IL TESTAMENTO DI SATANA - RICHARD DÜBELL - Traduzione di

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RICHARD DÜBELL

IL TESTAMENTO
   DI SATANA
              Traduzione di
Leonella Basiglini e Maria Paola Olivieri
Titolo originale: Die Wächter der Teufelsbibel
                  © 2008 by Bastei Lübbe GmbH & Co. KG, Köln

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Redazione: Edistudio, Milano

I Edizione 2011

© 2011 - EDIZIONI PIEMME Spa
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C’è una leggenda…
    Come punizione per la terribile colpa che aveva commesso, un mo-
naco fu murato vivo.
    Mentre periva nella sua prigione, decise di lasciare un testamento,
la sua eredità per il mondo. Il libro avrebbe racchiuso in sé tutte le
conoscenze che il monaco aveva accumulato in vita. A causa di esse
era stato condannato a morte. Avrebbe scritto una bibbia del sapere.
    Fin dalla prima notte, però, si rese conto che non sarebbe mai riuscito
a portarla a compimento. Nel momento del bisogno cominciò a pregare,
e giacché Dio non dava ascolto alle sue preghiere, si rivolse al diavolo,
offrendogli la sua anima.
    Il diavolo terminò il libro quella notte stessa. Ma invece di fissarvi
tutta la sapienza umana, come aveva pattuito con il monaco, gli infuse
il suo sapere. Per secoli il Supremo Tentatore aveva cercato di trasmet-
tere all’umanità le sue conoscenze, per le quali l’uomo non era ancora
maturo e con le quali lo avrebbe distrutto. A causa sua Adamo ed Eva
erano stati cacciati dal Paradiso, a causa sua l’umanità sarebbe andata
in rovina. E poiché sapeva che gran parte degli uomini si teneva alla
larga da lui, camuffò il suo testamento facendolo sembrare una copia
della bibbia. Chi l’avesse letto senza ragionarci non avrebbe compreso
nulla; le teste pensanti invece sarebbero riuscite a decifrarlo. Il diavolo
ha sempre voluto rovinare le menti più brillanti.
    Si racconta che il monaco avesse compreso cosa era avvenuto. Ma se
avesse distrutto il manoscritto, sarebbero andate perse anche tutte le
sue conoscenze. Sarebbe vissuto, e soprattutto sarebbe morto, invano.
    E il diavolo sapeva che il monaco non avrebbe mai permesso che
ciò avvenisse.

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Quando dopo alcune settimane furono aperte le segrete della pri-
gione, accanto al cadavere fu ritrovato un libro gigantesco. I monaci
che lo sfogliarono si ritrassero inorriditi: da una pagina sogghignava
un’enorme riproduzione del demonio. Tutto quello che il monaco so-
litario era riuscito a fare era stato mettere in guardia i posteri con quel
disegno e nascondere in tre pagine del volume la cifra per decodificare
l’opera del diavolo.
    C’è una leggenda…
    Chi ha fede in Dio entrerà nel regno dei cieli. Chi ha il sapere del
diavolo dominerà il mondo.

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1612
CAESAR MORTUUS EST

         Tutti coloro che giacciono qui sepolti
         sono ossa e cenere, nient’altro.
               Iscrizione su una lapide romana
1

Da quando l’imperatore Rodolfo era morto, era sparita ogni traccia di
quanto in lui vi era stato di umano. Erano rimasti soltanto gli aspetti
bizzarri, incomprensibili, mostruosi, fantastici, visionari e folli che
fin da allora il mondo collegava alla sua personalità. E sarebbero stati
serbati nel ricordo per l’eternità, conservati lì, nel suo regno, nella
sua caverna del drago, nel suo rifugio nelle viscere del Castello di
Praga, il Hradschin.
   Sebastián de Mora, ex buffone di corte, rabbrividì. Si aspettava
che da un momento all’altro lo spirito del defunto spuntasse da dietro
una colonna nella Camera delle meraviglie.
   «Per san Venceslao, che diavoleria è quella?» sussurrò uno dei finti
monaci. Aveva preso un involucro da uno scaffale. Il vetro scintillava
alla luce della lanterna in mano al monaco. Sebastián sapeva bene
cos’era, conosceva quasi tutti i pezzi della collezione dell’imperatore.
   Il monaco si ritrasse. Il vaso scivolò giù, attraversò il raggio di luce
e finì a terra, in frantumi. Il suo contenuto si sparse sulle mattonelle,
emanando un puzzo di alcol e putrefazione.
   «Santo cielo!»
   Il finto monaco si fece da parte con un salto. I compagni di Se-
bastián distolsero lo sguardo dalla creatura pallida e gonfia riversa
sul pavimento. Il buffone di corte prese fiato, anche se la puzza gli
bruciava le narici. Avrebbe potuto spiegare che nelle decine di con-
tenitori riposti su quello scaffale c’erano sotto conserva cose ben più
orripilanti del neonato con due teste spappolate che li fissava.

