La costruzione del decoro urbano a Pisa tra Cinquecento e Seicento
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La costruzione del decoro urbano a Pisa tra Cinquecento e Seicento Laura Benassi LA LEGISLAZIONE GRANDUCALE IN MATERIA DI EDILIZIA TRA XVI E XVII SECOLO E LA SUA APPLICAZIONE NELLA CITTÀ DI PISA Nel 1550 il Granduca di Toscana Cosimo I emana una legge «in commodo di quelli che volessino edificare per tutto il suo felice stato»1. L’intento è quello di rinnovare l’edilizia pubblica e privata del Granducato, dando un’immagine nuova alla città e attribuendo ai suoi spazi funzioni diverse. Con queste disposizioni, relative a tutto il dominio, ossia a tutto il ‘felice stato’, si sostituiscono in parte le antiche norme statutarie comunali relative all’attività edilizia. Gli studi della Romby sostengono che la legge granducale ricalchi, in maniera maggiormente articolata, il capitolo «De ædificis privatis» delle nuove costituzioni milanesi, redatto nel 1542 e promulgato dal governo spagnolo2. Il confronto con la situazione milanese aiuta a chiarire il percorso attraverso cui una legge governativa sul decoro della città viene promulgata e recepita. È interessante osservare come sia a Milano che a Firenze queste leggi stimolino l’iniziativa privata. La legge sull’edilizia non è certamente una novità; a Milano viene ripresa infatti da un decreto di Ludovico il Moro del 1493 sull’esproprio di beni privati per motivi di pubblica utilità. Nonostante l’opportunità di acquisire i beni contermini e realizzare palazzi signorili con ampie facciate, alla metà del XVI secolo, la città lombarda risulta ancora «mal fabbricata»3 e il suo aspetto non è certo decoroso. Il contributo dell’edilizia privata viene incoraggiato dal Nuovo Capitolo delle Costituzioni, che impone la vendita degli immobili espropriati al prezzo di stima maggiorato di un quarto. Queste condizioni consentono l’accorpamento di lotti contigui e la realizzazione di palazzi dalle facciate ampie e ritenute maggiormente decorose. Nella città lombarda, come a Firenze, non si hanno quasi mai costruzioni ex novo, ma piuttosto ricostruzioni risultanti dall’accorpamento di più lotti, spesso irregolari. A Milano i palazzi più importanti si distribuiscono lungo alcune strade, lontane dai centri produttivi e dalle abitazioni dei ceti borghesi. Le disposizioni granducali per Firenze partono da presupposti simili, ma accrescono gli obblighi relativi ai termini dell’esproprio per chi ha intenzione di costruire. Il grande proprietario può acquistare ed espropriare gli immobili contigui, rimanendo obbligato a costruire un fabbricato in grado di accrescere il prestigio e il decoro della città. Si tende dunque a favorire quei gruppi nobiliari che dispongono delle risorse economiche necessarie e che partecipano attivamente, con funzioni varie, al governo granducale. Il fenomeno è confermato dalle carte d’archivio e dalle cronache locali. Ad esempio il Setaioli, cronista pisano, riferisce nel XVII secolo: «[il Granduca] dette inoltre una facoltà che chi voleva fabbricare di lungo Arno potessi comprare benché li padroni ostassero pagando però il 1 L. CANTINI, Legislazione toscana raccolta e illustrata da L.Cantini, Firenze 1800-1808, vol. II, 28 gennaio 1550, pp.194-197. 2 G.C. ROMBY, La costruzione dell’architettura nel Cinquecento. Leggi, regolamenti, modelli, realizzazioni, Firenze, Alinea 1982, pp.81-105 e L. GIACOMINI, Il contributo dell’edilizia privata al decoro e alla magnificenza della città. Il caso di Milano nel periodo borromaico, in Patrimoni e trasformazioni urbane, II congresso dell’Aisu, (Roma 2004), risorsa internet: http://www.storiaurbana.it. 3 L. GIACOMINI, Il contributo dell’edilizia privata, op. cit., p.1. 1
giusto e quando vedeva che uno havessi fatto qualche bella facciata lo chiamava a sé e diceva che haveva hauto caro che s’abbellisse la città e alcune volte regalavali di cacciagione o altre galanterie»4. La legge emanata da Cosimo I definisce chiaramente i termini dell’intera operazione: il compratore può acquisire i beni valutati oltre i 500 scudi d’oro e rimane obbligato a «spendere in quello edifitio che essi vorranno fare per ognuno, dieci della stima della casa che essi vorranno comperare, talchè l’effetto sia che, valendo la casa che si domanderà vendersi loro 100, essi siano obligati spendere nello edifitio e reformatione di edifitio che essi vorranno fare almeno 1.000…»5. In pratica il compratore che acquisti una casa per 100 scudi rimane obbligato a spendere per risistemarla una cifra superiore di dieci volte e a versare al venditore una cifra pari al 10% per l’incomodo che ne riceve. L’intento è quello di realizzare ampliamenti planimetrici con lunghi prospetti sulle strade principali, abbandonando il modo di costruire medievale caratterizzato da stretto fronte sulla strada, estensione in profondità e sviluppo verticale. Si abbassano le torri medievali e si costruiscono nuovi palazzi, assai articolati nell’estensione planimetrica e abbelliti con elementi decorativi, spesso ripetuti, come cornici, timpani, mensole, statue o decorazioni pittoriche. Il palazzo Medici posto sul Lungarno, accanto al monastero di San Matteo, è uno dei primi esempi di architettura residenziale ad essere ristrutturato con evidenti richiami allo stile fiorentino, importato dagli stessi architetti inviati dal Granduca. Nel 1547 Giovan Battista del Tasso viene incaricato da Cosimo I di occuparsi del progetto. Figlio di un intagliatore di legno, intagliatore lui stesso a servizio della famiglia medicea, amico del Cellini, del Pontormo e del Vasari, conquista il favore di Cosimo e diviene “architettore di palazzo”. I suoi contemporanei, soprattutto Vasari e il Tribolo, disapprovano la scelta di trasformarsi in architetto, non avendo egli le competenze per farlo6. Nello stesso anno, 1547, Cosimo gli affida la ristrutturazione del palazzo pisano, ma i lavori vengono avviati solo nel 1550. Il 20 febbraio 1550 viene stipulata una convenzione tra Luca Martini, ingegnere dell’Ufficio dei fossi di Pisa e alcuni scalpellini di Settignano. La convenzione, documento inedito rinvenuto tra le carte dell’archivio Guidi7, specifica le caratteristiche che dovrà avere l’immobile mediceo, fornendo una descrizione inedita del palazzo. Il progetto prevede che la facciata sia composta da bozze spianate e subbiate nei pilastri, negli archi e nei cantoni e da marmi spianati nelle parti piene dell’edificio, “dalla prima cornice in su fino al tetto nel medesimo modo e dei medesimi marmi”. Per il rivestimento della muratura la convenzione avanza un preciso confronto: “la pelle di fuori sia lavorata nel modo di quella del Campo Santo di Pisa”, utilizzando una tecnica di posa in opera perfetta. Il Campo Santo è un’opera monumentale a cui la città riconosce una certa sacralità in nome della sua funzione rappresentativa8. Il richiamo quindi è calzante, specialmente se rapportato al tipo di politica che Cosimo stava portando 4 ARCHIVIO DI STATO DI PISA (ASPI), Miscellanea di manoscritti di proprietà privata, 4, Notizie istoriche della città di Pisa di Giuseppe Setaioli, c.70. 