La Crisi della Grecia è la Crisi dell'Europa? - di Umberto Triulzi - EDITORIALE - 29 LUGLIO 2015

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EDITORIALE – 29 LUGLIO 2015

La Crisi della Grecia è la Crisi
         dell’Europa?

          di Umberto Triulzi
    Professore ordinario di Politica economica
         Sapienza – Università di Roma
La Crisi della Grecia è la Crisi
                     dell’Europa?

                                   di Umberto Triulzi
                         Professore ordinario di Politica economica
                              Sapienza – Università di Roma

Nei numerosi articoli apparsi di recente sulla stampa nazionale e estera in riferimento alla crisi
della Grecia due, a cura di Joseph Stiglitz, il primo dal titolo “La Grecia può salvare l’Europa” (in
Sbilanciamoci, 02.03.2015) e il secondo “The US Must Save Greece” apparso 4 mesi dopo (in Ideas
World Affaires, 09.07.2015), hanno attirato la mia attenzione. Le idee di alcuni Premi Nobel
dell’economia americani sull’euro (Friedman, Krugman, Stiglitz, Mirrless) sono note e non c’è
molto da aggiungere. L’Euro è una moneta unica inadatta all’Europa, un progetto incompleto e
fragile che crea problemi e sfiducia tra i paesi che lo hanno adottato, come il caso della Grecia ha
dimostrato. Nel primo articolo, Stiglitz sostiene l’idea che il vero problema non è la Grecia, ma
l’Europa. Se si vuole salvare l’euro la priorità è qualcosa di più della riforma strutturale da avviare
nei Paese membri. E’ l’Europa che deve cogliere l’occasione della crisi della Grecia per introdurre
le riforme strutturali dell’eurozona e per invertire le politiche di austerity sin qui perseguite. Solo
in questo modo, è il senso del titolo scelto dall’autore, la Grecia diventa l’elemento salvifico
dell’Unione europea. Nell’articolo successivo, apparso dopo il referendum del 5 luglio e le
estenuanti trattative intercorse nelle riunioni formali ed informali del Consiglio Europeo,
dell’Euro Summit, dei Ministri delle Finanze dell’Eurogruppo, resesi necessarie per concordare
con la Grecia il terzo programma di aiuti, i timori derivanti dall’insufficienza della soluzione
adottata per la ristrutturazione del debito greco, unitamente al clima di sfiducia emerso non solo
nei confronti della Grecia ma tra i gli stessi partecipanti alle riunioni dell’Eurogruppo divisi tra
sostenitori della flessibilità e rigoristi, devono averlo indotto a ritenere che perseguendo su questa
strada la Grecia non si salverà. Di qui l’invito rivolto agli Stati Uniti, ed in particolare alla Federal
Reserve, perché attivi linee di credito a favore della Banca centrale greca, svolgendo il ruolo di
prestatore di ultima istanza che la BCE non ha potuto assumere, e ai concittadini americani

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perché dimostrino solidarietà verso la Grecia comprando i suoi prodotti e andando in vacanza
nelle sue isole.
Non è, dunque, l’Europa che salverà la Grecia ma, come accaduto già con il Piano Marshall e con
la cancellazione di metà del debito della Germania decisa nel 1953, è agli Stati Uniti che si
domanda di salvare la Grecia. Non sappiamo se le autorità americane seguiranno il consiglio di
Stiglitz ma vale la pena di soffermare l’attenzione, considerato il prestigio e l’autorevolezza di cui
gode il premio Nobel americano, su quanto da lui sostenuto.
Partiamo dalla Grecia. Non tutta l’Europa, ma certamente la maggioranza della sua popolazione,
ritiene che il deterioramento della situazione economica e finanziaria della Grecia poteva essere
evitato, almeno in parte, qualora fossero stati introdotti da subito, a partire dal 2010, al momento
dell’attivazione del primo programma di assistenza finanziaria per 110 miliardi di euro, e
successivamente nel 2012 con il secondo programma per 130 miliardi di euro, non solo tagli alla
spesa pubblica e misure di austerità per il contenimento del debito ma anche misure per favorire
la ripresa della crescita economica. La ricetta proposta dal terzo piano di sostegno della Grecia,
che prevede aiuti per 86 miliardi di lire erogati dal fondo salva stati in tre anni, non si discosta dai
programmi precedenti. La Grecia, per accedere alle risorse che verranno utilizzate per restituire i
prestiti ottenuti dal FMI e dalla Bce (23,5 miliardi di euro), per ricapitalizzare le banche greche
(25 miliardi) e per finanziare investimenti nell’economia greca (35 miliardi), si impegna ad
approvare in tempi brevi un piano di riforme radicali che prevede la modifica delle aliquote Iva, la
riforma del sistema pensionistico, un aumento della tassazione per alcune categorie particolari
(armatori e isole) ed altre riforme che riguardano il codice civile, l'implementazione della direttiva
sulla risoluzione delle banche e tagli alle spese militari. Non sappiamo se la debole maggioranza
che sostiene il governo di Tsipras saprà fare fronte, non tanto al via libera da ottenere in
Parlamento per l’approvazione delle riforme richieste dai creditori - ad oggi risultano approvati i
primi due pacchetti di riforma - quanto alle pesanti conseguenze che deriveranno per i cittadini e
per le imprese greche dall’introduzione di queste riforme e, quindi, alle manifestazioni che
seguiranno da parte di quanti, sindacati, partiti estremisti, movimenti nazionalistici si oppongono
con forza al nuovo piano di salvataggio. Quello che sappiamo, perché ce lo racconta la storia di
paesi che hanno vissuto le stesse difficoltà della Grecia, è che l’austerità non paga e che i tagli
imposti allo Stato, ai consumatori e alle imprese finiscono con il generare una spirale recessiva
che non lascia spazi di manovra né tempi sufficienti per realizzare le riforme promesse e
promuovere gli investimenti necessari ad accrescere la competitività del paese.