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«Quetti non tono veli monachi» sussurrò la voce di Brigitta. Era
stata una degli ultimi a giungere alla corte di Rodolfo, un omaggio del
re svedese. Tutte quelle creature mai cresciute, con le gambe curve
e le membra contratte, con i tratti del viso tuberosi o sghembi, le
aveva collezionate Rodolfo facendole arrivare da quasi ogni angolo
del mondo conosciuto.
    «Bisognerebbe dare fuoco a tutto, a tutte queste orrende… mo-
struosità» sbottò il finto monaco che aveva fatto rovesciare il vaso
dallo scaffale. Lo sguardo gli cadde sui sei nani, che istintivamente
si strinsero l’uno all’altro.
    «Andiamo» disse il capo dei monaci. «Stiamo solo perdendo
tempo.»
    Sebastián li condusse nel resto del Gabinetto delle curiosità. Non
aveva scelta. Anche prima, quando all’improvviso erano spuntati nel
corridoio deserto nel quale Sebastián si era rifugiato per piangere la
morte dell’imperatore Rodolfo, non aveva potuto far altro che stare al
gioco di quegli uomini malvagi. Erano in due. In un primo momento
li aveva scambiati per monaci veri, poi aveva udito il ticchettio secco
dei loro stivali, aveva dato un’occhiata ai cappucci scuri e aveva cer-
cato di scappare. Il capo degli uomini mascherati lo aveva agguantato
e sollevato con una mano, mentre con l’altra gli tappava la bocca;
poi lo aveva trascinato nella camera dove gli altri nani di corte erano
trattenuti da due finti monaci, che tenevano sotto scacco i compagni
di sventura di Sebastián con le spade sguainate.
    «Sai dove l’imperatore tiene nascosta la Bibbia del Diavolo?» gli
aveva sussurrato in un orecchio il capo. Sebastián non aveva risposto.
Il finto monaco allora aveva scosso leggermente la testa e uno dei suoi
uomini aveva afferrato il nano che si trovava più a portata di mano – ca-
sualmente si trattava di Miguel, che era stato insieme a Sebastián anche
alla corte spagnola – e l’aveva alzato da terra con la lama del fioretto.
    Sebastián aveva annuito in modo scomposto, quasi soffocato dal
battito impazzito del suo cuore.
    «In una cassapanca della Camera delle meraviglie, chiusa con una
catena? E la chiave ce l’ha ancora addosso l’imperatore?»
    Rassegnato, il nano aveva annuito di nuovo.
    «Il corpo dell’imperatore è ancora sul suo letto, stanno per met-
terlo nella bara. Credi di poter arrivare alla chiave, Toro?» La voce
del capo dei falsi monaci sembrava eccitata.
    Sebastián aveva annuito ancora una volta. Poi era scattato, aveva

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portato a termine il suo compito, perché nessuno aveva badato alla
minuscola figura che si era fatta strada goffamente fino a raggiungere
il capezzale dell’imperatore morto, mentre i dignitari e i funzionari di
corte erano radunati in un angolo a confabulare. Poi era tornato nella
piccola stanza, sperando invano che gli uomini mascherati liberassero
sia lui sia i compagni.
    Quando raggiunse la soglia dell’ultima stanza, quella in cui Rodolfo
custodiva gli oggetti che lo affascinavano di più, il manipolo di nani e
finti monaci rimase di nuovo impalato. Sugli scaffali c’erano bezoari
rivestiti d’oro, avvolti nell’argento o trasformati in calici; una lepre
imbalsamata con una testa e due corpi, uno più storpio dell’altro, e
un vitello bicefalo fissavano con occhi vitrei i visitatori. La luce della
lanterna scivolò frettolosa sui reperti esposti. Un bastone dall’aria
anonima uscì dall’ombra; l’imperatore era convinto che si trattasse del
bastone di Mosè, così come aveva creduto che il lungo fuso d’avorio
nella sua opulenta incastonatura d’oro fosse il corno dell’unicorno.
Alcuni balocchi meccanici luccicavano fiocamente.
    Sebastián indicò un anello sul pavimento. La lanterna illuminò
i raffinati contorni di una botola nascosta con maestria. Appena la
aprirono, furono investiti dalle pungenti esalazioni di zolfo e salnitro,
dall’odore polveroso di funghi essiccati, muschio morto e altri licheni,
dagli aromi di olio essenziale di rose, olio di semi di lino, trementina e
legno di sandalo, tutti fluttuanti su un’indefinibile nota di segretezza,
appropriazione indebita, magia nera.
    Sebastián e gli altri furono obbligati a scendere per primi lungo
la scala. Il buffone di corte sentì uno degli uomini aspirare l’aria
attraverso i denti. Non poté fare a meno di girarsi.
    L’imperatore Rodolfo aveva fatto costruire un sontuoso leggio
per la Bibbia del Diavolo, intorno al quale era stata progettata una
gabbia di ferro cui si accedeva tramite una piccola scala. Somigliava
al pulpito di una chiesa, nella quale però non si celebrava Dio, ma si
compivano balzani esperimenti. Sebastián si ricordò delle occasioni
in cui aveva visto la Bibbia del Diavolo sul leggio: il rivestimento in
pelle bianca sembrava risplendere di luce propria, le guarnizioni di
metallo somigliavano a impronte di zampe nere, l’orpello al centro
della coperta, anch’esso di metallo, pareva una chiave magica che
prometteva l’accesso a un mondo al di là della realtà. Non aveva mai
visto un libro di tal fatta. Sebastián sentì risuonare nelle orecchie il
rimbombo che udiva ogni volta che era in quella stanza; sembrava