5 L. CANTINI, Legislazione toscana, op. cit., pp.194-197. 6 Le critiche che vengono mosse al Tasso si riferiscono soprattutto alla costruzione della Loggia di Mercato a Firenze, che Cosimo aveva commissionato nel 1547; secondo il Tribolo il progetto è debole sul piano strutturale. Cfr. G. VASARI, Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architetti, Firenze 1568, vol.V, p.223. 7 ARCHIVIO DI STATO DI FIRENZE (ASFI), Fondo Guidi, 1063, foglio sciolto. Gli scalpellini nominati nella convenzione sono Maestro Michele di Gherardo, Maestro Annibale di Ottaviano e Maestro Giovanni di Bartolomeo “tutti scalpellini da Settignano”: 8 In più occasioni vengono attuate dagli organi cittadini speciali forme di tutela nei confronti di questo edificio. Nel corso del Cinquecento il Campo Santo diviene un luogo privilegiato di sepoltura per i membri della famiglia medicea e, al tempo stesso, riveste la funzione di contenitore delle memorie pisane, relative soprattutto al periodo repubblicano della città. Nel 1605, di fronte alla richiesta di alcuni cittadini di costruire un muro per recintare un pezzo di prato tra il Camposanto e il canto delle mura del Leone, i commissari dell’Ufficio dei Fossi inviano una lettera in cui chiedono di negare il permesso “per quel che gli si leverebbe di bellezza e di vaghezza, oltre ad assoggettare il suo muro a chiusa d’orto”. ASPI, Fiumi e fossi, 74, c.2203r. 2
avanti proprio nella città pisana. Fallita per motivi economici la convenzione con gli scalpellini fiorentini, nel 1551 Luca Martini si rivolge agli scalpellini di Carrara per acquistare i marmi per le finestre inginocchiate9. Questo elemento architettonico è un evidente richiamo al linguaggio fiorentino elaborato da Michelangelo, con cui il Tasso aveva avuto stretti rapporti in qualità di intagliatore10. La convenzione, ripresa nel 1562 dal nuovo architetto del palazzo, Baccio Bandinelli, diviene uno strumento interessante di comprensione sia delle forme scelte per la residenza del nuovo potere, sia per i richiami ideologici a cui Cosimo evidentemente si ispira. L’esempio del palazzo mediceo e la stessa legge emanata da Cosimo I in quegli anni non si dimostrano sufficienti però per attivare nuovi cantieri di restauro delle proprietà private. Soltanto nell’ultimo quarto del XVI secolo, contemporaneamente alla costruzione del nuovo palazzo granducale voluto da Francesco I e costruito su disegno del Buontalenti, si svilupperanno le condizioni più adatte, anche economiche, per affrontare l’impegno di una ristrutturazione edilizia della città da parte dei proprietari più facoltosi. La legge del ‘commodo’ impone a chi vuole edificare o ampliare la propria abitazione di acquistare tutto il bene contermine, e non solo la parte strettamente necessaria alla costruzione e prevede la sistemazione a giardino degli spazi rimasti inedificati. Un primo caso di applicazione della legge risale al 1610, quando Pietro Rosselmini, patrizio pisano, «che ha fatto nobile facciata alla casa dove habita in via Santa Maria appresso e dicontro al convento di San Nicola», chiede al Granduca di poter acquistare un biscanto di un orto di proprietà della Pia Casa di Misericordia per riquadrare il giardino. Pietro Rosselmini ha speso nella nuova fabbrica una cifra considerevole, pari a duemila scudi; inoltre l’acquisto darebbe bellezza sia al giardino che all’orto della Pia Casa di Misericordia, ottenendo due spazi messi «in quadro»11. Il Granduca acconsente. La decisione è normativa; nonostante l’inalienabilità del bene si accorda il permesso al privato, che appartiene ad un’importante famiglia nobiliare, perché si realizzi un nuovo edificio e un giardino regolare. La legge del ‘commodo’ diviene uno strumento utile per agevolare sia il decoro urbano pubblico, rappresentato dalla facciata, sia il ‘commodo’ privato, ossia il giardino. Un secondo caso di applicazione di questa legge in area pisana è quello del palazzo Lanfreducci. Già prima del 1607, data incisa sul retro dello stemma di famiglia apposto sulla facciata, si stava progettando di realizzare la «bella fabbrica» sul Lungarno. Committente è Francesco (1538-1614)12, cavaliere di Malta, priore di Ungheria e di Pavia. Ma l’erezione dell’edificio e l’annessione di alcuni immobili adiacenti non avviene senza che ne nascano dispute con i confinanti più illustri, tra cui un membro della famiglia Roncioni. Alcune carte, presenti nell’archivio di famiglia, permettono di ricostruire l’intera vicenda, che è interessante non solo ai fini della storia dell’edificazione del palazzo e della ricostruzione delle vicende familiari, ma anche per la migliore e più articolata comprensione dell’applicazione delle norme edilizie e urbanistiche. Il commissario della città Lorenzo Gondi descrive la vicenda: la famiglia Lanfreducci ha «aggregato alla Nobile fabbrica sua» la casa di Francesca Roncioni, moglie di Niccolò Raù, acquistandola per un 9 Sui rapporti tra Firenze e Carrara per l’acquisto dei marmi nel XVI secolo, cfr. P. PIEROTTI, La Valle dei marmi, Pisa, Pacini, 1995. 10 Del Tasso aveva infatti realizzato i soffitti della Biblioteca Laurenziana basandosi sui progetti di Michelangelo. 11 ASPI, Fiumi e fossi, 308, n.14. I commissari dell’Ufficio dei Fossi effettuano un sopralluogo ed esprimono il parere che la vendita non darà incomodo al pio istituto. Poiché l’orto costituisce un lascito inalienabile di Ruberto Alberti alla Pia Casa di Misericordia, occorre l’approvazione granducale per svincolare il bene. L’affare è corredato da uno schizzo illustrativo e fornisce alcune informazioni utili ad agevolare la decisione del Granduca. 12 Biblioteca Universitaria Pisana (BUPi), ms. 589, Memorie storiche di più uomini illustri pisani descritte dal canonico Giuseppe Sainati, 1790-1792. 3
prezzo inadeguato. La Granduchessa Cristina, chiamata a dirimere la questione, risponde al Gondi che «per allargare la fabbrica» il Lanfreducci aveva cercato di comprare per il «giusto prezzo» una parte della casa Raù, ma la famiglia si era opposta. La Granduchessa invia alcuni periti a stimare l’immobile: tremila scudi per il costo della casa e trecento per il «comodo» che riceve la famiglia Lanfreducci e per l’«incomodo che ne patiscono i venditori», corrispondente alla tassa del 10% sul costo dell’immobile. Così stabilisce la granduchessa, riprendendo le disposizioni stabilite dalla legge del 1550. Ma Lanfreducci, basandosi su alcune vendite di immobili già avvenute in città, ritiene che la stima, che egli ha fatto verificare da alcuni suoi periti, sia eccessiva, il doppio di quella reale. Scrive dunque alla granduchessa per sottolineare che l’affare non serve per ingrandire la sua dimora, bensì per isolarla e riportarla al suo stato originario («quello che fu strada una volta tornasse strada»). Tutto è stato fatto non per ricevere un ‘comodo’, ma «per semplice abbellimento che piaceva al Serenissimo Granduca mio Signore, et a tutta la Città»13. È interessante osservare come, per evitare l’applicazione della legge, si tenti frequentemente di nascondere il vantaggio privato dietro la convenienza del decoro urbano. Nascono piccole guerre d’interesse che si