L'unione economica e monetaria - Università di Macerata

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L'unione economica e monetaria - Università di Macerata
4. L’unione economica e monetaria
L’aspirazione all’unificazione monetaria risale alla Conferenza dell’Aia del 1969 quando,
terminato il periodo transitorio, fu deciso di impegnarsi per cercare di realizzare un altro
ambizioso obiettivo. Il Rapporto Werner1 del 1970 redatto per stabilire come raggiungere
tale scopo (su mandato dei capi di stato e di governo al detto summit dell’Aia), fissò una
serie di tappe per il conseguimento dell’unione monetaria, ed indicò, come data ultima entro
la quale il progetto avrebbe dovuto essere realizzato, il 1980.
        Contrariamente al compimento anticipato dell’unione doganale, le cose, questa volta,
andarono molto diversamente da come era stato previsto. L’accordo valutario fra alcuni
paesi europei - Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo - cui parteciparono, per un
periodo più breve, anche Italia, Francia e Regno Unito, ebbe breve vita a causa sia della
prima crisi petrolifera nel 1973-74, e ancor prima dalla dissoluzione dell’ordine monetario
(dichiarata dall’amministrazione Nixon il 15 agosto del 1971) un ordine sancito dagli
accordi di Bretton Woods stipulati tra i 730 delegati di 44 paesi già nell’estate del 1944,
addirittura prima che avesse termine la seconda guerra mondiale.
        Dopo la fine del regime di Bretton Woods, gli accordi Smithsoniani stipulati pochi
mesi più tardi, nel dicembre 1971, stabilivano per le valute dei paesi maggiormente
industrializzati (Belgio, Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Paesi Bassi, Regno
Unito e Svezia) una banda di oscillazione del 2,25% sopra e sotto la parità con il dollaro
statunitense. In base ai suddetti accordi, due valute che si trovassero agli estremi opposti
rispetto al dollaro avrebbero potuto l’una svalutare del 4,5% e rivalutare del 4,5% l’altra. In
definitiva, il tasso di cambio tra tali valute avrebbe potuto subire una variazione del 9% se
questi movimenti fossero avvenuti contemporaneamente. I Sei paesi che al tempo
formavano la Comunità Europea, considerando questa eventualità eccessiva, nel 1972, con
un accordo tra le loro banche centrali, decisero di limitare la banda di oscillazione in modo
da non superare il 4,5% tra loro.
        Il nome di “serpente valutario”, con il quale è conosciuto tale accordo - in vigore
dall’aprile 1972 al dicembre 1974 - indica l’impegno dei paesi aderenti a realizzare un
coordinamento con l’obiettivo di ridurre le oscillazioni dei tassi di cambio nella comune
fluttuazione delle valute con il dollaro USA. Con l’espressione “il serpente nel tunnel” ci si
riferiva all’accordo tra i paesi della CEE che si impegnavano a fluttuare insieme (il
serpente) nel confronti del dollaro (il tunnel). A tale accordo aderirono anche altri paesi
europei tra cui coloro che sarebbero stati protagonisti del primo ampliamento (Danimarca,
Irlanda e Regno Unito) oltre alla Svezia ed alla Norvegia.
        Tuttavia, il disaccordo sulle politiche da perseguire in un momento di alta turbolenza
nei mercati mondiali non poteva facilitarne il coordinamento. Le differenze di convinzioni
tra i paesi facevano ritenere che lo sforzo di un compromesso non sarebbe stato ripagato in
modo adeguato, e inducevano a rivolgersi di preferenza a soluzioni nazionali.
        L’accordo fallì l’obiettivo di garantire una maggiore stabilità monetaria tra i paesi
aderenti, essenzialmente perché tutto il peso della correzione necessaria a preservare la
catena di parità fra i tassi di cambio era di fatto caricato sui paesi a valuta debole che
avevano necessità di svalutare, senza che fossero previsti strumenti di concessione di credito
che permettessero a tali paesi di reggere agli attacchi della speculazione internazionale.