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provenire dalla Bibbia del Diavolo, ma in realtà era soltanto il sangue
che gli ribolliva nella testa.
   «È vuoto» disse il capo dei finti monaci.
   Sebastián indicò il piede di quel pulpito profano, dove si trovava
una gigantesca cassapanca, alla quale era appesa una catena. Senza
che nessuno glielo chiedesse, le si avvicinò titubante e fece per aprirla.
Un lungo braccio lo superò e lo precedette. Dal buio della cassapanca
spuntò una luce flebile: le guarnizioni luccicavano. Sebastián si sentì
male.
   «Ottimo lavoro» disse il capo dei finti monaci. «Potete andare,
nani.»
   Mentre si girava, Sebastián sentì un rumore metallico, come una falce
che miete un fitto fascio d’erba. Miguel era davanti a lui, e per un lungo
istante Sebastián si chiese confuso cosa avesse l’amico di diverso dal
solito, poi capì. Le gambe di Miguel si stavano piegando, per quanto
riuscissero a fare quelle membra rigide e corte, poi il nano cadde di
fianco come un burattino di legno. Dal moncherino del collo zampillò
un lungo getto di sangue nero. La testa rotolò fino ai piedi del pulpito.
   Silenzio.
   Per un brevissimo istante calò un silenzio che pareva eterno.
   Il sangue di Miguel picchiava sul pavimento in pietra come una
pioggia battente.
   Brigitta prese a strillare, e il silenzio si polverizzò in un turbinante
vortice di panico.
   Cinque piccole creature tarchiate correvano alla cieca per il labora-
torio. I finti monaci imprecavano e sguainavano le lame, ma la paura
di morire metteva le ali a quei piccoli piedi, e il laboratorio, pieno
zeppo di tavoli, panche, tinozze, impediva agli uomini alti di sfruttare
il proprio vantaggio. Un fioretto fece sobbalzare un fuggitivo, ma
invece di centrarne la schiena colpì lo spigolo di un tavolo. Mentre
chi aveva brandito il fioretto cercava frettolosamente di estrarlo dal
legno, le fiale che erano poggiate sul tavolo tintinnarono e ondeggia-
rono finché caddero frantumandosi. Quando un’altra lama graffiò
una tinozza di legno, mancando il corpicino variopinto che vi si era
arrampicato sopra, sprizzarono scintille. Brigitta urlava, era fuori di
sé, mentre sgattaiolava sotto i tavoli e, dimenando le braccine, cercava
di raggiungere la scala. Qualcuno corse all’impazzata verso il pulpito
con la Bibbia del Diavolo, rimbalzò e rovinò a terra; un fioretto balenò
per aria nel punto in cui un attimo prima era passato un nano volante.