manifestano in una serie di botta e risposta. Il contrasto deriva dal tentativo di mettere d’accordo comodo privato e utilità pubblica. Inizialmente, poiché nessuna parte rimane soddisfatta, Lanfreducci rinuncia all’idea. In un secondo momento però, complice il ruolo politico ed economico che riveste e gli stretti rapporti che intrattiene con la corte medicea, Lanfreducci ottiene quel che vuole14. Nel carteggio con il Granduca, il nobiluomo rimarca il fatto che il suo intervento non è un semplice fatto privato, ma un abbellimento e un miglioramento per l’intera città che, in quel periodo, effettivamente, sta producendo sforzi enormi per rinnovare la propria veste urbana. Il comodo privato di Lanfreducci prevale sul quello della famiglia Roncioni-Raù perché, con la concessione al primo, si ottiene un miglioramento del decoro pubblico. Per lo stesso motivo, nel 1607, Lanfreducci otterrà una parte di strada posta dietro la sua dimora verso la Sapienza per «riquadrare il cortile della fabbrica nuovamente disegnata»15, segno del favore che il Granduca continua ad accordare alla famiglia e del successo della sua impostazione politica. Insieme alla ricostruzione dei palazzi, viene attuato il processo di allontanamento dei mestieri dalle strade di rappresentanza e di riqualificazione dei quartieri sulla base delle nuove esigenze di decoro urbano. Per agevolare questa situazione, si garantisce nel testo legislativo del 1550 la possibilità di espropriare le botteghe, indipendentemente dal loro valore, per realizzare un duplice obiettivo: il miglioramento dell’intero immobile e l’allontanamento dei mestieri dallo stesso. Nel 1624 l’Ufficio dei fossi respinge la richiesta di Francesco da Paule di far esercitare il mestiere del maniscalco in una bottega di sua proprietà posta in via San Martino. La motivazione che accompagna il rifiuto esplicita il formarsi di percorsi privilegiati all’interno della città: la strada è «principale e la più frequentata, e nel più bello e conversevol luogo e adorno delle più belle e intese fabbriche di questa città»16. La motivazione, presenza di belle fabbriche e luogo di passeggio, è sufficiente per respingere la richiesta che avrebbe portato all’insediamento di un mestiere rumoroso in un luogo destinato alla residenza e al passeggio delle famiglie nobiliari pisane. 13 ASPI, Rasponi dalle Teste, 1, c.33r. 14 Inizialmente Lanfreducci chiede di poter terminare la sua casa «secondo il modello fatto, poco importando a me che la fabbrica resti mancina». In un secondo momento, chiede invece che si riapra il chiasso «da pagarsi secondo la stima di due Amicj Comuni» e «dovendosi anche comprare tutta la Casa si tenga il medesimo stile senza però pagarne comodo alcuno poichè non è suo comodo, ma mero capriccio di chi ha attraversato il gusto del Serenissimo Gran Duca mio Signore al quale et a Vostra Altezza Serenissima resto obbligatissimo di tanti favori che mi fanno». Cfr. ASPI, Rasponi dalle Teste, 1, c. 34r. 15 ASPI, Fiumi e fossi, 76, c.319r. 16 ASPI, Fiumi e fossi, 308, ins.165. 4
L’APPLICAZIONE DELLA LEGGE DEL 1571 SUGLI STEMMI E LE ISCRIZIONI NEL TERRITORIO PISANO Nel 1571 Cosimo I emana una nuova legge «contra a chi rimovesse o violasse armi, inscrizioni e memorie esistenti apparentemente nelli edifizi così publici come privati»17. Queste disposizioni sono importanti in quanto riconoscono e conferiscono a questi elementi di corredo un valore effettivo di ‘memoria’. Per capire questo passaggio occorre leggere l’incipit della legge: «Considerando il Serenissimo Gran Duca di Toscana et il Serenissimo Principe Reggente et C. quanto ornamento et splendore, così al pubblico come al privato apportino li palazzi, torri, logge, casamenti et altri edifizi, muraglie, che sono state fabricate, e continuamente si fabricano nella loro dilettisima città di Fiorenza, e suo contado, et distretto et che la memoria di quelli che edificano si conserva e perpetua mediante le loro arme, insegne, e titoli, iscrizioni affisse, dipinte, scolpite, o apposte sopra le porte, archi, finestre, cantonate, o altro luogo publicamente apparente dell’edificio, o muraglia…»18. Come molti altri, anche questo provvedimento nasce da uno stato di fatto, la disposizione documenta tutta il contrario, cioè che solitamente i nuovi proprietari degli immobili rimuovono gli elementi del passato per apporre i propri stemmi. Con questa norma l’apposizione di nuove armi viene consentita solo laddove non siano presenti quelle antiche e originarie. Nelle carte d’archivio sono documentati numerosi episodi in cui si fa riferimento alla legge in maniera esplicita. Un caso interessante è quello di Simone Serretti, di professione mercante, che nel 1610 compra da Jacopo Conti una casa già appartenuta a Bartolomeo Filicaia, posta in via San Giglio. Dopo aver acquistato la casa, il nuovo proprietario provvede a risistemarla secondo il nuovo gusto ‘alla moderna’. Serretti ha fatto realizzare «una facciata con conci e resta solo che s’imbianchi e s’imbianchi per maggiore vaghezza». Il lavoro si è interrotto per la presenza sulla facciata di un’«arme in pittura rozza et antica», nella quale si riconoscono da una parte l’insegna dei Filicaia e dall’altra quella dei Lanfranchi e, «per non incorrere in pena», chiede al Granduca di poterla cancellare con l’intonaco. L’arme è scrostata tanto che appena si riconosce. Si interpellano allora gli interessati, ossia i Lanfranchi e i Filicaia, ma questi ultimi si oppongono alla cancellazione dell’insegna. Vogliono che sia restaurata «si che ne resti come prima, altrimenti fa istantia per l’osservanza della legge» 19. Ma, poiché questa è l’unica obiezione, i commissari delle Fabbriche ritengono che l’arme possa essere cancellata e la facciata intonacata. Il Granduca acconsente. Per terminare la sua facciata senza incorrere in alcuna sanzione, Serretti deve attenersi alla legge del 1571 e fare un’esplicita richiesta al Granduca; i vecchi proprietari, i Filicaia, sono d’altra parte ben consapevoli di poter esercitare il diritto sancito di non vedere l’arme antica cancellata, ma piuttosto restaurata. Nonostante queste premesse, la facciata viene imbiancata e l’arme cancellata. L’episodio sottolinea la contraddizione tra la realizzazione di una facciata moderna e decorosa e la preservazione delle memorie antiche, risolta in questo caso a favore del decoro urbano con la conseguente perdita delle insegne di due famiglie private. Pur di agevolare il compimento di una bella facciata, i commissari rinunciano ad applicare la legge, che evidentemente vale solo in certi casi e per certe persone20. La famiglia Lanfranchi gode certamente di privilegi importanti all’interno del contesto politico e sociale pisano e in generale toscano. Nel 1621 invia una richiesta al Granduca per ottenere la licenza 17 G.C. ROMBY, La costruzione dell’architettura, op.cit., pp.101-102. 18 G.C. ROMBY, La costruzione dell’architettura, op.cit., pp.81-105. 19 ASPI, Fiumi e fossi, 308, ins.15. 20 Nello stesso anno, 1610, Francesco Primi compra una casa dall’Opera di San Francesco, posta in via nuova, e «stante le legge che priobisce il levare o mutare arme in qualsivoglia muraglia sotto grave pena» fa richiesta al Granduca di poter apporre in facciata la propria arme e togliere quella che vi fece mettere l’operaio Giovanni Lanfranchi quando la fece fabbricare, dove si riporta l’iscrizione OPA. L’operaio Giovanni Lanfranchi non si oppone e Francesco Primi ottiene il permesso. ASPI, Fiumi e fossi, 308, ins.18. 5