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Un solo dato può servire ad evidenziare l’insuccesso delle politiche economiche perseguite in
questi anni dalla Trojka: nel 2009 il debito pubblico greco era il 126 per cento del PIL; nel 2014 il
debito, a seguito della contrazione intervenuta nella domanda aggregata e nonostante i prestiti
erogati, è salito al 172 per cento. Il Pil negli ultimi sei anni si è contratto del 25 per cento. Per il
2015, dopo i primi segnali positivi registrati negli ultimi mesi del 2014, le previsioni indicano un
ritorno alla recessione (-3%), mentre il debito pubblico, secondo le previsioni del FMI, dovrebbe
salire al 200 per cento del Pil.
E’ possibile che la Grecia si salvi nonostante i sacrifici imposti e l’accordo raggiunto sul terzo
piano di aiuti ? Se si considera che il paese ha la disoccupazione più elevata in Europa (25 per
cento), paga ancora tassi di interesse del 6,9 per cento sui titoli del debito pubblico di lungo
periodo, registra una evasione fiscale ancora molto elevata, vede la presenza di una economia
sommersa che si attesta al 27,5 per cento del Pil (il valore più alto dell’Eurozona), ha una
pubblica amministrazione complessivamente poco efficiente e pochi settori competitivi, la
risposta è decisamente negativa. La Grecia si troverà presto, anche per il clima di sfiducia che si è
generato nel paese e che ha portato al prosciugamento dei depositi bancari e ad una fuga di
capitali che ha superato a fine del 2014 i 35 miliardi di euro, in una situazione in cui dovrà
ricorrere ad ulteriori crediti per fare fronte agli impegni (di restituzione dei prestiti, di
ricapitalizzazione delle banche, di lotta all’evasione fiscale ecc.) che non è in grado di mantenere.
Due ulteriori riflessioni possono essere aggiunte sul perché del fallimenti dei programmi di
assistenza. La prima riflessione riguarda le risorse effettivamente trasferite attraverso i piani di
assistenza ai cittadini e alle imprese greche. Sulla base delle informazioni disponibili, non sempre
sufficienti a chiarire la destinazione presa dai finanziamenti ricevuti attraverso i programmi
finanziari, solo la metà dei 110 miliardi di euro ottenuti dal primo programma di assistenza
finanziaria, o qualcosa di più secondo i calcoli di alcuni economisti, sarebbe andata alle banche e
al governo greco, mentre la frazione restante è andata a ripagare i creditori esteri
(prevalentemente le banche più esposte nei confronti della Grecia, quelle tedesche e francesi).
Quello che è certo è che il primo piano di salvataggio è stato utilizzato, come sostiene il
responsabile del Centro Studi del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard, oltre che a
pagare interessi e capitali ai creditori a breve termine, anche per sostituire il debito privato, che
per la maggiore parte era ancora in mani delle banche (e delle imprese) greche, con debito
pubblico. Quanto al secondo programma, resosi necessario per fare fronte ad una situazione
finanziaria e sociale (le proteste di piazza contro i tagli alla spesa pubblica) che non andava
migliorando, e nonostante l’imposizione nel 2012 di un programma di ristrutturazione del debito