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«Uccidete quegli sgorbi!» urlò il capo dei finti monaci. Sollevò
la spada e fece un lunghissimo passo verso Sebastián, ma qualcuno,
Sebastián ne era certo: si trattava di Hänschen – era così grasso che
una volta durante uno spettacolo era rimasto incastrato nella cesta di
ferro con il paté dalla quale avrebbe dovuto saltare fuori –, si lanciò
contro quell’uomo e lo fece vacillare. La suola di uno stivale scivolò
sul sangue di Miguel e il finto monaco piombò a terra insieme al
tavolo, detonando un’esplosione di schegge di vetro, liquidi vario-
pinti, polveri e cristalli magici. Hänschen schizzò nell’altra direzione
sfuggendo così a un colpo di spada che trafisse una sacca in pelle,
da cui zampillò il pregiatissimo vino rosso che Rodolfo aveva usato
per lavare dei vermicini.
    Sebastián si sciolse dalla paralisi e fece un balzo all’indietro. Fissò
la lanterna sul tavolo. Se fosse riuscito a spegnerla, il laboratorio sa-
rebbe piombato nel buio più assoluto e gli aggressori non avrebbero
potuto sfruttare più il vantaggio della forza e dell’altezza. Vide che
Brigitta era riuscita a raggiungere la scala, ma un braccio ricoperto
da un saio si stava tendendo verso di lei. Vide che Hänschen aveva
cercato di passare sotto le gambe di uno degli aggressori, ma non ce
l’aveva fatta ed era stato acciuffato; vide gli altri due nani che si erano
rifugiati negli angoli più remoti e si erano aggrappati l’uno all’altro,
paralizzati come due coniglietti messi alle corde… Se fosse riuscito
a raggiungere la lanterna, avrebbe potuto salvare i suoi compagni.
    Si catapultò contro il tavolo, la lanterna oscillò, ma Sebastián aveva
le braccia troppo corte e non riuscì a raggiungerla. Preso dal panico,
fece forza contro il piano del tavolo, quasi lo sollevò per poi farlo
ricadere, ma l’urto fece traballare la lanterna, che minacciò di cadere
dal bordo; il buffone di corte riuscì ad afferrarla, si bruciò le dita, si
voltò per scagliarla a terra…
    Quella scena si pietrificò davanti ai suoi occhi e così sarebbe restata
per sempre: Brigitta stava volando contro la parete per schiantarsi
con un urto che le spezzò tutte le ossa. Le sue grida ammutolirono.
Hänschen, che dimenava mani e piedi, guardava come un allocco
l’uomo davanti a sé affondare una spada nel suo corpo grasso. I due
nell’angolo erano ancora aggrappati l’uno all’altro, ma adesso erano
a terra esanimi mentre il capo dei monaci si allontanava, la lama della
spada grondante di sangue.
    La lanterna esplose. All’improvviso un buio assoluto, il gocciolio
dei liquidi, il rumore delle schegge che lentamente si placava, lo

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scricchiolio del legno. Una maledizione sibilata. Una voce che diceva:
«Eh?», come se fosse stato tutto un gioco e qualcuno avesse spento
la candela per sbaglio. Poi il silenzio.
   Sebastián era rimasto nel punto esatto in cui aveva distrutto la
lampada, immobile, senza respirare, con il sangue fermo nelle vene,
incapace perfino di formulare un pensiero, impazzito di terrore.
   «Ci hanno sentito tutti» disse una voce.
   «Scappiamo.»
   «Toro?» Era la voce del capo. Sebastián fu scosso da un brivido.
   «Non male, Toro!»
   «Scappiamo, Henyk! I guardiani del palazzo saranno qui da un
momento all’altro.»
   «Toro?»
   Sebastián trattenne il fiato.
   «Lascia perdere il piccolo sgorbio. Eccola, ho trovato la scala.»
   Sebastián si accorse che il capo esitava.
   «E va bene, va bene. Ma non finisce qui, Toro! Forza, prendiamo-
cela e filiamo via finché siamo in tempo.»
   I minuti successivi – ore? giorni? secoli? – si riempirono di gemiti,
di imprecazioni e dei timidi passi di Sebastián sulle schegge di vetro,
sui liquidi maleodoranti e attraverso il buio, finché non trovò riparo
sotto un tavolo, al sicuro da urti involontari che avrebbero rivelato
la sua posizione. Sentì i ladri trascinare in quattro, su per la scala, la
cassapanca con il libro, che pesava almeno quanto due uomini adulti;
sentì i passi sopra di lui dileguarsi rapidamente mentre si dirigevano
verso l’uscita. Non sapeva quanto tempo fosse rimasto fermo lì, finché
tutto era tornato a una relativa calma e aveva potuto comandare alle
sue gambe di alzarsi, ma quelle si rifiutavano. Alla fine riuscì a risalire;
al pensiero che lo avessero chiuso là sotto, o che lo aspettassero al
di là della botola, gli bruciava la pelle, ma i suoi timori si rivelarono
infondati. Barcollò lungo il buio Gabinetto delle curiosità, guidato
dall’istinto; quando pensò di trovarsi all’altezza degli scaffali con i
neonati storpi, sentì l’odore dell’alcol e il liquido di conserva schizzare
sulle sue scarpe.
   Poi la porta si spalancò, entrò un raggio di luce e d’istinto Sebastián
s’infilò sotto lo scaffale più vicino.
   «Forza, più luce!»
   Un grappolo di uomini superò la prima vòlta. Le armature scintil-
lavano. Sebastián si nascose ancora di più sotto lo scaffale. Mentre il

