LA FUGA DI BRUNA Novembre 1943, un viaggio avventuroso per raggiungere l'Italia liberata - Cierre Edizioni
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
Bruna Mistè Meneguzzo LA FUGA DI BRUNA Novembre 1943, un viaggio avventuroso per raggiungere l’Italia liberata
La storia del tentativo di Bruna Mistè di passare la linea Gustav per raggiungere l’Italia liberata. Insieme ad un gruppo di uomini – formato da ex prigionieri alleati fuggiti dai campi di concentramento e militari italiani scampati ai nazifascisti – con un equipaggiamento di fortuna, la giova- ne partigiana vicentina affronta un viaggio a piedi attraver- so il massiccio della Maiella già innevato. Un racconto vivace e fresco, scritto sulla base di appunti presi durante la fuga: il freddo, il coraggio e la paura, gli incontri con una popolazione stremata, che si dimostra no- nostante tutto solidale con i fuggiaschi, ai quali a volte dà e a volte chiede conforto.
Percorsi della memoria 91.
In copertina: Bruna Mistè Meneguzzo negli anni ’40. isbn 978-88-5520-045-5 © 2020 Cierre edizioni via Ciro Ferrari, 5 37066 Sommacampagna, Verona tel. 045 8581572, fax 045 8589883 edizioni.cierrenet.it • edizioni@cierrenet.it
Bruna Mistè Meneguzzo LA FUGA DI BRUNA Novembre 1943, un viaggio avventuroso per raggiungere l’Italia liberata a cura di Luisa Spencer Cierre edizioni rEsistenze - Memoria e storia delle donne in Veneto
Ti amo Mamma
Indice 11 Come in un film, di Anna Meneguzzo 13 La chiamavano “La Pasionaria”, di Marco Meneguzzo 15 Introduzione, di Luisa Spencer 21 La fuga di Bruna
Bruna Mistè Meneguzzo 11 gennaio 1920 - 1° giugno 2005
Come in un film di Anna Meneguzzo Riscoprire la Storia, anzi, la Guerra, attraverso il rac- conto descrittivo di poche giornate che mescolano banali quotidianità, normali conversazioni, con l’obiettivo am- bizioso di oltrepassare le linee nemiche naziste e raggiun- gere gli Alleati per poi liberare l’Italia ripartendo da Bari. Per me soprattutto riscoprire mia madre, anzi la mamma, guardando questa ragazza di 23 anni, la stessa età di mia figlia, che ricercata come partigiana, decide di scappare a Sulmona da sola e da lì scalare la Maiel- la con degli anfibi di Chissàchi, dormendo sulle pietre, mangiando solo grazie alla sobria magnanimità dei con- tadini, con un drappello di soldati fuggiaschi di varie nazioni che, come lei, stanno fuggendo dai nazifascisti. Le onde gravitazionali non sono nulla a confronto della rivoluzione spazio temporale che questo breve rac- conto mi ha causato. Mia mamma: giovane come una figlia, capace di entusiasmi infantili per un fiore o una fresca mattinata in tempo di guerra, col rischio incom- bente di morire il giorno stesso. Entusiasmi che peraltro ha sempre avuto anche nei suoi 80 anni e di cui ho be- neficiato con leggerezza da figlia. E mia madre: adulta e responsabile, avventata e avventurosa, come può essere solo chi ha sia la coscienza che bisogna cambiare la sto- ria, sia l’incoscienza per tentare di farlo.
12 Bruna Mistè Meneguzzo Ho guardato mia mamma combattere la guerra co- me se fosse stato un film, ogni tanto svegliandomi per dirmi che no, era successo davvero, era successo solo 75 anni fa e quella non è un’attrice, è una donna che, ventenne, ha rischiato la vita perché noi vivessimo in un paese libero e democratico. Ed era mia mamma, una grande donna. Così grande da aver perfino sorvolato sulla sua grandezza.
La chiamavano “La Pasionaria” di Marco Meneguzzo Ricordando la riservatezza silenziosa di mia madre, faccio fatica a pensare che all’indomani della fine della guerra, in paese la chiamassero “La Pasionaria”, e fos- sero andati in delegazione a riceverla, tornata dal Sud dove era riuscita a riparare dopo le vicende narrate nel suo scritto, e le altre che con molta ritrosia raccontava ogni tanto, su nostra richiesta di figli. Però è accaduto davvero. Da bambini, questi raccon- ti persi un po’ in una nebbia mitica, si dipanavano ai nostri occhi e nella nostra mente come frammenti visivi di un film, ma appunto come fossero qualcosa accaduta sullo schermo, con un immancabile lieto fine, e con una sceneggiatura in cui i buoni avrebbero sempre prevalso sui cattivi. Del resto, se la mamma era lì a raccontarcelo, doveva essere così... Oggi, che la spensieratezza - o l’incoscienza - della giovinezza è lontana, mi capita di pensare spesso a que- gli episodi, che non sono stati il frutto di un momento, di una singola circostanza, in cui l’eroismo è più facile, ma di una meditata e prolungata necessità. Non solo di sfuggire a minacciate rappresaglie, ma la necessità di “fare la cosa giusta”. Mia madre ha fatto la cosa giusta. Per sé, in quel momento, ma anche per me, che sarei nato molti anni
14 Bruna Mistè Meneguzzo dopo, e non tanto per la democrazia o la libertà con tut- ta la retorica che segue, ma proprio per me... si dice che il buon insegnante - e mia madre lo era - insegna quello che è prima di quello che sa, e per far questo è necessario l’esempio. Il suo esempio ce l’ho sempre davanti, nono- stante non me l’abbia mai fatto pesare, e si concretizza in una domanda: “io, sarei stato capace di fare quello che ha fatto?” È questo dubbio irrisolto che mi spinge ad essere un uomo migliore.