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  Pierre Werner all’epoca era il primo ministro lussemburghese. Il Rapporto Werner sull’unione economica e monetaria
fu presentato nell’ottobre 1970 e adottato dal Consiglio.
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Questa asimmetria, nel funzionamento di fatto della correzione, portò all’abbandono forzato
dell’accordo per quei paesi che non riuscivano a mantenersi entro i limiti stabiliti, mentre il
tentativo di iniziare a costruire una zona valutaria comune rimase così circoscritto ai paesi
dell’area del marco che, oltre alla Germania, comprendeva anche i paesi del Benelux e la
Danimarca. L’egemonia del marco tedesco, che si sarebbe affermata negli anni successivi
col susseguirsi delle tappe che hanno poi portato all’Unione Monetaria Europea, iniziava già
da quegli anni a definirsi, finendo col rivestire per i paesi europei il ruolo lasciato dal
dollaro statunitense.
4.1. L’Unione Monetaria Europea
L’esperienza fallimentare del “serpente valutario” non fece desistere i paesi europei dal
ricercare la praticabilità di un altro accordo. Secondo molti osservatori ciò fu necessario a
causa della turbolenza che si era venuta a creare sui mercati valutari internazionali e che,
insieme alla crisi petrolifera, aveva dato l’abbrivio, tra l’altro, a forti spinte inflazionistiche
in particolare in alcuni paesi europei.
        Nel 1973-74, a seguito della guerra dello Yom Kippur, il prezzo del petrolio che dal
dopoguerra tradizionalmente si manteneva ad un livello inferiore ai 3$ al barile arrivò ad
essere quotato 11,20$; un ulteriore incremento anche più forte si ebbe poi nel 1979-80
quando raggiunse i 40$. La traslazione degli accresciuti costi sui prezzi dei beni non fu
sempre completa, perché dipendeva dalla capacità delle imprese di mantenere rigido il
mark-up. I rinnovi dei contratti salariali e l’introduzione di meccanismi automatici di
indicizzazione alimentavano la spirale prezzi-salari. In molte economie europee, si registrò
un forte incremento del costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP). Alla crescita dei
prezzi contribuiva una politica monetaria diretta ad “accomodare” la domanda di
finanziamento sia del settore privato che del settore pubblico. I processi inflazionistici
indebolivano le bilance commerciali e quindi anche i tassi di cambio delle valute dei paesi a
più alta dinamica del CLUP.
        Poiché il meccanismo di inflazione-svalutazione consentiva di recuperare la perdita
di competitività subita nei mercati esteri a causa dell’inflazione, i governi vedevano con
favore che il cambio venisse lasciato libero deprezzarsi. Tuttavia, le politiche monetarie e
fiscali espansive, comportando aspettative e tassi di inflazione in crescita, accentuavano il
conflitto distributivo interno; e le svalutazioni competitive non riuscivano a garantire molto
altro che brevi periodi di incremento delle esportazioni. In un’economia che allora era molto
meno esposta agli scambi con l’estero, la gravità dei problemi provocati dalle svalutazioni
competitive non veniva percepita dalla popolazione residente quanto lo sarebbe oggi.
        Nel corso degli anni ’70, il sostegno assicurato alla domanda dalle esportazioni andò
declinando. Le difficoltà incontrate nell’affrontare in maniera non cooperativa l’instabilità
macroeconomica convinsero i dei paesi aderenti al sistema monetario europeo (SME) ad un
mutamento radicale di strategia. L’impegno a seguire una politica monetaria orientata alla
difesa di cambi fissi significò “legarsi le mani” con un vincolo esterno (Putnam, 1988).
L’adesione allo SME esprimeva la speranza che la bassa inflazione si sarebbe imposta a
imprese e sindacati come un bene pubblico da cui tutti avrebbero tratto vantaggio (Giavazzi
e Pagano, 1988).
        Facendo tesoro dell’esperienza negativa e dei relativi errori, occorreva riprendere il
tentativo dell’integrazione monetaria per evitare che l’integrazione commerciale, il cui
successo era stato tante volte dichiarato, venisse soffocata dalle fluttuazioni dei tassi di

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cambio il cui andamento, dopo la cessazione del regime di Bretton Woods, si era rivelato a
volte del tutto imprevedibile.
  Il sistema monetario europeo (SME)
Il sistema monetario europeo nacque su più solide basi. Nel marzo del 1979, per iniziativa
del Cancelliere tedesco Schmidt e del Presidente francese Giscard d’Estaing, otto paesi
europei – Germania, Francia, Belgio, Italia, Olanda, Lussemburgo, Danimarca, Irlanda in
altre parole tutti i paesi della Comunità Europea ad eccezione del Regno Unito – per porre
un freno all’instabilità monetaria che aveva caratterizzato gli anni Settanta, diedero vita ad
un accordo di cambi fissi, ma aggiustabili, con il quale si impegnarono a seguire una
politica monetaria orientata alla difesa delle parità fra le rispettive valute.
         L’obiettivo era quello di mettere fine a due fenomeni: 1) le politiche monetarie di
“accomodamento” delle tensioni inflazionistiche sorte nel corso degli anni ’70 – motivate
dagli accresciuti costi di produzione, a loro volta determinati dall’incremento del prezzo del
petrolio – che alimentavano la rincorsa fra il livello dei salari monetari ed livello dei prezzi
dei beni; 2) le frequenti svalutazioni competitive dirette a recuperare la perdita di
competitività nei mercati esteri subita a causa dell’inflazione: la cosiddetta spirale prezzi-
salari.
         Il Sistema Monetario Europeo (SME) costituì l’accordo di cambi fissi ma aggiustabili
in vigore dal 1979 al 1999. Il suo strumento tecnico, il meccanismo di tassi di cambio
(MTC), che regolava le parità fisse bilaterali tra le valute che partecipavano all’accordo,
esiste ancora oggi sotto forma di MTC II, e serve da indicatore in vista dell’ingresso nella
moneta unica europea dei paesi membri dell’UE che ancora non hanno adottato l’euro, ma
si accingono a farlo.
         Il compito di individuare la responsabilità circa la tendenza da parte di una valuta a
“sfondare” il margine superiore della banda bilaterale di oscillazione - il “tetto” che
corrisponde al massimo deprezzamento consentito rispetto alla parità centrale - avrebbe
dovuto essere svolto dall’unità di conto europea (European Currency Unit: ECU) una valuta
fittizia, consistente nel paniere delle valute, ciascuna pesata per il PIL del paese che la
emetteva sul PIL totale. L’ECU, designato a fungere da indicatore di divergenza, avrebbe
dovuto rappresentare lo strumento in base al quale si sarebbe potuto individuare nella valuta
del paese deviante la responsabilità della sua deviazione dalle parità bilaterali con le valute
degli altri paesi.
         Lo SME divenne presto un sistema di cambi fissi nel quale la politica monetaria non
era determinata su base cooperativa fra le banche centrali ma su base egemonica da parte
della Bundesbank. L’aspetto egemonico consisteva nel ruolo centrale conquistato dal marco
tedesco come àncora nominale del MTC. Se le parità bilaterali fossero state determinate
come il valore di ciascuna valuta rispetto all’ECU, si sarebbe impostato uno SME
“cooperativo”. Le parità bilaterali invece sono state concepite come rapporto di ciascuna
delle n-1 valute rispetto ad un’n-esima valuta, considerando tale il marco tedesco. Poiché la
banca centrale che emette l’n-sima valuta acquisisce una posizione privilegiata, si è in tal
modo instaurato uno SME a carattere “egemonico” imperniato sul marco come àncora
nominale del sistema.
         Alla nascita dello SME nel 1979, i divari fra i tassi di inflazione dei paesi che
partecipavano a tale accordo superavano nei casi più critici i 10 punti percentuali. Nella
prima metà degli anni ’80 - dopo che la partecipazione allo SME impose una svolta
restrittiva che pose fine alla politica accomodamento delle tensioni inflazionistiche che la