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gruppo superava la seconda vòlta, la luce si avvicinava. Anche loro
avevano un capo, un uomo con lungo mantello scuro. I soldati lo
seguirono.
    «Mio Dio, cosa c’è là davanti?»
    «Santa Vergine!…»
    «Uno sgorbio» disse la prima voce e sembrò scossa. Sebastián non
la conosceva, in compenso si rese conto di cosa fosse quel mantello
lunghissimo: la sottana di un prete. «Sua Maestà li collezionava. Credo
che ne avesse decine.»
    «Santa Vergine!…»
    «Dov’è il laboratorio segreto?»
    «Sotto all’ultima stanza, reverendo.»
    La luce scivolò lungo il nascondiglio di Sebastián, spegnendosi nel
Gabinetto delle curiosità. Quando le guardie scoprirono la botola e
illuminarono quel che c’era al di sotto, Sebastián ne udì le esclamazioni
di sorpresa o di raccapriccio e poi l’improvviso sconvolto silenzio. Il
nano sgusciò fuori dal suo nascondiglio e corse verso l’uscita il più
veloce che poteva, senza accorgersi che le lacrime gli scorrevano sul
volto e che la bocca cercava di dire parole che la sua gola deformata
non avrebbe mai saputo pronunciare; sembravano un muggito sordo
ed era anche per questo che si era guadagnato quel soprannome.
    Corse fuori lungo il corridoio, sfrecciò verso la parete di fronte,
scivolò a terra e singhiozzò. Tra le lacrime scorse una figura in abiti
gialli e rossi avvicinarsi in tutta fretta, vide un cappello a tesa larga con
le piume lunghe degli stessi colori. Non gli importava che quell’uomo
lo vedesse steso a terra a piangere; l’orrore per tutto quello a cui era
scampato per un soffio era più forte di qualsiasi altro sentimento. Si
rannicchiò desiderando di non essere più vivo.

    All’improvviso si sentì sollevare da terra; fissò il volto di un bel
giovane che spuntava dai colori vividi dell’abito e lo vide sorridere.
    «Addio, Toro» disse il giovane, e per quanto l’orrore di Sebastián
fosse già smisurato, crebbe ancora nell’udire quella voce. La riconobbe.
Pochi attimi prima le aveva sentito dire: «Uccidete quegli sgorbi!»
    Il giovane con l’abito dai colori fiammeggianti lo sollevò senza
sforzo con una sola mano. Sebastián provò a colpire con i piccoli pugni
il braccio al quale era appeso. Era come se una farfalla combattesse
contro un leone. Quando il suo avversario aprì la finestra con la mano
libera, il nano sentì penetrare il freddo di gennaio. Si udì gemere…

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…e poi di colpo si sentì privo di gravità. Una parte di sé pensò a
quanto fosse ridicolo il ricordo di quel caldo giorno d’estate: i visi
arrossati dal calore che si avvicinavano a lui e da lui si allontanavano,
la coperta che si tendeva e lo sbalzava in alto per poi riaccoglierlo
morbida, solo per ricatapultarlo di nuovo verso l’alto… il riso e gli
schiamazzi delle dame di corte che tenevano la coperta… le piccole
alucce che gli avevano attaccato sulla schiena… la camicia lunga fino
alle ginocchia, il suo unico vestito, che ogni volta che lo sbalzavano si
sollevava tra gli sghignazzi maliziosi delle dame di corte… un puttino
in carne e ossa, alto tre piedi, con una bella barbetta e i mustacchi
neri e un attributo che sarebbe stato possente anche in un uomo di
altezza normale e che era la ragione principale del suo soprannome…
gli schiamazzi intorno a lui e la paura che le donzelle ridacchianti
lo facessero cadere a terra, mista all’eccitazione di essere lanciato in
continuazione, di volare…
   Sentì un muggito e se ne stupì, poi però si accorse che era proprio
lui a provocarlo. Sorpreso, si rese conto che non c’era nulla che volesse
più che restare vivo! Udì la voce della madre: «Piccolo mio, piccola
stella!» che lo stringeva a sé, mentre le lacrime le rigavano il volto, e
lui si chiedeva perché fosse triste, era un bambino sano…
   Sentì il vento rintronare.
   Un uomo minuscolo scagliato contro la morte.

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Il cancelliere del regno Zdenek von Lobkowicz riuscì a entrare nella
Camera delle meraviglie dell’imperatore un attimo prima che i soldati
si piazzassero proprio lì davanti. Ansimava.
    In tutti quegli anni segnati dalla caduta dell’imperatore Rodolfo
e dai goffi tentativi del fratello Mattia di mettere le mani sul trono,
Zdenek von Lobkowicz aveva ricoperto la carica più importante
dell’impero. Questa esperienza gli aveva insegnato un considerevole
disprezzo nei confronti di quasi tutte le creature della corte, compresi
i signori dell’impero per presunta volontà divina. Aveva tentato di
opporsi a tale disprezzo con il massimo dell’efficienza, onde evitare
un giorno di provarlo anche mentre si guardava allo specchio.
    L’unico uomo di rango al servizio dell’impero per il quale aveva
mantenuto il rispetto era Melchior Khlesl. Anche se, in realtà, l’an-