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concordato dal nuovo governo di Samaras con l’Europa e che porterà ad un taglio (haircut) di
oltre il 60 per cento del suo valore nominale, gli obiettivi di rimettere in ordine i conti pubblici
attraverso severe misure fiscali e fare ripartire l’economia greca non sono stati raggiunti. E’ vero
che il sacrificio imposto alle banche greche (e ai loro clienti) con il taglio del debito pubblico, per
un importo pari a oltre 20 miliardi di euro, è stato in parte compensato dal ricorso del governo
greco alle risorse del fondo salva stati (Efsf), ma è anche vero che queste risorse solo in parte si
sono trasformate in aiuti finanziari all’economia e alle imprese. Se si vuole evitare il default
sovrano della Grecia e consentirle di uscire dalla crisi occorre non solo scadenzare il pagamento
del debito su un periodo temporale più lungo rispetto a quanto oggi concordato con i creditori,
ma procedere ad attivare l’unica misura realmente efficace, ma sino ad ora ostentatamente negata
dai paesi più rigidi nell’interpretazione delle regole dell’UEM: una riduzione del suo debito. La
parziale cancellazione del debito, se pure condizionata alla realizzazione delle riforme necessarie a
ridurre il gap di competitività della Grecia rispetto ai paesi dell’Eurozona, è la misura più urgente
da attivare se si vuole dare alla Grecia la possibilità di uscire dalla spirale della crisi debitoria
evitando di chiedere nuovi prestiti, ricapitalizzare un sistema bancario che deve tornare a fornire
crediti al sistema produttivo, liberalizzare il mercato dei beni e del lavoro, ridurre gli squilibri
commerciali. Negare, come ha fatto in particolare la Germania, ma anche altri paesi creditori, la
riduzione del debito greco, nel timore che questa stessa politica possa essere richiesta da altri
Paesi dell’euro per alleggerire il peso del loro debito, non farà che aggravare la situazione della
Grecia e accrescere il rischio di un suo default.
La seconda riflessione riguarda il comportamento dell’Europa. Ha ragione Stiglitz quando,
comparando i dati economici degli Stati Uniti rispetto a quelli dell’Europa, afferma che la gran
parte dei paesi dell’UE evidenzia un Pil pro-capite inferiore a quello registrato nel periodo
precedente la crisi. L’Europa ha perduto, in termini di crescita e fatte salve poche eccezioni, un
intero decennio e non per errori altrui ma per decisioni sbagliate di politica economica. L’Euro
avrebbe dovuto unire l’Europa ed invece ha accentuato la divisione tra i paesi più forti e quelli
più deboli, tra quelli che per restare, come Grecia, Spagna, Portogallo e Italia, devono accettare
un prezzo salato dato da alti tassi di disoccupazione, caduta della domanda interna, deflazione
salariale, squilibri commerciali e quelli che, avendo sistemi economici più competitivi e istituzioni
più efficienti, sono, al contrario, in grado di trarre vantaggi dalla moneta unica. Come uscire da
tale situazione? La risposta, data da Stiglitz nel primo articolo, ma anche da molti economisti
europei, è portare a termine la costruzione dell’euro, un obiettivo che richiede, oltre all’unione
bancaria già avviata, l’attuazione di una politica fiscale unica, l’avvio di politiche comuni nei