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Banca d’Italia aveva fino ad allora seguito - i problemi che questo mutamento radicale di
strategia aveva creato non tardarono a manifestarsi.
        I ri-allineamenti fra le valute, che venivano sempre concordati a mercati chiusi, non
compensavano mai in tutta la loro ampiezza i differenziali inflazionistici che nel frattempo
si erano verificati tra i paesi che richiedevano l’aggiustamento. Si affermò la convenzione
secondo cui la percentuale di aggiustamento concessa nei confronti di ciascun paese fosse
pari in media a meno della metà del differenziale di tasso di inflazione con quel paese.
        Per i paesi che di volta in volta vi hanno aderito, lo SME ha rappresentato il sistema
che forniva forti incentivi per la lotta all’inflazione. Il conseguimento della convergenza
nominale era infatti la pre-condizione per affrontare il problema della convergenza reale.
Nonostante i riallineamenti, l’impegno delle banche centrali a realizzare la disinflazione non
venne meno. L’adeguamento del cambio nominale alle divergenze fra le economie reali
veniva di volta in volta attuato in una misura tale da annullare solo una percentuale
mediamente compresa fra un mezzo e i due terzi del differenziale di inflazione maturato da
una svalutazione all’altra. Lo scopo era quello di rendere efficace la partecipazione allo
SME “legandosi all’albero maestro”, secondo la nota metafora ispirata al comportamento di
Ulisse di fronte alle sirene, in altre parole tenendo a freno la tentazione di risolvere le
tensioni inflazionistiche sul piano dell’ “accomodamento” monetario.
        Le vicende intercorse nei venti anni (1979-1999) in cui il sistema monetario europeo
è stato in vigore si possono suddividere in tre periodi.
        Il primo periodo dello SME (1979-86) vide molte revisioni delle parità centrali. I
divari fra i tassi di inflazione superavano a volte i 10 punti percentuali e ponevano gravi
problemi alle banche centrali che non potevano deflazionare le proprie economie mediante
un’improvvisa “gelata” di liquidità, benché il cambio della valuta tendesse ad indebolirsi,
per timore che la cura avrebbe potuto uccidere il malato. Supponiamo che in un paese ad
alta inflazione, ad esempio l’Italia, un peggioramento della bilancia dei pagamenti con la
Germania provochi la riduzione dell’offerta di moneta. È quanto accadde nella prima metà
degli anni ’80 quando l’economia italiana subì una perdita di competitività, che causò un
superamento delle esportazioni da parte delle importazioni e dunque un saldo commerciale
di segno negativo. Un’economia con una dinamica dei costi di produzione più rapida di
quella dei principali concorrenti europei incontra difficoltà a frenare la perdita di
competitività. Un riallineamento delle parità bilaterali della lira poteva essere solo ritardato
dallo strumento amministrativo del controllo dei movimenti dei capitali e dagli interventi di
vendita di marchi nei mercati valutari.
        Per ridurre la frequenza delle richieste di riallineamento, fu creata l’unità di conto
europea (European Currency Unit: ECU), una valuta fittizia consistente nel paniere delle
valute, ciascuna pesata per il PIL del proprio paese sul PIL totale. In caso di tensioni sui
cambi, l’ECU avrebbe dovuto segnalare tempestivamente se, all’interno della banda
bilaterale di oscillazione, andasse considerata responsabile del raggiungimento del margine
massimo di deprezzamento la valuta a rischio di svalutazione o invece la valuta in
apprezzamento. Pertanto, l’ECU avrebbe dovuto fungere da indicatore di divergenza,
segnalando alla banca centrale della valuta “deviante” la necessità di porre un deciso ed
immediato freno alla crescita monetaria.
        Il secondo periodo (1987-1993) fu caratterizzato dall’assenza di riallineamenti dei
cambi fissi. Il processo di completamento del mercato unico si riverberava sullo SME
attraverso un più deciso impegno delle banche centrali a rafforzare l’orientamento restrittivo
della politica monetaria a difesa delle parità bilaterali con il marco. Una certa convergenza
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nominale fra le economie - dovuta alla riduzione nei differenziali nel CLUP ed alla strategia
di disinflazione perseguita da banche centrali e governi rallentava la perdita di competitività
dei paesi a più alta inflazione e perciò rendeva le valute “deboli” meno esposte ad attacchi
speculativi. La stabilità delle parità fra le valute indusse molti economisti a formarsi
l’opinione che lo SME stesse conoscendo un “cambiamento strutturale”. Le autorità
monetarie e fiscali dei paesi non appartenenti all’area del marco, considerando come ormai
acquisita la fiducia nella credibilità delle loro politiche macroeconomiche da parte dei
mercati internazionali finirono per ritenere che non sussistessero più motivi per attacchi
speculativi alla griglia di parità fisse del MTC; si diffuse l’opinione che si fosse ormai
realizzato il passaggio ad uno SME “forte” (Giavazzi e Spaventa, 1990). Tale convinzione
aprì le porte alla decisione dei governi europei ad adeguarsi senza indugi alla tendenza
internazionale alla liberalizzazione dei movimenti dei capitali.
        Il terzo periodo data dalla crisi del 1992-93 quando il margine di oscillazione fu
allargato dal ±2,25% al ±15%. Consentire un deprezzamento di ben 15 punti rispetto alla