di sostituire un’arme in pietra «per essere sicura di non incorrere in qualche pregiuditio». Si tratta di cambiare una vecchia porta in pietra sormontata da un architrave decorato con l’arme di famiglia in bassorilievo e di montarne una nuova in marmo bianco, corrispondente al nuovo stile del palazzo e al gusto ‘moderno’. Il Granduca acconsente a patto che si cambi con un’altra «più riguardevole e conveniente»21. La richiesta e la risposta dimostrano che il valore di memoria non è rappresentato tanto dal manufatto, per quanto antico sia, ma dal contenuto storico che ricorda un fondatore, una famiglia, un evento. L’episodio precedente Serretti-Filicaia invece suggerisce come la legge sia spesso applicata a discrezione del Granduca a cui spetta stabilire cosa tramandare alla posterità. Il concetto di memoria non ha ancora connotati collettivi, ma piuttosto personali e politici. Nonostante la disposizione legislativa, gli stessi commissari e lo stesso Granduca trasgrediscono frequentemente il divieto di cancellare le armi antiche. L’ordine e la ‘vaghezza’ di una facciata intonacata e imbiancata prevale sulla disposizione conservativa di un’arme sbiadita. In questi casi prevale il concetto di decoro che corrisponde alla pulizia delle facciate. Le concessioni alla rimozione delle armi antiche vengono rilasciate direttamente dal Granduca, che, come visto in precedenza, entra nel merito di cosa conservare. L’osservanza delle disposizioni granducali sul territorio pisano viene affidata ai Priori. Per valutare l’effettiva applicazione della legge si riportano di seguito alcuni episodi emblematici che chiariscono le difficoltà riscontrate dalle autorità pisane. Nel 1599 i Priori denunciano la rimozione di alcune sepolture e armi antiche dalla chiesa di S.Caterina. Nonostante la legge del 1571, molti ecclesiastici «vanno continuamente destruendo sepolture e memorie antique di dentro ed fuori delle loro Chiese, et poco apprezzano»22. I religiosi evidentemente ritengono gli spazi di loro proprietà esenti dalle leggi promulgate dal governo granducale; al tempo stesso non danno valore alla conservazione dei beni appartenuti alle famiglie private, in quanto memorie che esulano dalla devozione religiosa. Si perdono così sepolture, colonne, iscrizioni che appartengono alla storia. Le trasgressioni sono frequenti anche tra i privati cittadini, soprattutto tra quelli che rivestono un ruolo pubblico. Nel 1619 i Priori discutono sopra il modo di far rispettare le disposizioni della legge23, la soluzione è quella di attribuire al cancelliere una specifica funzione di controllo, in maniera da obbligare i cittadini trasgressori a togliere le armi apposte arbitrariamente al posto di quelle antiche. Nel 1632 la mancata ricezione delle norme sulla conservazione delle armi antiche porta il Granduca a prendere provvedimenti contro quei rettori che, « trasportati dalla particolare ambizione della loro famiglia»24, tolgono illecitamente le armi dei loro predecessori per rimpiazzarle con le proprie. Le armi sono riconosciute come valore da preservare e come oggetto di prestigio da mostrare. Da una parte quelle antiche conservano un valore di memoria storica; dall’altra apporrne di nuove, a fianco di quelle antiche, costituisce un segno di riconoscimento e di prestigio sociale all’interno della comunità locale, tanto da divenire uno strumento di incentivazione a contribuire finanziariamente al restauro di alcuni edifici monumentali. In particolare questa situazione si verifica in occasione dei restauri al duomo e alla chiesa di S.Sisto, due edifici religiosi con una forte connotazione politica, strettamente legati all’identità cittadina. In occasione dell’incendio del duomo, nel 1596, si da facoltà di apporre un’iscrizione o la propria arme a coloro che contribuiscono al restauro dell’edificio per una cifra pari almeno a duecento scudi25. La stessa pratica si verifica nel 1699, quando i Priori concedono di poter 21 ASPI, Archivi privati diversi, 6, Memorie di un Lanfranchi, carta sciolta. 22 ASPI, Comune D, 67, c.463v. 23 ASPI, Comune D, 88, cc.27 r e v. 24 ASPI, Comune D, 65, c.435v-436r. 25 ASPI, Comune D, 132, foglio sciolto. 6
affiggere armi e iscrizioni a quei cittadini che, a proprie spese, contribuiranno a rifare una o più finestre di macigno26. UNA MAGISTRATURA PER IL DECORO E LA SANITÀ DELLA CITTÀ: L’UFFICIO DEI FOSSI DI PISA Le leggi e i bandi emanati dal governo granducale hanno validità sull’intero territorio e la loro applicazione compete ai Capitani di parte guelfa, una magistratura riformata da Cosimo I nel 1549, a cui è delegato anche il controllo sull’attività edilizia. Soltanto a Pisa, a Pistoia e a Grosseto vengono istituite magistrature autonome27. Nel 1547 Cosimo I istituisce il «Magistrato e Officio de fossi di Pisa», che incamera le competenze delle precedenti magistrature e ha il compito di «provvedere alla sanità dell’ aria e alla adornazione et fertilità del paese di Pisa»28. La figura più autorevole di questo Ufficio è il commissario, cittadino fiorentino, nominato direttamente dal Granduca con cui intrattiene rapporti costanti. Per i lavori edili il commissario si avvale di un ingegnere, anch’esso solitamente fiorentino, a cui spetta di far visita ai cantieri, di imporre «il modo et la regola» per eseguire i lavori e di stimare la spesa occorrente. Il suo ruolo viene precisato nel corso delle varie riforme dell’Ufficio: obbligato ad andare a cavallo e a risiedere in città, le sue decisioni devono essere «concertate, discorse e sottoscritte dal sottoprovveditore»29. All’Ufficio dei fossi spetta anche il risanamento idrografico di Pisa e del suo contado. Per raggiungere questo obiettivo, necessario alla salubrità dell’aria e quindi alla prosperità della città, vengono attribuiti all’Ufficio una serie di «assegnamenti», la maggior parte dei quali proveniente dalle quote di entrata della dogana di Pisa. Compito dell’Ufficio dei fossi è quello di emanare i bandi necessari a stabilire le ‘regole’ per la costruzione e la gestione della città e del contado. Alcuni bandi corrispondono ad esigenze di sicurezza e di sanità, altri ad esigenze di tutela dei beni pubblici, quali piazze, strade, mura cittadine. Dal 1562 si susseguono i bandi emanati per «ornato, pulitezza e sanità di questa città». Essendo «messa in dissuetudine e oblivione tal cosa tanto honorata e salutifera», queste disposizioni, urlate nei luoghi «soliti», ossia nelle aree più frequentate della città, vengono ripetute quattordici volte in ottant’anni, con una frequenza maggiore, tra il 1596 e il 1616, periodo in cui si intensifica lo sforzo di abbellire la città. I bandi ogni volta accrescono e precisano le prescrizioni in materia di igiene e di decoro della città, migliorando le formule giuridiche in maniera da non «accettare o ammettere scusa alcuna». Le regole dell’Ufficio spaziano dalla lastricatura alla spazzatura delle strade nei giorni precedenti a quelli festivi, dalla proibizione di far passeggiare le bestie cariche sulle strade principali al modo di costruire gli sporti, dal mantenimento delle fogne private alle varie norme di igiene pubblica. La città viene percepita come uno spazio comune, pubblico, da tutelare e da migliorare. Negli atti dell’Ufficio dei fossi sono numerose le denunce nei confronti dei cittadini privati che trasgrediscono le regole e altrettanto numerose le condanne comminate ai trasgressori. In particolare si precisano le strade in cui far rispettare le norme. In un primo momento i bandi relativi alla pulizia delle strade si riferiscono genericamente ai portici della Piazza dei Cavoli e al Lungarno30. 