Introduzione di Luisa Spencer Brunetta Misté era nata l’11 gennaio 1920 a Valda- gno, in provincia di Vicenza. Da bambina si era trasfe- rita in Piemonte con la famiglia, per esigenze di lavoro dei genitori. Nel 1938, dopo la morte del padre, tornò a Valdagno. Frequentò il Liceo Pigafetta di Vicenza dove conobbe i professori Dal Pra e Faggin che l’introdusse- ro nel gruppo antifascista di Vicenza, facente capo alla medaglia d’oro Antonio Giuriolo. Dopo il liceo si iscrisse alla facoltà di matematica dell’università di Padova, dove fu incaricata di formare gruppi antifascisti nell’ambiente studentesco e operaio di Valdagno. Individuata e fermata dai carabinieri, fu convocata alla casa del fascio di Valdagno e Vicenza, diffidata e minacciata. Nonostante il clima di paura e di persecuzione, fondò a Valdagno una sezione di Giustizia e Libertà, assieme a dirigenti antifascisti vicentini: Licisco Magagnato (dopo la guerra direttore del Museo di Castelvecchio), il valda- gnese Sergio Perin (in seguito consigliere regionale del Veneto) Bene Galla ed Enrico Melen. Il suo incarico spe- cifico era redigere e distribuire materiale di propaganda. Nel maggio del ’43 quasi tutto il gruppo che si riuni- va a casa sua la sera fu arrestato e tradotto nelle carceri di San Biagio a Vicenza. La casa fu perquisita e messa a
16 Bruna Mistè Meneguzzo soqquadro, ma Bruna era fuori e sfuggì all’arresto. Per ragioni chiaramente politiche, il provveditore agli Stu- di le ordinò di lasciare il suo incarico di insegnamento presso la scuola tecnica industriale di Valdagno, che ave- va ottenuto nonostante fosse ancora studentessa. Ormai il suo arresto era imminente, decise allora di darsi alla clandestinità fino dal 25 luglio del ’43. Con la caduta di Mussolini Bruna riprese in pieno l’attività organizzando uno sciopero nella zona di Val- dagno e compiendo atti di sabotaggio contro le truppe tedesche. A Recoaro (stazione termale pochi chilometri a nord di Valdagno) c’era un nutrito contingente tedesco, co- mandato da Albert Kesselring. Inoltre tra Valdagno e Re- coaro erano distribuiti alcuni depositi di documenti del ministero dell’interno della Repubblica Sociale Italiana, in particolare i fascicoli dell’Ovra, la polizia segreta che schedava tutte le persone sospette di antifascismo. Tra la fine del ’43 e l’inizio del ’44 le formazioni par- tigiane cominciavano ad organizzarsi ed armarsi. Dopo l’8 settembre, Bruna era strettamente sorvegliata dal ca- pitano delle brigate nere di Valdagno, Tomasi. Fu invitata dal comando antifascista di Vicenza ad abbandonare la zona del vicentino per organizzare nuclei partigiani in altre zone. Scelse la zona di Sulmona, perché vicina alla linea Gustav e perché sapeva che il vescovo della diocesi, Mons. Luciano Mercante, già parroco di Cornedo Vicen- tino, l’avrebbe messa in contatto con i gruppi antifascisti della zona. Fu così che venne a contatto con alcune fami- glie, tra le quali i Cantelmi e i De Gregorio. Qualche settimana dopo il suo arrivo, decise di ten- tare di passare la linea Gustav attraversando i monti della Maiella. Superate le montagne, con difficoltà ma
La fuga di Bruna 17 aiutata con generosità dalla gente del posto, fu catturata da una pattuglia tedesca e internata nel campo di pri- gionia Fonte d’Amore. Riuscì a fuggire e a raggiungere il territorio libero nel gennaio del ’44. Con grandi disagi raggiunse Bari, dove però non riuscì a continuare i suoi studi perché all’uni- versità non esistevano facoltà scientifiche. In compenso lavorò presso il giornale socialista della regione diretto da Eugenio Laricchiuta e organizzò la prima sezione femminile del partito socialista della città. Nel frattempo la brigata nera di Valdagno, per avere informazioni sulla sua fuga, aveva minacciato e inter- rogata più volte sua madre da cui, però, non riuscì ad ottenere nulla. Il 29 novembre del 1944 fu arrestata anche la sorella minore di Bruna, Bertilla Mistè. Anche lei impegnata nella Resistenza, faceva parte della brigata Stella, bat- taglione “Amalia” (dal nome di una compagna caduta) formato da un folto numero di donne, alcune combat- tenti in armi, altre staffette. Catturata in seguito all’ar- resto di un’altra appartenente della brigata, fu torturata e trattenuta nelle carceri di S. Biagio di Vicenza dall’i- nizio dicembre del ’44 fino alla Liberazione. Al ritorno a Valdagno dopo la Liberazione Bruna si laureò e iniziò ad insegnare. Si sposò con Franco Me- neguzzo, pittore e scultore, e si trasferì a Milano dove nacquero i suoi due figli. La sua vita fu dedicata al suo lavoro di insegnante e alla famiglia. È morta a Valdagno nel 2005. Fino a qui i dati fattuali sulla vicenda di Bruna par- tigiana, in parte desunta da una sua lettera al Ministero del Tesoro per ottenere lo stato di perseguitata politica
18 Bruna Mistè Meneguzzo antifascista, in parte dalla conoscenza di alcuni eventi della lotta partigiana raccolti dalla voce dei protagonisti o da testi di storia locale1. Dal periodo milanese dei Meneguzzo iniziano i miei ricordi di Bruna e della sua famiglia. La incontra- vo durante l’estate nei mesi che trascorreva col marito nella loro casa di Valdagno. Avevano un appartamento pieno dei quadri, di oggetti raffinati di design: Franco Meneguzzo ha lavorato con Bruno Munari a Milano, è stato pittore e scultore. Bruna e Franco erano per me i portatori di una cultura meno provinciale, intellettuali raffinati e affascinanti. Le discussioni sull’arte moderna erano mi erano difficili da seguire, ma mi hanno dato tanto: mi hanno insegnato un linguaggio diverso, dei punti di vista nuovi, delle aperture al mondo. Raramente si parlava di lotta partigiana, sempre di politica. L’unico episodio della lotta partigiana, segnata da fatti tragici nel vicentino come in altre parti d’Ita- lia, la raccontava Franco e riguardava suo padre, che era stato arrestato in contrada Campanella di Valdagno da un gruppo di tedeschi in ritirata verso le montagne del Carega, per raggiungere una via di fuga verso il nord attraverso la Val d’Adige. Dopo averlo usato come scudo umano, i tedeschi lo fucilarono. Ho visto i quadri che Franco Meneguzzo ha dipinto dopo la morte del padre: balenii rosso fuoco, abissi di nero. Bruna non mi ha mai raccontato della sua attività di partigiana e nemmeno della sua fuga, qualcosa mi aveva detto confusamente mia madre che è sempre stata 1 Dal Lago Maurizio, Valdagno durante l’occupazione tedesca, brossu- ra, Mediafactory, 2014, e Gianni A. Cisotto, Vittorio Sandri, Sergio Perin (1919-1971), Cierre edizioni, 2014.
La fuga di Bruna 19 sua amica. Quando, più avanti nel tempo, mi sono resa conto del suo ruolo nella Resistenza, era troppo tardi per interrogarla perché non c’era più. Non sapevo che avesse scritto qualcosa sulle sue vi- cende. Sua figlia Anna ha trascritto con fatica un mano- scritto che, sono sicura, ha redatto per i suoi figli, e forse anche per se stessa. È così ben scritto, così leggermente ironico che vi si può intravvedere Bruna: intelligente, razionale, appassionata e dolcissima. I riferimenti ai luoghi, le descrizioni del paesaggio sono frutto di un ricordo vivissimo, di una passione per la montagna. La vivacità della descrizione del suo viaggio mi fa pensare che il suo racconto sia basato su appunti, forse un diario, scritto durante la fuga. In quel momento storico l’Abruzzo era terra di con- fino, a Casoli c’era un campo di concentramento dove furono internati anche i Nagler di Trieste. Kubi Nagler era il fidanzato di Rita Rosani, medaglia d’oro per la Resistenza. Da lì , con i suoi genitori, fu deportato in Germania. Per Natalia e Leone Ginzburg e i loro tre figli, tra il ’40 e il ’43 fu un confino attenuato dall’acco- glienza affettuosa di Pizzoli (L’Aquila). La scrittrice lo ricorda come il periodo più felice della sua vita. L’Abruzzo era anche una terra legata alla speranza di libertà. Così è stata per Bruna. Aveva 23 anni, era una giovane donna piena di vita e di coraggio, in compagnia di uomini sconosciuti o quasi, ha portato a termine un percorso difficile e avventuroso, tra freddo, fame e paura. Il modo in cui Bruna ha deciso di ricordare la sua fuga fa ritornare il dubbio che, unita a una specie di delusione politica, una strana reticenza abbia segnato la vita delle partigiane come lei, sopravvissute alle persecu- zioni nazifasciste.