parità centrale mette di fatto una valuta al riparo dal pericolo di attacchi: gli speculatori
internazionali non erano in grado di mobilitare gli enormi quantitativi di capitale necessari a
provocare una svalutazione. La banda di oscillazione del ± 15% rimase in vigore nel periodo
1993-99 quando poi si passò all’unione monetaria. Successivamente alla crisi dello SME del
1992-93 questo intervallo di tolleranza fu sostanzialmente destituito di efficacia.
        La crisi dello SME del 1992-93 non a caso ebbe luogo a poco più di due anni dal
completamento, avvenuto nel 1990, della liberalizzazione dei mercati finanziari avviata
negli anni ’80. La liberalizzazione fece infatti emergere il problema che si determina in ogni
processo di integrazione sia reale che monetaria fra paesi caratterizzati da diverse condizioni
macroeconomiche. Tale problema è rappresentato dal cosiddetto “quartetto impossibile”: in
presenza di un mercato unico (la libera circolazione di merci, servizi e lavoro), di cambi
fissi e di libertà dei movimenti dei capitali, l’autonomia della politica monetaria diviene
impossibile. La metafora del “quartetto impossibile” intende suggerire che l’obiettivo che
aveva dato origine allo SME - il bene pubblico della stabilità monetaria attraverso politiche
monetarie che impedissero il verificarsi di processi di inflazione-svalutazione - diventava di
dubbia realizzazione una volta che il processo di liberalizzazione della circolazione dei
capitali fosse giunto a compimento.
        Benché i persistenti differenziali fra i valori del CLUP non lasciassero presagire una
diminuzione della pressione delle bilance commerciali sulle parità di cambio, si procedette
con rapidità al definitivo smantellamento degli ostacoli amministrativi alle operazioni
finanziarie e valutarie. In tal modo, si finì per aggiungere una fonte nuova di volatilità dei
cambi – i movimenti dei capitali – alla tradizionale tendenza a deprezzarsi delle valute delle
economie meno competitive. La decisione di liberalizzare il mercato dei capitali conferì ai
mercati finanziari internazionali il ruolo di arbitri dell’operato delle banche centrali e dei
governi. L’esposizione delle valute dello SME alla speculazione internazionale ne risultò
notevolmente accresciuta.
        In presenza di una progressiva crescita dimensionale degli spostamenti di capitali da
un mercato finanziario all’altro, l’andamento dei cambi a termine divenne un segnale
rilevante per comprendere le aspettative dei mercati sulle prospettive delle valute “deboli”
all’interno delle bande di oscillazione delle parità di cambio. Tale segnale esercitava una
pressione sulle banche centrali delle economie con un alto differenziale di inflazione
rispetto alla Germania affinché realizzassero una difesa più rigorosa del tasso di cambio
fisso con il marco. Il timore che le aspettative di svalutazione causate dai differenziali di
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inflazione innescassero tensioni speculative contro la valuta indusse le banche centrali dei
paesi più esposti ad innalzare i tassi di interesse in una misura superiore a quella richiesta
dal pegging con il marco.
        D’altro canto, la politica fiscale discrezionale si manteneva espansiva, soprattutto nei
paesi con alta disoccupazione. Di conseguenza, l’incremento dei tassi di interesse si rendeva
necessario anche per la necessità di piazzare i titoli a copertura dei crescenti deficit pubblici.
La lunga fase di alti tassi di interesse, perdurata fino a metà anni novanta, si affermò sia per
segnalare la credibilità alla difesa dei cambi fissi sia per la necessità di accomodare per tutta
la sua ampiezza – e cioè senza il contributo di una riduzione del tasso di interesse tedesco –
la remunerazione da riconoscere agli operatori finanziari per due tipi di rischio:
        1) il rischio di svalutazione;
        2) il rischio di ripudio del debito pubblico.
        Il differenziale di rendimento (rispetto alle attività finanziarie denominate nella
valuta leader dello SME) delle attività finanziarie denominate nelle valute “deboli”, ed
emesse da governi gravati da un elevato rapporto tra debito pubblico e PIL, si è mantenuto
molto ampio per tutti gli anni ’80.
        La contraddizione fra cambi fissi ed egemonia del marco tedesco continuava a
rappresentare una minaccia per la stabilità dello SME. Questa debolezza strutturale non era
destinata ad emergere fino a che il ciclo economico del paese leader non si fosse distaccato
drasticamente dal ciclo economico degli altri paesi dello SME. Quando ciò avvenne dopo la
riunificazione tedesca, i meccanismi di mercato innescati dalla diversità della fase ciclica di
espansione inflazionistica attraversata dalla Germania, mentre le altre economie dei paesi
del MTC erano in recessione, a determinare lo spostamento di fondi da un paese all’altro.
        Il crollo dell’Unione Sovietica e dei regimi dei paesi dell’Europa dell’Est andò a
sommarsi in quegli anni allo shock istituzionale dell’unificazione politica tedesca ed allo
shock che le bilance dei pagamenti stavano subendo con il progressivo passaggio alla piena
libertà dei movimenti dei capitali. La liberalizzazione dei mercati finanziari fu completata
entro la data stabilita del luglio 1990 e la proclamazione della repubblica di Germania
avvenne nel novembre del 1990. Questi due shock si rivelarono troppo destabilizzanti per un
