedere la natura
libera e così splendidamente vestita come allora ci si pre-
sentava lo rapiva; e il giallo di un arbusto, il rosso di una
foglia o la gentilezza di un fiore tardivo lo incantava. Di
Ely non saprei dire: guardava in giro con i suoi occhi
acquosi e non pronunciava parola.
    Scendemmo fino a raggiungere il fondo valle. Un
piccolo ponte era gettato in un torrentello che scorreva
limpido e tranquillo di sasso in sasso; si poteva arrivare
facilmente per l’argine erboso all’acqua chiara e ne be-
vemmo con piacere. Poi ci avviammo lentamente per la
strada secondaria che si snodava su per gli ultimi pendii
del gruppo della Maiella, solcata da profonde carreggia-
te e fiancheggiata da alti noci e cornioli.
    Scendeva di tanto in tanto, lentamente, i freni cigo-
lanti, qualche carro carico di fascine, frantumando le
foglie secche. E noi lentamente si saliva nella luce sbia-
dita di un sole coperto da nuvole leggere. Abbandonam-
mo la strada per tagliare dritti attraverso i campi deserti
e dopo qualche tempo raggiungemmo la camionabile
che porta a Campo di Giove; un camion tedesco giace-
va sul margine, immobilizzato evidentemente da un mi-
tragliamento. Continuammo tra i campi per un sentiero
appena tracciato, sperando di evitare spiacevoli incontri;
La fuga di Bruna                 41

in realtà l’unico essere che ci avvicinò fu un pastore che
ci indicò la direzione da seguire. Tutto compreso di me-
raviglia nel vedere la bussola che Enzo aveva in mano
e nell’udire le spiegazioni semplicistiche che egli ne da-
va. Proseguendo sempre ad est su un terreno ondulato e
umido giungemmo ad una buona altezza sopra un pae-
sello disseminato lungo una strada che pensammo fosse
Campo di Giove. Il paesaggio cominciava a farsi decisa-
mente montagnoso; contro il cielo, annuvolatosi del tut-
to, si profilava l’imponente massiccio della Maiella. Av-
vistammo le prime caratteristiche capanne che i pastori
del luogo usavano durante i pascoli estivi; qualcuna ha il
tetto di lamiera, ma molte sono fatte completamente di
pietre sovrapposte e spuntano da terra a forma di calotta
quasi semi sferica, col foro d’entrata ad arco e privo di
porta. L’interno è vuoto, al massimo qualche pietra de-
limita un giaciglio di foglie secche; all’esterno palizzate
irregolari formano il chiuso per i greggi.

     Raggiungemmo una di queste capanne appena in
tempo per ripararci da un vento gelido che s’era levato
portando le prime gocce di pioggia. Enzo e Fergus usci-
rono nuovamente alla ricerca di frasche per accendere
il fuoco e intrecciare una parvenza di uscio che desse
l’illusione di riparo.
     Esaminai l’interno: era una delle baite rettangola-
ri col tetto di lamiera di ferro zincato; a lato dell’en-
trata c’era un folto strato di felci disseccate attorniato
da grossi sassi in fila. Il vento penetrava attraverso le
numerose fessure tra pietra e pietra e la pioggia stil-
lava minutissima da forellini del tetto; aiutata da Ely
incominciai con le felci l’opera di restauro: cercavo di
tappare i buchi soprattutto dalla parte del giaciglio e
42                   Bruna Mistè Meneguzzo