20 Bruna Mistè Meneguzzo C’è una determinazione forte, da parte delle storiche di genere, di lavorare in una prospettiva di restituzione. Le ricercatrici di rEsistenze, considerano importanti e illuminanti le vicende delle donne resistenti che hanno perseguito attivamente, coraggiosamente e in maniera determinata le idee di libertà, giustizia e democrazia per crearci una vita migliore. Possiamo ora esprimere il senso di grande ricono- scenza con la restituzione alla memoria della loro espe- rienza unica. Ringrazio Emanuela Meneguzzo Borgo, nipote di Bruna, che mi ha passato il memoriale. Con una pre- fazione di suo figlio Luigi lo ha pubblicato e distribuito nelle scuole di Recoaro, in una edizione privata in occa- sione del 25 aprile 2019. Grazie ai figli di Bruna, Anna e Marco Meneguzzo, che l’hanno messo a disposizione. Soprattutto, grazie, Bruna, per la tua vita coraggiosa. Verona 8 novembre 2019
LA FUGA DI BRUNA
Dormii poco quella notte, poco e male. Mi ero co- ricata assai tardi dopo aver completato i preparativi per la partenza; nello zaino militare avevo messo biancheria e una quantità di cosette necessarie e avevo cercato di ammorbidire con del grasso gli scarponi anch’essi mili- tari e usati, sbucati da non so dove all’ultimo momento. D’accordo con Suor Pia per la sveglia del mattino dopo, ero salita in camera ben decisa a dormire. La camera in verità non era troppo intima: si trattava del dormitorio di un collegio femminile allora deserto, causa la guerra e la vicinanza del fronte. Mi ero distesa sotto le coperte e avevo chiuso gli oc- chi; ma il sonno non veniva, anzi il cervello lucidissimo lavorava febbrilmente. Ripensavo agli ultimi avveni- menti, la partenza improvvisa e segreta da casa circa un mese prima, il viaggio estenuante, l’arrivo alla desolata stazione di Sulmona, l’albergo e poi il collegio in cui mi ero stabilita. Suor Pia, la superiora, aveva pensato subito ad in- trodurmi presso alcune famiglie della cittadina, magari fornendo su di me notizie strampalate e contradditorie inventate secondo l’estro del momento. Essa conosceva tutti; piccola e vivace la si vedeva sbucare da un vicolo o da un portone in qualsiasi ora del giorno. Possede-
24 Bruna Mistè Meneguzzo va una radio ben nascosta, udiva le notizie e correva a spargerle tra i conoscenti. Avendo la certezza di potersi fidare di me, mi aveva presentato parecchi prigionie- ri alleati, fuggiti dai vicini campi di concentramento dopo l’8 settembre. È incredibile il numero di questi fuggiaschi nascosti a Sulmona e nei dintorni, special- mente nelle case più povere. Mi domando ancor oggi come potevano quelle famiglie mantenerli, con il com- mercio pressoché paralizzato, le fabbriche bombardate, i viveri della tessera scarsissimi o addirittura inesistenti, gli armenti dimezzati dai tedeschi e i raccolti saccheg- giati; senza dire che pochissimi volevano lavorare con i tedeschi e senza tener conto delle interminabili file di profughi dei paesi “evacuati”, che dovevano pur vivere della carità del prossimo. Avevo conosciuto dunque un campionario di allea- ti inglesi, americani, francesi, anche cecoslovacchi. Le case, antiche com’erano e piene di nascondigli segreti, sembravano costruite apposta per occultare qualche co- sa. Entrando non si vedeva anima viva all’infuori della padrona di casa; ma poco dopo si aprivano porticine dissimulate, o calavano scalette a pioli, o si alzavano bo- tole e compariva Robert, o William, o Tom, o Jim e ma- gari tre o quattro insieme, radunatisi per giocare a carte, attraverso tetti e soffitte: fuori i tedeschi vegliavano. Io portavo le notizie del fronte e mi fermavo a chiac- chierare, fabbricando sigarette con un po’ di tabacco che avevo. Solo nelle case dove c’erano vecchi mi ca- pitava di non poter entrare, perché quelli avrebbero so- spettato anche di loro stessi, tanta era la paura di venire scoperti: le pene in verità erano assai gravi; la più mite consisteva nella deportazione della famiglia in un cam- po di concentramento mentre la casa veniva incendiata.
La fuga di Bruna 25 Una sera da Suor Pia avevo conosciuto la la signora Cantelmi. Era venuta con la giovane cognata e tutt’e due erano agitate. Più tardi avevo saputo che tutto il giorno avevano camminato per i dintorni alla ricerca di tre inglesi che dall’8 settembre tenevano in casa e che, sparpagliatisi per la campagna per evitare un rastrella- mento tedesco, non avevano più trovato la via del ritor- no. La signora mi aveva invitata per l’indomani ed io ero stata ben lieta di andare a casa sua, perché mi aveva ispirato una subitanea simpatia. Due dei prigionieri erano tornati; erano ufficiali en- trambi: uno ingegnere, residente a Singapore, piuttosto anziano, educatissimo e sommamente taciturno. È pur vero che non sapeva neppure ‘grazie’ in italiano, aven- do dichiarato con irremovibile convinzione che non gli inglesi avrebbero avuto bisogno di imparare l’italiano, bensì gli italiani l’inglese. Questione di opinioni. L’altro era diverso, molto giovane, un viso roseo e liscio sor- montato da un simpatico ciuffo di capelli tizianeschi; si muoveva con circospezione silenziosamente, sedeva sull’orlo della seggiola, ascoltava e rispondeva compun- to. Si chiamava Fergus. In seguito, presa un po’ di confidenza, mi aveva par- lato di alcune sue aspirazioni poetiche e drammatiche e avevamo cercato di tradurre alla meglio qualche sua po- esia. Aveva studiato l’italiano con passione e lo parlava davvero benino; serviva da interprete per il compagno. Io avevo preso l’abitudine di passare i pomeriggi in casa Cantelmi. Battevo il pesante anello sulla grossa borchia nel portone e appena qualcuno mi riconosceva, correva ad aprirmi. Sopra, oltre a Fergus ed Ely (l’altro prigio- niero), c’erano il signor Cantelmi, che se ne stava na- scosto per evitare di lavorare con i tedeschi, e Samuele,