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ziano cardinale nonché ministro era stato dall’altra parte della bar-
ricata quale sostenitore del fratello di Rodolfo, Mattia. In quella
palude di lusinghe, indolenza e millanteria la necessità obbligava i
due unici funzionari competenti a nutrire una stima reciproca, pur
essendo avversari politici.
   Accanto ai soldati c’era il gran maestro dei Crocigeri della Stella
Rossa e arcivescovo di Praga, Jan Lohelius, visibilmente nervoso:
anziché la veste ufficiale, il vecchio prelato indossava una sottana e
sembrava un grasso curato di campagna afflitto dalla gotta. Un gio-
vanotto in abiti gialli e rossi, vicino alla finestra di fronte, si appoggiò
alla parete, ostentando l’aria di superiorità tipica dei cortigiani, che
mascherano con l’arroganza la disperata dipendenza dai favori di
uno stupido funzionario o di una vecchia dama di corte a caccia di
carne fresca.
   Lobkowicz si rivolse a Lohelius. «È andata bene?» gli bisbigliò.
   Il gran maestro annuì e sembrava incapace di smettere.
   Lobkowicz si frugò nelle tasche e pescò due piccole capsule me-
talliche, da cui si stava staccando lo smalto rosso e verde. Fissò quella
verde.
   «Cancelliere…» sussurrò Lohelius.
   Lobkowicz esitò, quindi aprì la capsula ed estrasse un piccolo
rotolo di carta. Nelle ultime ore lo aveva tirato fuori, letto, rimesso
a posto e poi di nuovo tirato fuori e riletto di sicuro una dozzina di
volte, per sincerarsi che il messaggio giusto fosse nella capsula giusta.
   «Cancelliere…»
   «Che c’è, reverendo?»
   «È andata bene, ma… è successa una cosa…»
   «Cosa?» chiese Lobkowicz, mentre cercava di ficcare il rotolo
di carta nella capsula. Si rese conto che le dita gli tremavano
troppo e inveì contro se stesso. Dalla finestra che affacciava sul
giardino giunsero grida e un chiasso soffocato. «Che diavolo sta
succedendo?»
   «Io… io…» D’un tratto l’arcivescovo si sentì mancare l’aria e
dovette schiarirsi la gola. «Raccontateglielo voi, von Wallenstein.»
   Il giovanotto si avvicinò a Lobkowicz, gli prese dalle mani il rotolo
e la capsula infilandovi il messaggio con un movimento rapido. Il
cancelliere gli lanciò uno sguardo irritato, tuttavia non aprì bocca
e si riprese la capsula chiusa. Il giovanotto sorrise. I tratti del suo
volto avrebbero potuto fare da modello per la statua di un angelo,

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ma nonostante l’armonia, il candore dei denti e le sottili fossette, a
quel sorriso Lobkowicz rabbrividì. Si sentì raggelare.
   «Siete voi il responsabile… ehm…?»
   «Heinrich von Wallenstein-Dobrowitz» disse il giovane inchinan-
dosi.
   «No, erano già lì quando sono entrato con i miei uomini.»
   «La chiave alla porta era quella giusta…?»
   «Era aperto» rispose il giovane con cortesia.
   Lobkowicz si morse le labbra. «Chi sono le vittime?»
   «I nani di corte.»
   Il cancelliere restò senza parole. «A chi poteva importare di ucci-
dere quei piccoli sgor… quei giovanottini?»
   «Consideriamolo una specie di suicidio collettivo» gli disse l’altro.
«Il loro protettore, l’imperatore Rodolfo, era ormai spirato e…»
   «Alcuni sono stati fatti letteralmente a pezzi» proruppe l’arcive-
scovo. «Suicidio, von Wallenstein?»
   «Non ho detto che lo sia, ho solo detto che dovremmo considerarlo
tale. Ufficialmente, intendo dire.»
   Lobkowicz, che di fronte a questioni politiche era sempre svelto
nel capire, annuì.
   «Bene» disse. «Abbiamo già abbastanza problemi, non possiamo
certo crearcene altri per un paio di nani ammazzati.»
   «Ma chi ha lasciato aperta la porta… è stata questione di attimi
prima che arrivasse von Wallenstein. Abbiamo visto persino un vaso
rotto contenente uno di quegli sgorbi…»
   «Se solo se ne fossero rotti anche altri!»
   «Ma cancelliere, potrebbero aver rubato nella Camera delle me-
raviglie!»
   «E che cosa? Una sirena impagliata, che anche un idiota vedrebbe
che è un falso? Una noce di improbabile valore? Un distributore che
sembra mangiare perle e dopo dieci minuti te le risputa fuori?»
   L’arcivescovo Lohelius cercò le parole per ribattere. Il cancelliere
lo precedette.
   «Per quel che mi riguarda, possono aver rubato tutto là dentro.
Finché Mattia sarà imperatore, darà fuoco alla maggior parte dei
reperti, li farà gettare nei fossati e se ne sbarazzerà.»
   «I miei uomini hanno preparato il carico secondo le istruzioni» disse
Heinrich von Wallenstein-Dobrowitz, colmando il silenzio che si era
creato. «Una cassapanca senza contrassegno chiusa con una catena.»