l’angolo fu subito adorno di una tappezzeria a chiazze
verde antico di grande effetto. Mi sembrava di prepa-
rare il presepe di Natale.
    Vennero alcuni uomini a ripararsi. Ely si rintanò e
finse di dormire: dissi che era sordo pensando che chis-
sà, poteva anche darsi il caso che essi non sospettassero
la sua nazionalità; in fondo, presupponendo negli altri
una certa idiozia, potevamo anche passare per turisti un
po’ strambi. Di fatto essi non si stupirono un granché,
solo mi informarono che i dintorni pullulavano di stra-
nieri che avevano eletto dimora in varie capanne, aspet-
tando l’avanzata dei connazionali; anzi, se lo desideravo
me ne facevano conoscere qualcuno anche subito. Ma io
rifiutai energicamente: volevo avere a che fare solo con
italiani come i miei compagni; uno era stanco e dormi-
va, poveretto, gli altri erano andati a far legna. Eccoli di
ritorno con un fascio di rami ciascuno, bagnati e rossi in
viso per il freddo e le sferzate della pioggia mista a nevi-
schio. Fergus aveva un accento un po’ fuori dal comune,
ma spiegai che abitava in un paese di confine; essi annu-
irono, non chiesero spiegazioni e, approfittando di una
momentanea diminuzione della pioggia, saggiamente se
ne andarono di corsa giù pel declivio, augurandoci ogni
bene. Accendemmo un fuoco stentato e cercammo con
le frasche di improvvisare una porta; poi mangiammo
con grande appetito.
    Si fece buio presto e noi, stanchi, ci sdraiammo sul
giaciglio di felci. Veramente la parola sdraiarsi può su-
scitare l’impressione di una certa comodità e larghezza,
cose che mancavano affatto al nostro letto; si trattava di
uno spazio adatto al massimo a due persone: noi erava-
mo quattro di normale corporatura e dovemmo disporci
tutti di fianco calandoci già in posizione esatta per in-
La fuga di Bruna   43
44                  Bruna Mistè Meneguzzo

castonarci meglio. Ci coprimmo alla men peggio con
un paio di coperte che si aveva; faceva un gran freddo
e il vento sibilava attraverso le mille fessure della baita
facendoci accapponare la pelle; Enzo che era presso la
porta, ricevendo qualche spruzzo gelato in viso, borbot-
tava maledizioni. Tuttavia mi addormentai e dormii so-
do, stanca della veglia della notte precedente.

    Il mattino sorse radioso: tutte le giornate si annun-
ciavano serene e tiepide per naufragare poi miseramente
in un clima invernale. Un forte chiarore filtrava traverso
i rami dell’apertura rischiarando l’interno. Uscimmo e
ci guardammo l’un l’altro senza parlare: la notte aveva
recato il suo triste dono di bellezza. Un alto strato di
neve era davanti a noi verso valle, e dietro copriva i bo-
schi e le montagne, rendeva abbagliante l’enorme dorso
della Maiella che ci sovrastava, si perdeva lontano, con-
fondendosi col cielo. Eravamo sopraffatti da tutto quel
candore e dalla malignità del caso che ci aveva preparato
simile sorpresa; ognuno si chiese come avrebbe attraver-
sato la montagna in tali condizioni.
    Risalimmo le orme fresche di un gregge; non ave-
vamo nessun programma e nessuna idea. In un’altra
catapecchia trovammo alcuni uomini, tutti ex prigio-
nieri; uno di essi, iugoslavo, venne con noi e ci condus-
se fino alla capanna più alta, che abitava con sette od
otto connazionali.
    Aveva un viso giovane malgrado la barba di parec-
chi giorni, e una figura slanciata e forte; ex ufficiale
di marina, datosi poi alla macchia coi partigiani, era
stato internato in un campo di concentramento presso
Padova, donde era fuggito e arrivato a piedi fin là. Si
chiamava Drago.
La fuga di Bruna                 45

    I suoi compagni ci accolsero con naturalezza; molti
parlavano italiano e pensavano anch’essi all’opportunità
di partire, dopo quella nevicata. Drago avvolse un gros-
so pane in un pastrano grigioverde e venne con noi.
    Era mattino inoltrato e la neve abbagliava; si doveva
oltrepassare un tratto di bosco per raggiungere l’attacco
di un enorme vallone che supponevamo conducesse al
passo stabilito. Ma le difficoltà incominciarono presto.
La neve abbondante aveva piegato gli alberi fino a terra
e si doveva procedere fra una massa intricata di rami
e di arbusti che s’infittiva sempre più. A turno uno di
noi con un grosso palo scuoteva la neve dalle piante,
cercando di aprire una via; molto spesso però dovevamo
ritornare sui nostri passi. La natura era bella, fantastica-
mente bella, quale uno la può sognare per una magica
festa, così bianca, e brillante, e arabescata. Ma era dura,
ci fiaccava i nervi e le gambe. Lottammo per qualche
ora, e il cuore ci si aperse quando il bosco cominciò a
diradarsi e si vide a ridosso l’erta montagna.