26 Bruna Mistè Meneguzzo un carabiniere che dopo l’armistizio si era rifugiato per caso lì, e lì era rimasto beatamente, visto che stava bene. L’occupazione principale dei quattro uomini era quella di fabbricare sigarette; e non è da dire che fos- se cosa da poco. Bisognava preoccuparsi di far seccare bene al sole le foglie di noce e di ciliegio (tabacco non esisteva a Sulmona); poi tagliar le foglie in sottilissime strisce con la forbice; indi cercare carta il più possibile adatta al bisogno e ritagliarla; infine arrotolare la siga- retta. Più difficile però era fumarla: un gusto acre e forte penetrava nei polmoni e provocava tosse violenta; per fortuna a metà, asciugata la saliva che manteneva unita la carta, la sigaretta si apriva in mano e non se ne parlava più, si doveva buttar via. Posso assicurare che tre sigaret- te al giorno erano più che sufficienti. Si parlava del più e del meno e soprattutto si studia- va la carta geografica: conoscevamo anche i più piccoli luoghi della zona di guerra, percorrendo col desiderio l’avanzata alleata. Invece questa proseguiva lentissima, sebbene ci fosse stata una splendida estate di San Mar- tino. «Il Signore fa loro la culla – soleva dire la signora Cantelmi – ma questi inglesi non ci si vogliono dondo- lare». Sentivamo radio Londra parecchie volte al gior- no, tesi nell’ansia di qualche notizia importante, mentre solo la conquista di qualche sperduto villaggio veniva annunciata per due o tre giorni di seguito. L’attesa co- minciava a divenire snervante. Già qualche prigioniero aveva tentato di passare il fronte; molti altri studiavano itinerari su sdrucite carte salvate chissà come. L’idea era venuta anche a Fergus ed io avevo cercato di dissuaderlo, avendo sentito che tutti i passi montani erano custoditi, che i paesi dei dintorni erano stati forzatamente evacuati dalla popo-
La fuga di Bruna 27
28 Bruna Mistè Meneguzzo lazione, che il cammino era impervio e che molti di quelli che erano partiti, dopo aver vagabondato qual- che giorno, erano tornati al punto di partenza. Tutte ragioni che giudicavo validamente atte a far rinunciare a qualsiasi disegno balzano. Penso ora che molto influisse la mia completa igno- ranza della circostante zona montagnosa e che se avessi conosciuto bene i luoghi molte delle difficoltà, che mi parevano insormontabili, sarebbero automaticamente cadute. Del resto erano cadute ugualmente, in modo del tutto inatteso. Il venerdì si era presentato in casa Cantelmi un uffi- ciale d’aviazione di Bologna, naturalmente in borghese, mandato da una fidatissima famiglia sulmontina. Gli era giunto all’orecchio il vago progetto di Fergus ed era ve- nuto a proporgli di partire senz’altro insieme la domenica all’alba. Parlava con eccitazione, a gesti leggermente enfa- tici. Lo avevo giudicato un po’ fanfarone, ma tutto mi era parso straordinariamente facile a realizzarsi: una proposta pratica ed imminente aveva cancellato tutti i miei dubbi. «Vengo anch’io – avevo detto – sono pratica di mon- tagna e non sarò di peso». E la signora di rincalzo: «ma sì la signorina ha coraggio da vendere e saprà sempre cavarsela». Enzo, l’ufficiale, non aveva fatto obiezioni e avevamo studiato l’itinerario sulla mia carta del Tou- ring: ascesa del monte Morrone subito fuori Sulmona per evitare Pacentro evacuato e il guado San Leonardo custodito dai tedeschi; scesi a fianco del Morrone affron- tare le alture sopra Campo di Giove, sempre evitando i villaggi; attraversare la Maiella tra la Tavola Rotonda e il Monte Amaro; scendere l’altro versante fino a Palena, risalire sui monti Pizi, ridiscendere verso Quadri e qui attraversare il fiume Sangro. Facile!
La fuga di Bruna 29 «E poi – aveva soggiunto Enzo – possibile che fra tanta gente e soprattutto fra tanti monti i tedeschi ven- gano a scoprire proprio noi? Io ho un binocolo e una bussola e troveremo bene qualche pastore per chiedere informazioni». «Senz’altro – avevo detto – andrà tutto bene». «Ci vediamo dunque domenica alle 6 precise, sulla strada di Pacentro». Una stretta di mano ed era sparito lasciandoci lieve- mente straniti a guardarci in faccia l’un l’atro. Poi Ely aveva brontolato qualche cosa ed era stato come un se- gnale per una smaniosa attività. «Ai viveri penso io», aveva dichiarato la signora. «Io ho bisogno di scarponi», avevo detto. «Penso io». «E di uno zaino». «Penso io». «Ed io allora a cosa devo pensare?». «Pensate alla salute», e già stava cercando indumenti di lana. Così era trascorso anche il sabato e alle 7 di sera, ora del coprifuoco, io ero in collegio con tutto l’occorrente per la partenza. Delle suore solo la Superiora sapeva ed era arrivata in camera mia con una bottiglia di cognac prelevata dalle scorte segrete; mi aveva fatto alcune rac- comandazioni e donato una medaglia benedetta. Avevo poi preparato con grande cura lo zaino da montagna e mi ero coricata. Ma il sonno non venne. Esaminai il mio stato d’animo con obiettività. Come spesso mi accade ero agitata trovandomi nella fase di passaggio tra due concezioni di vita ben diverse: oggi vita meto- dica, di abitudini, di contemplazione, di attesa passiva;
30 Bruna Mistè Meneguzzo domani vita attiva, ricca di imprevisti, di pericolo, per cui occorreva iniziativa e prontezza. Sapevo che l’indo- mani sarei stata calmissima, senza la minima esitazione, senza rimpianti di sorta. Ma in quelle ultime ore potevo ancora prospettarmi l’avventura da un punto di vista pacifico e conservatore. Pensai alla difficoltà del cammi- no, soprattutto al guado del Sangro in piena, ammesso che non si potesse parlare di ponti; pensai all’estrema incertezza a cui andavo incontro una volta attraversate le linee. D’altra parte, rimanendo a Sulmona, correvo il rischio di aspettare chissà quanto l’arrivo degli alleati, restando senza soldi e senza la possibilità di guadagnare. Avevo rosee, benché vaghe, speranze sull’ordinamento della vita nelle terre liberate; allora credevo ancora fer- mamente in alcuni principi sventolatici innanzi dalla propaganda e dal nostro bisogno di fede. Pesai il pro e il contro accuratamente. Quando verso l’alba presi sonno ero già entrata nel nuovo ordine di idee e aspettavo con gioia l’inizio dell’avventura. Mi sveglia- rono bruscamente; era piuttosto tardi e dovetti sbrigar- mi. Nel parlatorio mi attendeva la signora Cantelmi con tre donne: due portavano sulla testa gli zaini di Fergus ed Ely in grandi panieri coperti di tela, la terza, Mariet- ta, prese il mio ed uscimmo. Albeggiava. Le donne più mattiniere uscivano di casa per recarsi a messa al richia- mo delle campane; qualche carro era già in moto. Uscite dall’abitato prendemmo la strada di Pacentro che dove- va condurci ai piedi del Morrone. Là avrei incontrato gli altri che, guidati dal signor Cantelmi, avevano preso viottole di campagna per non farsi notare. Parlavo con la signora del più e del meno e pensavo a parecchie cose eterogenee. Inconsciamente osservavo la sagoma sparuta della vecchia Marietta, che mi cammi-