accordo di cambi fissi che aveva nella “dominanza tedesca” il suo punto di forza ed al
tempo stesso la sua principale debolezza. Le tensioni valutarie che ne conseguirono
portarono nel settembre 1992 all’uscita di lira e sterlina dallo SME. Il cambio lira/marco in
poco più di cinque mesi passò dal livello di 765,4 lire (venerdì 11 settembre 1992) a 983,7
lire (24 febbraio 1993), per poi stabilizzarsi nella fascia 900-1.000 lire. La lira si svalutò
raggiungendo, nel marzo 1995, il deprezzamento massimo pari a 1.274 lire contro il marco:
+ 66% rispetto al valore del settembre 1992.
        Nel settembre 1992, a causa di forti e ripetuti attacchi speculativi susseguitisi nel
corso dell’estate, la lira italiana e la sterlina inglese, dopo avere dilapidato ingenti riserve
valutarie per sostenere le proprie valute, vennero costrette ad uscire dal MTC. Nel corso del
1993, una nuova ondata speculativa investì il franco francese (assieme a peseta spagnola,
franco belga e corona danese) nonostante il tasso di inflazione francese fosse nel frattempo
diminuito fino a divenire il più basso dello SME. Ciò era dovuto al fatto che nella Germania
unificata si erano verificate tensioni inflazionistiche che erano state innescate dal forte
aumento della domanda sia privata che pubblica connessa alla ristrutturazione produttiva
conseguente all’unificazione. Apparve evidente che era il marco la valuta cui attribuire lo
scostamento dalla normale oscillazione attorno alla parità centrale, quanto meno nel caso del
franco francese.
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Gli shock negativi2 di offerta furono la principale fonte di instabilità macroeconomica
durante il periodo dello SME. Nel modello del ciclo reale con mercati perfettamente
concorrenziali, l’aggiustamento di mercato ha luogo mediante la riduzione dei salari e dei
prezzi dei beni. Le autorità monetarie adottano una politica anti-inflazionistica e le imprese
sono indotte a ridimensionare la forza lavoro occupata (per un’ampiezza negativamente
correlata alla flessibilità del salario nominale) in modo da ottenere l’incremento nella
produttività necessario ad eguagliarne il livello al salario reale e ripristinare l’equilibrio
macroeconomico. Se invece fattori istituzionali frenano l’aggiustamento di mercato, la fase
ciclica negativa rischia di protrarsi più a lungo. In un quadro di instabilità macroeconomica
caratterizzato da inflazione crescente e produzione calante, è probabile che le autorità
monetarie scelgano la strategia di politica economica diretta a riassorbire gli effetti dello
shock di offerta attraverso l’accelerazione non annunciata della crescita monetaria. Se
l’adeguamento del salario nominale è vischioso, l’aumento più rapido dei prezzi ha l’effetto
di abbassare il salario reale, stimolando quindi la produzione.
        La crescita del prezzo delle materie prime (causata dai due shock petroliferi del
1973-74 e del 1979) e del costo del lavoro (determinata dai rinnovi contrattuali e dal
recupero dell’inflazione attraverso meccanismi automatici come la scala mobile)
comportarono un ingente incremento dei costi di produzione delle imprese.
        L’erosione del salario reale provocata dalla traslazione degli accresciuti costi sui
prezzi da parte delle imprese, e l’aumentata incertezza macroeconomica che abbassava la
propensione ad investire, determinarono il fenomeno della “stagflazione”. Le cosiddette
“svalutazioni competitive” degli anni ‘70 generarono tassi di inflazione in continuo aumento
che con la stagnazione della domanda provocò un forte aumento della disoccupazione.
        In molti paesi dell’Europa continentale, le banche centrali perseguirono l’obiettivo
della lotta all’inflazione attraverso la difesa della distribuzione del reddito antecedente al
primo shock petrolifero.
  L’unione monetaria
L’unificazione monetaria costituisce un passo avanti molto ambizioso verso la piena
convergenza fra le economie europee. Affinché possa esplicare gli attesi benefici, quali la
riduzione dei costi di transazione, l’integrazione dei mercati finanziari, etc, un’unificazione
monetaria necessita di numerose istituzioni che garantiscano l’ordinato ed efficiente
svolgimento delle funzioni monetarie e valutarie: la costruzione di organismi istituzionali
comuni a cominciare da una banca centrale, norme giuridiche, accordi e regolamentazioni
relativi ai mercati monetari e finanziari, etc. Nel partecipare ad un’unione monetaria un
governo assume molteplici impegni che si riflettono nella rischiosità di un suo eventuale
insuccesso. L’uscita dall’Euro comporterebbe per un paese ben più gravi conseguenze per
un paese che si ricredesse riguardo alla propria adesione. Benché la valuta europea sia un
segno monetario cui non corrisponde il potenziale economico di uno stato, ciò non di meno
per qualunque paese che decidesse di ritornare al proprio segno monetario il costo di uscita
dalla valuta unica sarebbe molto elevato. Il ripristino dell’autonomia di politica monetaria si
configura infatti come una vera e propria “secessione” che fa sorgere una serie di “costi”:
quelli sopportati dal paese stesso e quelli a carico dei rimanenti paesi membri.
        I criteri di Maastricht, dal nome del luogo in cui nel 1991 fu firmato il Trattato
sull’Unione Europea (TUE, noto anche come Trattato di Maastricht), segnarono