   Gli uomini controllarono con la bussola e la carta,
indi prendemmo a salire lentamente. Procedevamo a
zig-zag per mitigare la rigidità della salita, affondando
nella neve soffice. Calcolavamo di raggiungere la cima
prima di sera, ma ci accorgemmo presto che avanzava-
mo con esasperante lentezza; la montagna sembrava farsi
smisurata e il tempo passava inesorabilmente. Cammi-
nammo molto senza fermarci, ma la stanchezza tormen-
tava tutti e specialmente Ely. Poco a poco vedemmo la
luce sbiadire, e sentimmo l’aria farsi pungente e la neve
gelare sotto i piedi. Fummo presi dalla mostruosità di
quel dorso enorme, bianco, liscio, morto; avemmo l’im-
pressione di non avanzare più, ma di muovere le gambe
46                   Bruna Mistè Meneguzzo

automaticamente, in un’irreale atmosfera d’incubo. Be-
vemmo cognac a sorsate.
    Ad un tratto Fergus ed Ely mi gridarono da sotto
che non potevano più continuare; l’anziano soprattutto
trascinava le gambe in modo penoso. Li convinsi a pro-
seguire se non volevano morire assiderati entro la notte
e cominciai con gli scarponi a scavar gradini nella neve
ormai ghiacciata. Così continuammo disperatamente a
salire, miseri punti oscuri in quella sconfinata distesa
che si ergeva ripidissima e per un’illusione ottica sem-
brava piana e placida. Continuammo, avendo di mira
tre rocce sporgenti che speravamo presso la cima, e pa-
revano allontanarsi sempre più. La sera era venuta, ma ci
si vedeva bene per tutto quel biancore; solo i profili delle
rocce sembravano più spettrali e beffardi. Bevemmo an-
cora e ci arrampicammo con le ginocchia e le mani ar-
tigliate nel ghiaccio; un’ira sorda contro quelle avversità
mi dava una straordinaria energia e avrei picchiato la
montagna, sputato su di essa che mi schiacciava solo che
avessi perduto per un momento il controllo di me stessa.
    E superammo finalmente le rocce ed anche l’ultimo
tratto di salita. Quando giungemmo allo spartiacque
e guardammo l’altro versante, ci sentivamo istupiditi
e felici. L’incanto malefico era rotto e tutto cambiava
aspetto. Un vento gelido ci frustò la faccia e le membra
e ci decise subito ad intraprendere la discesa. Anche que-
sta non era facile, giacché ad ogni passo si sprofondava
sino ai fianchi nella neve ammucchiata nelle conche. Il
ghiaccio appiccicato alle mani stirava la pelle dolorosa-
mente e, passata la tensione nervosa che ci aveva sorretto
fino allora, la stanchezza si faceva maggiormente senti-
re. Enzo, colto da un collasso nervoso, si buttò ai piedi
di un grosso sasso e non volle più muoversi. Drago lo
La fuga di Bruna   47
48                   Bruna Mistè Meneguzzo

schiaffeggiò energicamente, poi lo fece bere e mangiare
qualcosa e proseguimmo; le nostre quattro bottiglie di
cognac erano finite.
    Si andava con una certa sicurezza; pensavo che anche
ad essere pessimisti, si scendeva, poco o tanto il freddo
sarebbe diminuito e ci si avvicinava a luoghi abitabili.
Però l’aspetto intorno era desolante; supponemmo di
essere sulla cosiddetta “Valle di femmina morta” e non
c’è nome che si addica maggiormente a quell’enorme,
crudele nudità. Non una pianta in giro, non un sasso
sporgente, non il minimo segno di vita. Nessuno di noi
parlava, ma tutti avevano in cuore la medesima speran-
za, tutti cercavamo con gli occhi una capanna, anche
quattro assi in piedi anche un buco nella roccia. Invece
il vento correva senza intralci sulle gobbe gelate e si per-
deva fischiando nel fondo valle, mentre un duro nevi-
schio aveva ripreso a torturarci le carni.
    Man mano che si scendeva e il tempo passava ci sen-
tivamo presi tutti dall’ansia di scoprire qualche cosa, di
trovare un rifugio; una vaga inquietudine, provocata
dal freddo e dal quel gran deserto bianco penetrava in
noi: la sinistra montagna riprendeva il suo potere.
    Ad un tratto su un ripido costone di una valle se-
condaria scorgemmo dei cespugli spinosi sbucare dalla
neve. Fu il primo segno di vegetazione, ma fu anche
l’ultimo per quella notte. Camminammo ancora scen-
dendo la china fino a due unici sassi quasi sospesi so-
pra una profondissima valle. Spianammo alla meglio il
terreno con la neve e decidemmo di passare ivi il resto
della notte.
    Erano circa le due ed eravamo tutti in condizioni pie-
tose; il mio zaino, gelatosi sulla schiena, non si poteva
dapprima staccare, i lacci degli scarponi si erano tagliati
La fuga di Bruna                 49