La fuga di Bruna 31 nava davanti dondolandosi leggermente. Fui assorta dal movimento ritmico del cesto sulla sua testa e delle an- che scarne, poi dal latrato lontano, lamentoso di un cane. Ogni tanto guardavo attraverso i campi ancora immersi in una semi oscurità con l’illusione di intravedere gli altri. Giungemmo al luogo convenuto per prime, dopo vennero gli uomini. Enzo attraversò guardingo la strada e soffermatosi un attimo presso un cespuglio: «È tardi – disse – c’è già troppa luce», e attaccò la montagna a passo di corsa. La sua apprensione e l’evidente imperizia in fatto di alpinismo mi misero di buon umore; salu- tai un’ultima volta le donne e, caricatomi lo zaino sulla schiena, mi avviai con passo metodico per la salita che era subito erta e faticosa. Il primo tratto completamente ghiaioso ospitava al- cuni ulivi dall’aspetto allucinato, abbarbicati faticosa- mente al terreno; dopo non si trovavano che arbusti ed erba rinsecchita dai primi geli. Raggiunsi agevolmente gli altri che ansimavano, li sorpassai e proseguii avvan- taggiandomi poco a poco; avevo raggiunto un sentiero tracciato fra i sassi e la salita non mi era difficile. Mi vol- si a guardare la meravigliosa conca sulmontina; il sole stava sorgendo di là dai monti e già si vedevano i raggi segnati dalla tenuissima nebbia mattutina. Poi apparve il disco trionfante illuminando le cime opposte; un rag- gio sfiorò il campanile più alto della cittadina e raggiun- se il primo vetro, sprigionandone bagliori: e a poco a poco tutti i vetri scintillarono. La valle fu lambita dalla luce, vivificata, riscaldata; la guardai con affetto in un ultimo saluto e ripresi il cammino. Raggiunsi il passo a 1800 m e mi sedetti per attende- re gli altri. L’aspetto della montagna lassù era veramente
32 Bruna Mistè Meneguzzo
La fuga di Bruna 33 imprevisto; lo sguardo, abituato allo squallore del ripido versante sud-ovest appena lasciato, si trovava immerso in una gloria di tinte riposanti e gioiose. I dolci declivi delle conche poco profonde che si trovano sulla som- mità del gruppo montagnoso erano ricoperti di pascoli, qua e là interrotti da chiazze scure di boschetti; al centro si espandeva verso sud una macchia di alberi ad alto fusto del più splendido rosso che si possa immaginare: una tinta cupa, calda,morbida. Più a nord pennellate di ocra, giallo, verde, bruno si alternavano. Il paesaggio era pervaso da un grande silenzio e da una completa im- mobilità tanto da apparire irreale pur in una semplicità estrema di linee; o forse appunto per questo. Appoggiai la testa sullo zaino e stetti supina a guar- dare il cielo finché le palpebre mi si fecero pesanti e inavvertitamente mi addormentai. Dopo qualche tem- po mi svegliai d’un tratto e cercai i miei compagni: non c’erano e l’atmosfera era sempre gravida di silenzio e il sole alto in cielo. Cominciavo ad impensierirmi quando finalmente giunse Enzo. Appena riprese fiato: «Acciden- ti – mi disse – voi andate come il lampo. Ed io pensavo che neppure sareste venuta stamattina!». «Non è una cosa eccezionale, sono montanara. Ma, e gli altri?». «Vengono. Un pastore ci ha aiutati per lo zaino; ci ha anche indicato una capanna non molto lontana da qui per passare la notte». Mi sembrava di avere udito che i tedeschi l’avevano visitata qualche giorno prima e avevano trovato dei fuggiaschi e lo dissi. «Può darsi – proruppe – ma non c’è scelta. Non pos- siamo proseguire molto, perché siamo stanchi. Quella maledetta salita che non finiva mai, e sassi, ed erba, e avanti. Non ne posso più».
34 Bruna Mistè Meneguzzo Scelse con cura un cuscino di muschio e si lasciò cadere. «Beh, non scoraggiatevi, domani andrà molto me- glio. È che voi non siete abituato a simili passeggiate e bisognerà che prima di dormire vi massaggiate i polpac- ci e le cosce». «Ho un unguento adatto – disse – io e gli altri ci massaggeremo a vicenda». Si guardò la polvere sugli scarponi e, tratta dalla ta- sca dello zaino una spazzola morbida, si diede a luci- darli con amore. Intanto si giustificava dichiarando che lui faceva il pilota e le montagne era abituato a vederle dall’alto. Anche Fergus mi aveva confessato che la mon- tagna più alta vista in Inghilterra era di 200 metri. Poi entrò in funzione il binocolo; con esso esplorò metodi- camente tutta la conca e le alture circostanti. Lo vidi fissare insistentemente un punto e farsi serio: «C’è gente – disse – c’hanno visto e si sono fermati». «Tedeschi?». «Non posso distinguere». Presi il binocolo e osservai attentamente: sette o otto persone erano sedute immobili sui sassi del declivio di fronte a noi. «Pare che ci siano delle donne, ma posso anche ingan- narmi», poi si mossero, scendendo verso il prato. Anche Fergus ed Ely, arrivati allora, vollero vedere. Intanto gli altri, con movimenti resi più lenti dalla distanza, stava- no attraversando il pascolo nella nostra direzione. Quando furono più vicini, Enzo scoppiò in una risa- ta: «Belle donne!», mi disse. Già, belle donne. Quando furono più vicini vedemmo che due di essi avevano sulle spalle inverosimili coperte a quadroni di tinta violenta, lacerate un po’ dappertutto e gli altri non erano in mi- gliori condizioni quanto a indumenti. Ma le “perle” del-
La fuga di Bruna 35 la compagnia erano costituite da due magnifici esem- plari della più nera razza africana, lucidi e nerboruti, con un casco di pelle in testa e pantaloni di tela; nessu- no li capiva ed essi parlavano tra loro, disinteressandosi del mondo intero. Parlò un giovane alto che aveva assunto evidentemen- te il ruolo di capo. Disse di essere francese, ma di aver stu- diato a Roma; gli altri erano compagni casuali di viaggio: due tunisini, un inglese, un canadese e i due figli di Cam. Gli chiedemmo dove volevano andare. Indicò il sud: «È un cattivo affare, qui sotto c’è Sulmona e voi vi consegna- te direttamente ai tedeschi. Tanto più che con quelle due facce caliginose non potete passare inosservati». «Volevamo andare verso Castel di Sangro». «Non vi conviene, la strada è lunga e la regione sor- vegliata». Indicò il sud, verso Castel di Sangro. Cer- cammo di dissuaderlo perché quella regione era molto sorvegliata e la strada lunga e c’era Sulmona da attraver- sare. Allora si consigliarono tra loro, un tunisino ancora adolescente proruppe: «Ils sont des éspions». Enzo si inalberò; ne nacque un breve battibecco, du- rante il quale i due negri continuarono a ciarlare e a ridere tra loro buttando la testa indietro e scoprendo i denti scintillanti, nella perfetta incoscienza delle anime semplici; era chiaro che nord e sud per essi si equivale- vano: in fin dei conti avevano incontrato un capo che avrebbe deciso per loro. Dopo poco le parti si calmarono; il francese parve convinto delle nostre argomentazioni e si accomiatò. Se- guimmo con gli occhi lo strano corteggio di straccioni fino al vicino spartiacque e riprendemmo anche noi il cammino.