26 ASPI, Comune D, 100, c.87v. 27 A Pistoia viene istituito nel 1565 l’Ufficio de fossi e delle strade; a Grosseto Ferdinando I istituisce nel 1592 l’Ufficio de fossi e delle coltivazioni. Per Pisa, cfr. infra, p.5. 28 ASPI, Fiumi e fossi, 6, Statuti, 1475-1631, c.22r. 29 ASPI, Upezzinghi, 556, c.124v, Lettera di Francesco Panciatichi al provveditore. 30 Dal XVI secolo la letteratura di viaggio e le descrizioni della città riportano l’immagine dei Lungarni quale «incomparabile unica arcata che si stende da riva a riva», «in forma di teatro». Cfr. G. CERVONI, Descrizione de le pompe, e feste fatte ne la città di Pisa per la venuta della Serenissima Madama Christierno de lorena Gran Duchessa di Toscana, scritta da M. Giovanni Cervoni da Colle, Firenze, Marescotti 1589, p.3 e Viaggiatori 7
In seguito l’Ufficio amplierà le strade in cui far rispettare le stesse disposizioni31. Le strade principali, ossia quelle maggiormente frequentate e su cui le norme del decoro sono più stringenti, corrispondono di fatto alle direttrici lungo cui si stanno costruendo le opere pubbliche e i palazzi nobiliari. Le strade devono risultare ben tenute, sgombre, ampie come specificato nei provvedimenti emanati dal governo centrale e diffusi capillarmente su tutto il territorio. Nel 1576, e poi nel 1578, nel 1579 e nel 1580 si prescrive ripetutamente che non si possano fare opere di muratura negli spazi pubblici; nel 1578 un bando stabilisce inoltre che le strade pubbliche debbano essere mantenute sempre in buono stato32. Questi provvedimenti pongono una netta distinzione tra lo spazio privato e quello pubblico, che deve rimanere libero e sgombro. La sfera pubblica si differenzia nettamente da quella privata e inizia a distanziarsi da antiche pratiche ancora in uso, che non vengono legittimate dalle nuove istituzioni, come quelle di «stremare, ristringere, o diminuire in parte alcuna, anchora che minima, dette strade e piazze pubbliche»33. Nel 1580, riprendendo le leggi statutarie medievali34, si specifica che le strade e le piazze pubbliche devono essere liberate anche da tutti quegli elementi ingombranti, eredità dell’edificato medievale, quali sporti lignei sporgenti, puntelli, pilastri che sostengono muri «a secco o a calcina alti braccia tre almeno che pendino et pieghino sopra dette vie»35. L’obbligo imposto è quello di levarli o raddrizzarli e restaurarli. La nuova città si compone dunque di strade ampie, sgombre e pulite su cui possano affacciarsi i palazzi moderni. Se da una parte il governo centrale emana i bandi, dall’altra stabilisce i finanziamenti necessari a realizzare le opere pubbliche e, in parte, ad agevolare quelle private. Uno degli incentivi usati per sollecitare l’apertura o la prosecuzione dei cantieri di restauro e di nuova costruzione è l’esenzione da gabelle per i materiali edilizi che entrano in città. Il governo centrale bandisce, a più riprese (1560, 1561, 1596, 1683, 1684), i provvedimenti volti a sollecitare la fabbricazione e la circolazione dei materiali da costruzione [TAB.1]. 1560 abolizione per un anno delle gabelle sui materiali per edificare 1561 abolizione per un anno delle gabelle sui materiali per edificare 1596 proroga dell’esenzione dalle gabelle sui materiali edilizi introdotti in Pisa 1683 esenzione dalle gabelle per i materiali edilizi 1684 esenzione dalle gabelle per i materiali edilizi Tab. 1: Elenco delle esenzioni da gabelle dei materiali da costruzioni tra il 1550 e il 1700 Il ricorso all’esenzione sottolinea tre fasi significative nella costituzione del nuovo assetto della città: il primo provvedimento viene preso un decennio dopo l’emanazione della legge del 1550, gli altri stranieri a Pisa dal ‘500 al ‘900, testi introdotti e tradotti da M. Bailo, C. Carmassi, M. Curelli, A. Magliocchi, Pisa, Nistri Lischi 2003. 31 ASPI, Fiumi e fossi, 7, Bandi dal 1574 al 1675, c.30v. Nel bando si specifica che le disposizioni sono valide dalla Pietra del pesce alle botteghe nuove sul Lungarno, in Borgo «per quanto durano i portici», intorno alla chiesa di San Pietro in vincoli, lungo la via di Sant’Jacopo dei polli, in banchi dal ponte fino alla fusta, sul Lungarno meridionale dai banchi fino alla chiesa di San Sepolcro da una parte e fino alla chiesa di Santa Cristina dall’altra, nella strada interna di San Martino dalla chiesa di San Sepolcro fino a Santa Cristina e dalla parte opposta fino alla dogana. A queste strade si aggiungono le due piazze di mercato: quella degli Ortaggi e quella dei Cavoli. A proposito della piazza dei Cavoli, si veda il contributo di L. NUTI, Piazza de’ Cavoli e i mercati di Pisa, in «Bollettino Storico Pisano», LXIII, 1994, pp.231-241. 32 L. CANTINI, Legislazione toscana raccolta e illustrata da L.Cantini, Firenze 1800-1808, vol.IX, p.17. 33 G. CASCIO PRATILI, L. ZANGHERI, La legislazione medicea sull’ambiente. Bandi (1485-1619), Firenze, L.S. Olschki 1994. 34 F. BONAINI, Statuti inediti della città di Pisa, Firenze, Vieusseux 1854, vol. I, p.402. 35 G. CASCIO PRATILI, L. ZANGHERI, La legislazione medicea, op. cit., pp.207-215. 8
coincidono con due fasi di forte ripresa dell’attività edilizia privata, ossia il periodo tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo e la fine del XVII secolo. Nel 1560 Cosimo I stabilisce che i materiali derivanti dalla demolizione di edifici pisani siano utilizzati per costruire o restaurare gli edifici dentro le mura. Inoltre il Granduca stabilisce che per «far comodità a chi desidera restaurare gli edifizi, o di nuovo edificare nella sua Città di Pisa affinché sia più frequentata et abitata […], ciascuna persona di qualsivoglia Stato, grado, o condizione possa, et habbia libera facoltà di condurre, e far condurre, e mettere dentro nella detta Città di Pisa ogni quantità di pianelle, embrici, e tavole, pietre concie, e non concie, calcina, e travi per edificare, e consumare in edifizi dentro le mura della Città senza pagar Gabella alcuna alle Porte di Pisa, et in Dogana per la messa, et Entrata di dette robe la quale habilità, e facoltà s’intenda durare e dare solamente per tempo, e termine di un anno prossimo futuro dal dì che tale Ordine sarà bandito»36. In tal modo si consente l’importazione in città di materiali da costruzione senza il pagamento di alcuna tassa. Questi provvedimenti contribuiscono