2
 Uno shock negativo di offerta – ad esempio un aumento del prezzo delle materie prime - ha l’effetto di un incremento
della dinamica dei prezzi e di diminuzione dell’occupazione e della produzione.
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un’accelerazione del processo di integrazione monetaria. Fra il 1993 ed il 1999, la
subordinazione dell’ingresso nell’unione monetaria al soddisfacimento dei criteri costituì il
meccanismo di enforcement della convergenza nominale dei tassi di inflazione, dei tassi di
interesse e della riduzione dei deficit e debiti pubblici. Al momento della verifica e del
verdetto su quali paesi sarebbero stati ammessi, nel maggio 1998, non tutti i paesi
rispettavano il limite massimo fissato per tassi di inflazione e di interesse, nonché per deficit
e debito pubblico sul PIL, anche perché una clausola del Trattato permise di ammettere
anche quei paesi - l’Italia ed il Belgio - che mostrarono di essere in una fase di rapido
decremento di tale rapporto, sulla base dell’aspettativa che la velocità di aggiustamento al
valore fissato sarebbe rimasta costante. Fu pertanto possibile considerare in “sicuro trend
decrescente” i rapporti debito pubblico/PIL in eccesso rispetto al limite del 60% di tali
paesi.
         Per instaurare in Europa il bene pubblico della stabilità monetaria, la convergenza
nominale venne affidata all’impegno - da parte delle autorità monetarie e fiscali - volto a
raggiungere gli obiettivi fissati dai criteri quantitativi di Maastricht:
         1) il tasso di inflazione non doveva eccedere di più di 1,5 punti percentuali la media
dei tre paesi dello SME il cui tasso di inflazione era più basso: Il tasso di inflazione
dell’economia (π) è dato dall’incremento del livello dei prezzi tra il tempo t ed il tempo t-1
rapportato al livello dei prezzi esistente al tempo iniziale t-1. poiché il tasso di inflazione
lega i valori nominali (monetari) ai valori reali, l’intento di tale condizione era quello di non
permettere tensioni inflazionistiche tra i paesi aderenti all’area dell’euro il che avrebbe
prevedibilmente causato squilibri nell’attività economica,
         2) il tasso di interesse a lungo termine non doveva eccedere di più di 2 punti
percentuali la media dei tre paesi dello SME il cui tasso di interesse era più basso. La banca
centrale determina variazioni verso l’alto o verso il basso del tasso di interesse ed il mercato
attraverso l’arbitraggio dei risparmiatori e degli operatori finanziari eguaglia il valore di tutti
i titoli a meno di diversità di: 1) durata: a lungo e a breve termine 2) liquidità: se esiste un
mercato secondario 3) rischio: tipo di esposizione inerente al titolo. Con questo criterio si
intendeva tener conto della valutazione che i mercati davano riguardo alle prospettive
economiche dei paesi e della rischiosità connessa ad investimenti da effettuarsi nella loro
giurisdizione; occorreva assicurare che il tasso di inflazione fosse stato ridotto in modo
permanente e che ciò fosse credibile: i tassi a lungo termine infatti incorporano le
aspettative sull’inflazione a lungo termine.
         3) il rapporto deficit pubblico/PIL non doveva eccedere il 3%; per evitare di ripetere
livelli di indebitamento conosciuti nei decenni precedenti che avrebbero finito con il gravare
sui paesi virtuosi. Un deficit pubblico si realizza quando il gettito fiscale è minore della
spesa pubblica erogata. Si riduce quindi aumentando il gettito oppure riducendo la spesa e si
copre emettendo titoli, il cui prezzo è inversamente proporzionale al rendimento.
         4) il rapporto debito pubblico/PIL non poteva eccedere il 60% del PIL o almeno
mostrare di aver intrapreso un sicuro trend decrescente. Il debito pubblico viene emesso dai
singoli stati per finanziare i deficit accumulati negli anni; si tratta dunque di un’immissione
di liquidità e in un’unione monetaria la disciplina della politica fiscale (più facile da
perseguire se il rapporto debito/PIL è simile) serve ad evitare comportamenti strategici;
inoltre può essere rilevante sapere chi lo detiene: se fossero residenti oltre ad essere una
forma di risparmio, si potrebbe considerare una partita di giro; se invece fossero altri
soggetti è più probabile che si verifichino effetti speculativi.