36 Bruna Mistè Meneguzzo Si levò una folata di vento che fece rabbrividire il bo- sco, morì improvvisamente com’era nata, indi risorse più gagliarda; nuvole grigie apparvero oltre le creste lontane. «Presto – dissi – si sta levando un temporale. La mon- tagna non ha stagioni». Infatti il vento aumentava e le nuvole ingigantivano in cielo; il sole impallidì e si eclissò melanconicamente, lasciandoci infreddoliti. Allungam- mo il passo. Per fortuna si era su un pianoro coperto di erba e muschio che vegetava su un terreno soffice come un tappeto. Quando giungemmo in vista della capanna ci raggiunse con l’aria pungente un leggero piovasco che ci spruzzò la faccia; un grato odore di timo e di umido si sprigionò da terra ad allargarci le narici. Avevamo appena lasciato a destra una piccola mac- chia di faggi e gli uomini, posato lo zaino, vi ritornaro- no per raccogliere arbusti e rami secchi. Io entrai nella capanna. Era costruita in pietra e consisteva in un’unica stanza rettangolare con una porta non ben chiudibile, un finestrino in fondo e un pertugio in alto; come unico arredamento due letti fatti di un rudimentale telaio di legno coperto da fascine e montato su quattro pali. Le pareti erano nere e lucide come antracite per il fumo che da anni si accumulava sulla pietra. Ad imitazione di altre che già vi erano, Fergus scolpì sul muro la nostra data: 7 novembre 1943. Poi si diede con gli altri ad accendere il fuoco in mezzo alla stan- za, mentre io stavo già rammendando i pantaloni di Ely strappati al primo capitombolo in modo veramente da primato. I rami bagnati sfriggettero per parecchio tempo, poi iniziarono una combustione che ci costrin- se a fuggire all’aperto, malgrado tutta la nostra buona volontà; un fumo acre, denso aveva riempito tutta la capanna, si era convogliato verso il finestrino oscuran-
La fuga di Bruna 37
38 Bruna Mistè Meneguzzo dolo totalmente e usciva come da una ciminiera in pie- no funzionamento. Di tanto in tanto qualcuno di noi tentava di avvicinarsi al fuoco per riscaldarsi, ma usciva poco dopo lagrimando e tossendo. Aspettammo che il fuoco si spegnesse e sgomberasse il fumo, indi entram- mo al coperto. Attraverso le nuvole leggere si poteva scorgere ancora l’azzurro del cielo, ma ormai il giorno declinava; una schiarita ci portò l’ultimo raggio di sole. Mangiammo e preparammo i letti di frasche prima del buio. Enzo si lavò, si spazzolò con cura e, tirato fuori un flaconcino, si dedicò con gli altri alla nobile arte del massaggio, lavo- rando con grande meticolosità. La notte calò repentina, grandi ombre si stesero sulla piccola radura e la avvolsero tutta; presto le nostre sago- me si fecero incerte e ci apprestammo a dormire. A me destinarono il giaciglio presso la porta e gli uomini si acconciarono nell’altro in fondo e su arbusti secchi che avevano portato dal bosco. Dopo un po’ di tempo in cui qualche parola volava nel buio ad allacciare i nostri pen- sieri, li sentii cedere al sonno e la vera notte cominciò. Io non riuscivo a dormire, presa da un’oscura agita- zione che andava man mano aumentando. Il vento che non era mai del tutto cessato durante il giorno riprese con più vigore; s’infilava per le fessure della porta, usci- va dal finestrino, radeva i fili d’erba più alti e s’impi- gliava fra i rami del bosco, ululando sinistramente; una seconda ventata si accaniva contro la capanna, si sper- deva ed una terza riprendeva l’attacco, finché si susse- guirono a ritmo ininterrotto e violento. L’aria cominciò a penetrarmi nella carne e gli urli in una parte lontana del cervello; la capanna ne era tutta permeata e gemeva penosamente; i giacigli scricchiolavano presi da brividi
La fuga di Bruna 39 leggeri. Allungai il braccio per constatare se lo zaino era intatto: pensavo che dei topi ne avessero fatto scempio, mi pareva di sentirli sotto la testa, tra foglia e foglia, ma probabilmente non era che immaginazione. Strani ru- mori si mescolavano al respiro pesante dei miei compa- gni; il vento captava lontani mormorii, voci misteriose, le ingigantiva come valanghe d’aria, le sospingeva, le fa- ceva rotolare tra le pareti della baita, le sprigionava dalle fessure contro il dorso delle cime, destando echi sonori. Non potevo dormire. Mi rammentai di quanto udito sui prigionieri scoperti qualche giorno prima forse nel medesimo luogo; sapevo che gli ex prigionieri di guerra se ripresi, venivano ricondotti in un campo di concen- tramento senza altra punizione, ma non avevo idea di quello che poteva accadere ad un italiano preso con loro in luoghi ed equipaggiamento evidentemente sospetti. Una donna che non fosse né pastora né contadina pote- va facilmente venire sospettata di spionaggio e pensavo che spesso i tedeschi non andavano troppo per il sottile. Mi rigirai, decisa a non essere pessimista e ad attendere il sonno; ma il mio sistema nervoso era ormai diventato ipersensibile e mi sorpresi con l’orecchio teso al rumore delle foglie secche che turbinavano fuori, temendo di individuare dei passi e delle voci; seguivo con gli occhi le lancette fosforescenti del mio orologio da polso paren- domi i minuti smisuratamente lunghi. Il primo barlume dell’alba mi recò un sollievo enorme, forse anche perché il vento era diminuito d’intensità; il quadratino di cielo che intravvedevo in alto dal pertugio mi distese i nervi e le membra si rilassarono in un estremo languore. Non riuscii ormai più ad addormentarmi ma la crisi era supe- rata e nessun orgasmo mi turbò più, neanche in seguito.