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«Era pesante?»
    «Come una bara.»
    Lobkowicz fissò il giovane. «Un paragone di pessimo gusto.»
    Heinrich von Wallenstein-Dobrowitz allargò le mani. «Chiedo
venia.»
    «Voglio vedere la cassa.» Lobkowicz si girò e premette la capsula
verde nella mano dell’arcivescovo. «Ecco, reverendo. Mandate pure
il piccione. Sapete dove andarlo a prendere.»
    «Avete ancora bisogno di me, Eccellenza?» domandò Heinrich
von Wallenstein-Dobrowitz.
    Il cancelliere Lobkowicz scosse il capo. «Che Dio ci aiuti» disse.
«Portate qui i vostri uomini e mettiamoci una pietra sopra.» Guardò
irritato verso la finestra: «E, in nome di Dio, fate smettere il chiasso
là fuori. Verrebbe da pensare che qualcuno sia caduto dalla finestra!»

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Per chi non avesse nulla a che fare con l’Archivio segreto del Vaticano,
quel brandello di pergamena non avrebbe avuto alcun valore. Tuttavia,
una persona che negli ultimi anni non si era occupata d’altro se non
della riorganizzazione dell’archivio per volere di papa Paolo V allo
scopo di renderlo ancora più segreto, capiva subito il significato di
quei numeri in colonna: la collocazione di un documento.
   Chi non avesse passato le giornate in mezzo a trattati, testamenti e
bolle non avrebbe certo riconosciuto in quegli scarabocchi un appunto
di papa Urbano VII, morto all’improvviso nel settembre del 1590,
dopo un brevissimo pontificato di dodici giorni. Evento che di per
sé non sarebbe stato così inconsueto, se non fosse per le dicerie e i
sospetti sulle sue circostanze. Comunque sia, a tutt’oggi quel decesso
ufficialmente resta ancora un mistero.
   Quel breve appunto non poteva non saltare all’occhio di padre
Filippo Caffarelli: Reverto meus fides! Mi hai restituito la fede!
   Che cosa aveva restituito la fede a papa Urbano V? O chi?
   E la domanda ancora più importante: quel qualcuno o qualcosa
avrebbe potuto restituire la fede anche a padre Filippo?
   «Sei distratto» gli disse la ragazza dandogli un buffetto sul naso.
   «Scusa» disse padre Filippo, ricominciando a spingere. Era in-
negabile, la sua mente era altrove. Si sentì afferrare le mani dalla

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ragazza e intuì che si sarebbe fermato di nuovo, se lei non avesse
preso l’iniziativa subito dopo averlo bacchettato. La sentì ansimare.
    Chi non avrebbe perso la fede in un’epoca come quella, in cui un
arciduca cattolico si era alleato con gli Stati protestanti per strappare
il trono di Boemia al fratello, scettro che da secoli costituiva il primo
passo per la scalata alla corona imperiale? Chi non avrebbe perso la
fiducia nell’impero come forma di governo, pensando a quanto a
lungo ne avesse rappresentato la dignità Rodolfo, un eretico che aveva
rinnegato ogni religione, che nei suoi laboratori segreti conduceva
esperimenti contro natura e si era circondato di astrologi, ciarlatani
ed eretici dediti all’alchimia? E chi non avrebbe perso la fiducia nella
Chiesa, quando il suo pastore supremo non si preoccupava di riuni-
ficare la cristianità divisa, ma si dedicava solo all’Archivio segreto, al
restauro della facciata di San Pietro e alla ripartizione delle prebende
all’interno della famiglia?
    «Così non andiamo da nessuna parte» disse la ragazza, ferman-
dosi. Lasciò andare le mani di Filippo, che si allontanò in preda alla
vergogna.
    «Pensi troppo, fratellino» gli disse, spostò la zangola, afferrò il
pestello e cominciò a spingere da sola. Filippo guardò le sue mani e
restò in silenzio. «E sarà sempre peggio.»
    «Volevo aiutarti, davvero.»
    «Aiuta te stesso, e dimmi che cosa ti affligge.»
    «Hai mai sentito parlare della Bibbia del Diavolo?»
    «Sentito parlare no, ma se mi dici che esiste, ti credo. Se quello
lassù si è fatto scrivere un libro, perché non dovrebbe averlo fatto
anche quello laggiù?»
    «Vittoria, è scandaloso che in una famiglia che vanta un papa e un
cardinale ci si esprima così.»
    «È proprio in una famiglia così che impari a farlo.» Vittoria Caf-
farelli lasciò il pestello e, attraverso il sipario dei suoi lunghi capelli
sciolti, guardò Filippo, il passerotto del nido. «Soprattutto se è il car-
dinale a gestire la casa. Perché non lo domandi al nostro fratellone?»
    «Scipione?» disse Filippo, scuotendo il capo.
    «Perché è tanto importante per te questa Bibbia del Diavolo?
Anche se la trovi, sono sicura che è uno stupido falso di un qualche
monaco squattrinato e non varrà un soldo bucato.»
    «La Bibbia del Diavolo ha visto la luce quattro secoli fa. E papa
Urbano la stava cercando.»