                                               142
5) Inoltre, nei tre anni precedenti l’ingresso nell’unione monetaria, la valuta del paese
del quale si considerava l’eventuale adesione avrebbe dovuto fare parte del MTC e non
avrebbe dovuto subire svalutazioni.
        I paesi che avrebbero poi aderito all’unione monetaria non si trovavano esattamente
in osservanza dei criteri quando questi furono decisi, ma ebbero quasi una decina d’anni per
mettersi in regola.
        La Figura 1 mostra l’eterogeneità che si riscontrava all’inizio degli anni Novanta e
come il processo di convergenza nominale relativa ai criteri di Maastricht abbia interessato
tutti i paesi. In alcuni casi si evidenziano differenze cospicue tra l’anno iniziale e l’anno
finale mostrato nei diagrammi. Come è naturale aspettarsi, queste differenze non si notano
nel diagramma relativo al rapporto debito/PIL dato il carattere di lungo termine che questa
variabile macroeconomica riveste.
Figura 1
 10.00                              Tasso di inflazione                            tassi di interesse a lungo termine 1,5               Tassi di cambio
                                                                         25
                                                                                                                          1,4

                                                                         20                                               1,3

  5.00                                                                                                                    1,2
                                                                         15

                                                                                                                          1,1
                                                                         10

                                                                                                                           1
                                                                         5
  0.00
                                                                                                                          0,9
          1991     1992   1993   1994   1995    1996     1997     1998                                                           1993         1994        1995        1996        1997        1998        1999
         France                         Italy                            0
         Spain                          Germany
                                                                                                                                at       be          de          dk          es          fi          fr          gr
         Belgium                        Portugal                                                                                ie       it          lu          nl          pt          se          uk
         Greece                         average of three lowest + 1.5%        Germania   Francia   Italia   Regno Unito

Fonte: Eurostat

Fonte: Eurostat

Il processo di convergenza nominale non fu più imperniato sulla strategia di imporre una
politica monetaria anti-inflazionistica attraverso la sanzione da parte dei mercati finanziari
internazionali che consiste nella richiesta di un “premio per il rischio” da inglobare nel tasso
di interesse sulle attività finanziarie denominate nella valuta “debole”, seguita dall’attacco
speculativo nei confronti della banca centrale inadempiente all’impegno anti-inflazionistico.

                                                                                          143
La nuova strategia di enforcement si caratterizzò per la fissazione di obiettivi numerici di
convergenza nominale non solo per la politica monetaria ma anche per la politica fiscale.

Tabella 1. Tassi di crescita del PIL pro capite (1995-2007)
                    1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007
UE 28                    :     1,7    2,6    2,8    2,9    3,6    2  1,1    1  2,2  1,6  2,9  2,6
Euro area 19             :     1,4    2,4    2,7    2,7    3,5  1,8  0,5  0,1  1,8  1,1  2,8  2,5
Belgio                   :     1,4    3,5    1,7    3,4    3,4  0,5  1,3  0,4  3,2  1,5  1,8  2,6
Bulgaria                 :       : -0,5      4,2 -5,5      5,5  5,9  8,3    6  7,2  7,9  7,7  8,1
Cechia                   :     4,4 -0,6 -0,2        1,6    4,4  3,5  1,9  3,6  4,9  6,2  6,5    5
Danimarca              2,6     2,3    2,8    1,9    2,6    3,4  0,5  0,1  0,1  2,4    2  3,6  0,5
Germania               1,5     0,6    1,8    2,1      2    2,9  1,6 -0,1 -0,7  1,3  0,9  3,9  3,5
Estonia                  :       7 13,3      5,1    0,1    8,8    7  6,8  8,1    7   10 10,9  8,4
Irlanda                  :       :      :       :   9,7    8,5  4,4  3,8    2  4,9  3,4  3,1  0,7
Grecia                   :     2,4      4    3,3    2,7    3,5  3,6  3,5  5,5  4,8  0,3  5,3    3
Spagna                   :     2,2    3,3    3,9    4,1    4,8  3,5  1,2  1,3  1,6  1,8  2,5  1,8
Francia                1,7       1      2    3,2    2,9    3,2  1,2  0,4  0,1    2  0,8  1,7  1,7
Croazia                  :       :      :       :      :     :  6,5  5,1  5,6    4  4,1  4,8  5,2
Italia                   :     1,3    1,8    1,6    1,5    3,7  1,7    0 -0,4  0,8  0,3  1,6  0,9
Cipro                    : -0,3       1,1    3,9    3,7    4,6  2,5  2,2  1,2  3,2  2,2  2,8  2,6
Lettonia                 :     3,5 10,1      7,5    3,5    6,4  7,8  8,4  9,5  9,5 11,9 12,9 10,8
Lituania                 :       6    9,1    8,3 -0,4      4,6  7,4  7,6 11,4  7,8  9,5  9,1 12,4
Lussemburgo              :     0,2    4,4    4,7    6,9    6,8  1,4  2,7  0,4  2,2  1,6  3,6  6,6
Ungheria                 :     0,2    3,5    4,5    3,5    4,5    4  4,8  4,1  5,2  4,6    4  0,6
Malta                    :       :      :       :      :     : -0,2  2,2  1,9 -0,2  3,1  1,5  3,6
Paesi Bassi              :     3,1    3,8    3,9    4,3    3,5  1,4 -0,5 -0,2  1,7  1,9  3,4  3,5
Austria                  :     2,3    2,1    3,4    3,4    3,1    1  1,2  0,3  2,1  1,4  2,8  3,3
Polonia                  :       6    6,5    4,6    4,7    4,6  1,3  2,1  3,7  5,2  3,5  6,3  7,1
Portogallo               :     3,1      4    4,3    3,3    3,1  1,2  0,2 -1,3  1,6  0,6  1,4  2,3
Romania                  :     4,2 -4,6 -1,9 -0,2          2,5  5,7  8,7    6    9  4,8  8,7  8,5
Slovenia                 :     3,5    5,3    3,5    5,2    3,9  2,8  3,7  2,8  4,3  3,8  5,3  6,4
Slovacchia               :     6,6    5,9    3,9 -0,3      1,1  3,7  4,5  5,4  5,2  6,7  8,4 10,7
Finlandia              3,8     3,3    5,9    5,1    4,2    5,4  2,3  1,4  1,8  3,6  2,4  3,7  4,7
Svezia                 3,5     1,4    2,8    4,2    4,4    4,6  1,3  1,7    2  3,9  2,4  4,1  2,6
Regno Unito              :     2,3    2,9    2,9    2,9    3,4  2,3    2    3    2  2,2  1,8  1,7