40 Bruna Mistè Meneguzzo Mi alzai piano e sgusciai dalla porta scardinata sull’erba bagnata di brina; tremavo e battevo i denti pel freddo e la stanchezza. Scesi fino ad una pozza d’acqua che luccicava poco più in basso, immersi le braccia e la faccia nel liquido tanto freddo da togliere il respiro e mi sentii assai meglio. Quando tornai alla capanna gli altri erano desti e ci avviammo lentamente per la china. Fergus guardava avidamente il paese: mi disse che dopo un anno e mezzo di campo di concentramento e due mesi di segregazione a Sulmona, vedere la natura libera e così splendidamente vestita come allora ci si pre- sentava lo rapiva; e il giallo di un arbusto, il rosso di una foglia o la gentilezza di un fiore tardivo lo incantava. Di Ely non saprei dire: guardava in giro con i suoi occhi acquosi e non pronunciava parola. Scendemmo fino a raggiungere il fondo valle. Un piccolo ponte era gettato in un torrentello che scorreva limpido e tranquillo di sasso in sasso; si poteva arrivare facilmente per l’argine erboso all’acqua chiara e ne be- vemmo con piacere. Poi ci avviammo lentamente per la strada secondaria che si snodava su per gli ultimi pendii del gruppo della Maiella, solcata da profonde carreggia- te e fiancheggiata da alti noci e cornioli. Scendeva di tanto in tanto, lentamente, i freni cigo- lanti, qualche carro carico di fascine, frantumando le foglie secche. E noi lentamente si saliva nella luce sbia- dita di un sole coperto da nuvole leggere. Abbandonam- mo la strada per tagliare dritti attraverso i campi deserti e dopo qualche tempo raggiungemmo la camionabile che porta a Campo di Giove; un camion tedesco giace- va sul margine, immobilizzato evidentemente da un mi- tragliamento. Continuammo tra i campi per un sentiero appena tracciato, sperando di evitare spiacevoli incontri;
La fuga di Bruna 41 in realtà l’unico essere che ci avvicinò fu un pastore che ci indicò la direzione da seguire. Tutto compreso di me- raviglia nel vedere la bussola che Enzo aveva in mano e nell’udire le spiegazioni semplicistiche che egli ne da- va. Proseguendo sempre ad est su un terreno ondulato e umido giungemmo ad una buona altezza sopra un pae- sello disseminato lungo una strada che pensammo fosse Campo di Giove. Il paesaggio cominciava a farsi decisa- mente montagnoso; contro il cielo, annuvolatosi del tut- to, si profilava l’imponente massiccio della Maiella. Av- vistammo le prime caratteristiche capanne che i pastori del luogo usavano durante i pascoli estivi; qualcuna ha il tetto di lamiera, ma molte sono fatte completamente di pietre sovrapposte e spuntano da terra a forma di calotta quasi semi sferica, col foro d’entrata ad arco e privo di porta. L’interno è vuoto, al massimo qualche pietra de- limita un giaciglio di foglie secche; all’esterno palizzate irregolari formano il chiuso per i greggi. Raggiungemmo una di queste capanne appena in tempo per ripararci da un vento gelido che s’era levato portando le prime gocce di pioggia. Enzo e Fergus usci- rono nuovamente alla ricerca di frasche per accendere il fuoco e intrecciare una parvenza di uscio che desse l’illusione di riparo. Esaminai l’interno: era una delle baite rettangola- ri col tetto di lamiera di ferro zincato; a lato dell’en- trata c’era un folto strato di felci disseccate attorniato da grossi sassi in fila. Il vento penetrava attraverso le numerose fessure tra pietra e pietra e la pioggia stil- lava minutissima da forellini del tetto; aiutata da Ely incominciai con le felci l’opera di restauro: cercavo di tappare i buchi soprattutto dalla parte del giaciglio e
42 Bruna Mistè Meneguzzo l’angolo fu subito adorno di una tappezzeria a chiazze verde antico di grande effetto. Mi sembrava di prepa- rare il presepe di Natale. Vennero alcuni uomini a ripararsi. Ely si rintanò e finse di dormire: dissi che era sordo pensando che chis- sà, poteva anche darsi il caso che essi non sospettassero la sua nazionalità; in fondo, presupponendo negli altri una certa idiozia, potevamo anche passare per turisti un po’ strambi. Di fatto essi non si stupirono un granché, solo mi informarono che i dintorni pullulavano di stra- nieri che avevano eletto dimora in varie capanne, aspet- tando l’avanzata dei connazionali; anzi, se lo desideravo me ne facevano conoscere qualcuno anche subito. Ma io rifiutai energicamente: volevo avere a che fare solo con italiani come i miei compagni; uno era stanco e dormi- va, poveretto, gli altri erano andati a far legna. Eccoli di ritorno con un fascio di rami ciascuno, bagnati e rossi in viso per il freddo e le sferzate della pioggia mista a nevi- schio. Fergus aveva un accento un po’ fuori dal comune, ma spiegai che abitava in un paese di confine; essi annu- irono, non chiesero spiegazioni e, approfittando di una momentanea diminuzione della pioggia, saggiamente se ne andarono di corsa giù pel declivio, augurandoci ogni bene. Accendemmo un fuoco stentato e cercammo con le frasche di improvvisare una porta; poi mangiammo con grande appetito. Si fece buio presto e noi, stanchi, ci sdraiammo sul giaciglio di felci. Veramente la parola sdraiarsi può su- scitare l’impressione di una certa comodità e larghezza, cose che mancavano affatto al nostro letto; si trattava di uno spazio adatto al massimo a due persone: noi erava- mo quattro di normale corporatura e dovemmo disporci tutti di fianco calandoci già in posizione esatta per in-
La fuga di Bruna 43
44 Bruna Mistè Meneguzzo castonarci meglio. Ci coprimmo alla men peggio con un paio di coperte che si aveva; faceva un gran freddo e il vento sibilava attraverso le mille fessure della baita facendoci accapponare la pelle; Enzo che era presso la porta, ricevendo qualche spruzzo gelato in viso, borbot- tava maledizioni. Tuttavia mi addormentai e dormii so- do, stanca della veglia della notte precedente. Il mattino sorse radioso: tutte le giornate si annun- ciavano serene e tiepide per naufragare poi miseramente in un clima invernale. Un forte chiarore filtrava traverso i rami dell’apertura rischiarando l’interno. Uscimmo e ci guardammo l’un l’altro senza parlare: la notte aveva recato il suo triste dono di bellezza. Un alto strato di neve era davanti a noi verso valle, e dietro copriva i bo- schi e le montagne, rendeva abbagliante l’enorme dorso della Maiella che ci sovrastava, si perdeva lontano, con- fondendosi col cielo. Eravamo sopraffatti da tutto quel candore e dalla malignità del caso che ci aveva preparato simile sorpresa; ognuno si chiese come avrebbe attraver- sato la montagna in tali condizioni. Risalimmo le orme fresche di un gregge; non ave- vamo nessun programma e nessuna idea. In un’altra catapecchia trovammo alcuni uomini, tutti ex prigio- nieri; uno di essi, iugoslavo, venne con noi e ci condus- se fino alla capanna più alta, che abitava con sette od otto connazionali. Aveva un viso giovane malgrado la barba di parec- chi giorni, e una figura slanciata e forte; ex ufficiale di marina, datosi poi alla macchia coi partigiani, era stato internato in un campo di concentramento presso Padova, donde era fuggito e arrivato a piedi fin là. Si chiamava Drago.