e la neve penetrata e indurita mi fasciava le caviglie, ed
avevo l’impressione che le dita delle mani fossero diven-
tate enormi e rigide.
    Stendemmo due coperte fra i sassi e ci rifugiammo
sotto, accoccolati. La posizione era oltremodo disage-
vole e il freddo così intenso da non potersi descrivere.
La mia fantasia andava a capanne riparate dal vento, a
giacigli lunghi tutta la persona per distenderci, a coperte
avvolte intorno ai piedi; sognai luoghi caldi, fiamme,
incendi, sognai miracoli, sognai perfino di scavare una
buca per terra e mettermici dentro. L’attesa dell’alba era
pesante per tutti.

    Quando inavvertitamente il cielo cominciò a schia-
rirsi riprendemmo il cammino. Mi accorsi che l’ultima
falange delle dita era diventata del tutto insensibile e
così succedeva ai miei compagni. Ma eravamo più pre-
occupati per la sete: non c’era acqua da bere e la neve
ci aveva inaridito la gola; qualcuno disse che i ghiac-
cioli dissetavano, ma non trovavamo neppure quelli.
Quando finalmente qualche masso cominciò ad emer-
gere dallo strato nevoso, Ely si occupò particolarmente
a cercarvi sotto dei ghiaccioli. La sua figura assumeva
atteggiamenti caratteristicamente ingenui. L’impermea-
bile stretto in vita e scendente largo e rigido ancora per
il gelo, da cui uscivano le gambe lunghe e magre, il ber-
retto sulla testa fasciata da una sciarpa, scrutava sotto
le pietre anche sdraiandosi sulla neve e appena scorgeva
del ghiaccio lo faceva saltare a sé con un colpo secco di
bastone che aveva. L’azzurro dei suoi occhi, sperso nelle
lacrime, non si interessava ad altro.
    Intanto eravamo scesi di dislivello di parecchie cen-
tinaia di metri, spostandoci leggermente a sinistra; scor-
50                   Bruna Mistè Meneguzzo

gemmo da lontano qualche chiazza bruna di terra. La
neve si fece sempre più bassa e infine sprofondammo nel
pantano di un campo.
    Nel primo pomeriggio incontrammo un pastore; il
suo aspetto, con le pelli di agnello alle ginocchia e il cor-
to mantello rotondo, era antico e irreale come ci parve
la sua comparsa. Ci diede alcune spiegazioni e disparve
lento e sereno. Mi volsi a guardare la Maiella: ormai le
sue cime più alte erano lontane e di neve non c’era più
traccia. Qua e là qualche capanna per l’estate ci ricorda-
va la vita e udimmo colpi di accetta nel grande silenzio.
    Traversammo alcune sassose valli parallele e scen-
demmo ancora lungo una di esse; la vegetazione si era
fatta più folta e il cammino quasi piacevole, non fos-
se stato per la sete. In verità l’arsura in gola aumentava
e non c’era goccia d’acqua in giro. Camminammo nel
fondo valle e pareva quasi primavera; il boschetto ci pa-
reva gentile ed amico dopo l’aridità di neve e sassi dei
luoghi percorsi; e trovammo dei ciclamini assai tardivi
che mi procurarono una vera gioia. Ne raccolsi un maz-
zetto con entusiasmo.

    Intanto eravamo giunti alle ultime pendici del mas-
siccio montagnoso. Superata una piccola conca, sostam-
mo a guardare: sotto di noi, lontana, vi era la strada
nazionale scavata nella roccia. Dopo di essa la china
continuava ripidissima fino ad un torrente, indi il ter-
reno risaliva un po’ più dolcemente; a destra si vedeva
una grossa borgata che immaginammo fosse Palena e di
fronte a noi una masseria.
    Stabilimmo che la raggiungessi da sola per sapere si vi
si poteva passare la notte, e che avrei fatto dei segnali agli
altri che mi avrebbero raggiunta al buio. Posai lo zaino e
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