a rafforzare la politica di ripopolamento, attuata per ragioni di rilancio economico, e di abbellimento della città portata avanti da Cosimo in quegli anni. La provvisione esclude i marmi, materiale pregiato da impiegare soprattutto nei cantieri di maggior importanza; pertanto se ne scoraggia l’uso in edifici privati e lo si riserva agli edifici pubblici e religiosi, come, ad esempio, le Logge dei Banchi, le chiese di San Martino, di San Francesco e di San Matteo. Il materiale principale impiegato nella costruzione del nuovo volto della città è il mattone. L’attività dei fornaciai, tenuta sotto controllo dalle istituzioni cittadine fin dal medioevo, viene regolamentata nuovamente nel 1576, quando il Granduca fa emanare un bando «per conto dei fornaciai di spianare mezane e altri lavori e li loro prezzi et calcina et altro»37. Il bando viene ripetuto più volte nel 1589, nel 1593, nel 1605, nel 1635 e nel 1642, segno delle variazioni dei prezzi di mercato e delle trasgressioni dei fornaciai alle regole imposte dal governo. Con questi provvedimenti lo stesso governo, agendo da calmiere, dispone non soltanto le misure dei vari pezzi (mattoni crudi e cotti, quadrucci, pianelle, embrici, etc.) secondo le misure fiorentine, ma impone anche i prezzi. Come si percepisce da queste vicende, la questione del decoro della città non coinvolge soltanto considerazioni di carattere estetico, ma presenta anche risvolti economici rilevanti nelle attività produttive cittadine. L’abbellimento della città attiva infatti forze economiche ed attrae nuovi abitanti, producendo una crescita demografica e una ripresa economica di Pisa che, sostenuta dagli interventi finanziari del Granduca, si avvia a rappresentare un centro di produzione e di commercio strategico. I METODI COERCITIVI E GLI INCENTIVI DI FERDINANDO I PER PROMUOVERE IL DECORO DELLA CITTÀ Nel 1589 Cristina di Lorena, moglie di Ferdinando I, giunta a Pisa, esclama: «questa è una bella città??? E il resto?»38. Ma già pochi anni dopo la situazione inizia a cambiare. A cavallo tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, proprio sotto il governo di Ferdinando I, l’attività edilizia inizia a modificare il tessuto della città di Pisa con significativi interventi pubblici e privati. Dando un’occhiata ai decenni precedenti, possiamo constatare come la legge del 1550 abbia avuto una debole eco sull’intero territorio granducale, tanto che nel 1565 si trova ancora una disposizione che punisce «chi minacci di rovina un muro»39. Questa disposizione, che ricalcava norme 36 L. CANTINI, Legislazione toscana raccolta e illustrata da L.Cantini, Firenze 1800-1808, vol. IV, pp. 40, 172, 375, Provvisione per gli edifici di Pisa, 21 giugno 1560. 37 ASPI, Fiumi e fossi, 7, Bandi dal 1574 al 1649, c.8r. 38 G. CERVONI, Descrizione de le pompe, e feste fatte ne la città di Pisa per la venuta della Serenissima Madama Christierno de l’Orena Gran Duchessa di Toscana, scritta da M. Giovanni Cervoni da Colle, Firenze, Marescotti 1589, p.3. 39 L. CANTINI, Legislazione toscana raccolta e illustrata da L.Cantini, Firenze 1800-1808, vol. V, c.231. 9
statutarie precedenti, impediva a chi era proprietario di un edificio di mandarlo in rovina per evitare di pagare le tasse dovute o per evitare l’imposizione di restaurare l’immobile, segno di un aspetto generale delle città non ancora decoroso. Nel 1592 Ferdinando I prescrive che tutti i «casalini et edifitij rovinati e che minacciano rovina et che fanno deformità nella città nostra di Pisa, a pubblica utilità et ornamento di essa si restaurino» o siano venduti. L’imposizione coercitiva al restauro degli edifici in rovina rientra in un piano generale di riqualificazione urbana voluto dallo stesso Granduca, promosso in nome dei valori di pubblica utilità e ornamento40. A partire da questo anno si susseguono numerosi provvedimenti del Granduca affinché ‘case e casalini’ siano restaurati secondo il gusto ‘moderno’. Il gusto moderno delle facciate, specchio del nuovo concetto di decoro, presenta caratteristiche ricorrenti in ambito fiorentino: arricciamento e intonacatura della muratura, pittura graffita delle facciate ed uso della pietra serena per porte e finestre. Nonostante l’incoraggiamento a costruire, i privati si scontrano ancora con un problema logistico: la mancanza dei materiali da costruzione, dovuta all’intensa attività dei cantieri granducali. Tra questi il più impegnativo è certamente l’acquedotto, iniziato proprio nel 1592 su progetto dell’architetto fiesolano Raffaello di Pagno. Sulla questione dei materiali interviene personalmente il Granduca. Nel 1593 Ferdinando I scrive ai Consoli del Mare facendo presente che ai cittadini manca «materia per murare» e che questa deficienza non può essere imputata al fatto che l’Ufficio dei fossi si serve dei materiali per le fonti, «come si diceva li anni passati». Il Granduca chiede ai Consoli di sollecitare il provveditore dell’Ufficio dei fossi, Bastiano Marracci, a costringere i fornaciai a cuocere e a lavorare di più. I fornaciai si giustificano con il fatto che le condizioni atmosferiche, pioggia e freddo intenso, non hanno consentito di produrre il materiale in maniera rispondente alle richieste. Ferdinando scrive nuovamente ai Consoli, lamentandosi del fatto che coloro che fabbricano continuano a non trovare materiale e che i fornaciai hanno «cresciuto ingordamente i prezzi». Il Granduca sospetta che il provveditore dell’Ufficio dei fossi non voglia, o non sappia, far eseguire gli ordini granducali. Sollecita un nuovo provvedimento teso a far trovare i materiali necessari a prezzo conveniente. La risposta dei fornaciai ai Consoli consiste in una lunga relazione sulle difficoltà del loro lavoro, soprattutto sulla difficoltà di reperire gli spianatori necessari, inviati «qua e là» dal Granduca; riferiscono che «le fabbriche hoggi sono assai e in questo luogo tutte le muraglie si fanno con mezzane et terra cotta et non è come altrove che si fanno con i sassi, et tredici fornaci non possano far più che si possono di suplire a una Città così principale dove hoggi si fabrica tanto di lavori cotti, et calcina»41. Nel 1596 i viaggiatori iniziano a percepire l’atmosfera di cambiamento e, nonostante descrivano ancora una Pisa decadente, costituita da case «vecchie e rovinate», tuttavia riportano anche l’ordine granducale di «ripararle e sistemarle all’esterno per migliorare l’aspetto della città»42. Nel 1601 Ferdinando I crea una magistratura specializzata, il Magistrato di fabbriche e coltivazioni, con lo scopo di provvedere al risanamento edilizio e al ripopolamento delle campagne pisane e di tenere sotto controllo l’attività edilizia privata, da lui stesso promossa. Il Granduca impone anche che le opere pubbliche, commissionate e controllate personalmente, si facciano una per volta «e ciò per l’economia e per una migliore esecuzione di esse»43; incoraggia i privati a costruire o a migliorare l’aspetto dei 40 Architettura a Pisa nel primo periodo mediceo, a cura di E. KARWACKA, Roma, Gangemi, in corso di stampa, p.83. 41 ASPI, Consoli del mare, 1065. Nei dintorni di Pisa vi sono tredici fornaci: tre al portone, due alla porta a piagge, quattro a Caprona e quattro a Uliveto. 42 Viaggiatori stranieri, op. cit.. 43 R. FIASCHI, Le magistrature pisane delle acque, Pisa, Nistri-Lischi 1938, p.138. 10