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settori strategici per la competitività europea (energia, industria, ambiente, ricerca ed innovazione,
infrastrutture, istruzione e formazione), la costruzione di un bilancio unico dell’Eurozona per la
condivisione dei debiti e dei crediti. In sostanza, un obiettivo certamente necessario ma che
impegna i paesi membri, oggi divisi su molte questioni, ad attivare un articolato programma di
riforme strutturali dell’UEM e una vera rivoluzione culturale, oltre che politica, nella governance
economica e monetaria dell’euro.
Relativamente al secondo articolo, le idee espresse da Stiglitz non appaiono assolutamente
sufficienti a ristabilire condizioni di sostenibilità della crisi greca. Gli Stati Uniti possono
certamente contribuire, attraverso la Fed, il turismo americano ed il consumo di prodotti greci, a
sostenere la fragile economia di questo paese, e altrettanta solidarietà e vicinanza nei riguardi della
Grecia ci auguriamo possa essere manifestata da altri Stati europei e non europei. Non sono
questi, tuttavia, gli interventi che, se pure auspicabili, salveranno la Grecia e l’Europa. La crisi ha
imposto costi altissimi ai greci e se vogliamo trarre una lezione da quanto accaduto dobbiamo
renderci conto che l’Europa, e non solo la Grecia, si salva se si recuperano due condizioni
essenziali per la sua esistenza. La prima condizione consiste nel riattivare la fiducia tra i paesi
membri e tra gli stessi cittadini dell’Unione europea ricostruendo il senso di appartenenza e di
condivisione di valori in una comunità che sa esprimere solidarietà nei confronti di chi si trovi in
difficoltà e sa come intervenire per aiutare le economie più fragili nell’attuare le riforme di cui
hanno bisogno. Così non è stato per la Grecia ed è chiaro, e lo dicono i documenti ufficiali
emessi dalle stesse Istituzioni europee al termine delle drammatiche riunioni che hanno portato
all’accordo sul terzo piano di aiuti, che la sfiducia, già manifestatasi con il forte astensionismo
registrato nelle ultime elezione del Parlamento europeo, è andata aumentando e nessuno sa
quanto tempo occorrerà per ricostituire un clima più costruttivo all’interno dell’Unione. Le
difficoltà provocate dalla crisi finanziaria ed economica hanno fatto emergere un clima
fortemente inquinato dall’antieuropeismo, da partiti e movimenti populisti contrari
all’integrazione europea e che renderanno più difficile trovare il consenso necessario per
recuperare il tempo perduto e per realizzare le riforme attese.
La seconda condizione è, per certi versi, ancora più complessa perché interessa l’architettura
stessa delle Istituzioni europee, così come definita dai Trattati, e le regole che ne sono alla base,
con particolare riguardo a quelle previste per l’Eurozona. Credo vi sia un sostanziale accordo,
anche in ambiti disciplinari diversi, sulla necessità di superare le attuali carenze istituzionali e di
governance dell’euro. Meno evidente, in assenza per ora di una tabella di marcia ben definita nei
tempi e nelle modalità di attuazione approvata dai paesi dell’UEM, è la condivisione della strada

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da percorrere per completare l’euro e realizzare le riforme necessarie. Muovere in questa
direzione significa, infatti, realizzare interventi che richiedono procedure diverse di revisione dei
Trattati. In alcuni casi, come per l’unione bancaria da completare con il meccanismo di
risoluzione unico (affiancato da un fondo finanziato dai contributi del settore bancario per la
risoluzione delle banche in dissesto) e con il meccanismo di ricapitalizzazione (Esm), o nel caso
dell’armonizzazione fiscale delle imposte per le imprese, gli interventi possono essere realizzati a
legislazione attuale invariata. Per altri interventi, quali quelli che si rendono necessari per dare alla
Bce la stessa autonomia della Fed o di altri importanti istituti di emissione nella gestione delle
situazioni di emergenza, per attribuire risorse proprie all’eurozona, per costruire una politica
economica comune nei settori di interesse dell’UE, per attivare l’unione fiscale ed infine dare un
“sovrano” alla moneta unica, cioè iniziare a costruire una identità politica di riferimento per
l’euro, come auspicava Tommaso Padova Schioppa, sono necessarie modifiche sostanziali dei
Trattati che necessitano di tempi più lunghi e molte resistenze da superare.
L’Europa si salva se procede su più fronti iniziando a ricomporre le divisioni e le fratture che si
sono create negli ultimi tempi a causa della crisi greca; garantendo ai paesi membri dell’euro,
come suggerisce il CESE (ECO/376 Completare l’UEM: il pilastro politico, 27 maggio 2015),
“non solo la stabilità ma anche lo sviluppo e la prosperità” e convincendoli che è più conveniente
restare che uscirne; ridefinendo le competenze e le funzioni delle Istituzioni europee dando anche
maggiori poteri al PE (ed in particolare ai parlamentari dell’eurozona sulle materie di competenza
delle’UEM); rafforzando il ruolo del Consiglio e della Commissione, le istituzioni rappresentative
degli interessi degli Stati membri e delle funzioni organizzative dell’Unione che sono risultate
maggiormente assenti, insieme al PE, nelle trattative condotte con la Grecia. I molti
commentatori che prevedevano che l’euro non sarebbe sopravvissuto a situazioni di crisi e che
consigliavano ai paesi più deboli di abbandonare la moneta unica sono stati per ora smentiti dai
fatti. Sarebbe, tuttavia, da irresponsabili pensare, per l’assenza di coraggio e scarsa lungimiranza
dei nostri leader politici, di lasciare immutate le regole attuali. Senza attivare gli interventi di cui si
è parlato per riformare la governance dell’UE e dell’Eurozona, il processo di integrazione
europeo, così come lo abbiamo conosciuto e come si è sviluppato nell’arco di 57 anni, non
appare più sostenibile.

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