La fuga di Bruna 45 I suoi compagni ci accolsero con naturalezza; molti parlavano italiano e pensavano anch’essi all’opportunità di partire, dopo quella nevicata. Drago avvolse un gros- so pane in un pastrano grigioverde e venne con noi. Era mattino inoltrato e la neve abbagliava; si doveva oltrepassare un tratto di bosco per raggiungere l’attacco di un enorme vallone che supponevamo conducesse al passo stabilito. Ma le difficoltà incominciarono presto. La neve abbondante aveva piegato gli alberi fino a terra e si doveva procedere fra una massa intricata di rami e di arbusti che s’infittiva sempre più. A turno uno di noi con un grosso palo scuoteva la neve dalle piante, cercando di aprire una via; molto spesso però dovevamo ritornare sui nostri passi. La natura era bella, fantastica- mente bella, quale uno la può sognare per una magica festa, così bianca, e brillante, e arabescata. Ma era dura, ci fiaccava i nervi e le gambe. Lottammo per qualche ora, e il cuore ci si aperse quando il bosco cominciò a diradarsi e si vide a ridosso l’erta montagna. Gli uomini controllarono con la bussola e la carta, indi prendemmo a salire lentamente. Procedevamo a zig-zag per mitigare la rigidità della salita, affondando nella neve soffice. Calcolavamo di raggiungere la cima prima di sera, ma ci accorgemmo presto che avanzava- mo con esasperante lentezza; la montagna sembrava farsi smisurata e il tempo passava inesorabilmente. Cammi- nammo molto senza fermarci, ma la stanchezza tormen- tava tutti e specialmente Ely. Poco a poco vedemmo la luce sbiadire, e sentimmo l’aria farsi pungente e la neve gelare sotto i piedi. Fummo presi dalla mostruosità di quel dorso enorme, bianco, liscio, morto; avemmo l’im- pressione di non avanzare più, ma di muovere le gambe
46 Bruna Mistè Meneguzzo automaticamente, in un’irreale atmosfera d’incubo. Be- vemmo cognac a sorsate. Ad un tratto Fergus ed Ely mi gridarono da sotto che non potevano più continuare; l’anziano soprattutto trascinava le gambe in modo penoso. Li convinsi a pro- seguire se non volevano morire assiderati entro la notte e cominciai con gli scarponi a scavar gradini nella neve ormai ghiacciata. Così continuammo disperatamente a salire, miseri punti oscuri in quella sconfinata distesa che si ergeva ripidissima e per un’illusione ottica sem- brava piana e placida. Continuammo, avendo di mira tre rocce sporgenti che speravamo presso la cima, e pa- revano allontanarsi sempre più. La sera era venuta, ma ci si vedeva bene per tutto quel biancore; solo i profili delle rocce sembravano più spettrali e beffardi. Bevemmo an- cora e ci arrampicammo con le ginocchia e le mani ar- tigliate nel ghiaccio; un’ira sorda contro quelle avversità mi dava una straordinaria energia e avrei picchiato la montagna, sputato su di essa che mi schiacciava solo che avessi perduto per un momento il controllo di me stessa. E superammo finalmente le rocce ed anche l’ultimo tratto di salita. Quando giungemmo allo spartiacque e guardammo l’altro versante, ci sentivamo istupiditi e felici. L’incanto malefico era rotto e tutto cambiava aspetto. Un vento gelido ci frustò la faccia e le membra e ci decise subito ad intraprendere la discesa. Anche que- sta non era facile, giacché ad ogni passo si sprofondava sino ai fianchi nella neve ammucchiata nelle conche. Il ghiaccio appiccicato alle mani stirava la pelle dolorosa- mente e, passata la tensione nervosa che ci aveva sorretto fino allora, la stanchezza si faceva maggiormente senti- re. Enzo, colto da un collasso nervoso, si buttò ai piedi di un grosso sasso e non volle più muoversi. Drago lo
La fuga di Bruna 47
48 Bruna Mistè Meneguzzo schiaffeggiò energicamente, poi lo fece bere e mangiare qualcosa e proseguimmo; le nostre quattro bottiglie di cognac erano finite. Si andava con una certa sicurezza; pensavo che anche ad essere pessimisti, si scendeva, poco o tanto il freddo sarebbe diminuito e ci si avvicinava a luoghi abitabili. Però l’aspetto intorno era desolante; supponemmo di essere sulla cosiddetta “Valle di femmina morta” e non c’è nome che si addica maggiormente a quell’enorme, crudele nudità. Non una pianta in giro, non un sasso sporgente, non il minimo segno di vita. Nessuno di noi parlava, ma tutti avevano in cuore la medesima speran- za, tutti cercavamo con gli occhi una capanna, anche quattro assi in piedi anche un buco nella roccia. Invece il vento correva senza intralci sulle gobbe gelate e si per- deva fischiando nel fondo valle, mentre un duro nevi- schio aveva ripreso a torturarci le carni. Man mano che si scendeva e il tempo passava ci sen- tivamo presi tutti dall’ansia di scoprire qualche cosa, di trovare un rifugio; una vaga inquietudine, provocata dal freddo e dal quel gran deserto bianco penetrava in noi: la sinistra montagna riprendeva il suo potere. Ad un tratto su un ripido costone di una valle se- condaria scorgemmo dei cespugli spinosi sbucare dalla neve. Fu il primo segno di vegetazione, ma fu anche l’ultimo per quella notte. Camminammo ancora scen- dendo la china fino a due unici sassi quasi sospesi so- pra una profondissima valle. Spianammo alla meglio il terreno con la neve e decidemmo di passare ivi il resto della notte. Erano circa le due ed eravamo tutti in condizioni pie- tose; il mio zaino, gelatosi sulla schiena, non si poteva dapprima staccare, i lacci degli scarponi si erano tagliati
La fuga di Bruna 49 e la neve penetrata e indurita mi fasciava le caviglie, ed avevo l’impressione che le dita delle mani fossero diven- tate enormi e rigide. Stendemmo due coperte fra i sassi e ci rifugiammo sotto, accoccolati. La posizione era oltremodo disage- vole e il freddo così intenso da non potersi descrivere. La mia fantasia andava a capanne riparate dal vento, a giacigli lunghi tutta la persona per distenderci, a coperte avvolte intorno ai piedi; sognai luoghi caldi, fiamme, incendi, sognai miracoli, sognai perfino di scavare una buca per terra e mettermici dentro. L’attesa dell’alba era pesante per tutti. Quando inavvertitamente il cielo cominciò a schia- rirsi riprendemmo il cammino. Mi accorsi che l’ultima falange delle dita era diventata del tutto insensibile e così succedeva ai miei compagni. Ma eravamo più pre- occupati per la sete: non c’era acqua da bere e la neve ci aveva inaridito la gola; qualcuno disse che i ghiac- cioli dissetavano, ma non trovavamo neppure quelli. Quando finalmente qualche masso cominciò ad emer- gere dallo strato nevoso, Ely si occupò particolarmente a cercarvi sotto dei ghiaccioli. La sua figura assumeva atteggiamenti caratteristicamente ingenui. L’impermea- bile stretto in vita e scendente largo e rigido ancora per il gelo, da cui uscivano le gambe lunghe e magre, il ber- retto sulla testa fasciata da una sciarpa, scrutava sotto le pietre anche sdraiandosi sulla neve e appena scorgeva del ghiaccio lo faceva saltare a sé con un colpo secco di bastone che aveva. L’azzurro dei suoi occhi, sperso nelle lacrime, non si interessava ad altro. Intanto eravamo scesi di dislivello di parecchie cen- tinaia di metri, spostandoci leggermente a sinistra; scor-
50 Bruna Mistè Meneguzzo gemmo da lontano qualche chiazza bruna di terra. La neve si fece sempre più bassa e infine sprofondammo nel pantano di un campo. Nel primo pomeriggio incontrammo un pastore; il suo aspetto, con le pelli di agnello alle ginocchia e il cor- to mantello rotondo, era antico e irreale come ci parve la sua comparsa. Ci diede alcune spiegazioni e disparve lento e sereno. Mi volsi a guardare la Maiella: ormai le sue cime più alte erano lontane e di neve non c’era più traccia. Qua e là qualche capanna per l’estate ci ricorda- va la vita e udimmo colpi di accetta nel grande silenzio. Traversammo alcune sassose valli parallele e scen- demmo ancora lungo una di esse; la vegetazione si era fatta più folta e il cammino quasi piacevole, non fos- se stato per la sete. In verità l’arsura in gola aumentava e non c’era goccia d’acqua in giro. Camminammo nel fondo valle e pareva quasi primavera; il boschetto ci pa- reva gentile ed amico dopo l’aridità di neve e sassi dei luoghi percorsi; e trovammo dei ciclamini assai tardivi che mi procurarono una vera gioia. Ne raccolsi un maz- zetto con entusiasmo. Intanto eravamo giunti alle ultime pendici del mas- siccio montagnoso. Superata una piccola conca, sostam- mo a guardare: sotto di noi, lontana, vi era la strada nazionale scavata nella roccia. Dopo di essa la china continuava ripidissima fino ad un torrente, indi il ter- reno risaliva un po’ più dolcemente; a destra si vedeva una grossa borgata che immaginammo fosse Palena e di fronte a noi una masseria. Stabilimmo che la raggiungessi da sola per sapere si vi si poteva passare la notte, e che avrei fatto dei segnali agli altri che mi avrebbero raggiunta al buio. Posai lo zaino e
Puoi anche leggere