propri palazzi44, sotto la supervisione dell’Ufficio dei fossi, che rilascia un apposito nullaosta, frequentemente sottoscritto da lui stesso. Ancora nel 1605 i commissari dell’Ufficio dei fossi chiedono al Granduca di regolare i prezzi dei mattoni; si riferisce che, da quando «s’incominciò a restaurare la città, col risarcimento delle vecchie fabbriche et eretione delle nuove», si era tollerato l’eccesso delle misure e dei prezzi degli «ingordi» fornaciai, affinché a nessuno mancasse materia per edificare45. Considerato che la legna, necessaria alla cottura dei mattoni, era rincarata, i prezzi dei laterizi erano aumentati quasi del 30% rispetto alle disposizioni granducali del 1578. L’aumento dei prezzi si giustifica dunque con l’intensa attività edilizia, sia pubblica che privata. Da una parte la richiesta dei commissari dei fossi al Granduca è di mantenere i prezzi attuali e riportare le forme dei mattoni alle misure fiorentine, superiori a quelle pisane; dall’altra i fornaciai accettano di adottare le misure fiorentine a patto di aumentare i prezzi di mercato. Il Granduca approva le variazioni di prezzo lasciando inalterate le misure e il peso dei mattoni, accontentando quindi le richieste dei fornaciai. In questo fervore edilizio, il decoro e la pulizia della città sono gli obiettivi ambíti per redere Pisa una città più attraente. Questa trasformazione passa attraverso la definizione di nuove forme e di nuovi spazi urbanistici. L’apposizione a strutture antiche di facciate moderne diviene lo strumento attraverso il quale nascondere l’accorpamento di case torri e di edifici preesistenti e attraverso cui riempire i maleodoranti e rumorosi chiassi. Il «serrare strade e altro del Pubblico» era una pratica inizialmente regolamentata, o meglio impedita, dal capitolo 10 della riforma dell’Ufficio dei fossi del 1586. Recita la norma: «Nessuno ardisca, o presuma sotto qualsivoglia colore o pretesto rinserrare, chiudere, tramutare o alterare da Luogo a Luogo in tutto, o in parti Strade, Piazze, o altra Cosa del Pubblico». I trasgressori erano obbligati a ripristinare la strada originaria46. La disposizione di legge cercava evidentemente di contenere senza successo una pratica sempre più frequente tra i cittadini, soprattutto tra quelli intenzionati a far costruire le facciate secondo il gusto moderno, all’interno di un tessuto urbanistico già strutturato e in parte saturo. L’Ufficio dei fossi è quindi costretto in un secondo momento ad accettare l’esercizio di 44 ASPI, Fiumi e fossi, 279, c.2v.: «13 maggio 1601. Deliberazione per abbellire la città, e in parte accrescerne l’habitationi per che accrescino anco gli habitatori concessero in virtù di loro autorità precettarsi gli infrascritti uomini e persone e ciascuno a murare loro case e casalini secondo che sarà dichiarato nel loro com.to infra due mesi proximi, e infra 8 giorni proximi dichiararsi quel che voglino fare per obedire sotto pena di scudi cento ad arbitrio delle signorie loro per ciascheduno che non obedisse e sono questi cioè il sig. Cosimo Medici che tiri su il casalino e faccia facciate alla casa della piazza di San Frediano dalle due strade, Francesco Gaetani che tiri su il casalino contiguo alla casa dove habita al pari di detta casa coprendolo e facendolo abitabile, Salvestro Dal Poggio che fabbrichi stanza habitabili sopra le sue botteghe dei Portici in borgo, Antonio Bartoloni che fabbrichi stanza habitabile sulla sua bottega dei Portici di Borgo, conte Piero Venerosi che tiri su e cuopra il suo casalino di via Santa Maria, erede di Domenico Sanminiatelli per tirare a fine la casa di via Santa Maria, M. Pompeo di senno che pulisca intonachi e imbianchi la sua torre in via Santa Maria, Giuseppe del fiorentino detto il Pietrasanta che tiri su e cuopra il suo casalino dal Portico de gatti, Niccolaio Bandini che tiri a fine la facciata della sua casa in via Sant’Andrea, erede di ser Bartolomeo l’Aulla che tiri a fine la casa in via fagiuoli, Ruberto della Biacca che tiri su e cuopra il casalino di contro alla sua casa da San Frediano, Lorenzo Corsini che tiri su e cuopra il casalino a canto alla sua casa di via mugello, e alzi la facciata, Maddalena Cortigiana de Santa Frassa che muri e cuopra il casalino di sua casa (rinovata in questa a 5), Giovanni Caprile da Calci che dica la causa perché non muri il casalino dalla piazza dei Cavalieri, Giovanni stovigliaio che muri il casalino contiguo a sua casa da San Piero a Istia (è livello delle monache di Sant’Anna fatto l’anno 1584), Parmigiano rigattieri che muri il casalino contiguo a sua casa in detto luogo, Matteo Nerini tessitore in via Santa Maria che muri il casalino e lo cuopra posto in via mugello, maestro Francesco zoccolaio, e maestro Francesco muratore dalle spetie che murino e cuoprino il casalino da via mugello (vedi la relatione in filza di citationi 1)». 45 ASPI, Fiumi e fossi, 74, c.2210r. 46 ASPI, Upezzinghi deposito Rasponi, 556, c.10r. 11
questa prassi. Anzi sarà lo stesso Granduca a concedere sempre più spesso di serrare i vicoli, divenuti «ricettacoli di immonditie», impraticabili «con pregiudizio anco dell’aria». Queste motivazioni, riportate in più richieste, divengono il nulla-osta per la trasformazione di questi spazi da pubblici a privati. La prassi modifica dunque l’applicazione della norma, determinando la successiva elaborazione di una nuova norma che porterà a sua volta alla vera e propria concessione di spazi pubblici per usi privati. Nel 1600 Orazio Sanminiatelli, cittadino fiorentino residente a Pisa, chiede al Granduca di poter serrare il vicolo posto fra i chiassi dei facchini, la propria casa e quella delle monache di Santa Marta47. La richiesta è inizialmente respinta perché il proponente non si vuole adeguare alle condizioni imposte dall’ingegnere granducale, a cui spetta la perizia. Nel 1602 Sanminiatelli torna a proporre la chiusura dello stesso chiasso. Nella sua lettera ai commissari dell’Ufficio dei fossi sostiene di aver fatto costruire una «facciata con ornamento» alla sua casa in via San Giglio, al canto con via Garofani48. La chiusura del chiasso completerebbe il progetto. La proposta viene accolta, a patto che si rispettino le condizioni elencate e che nessuno si opponga, ma i vicini protestano49. Il provveditore dell’Ufficio dei fossi, Bastiano Marracci, volendo evitare le proteste dei privati, dichiara che deve prevalere «la considerazione della politia». Il Granduca evidenzia questa primaria necessità e acconsente alla vendita dello spazio per 189 lire «per levare l’immonditie oltre la politia e l’ornamento dell’offitio de fossi». Impone di occupare l’area costruendo entro trenta mesi un fabbricato di uguale altezza. Ancora una volta il decoro, perseguito attraverso la concessione di uno spazio pubblico ad un privato di rango nobiliare, diviene la motivazione per trasgredire la normativa con il consenso granducale. Gli interessi dei vicini sono troppo deboli per