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«Non può certo averlo fatto a lungo.»
   «Credo che, a ucciderlo, sia stata la sua ricerca.»
   «Credo che, a ucciderlo, sia stata la vista degli abissi di porcherie
che compongono gran parte del Vaticano.»
   Filippo si chiese se, ad aver avuto una sorella maggiore un pizzico
meno cinica, gli sarebbe stata risparmiata la parte dello scettico nei
confronti della Chiesa cattolica. Lui e Vittoria erano gli ultimi della
schiera dei Caffarelli. Dal momento che due figli non avevano varcato
la soglia della primissima infanzia, c’era un grosso buco d’età tra
loro e gli altri fratelli, e dal figlio maggiore, l’arcivescovo e cardinale
Scipione Caffarelli, correvano dieci anni: una grande differenza, che
magari si sarebbe anche potuta superare se solo le parti in causa si
fossero impegnate a sufficienza. Ciò non era avvenuto, e così i due
fratelli minori si erano uniti tra loro, intuendo sin da piccoli che si
sarebbero guadagnati il diritto a stare al mondo servendo gli altri.
   Vittoria era diventata la perpetua di Scipione, Filippo era un curato
senza parrocchia nella diocesi del fratello maggiore che, all’occor-
renza, lo sfruttava per qualsiasi missione, mentre lui si accattivava le
simpatie. Scipione, la grande ombra nella vita di Filippo, un fosco
monumento di fermezza di fede, bigotteria e zelo cattolico, nelle cui
tenebre fitte e gelide Filippo aveva innalzato la pira personale del
dubbio sopra la quale ardere.
   «Ho scoperto che papa Urbano era seriamente convinto di po-
ter superare le divisioni interne alla Chiesa grazie alla Bibbia del
Diavolo. Deve esserci qualcosa in quel libro che ti fa perdere ogni
dubbio…»
   «Povero fratellino mio. La fede non viene dall’esterno, e dovresti
saperlo, tu che ogni giorno ti confronti con gli insegnamenti del papa
e degli altri grandi della Chiesa.»
   Filippo si strinse nelle spalle. Non aveva abbastanza fiducia nean-
che nella sorella per confidarle che nella sua anima, là dove avrebbe
dovuto trovarsi la fede, in realtà c’era una voragine profonda. Nel
suo cuore non c’era nient’altro che oscurità. Una voragine simile
reclamava solo di essere colmata.
   «Che altro hai scoperto?»
   «Che i protocolli sulla morte di papa Urbano sono discordanti.
Oltre a questo… niente.»
   «Cosa dicono i protocolli della Guardia svizzera?»
   Filippo fissò Vittoria.

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«La Guardia svizzera» ripeté Vittoria. «Hai presente? Quei tizi che
sembrano pavoni, con le lunghe alabarde e quell’orribile accento.»
    «Vittoria!» Filippo odiava essere il bersaglio del suo cinismo. Lei
si schiarì la voce e riafferrò il pestello.
    «Quelli sanno tutto» disse al ritmo del pestello. «Ma non gli caverai
niente. Parlano solo sotto torchio.»
    «E come faccio a mettere sotto torchio la Guardia svizzera?»
    «Tutti hanno uno scheletro nell’armadio.»
    «Non la Guardia svizzera.»
    «Lo vedi che hai già trovato un punto dolente?»
    Filippo le diede un bacio in fronte. «Ma perché sgobbi e cucini
per quel maledetto di nostro fratello?» chiese. «Sei la più intelligente
di tutti noi.»
    Vittoria lo guardò amorevolmente. «Troppe volte ho assistito alla
recita che Scipione interpreta con te» rispose lei, carezzandogli la
guancia. «La recita della fede. Lo sai, no?»
    «Sì» disse Filippo soffocato.
    «Un giorno» disse lei, «troverò il coraggio di aggiungere al suo
pastone una libbra di veleno per topi. È l’unica ragione per cui cucino
e sgobbo per lui.»

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