funzionare da impedimento all’utilità comune, che si riconosce nella salubrità e nella pulizia dell’aria. Nel fitto tessuto urbanistico di Pisa, l’unica opportunità per ampliare palazzi privati ed edifici religiosi sembra dunque essere quella di appropriarsi di spazi pubblici o privati ancora liberi: chiassi, vicoli, piazzette. In questo contesto la sfera ecclesiastica usufruisce di un sostegno sicuro da parte del governo centrale, teso a rafforzare il clima controriformato attraverso la creazione o il restauro dei monasteri cittadini, soprattutto femminili50. Lo dimostra il caso delle monache di San Giovanni de Fieri che nel 1604, per ampliare la propria chiesa, domandano ai commissari dell’Ufficio dei fossi di poter inglobare una strada pubblica51. A questa richiesta si oppongono due cittadini, proprietari di beni contermini. L’occupazione della strada comporterebbe gravi incomodi per le loro proprietà, case e orti, ed impedirebbe di trasportarvi agevolmente le loro provvisioni di legna, strami e simili. Anche Francesco Da Scorno si oppone alla concessione della strada perché verrebbe privato di una porta 47 ASPI, Fiumi e fossi, 74, c.501 e ss. L’ingegnere dell’Ufficio dei fossi, Lupicini, mandato ad effettuare un sopralluogo, riferisce che il richiedente potrebbe «levare l’occasione di tali immonditie» alzando un muro alto tre metri a chiusura del chiasso, lungo nove metri e largo circa un metro e mezzo. La spesa del muro naturalmente ricadrebbe a carico del proponente, il quale, poco disposto a spendere denaro «facendo più comodo al pubblico che a lui, il quale non può servirsene a niente», rifiuta decisamente. 48 ASPI, Fiumi e fossi, 74, c.1269r. 49 ASPI, Fiumi e fossi, 74, c.1269r. Affissi gli editti sui canti del vicolo in via San Giglio e in via Garofani, arrivano le prime proteste dei vicini. La prima è di Giulio Neretti a cui verrebbe serrata la vista di una finestra e levata la brevità e la comodità del passo. Le altre contraddizioni vengono avanzate dal rettore della chiesa di San Bastiano e dall’osteria della fusta, proprietà dell’Ordine di Santo Stefano e livello di Francesco del Ciallo. «Et dicono che in detto chiassetto vi piove una parte della gronda di detta hosteria, vi sboccano tre camini da fuoco e vi risponde una finestra onde piglia lume una camera che non può haverlo d’altrove, oltre che v’è anco una porticciuola». La necessità è quella di tutelare da una parte l’utile del livellario, che ha speso in questa osteria più di mille scudi per risistemarla, e dall’altra le casse granducali, che in questo caso verrebbero private della tassa che se ne paga al pubblico. 50 G. GRECO, La parrocchia a Pisa nell’età moderna (XVII-XVIII secolo), Pisa, Pacini 1984. 51 ASPI, Fiumi e fossi, 74, c.1807r. 12
sull’orto situata in testa alla ‘stradetta’ richiesta. Cosimo Pugliani, neoeletto ingegnere dell’Ufficio dei fossi, viene allora incaricato di visitare la strada e il monastero per risolvere il contenzioso. Pugliani effettua un sopralluogo di tutto il complesso: è angustissimo, troppo piccolo per il numero di monache presenti. Misura la chiesa, dieci braccia per un verso e undici braccia per l’altro. Nella sua relazione riporta che le monache non hanno soluzioni alternative per ampliare la chiesa «senza storpio del monastero» e che, in fondo, ai proprietari viene richiesto di concedere solo sei braccia per larghezza dei loro orti contigui alla ‘stradetta’, dove le monache avrebbero dovuto fare un muro. Inoltre la porta dell’orto di Francesco Da Scorno può essere rifatta in testa alla nuova strada. Valutati incomodi e vantaggi, le monache ottengono il suolo pubblico gratuitamente, in considerazione del fatto che si tratta di un’opera pia. Le monache così dovranno pagare solo l’acquisto delle porzioni private di orto per una somma pari a venticinque soldi per lira52. Come si vede in questo esempio, i gruppi religiosi, pur ottenendo maggiori benefici per il loro status¸ agiscono sul tessuto urbano in maniera simile ai privati che vogliono migliorare i propri spazi abitativi. Il concetto di decoro si traduce in questi casi in forme più ampie, regolari e luminose. Non si deve dimenticare inoltre che all’interno dei conventi e dei monasteri sono spesso presenti membri di quelle stesse famiglie nobiliari che stanno abbellendo i palazzi cittadini: sembra quindi lecito poter ritrovare nell’ambiente religioso le stesse dinamiche che animano i nuclei nobiliari. CONTRASTI E CONTRADDIZIONI TRA INIZIATIVA PUBBLICA E PRIVATA NEI CANTIERI EDILIZI A Pisa si produce una differenza sostanziale tra l’iniziativa privata e quella granducale: la prima appone facciate sulle preesistenze, la seconda sventra e costruisce ex novo. Nella politica dell’immagine urbanistica portata avanti dal Granduca risiede un contrasto implicito: da un lato la conservazione di un patrimonio ricchissimo che rende «belle» le città e costituisce la memoria collettiva, dall’altro la distruzione delle preesistenze operata per fare spazio ai nuovi cantieri di rappresentanza: la Sapienza, le piazze di mercato, la piazza dei Cavalieri, il palazzo granducale, le logge dei banchi. La città è un organismo dinamico, dove costruire e demolire sono le due facce di una stessa medaglia. Mentre l’ambiente erudito pisano sta prendendo coscienza del patrimonio storico cittadino e delle memorie ad esso collegate, gli edifici religiosi di patronato privato sono quotidianamente soggetti a trasformazioni nelle loro strutture materiali. Tali trasformazioni corrispondono spesso ad un mutamento funzionale. Tra la fine del XVI e la prima metà del XVII secolo numerosi edifici religiosi vengono demoliti o convertiti a nuove funzioni. Si verificano quindi abbattimenti, cambiamenti di funzione, radicali modifiche agli edifici ecclesiastici. La chiesa di Santa Viviana, «ultimamente racchiusa nella Clausura del monastero di Santa Marta et è ancora intera», diviene un granaio; la chiesa di San Biagio alle catene, di patronato della famiglia Lanfreducci, viene inglobata nella rimessa dei cocchi durante la costruzione del nuovo palazzo di famiglia sul Lungarno; la chiesa di San Bartolomeo degli Erici, di patronato della medesima famiglia Lanfreducci, si trasforma in botteghino ad uso della nuova piazza del mercato53. La stessa sorte tocca ad altri edifici ecclesiastici di patronato privato, che vengono demoliti o trasformati per far spazio ai 52 Sono noti altri casi in cui si concedono ai religiosi spazi pubblici. Nel 1620 le monache di San Benedetto chiedono di poter chiudere una strada per allargare il loro convento. L’ingegnere Matteo Pampana si reca sul posto, prende le misure, fa una stima dei costi. Il monastero, anche in questo caso, è molto stretto e ha pochi spazi. La necessità è effettiva. L’occupazione dello spazio pubblico è concessa. Per i dettagli della vicenda, cfr. D. STIAFFINI, Il progetto per la chiusura di una strada a Pisa nel XVII secolo, in «Bollettino Storico Pisano», LX, 1991, pp.271-273. 53 ARCHIVIO CAPITOLARE DI PISA (ACPI), ms.C213, P. TRONCI, Chiese, monasteri e oratori della città di Pisa, 1643. 13
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