Fonte: Eurostat

Le evidenze empiriche più significative furono le seguenti:
        1) La lenta riduzione dell’inflazione. Dopo la discesa iniziale del 1982-86, favorita
dal contro-shock di riduzione del prezzo del petrolio, il tasso di inflazione subì una risalita
alla fine degli anni ’80, soprattutto nei paesi della Periferia, e si avvicinò al basso livello cui
l’inflazione era stata portata in Germania soltanto dopo le crisi del 1992 e del 1993 o in
alcuni casi lo raggiunse.
        2) L’incremento del tasso di disoccupazione. In seguito alla riduzione conosciuta
negli anni 1987-89, la disoccupazione si era stabilizzata attorno a valori ancora piuttosto
elevati, in particolare in quella Periferia in cui si registravano tassi di interesse in salita ed
una prolungata caduta del tasso di crescita del reddito. Questi dati hanno indotto a formulare
l’ipotesi che affidare di fatto alla Germania la determinazione dello stock di moneta in
circolazione nell’area dello SME abbia comportato una restrizione monetaria superiore
all’obiettivo di sconfiggere l’inflazione, in altre parole ad una distorsione in senso
deflazionistico della crescita europea.
        3) Lo squilibrio nei flussi commerciali intra-SME. Dall’andamento dei valori del
rapporto Partite correnti/PIL in alcuni paese dello SME si rileva come il surplus
                                                  144
commerciale della Germania sia cresciuto dalla costituzione dello SME fino allo shock
asimmetrico rappresentato dalla riunificazione politica tedesca. All’opposto, l’Italia nella
fase di cambi stabili 1987-92 registrava crescenti passivi della bilancia commerciale. Negli
anni successivi alle crisi 1992-93, invece, ai valori negativi del rapporto in Germania,
causati dalle conseguenze economiche del processo di riunificazione politica, corrispondono
notevoli recuperi in Italia con il passaggio ad elevati surplus. Si può ipotizzare che questa
robusta correlazione fra i flussi commerciali sia l’esito dei trend di deprezzamento reale del
marco e di apprezzamento reale delle valute dei paesi della periferia, tra cui l’Italia, prodotti
rispetto ai differenziali inflazionistici con la Germania in presenza di cambi fissi.
       4) La stagnazione della crescita. Al tempo si ipotizzò che il forte incremento dei tassi
di interesse ed i bassi valori del tasso di crescita, particolarmente evidenti nei paesi della
Periferia, fossero legati da un rapporto di causalità. Alti tassi di interesse avrebbero dissuaso
gli imprenditori nazionali ad investire in attività produttive rischiando, quando era possibile
ottenere una maggiore remunerazione sul mercato sia nazionale che internazionale dei
capitali. I tassi di crescita del PIL, tuttavia, sono rimasti molto contenuti anche negli anni a
noi più vicini in presenza della discesa dei tassi di interessi che si sono ridotti fino allo zero
in seguito alla grande recessione.
       Dall’inizio di questo difficile periodo i tassi di interesse sono stati ridotti e la BCE ha
seguito la FED nella discesa riducendoli anche oltre i livelli praticati sul dollaro.

Successivamente i tassi americani hanno iniziato a risalire, mentre la BCE tarda a seguire.

                                               145
L’attuale assetto istituzionale dell’unione monetaria europea (UME) scaturisce dal Trattato
di Maastricht che definì tre tappe per il cammino che avrebbe condotto all’unificazione
monetaria.
        La prima tappa (luglio 1990 - giugno 1993) proseguì il rafforzamento della
cooperazione nella politica monetaria, dopo la completa liberalizzazione dei movimenti di
capitale.
        La seconda tappa (gennaio 1994 - dicembre 1998) fu rivolta alla creazione di
un’istituzione di preparazione all’integrazione monetaria, l’Istituto Monetario Europeo. Tale
organismo ha provveduto a mettere i mercati monetari e finanziari ed il sistema dei
pagamenti nelle condizioni di affrontare il passaggio ai cambi irrevocabilmente fissi e
l’entrata in operatività della Banca Centrale Europea.
        La terza tappa (1 gennaio 1999 - 31 dicembre 2001) vide l’adozione dell’Euro nelle
transazioni finanziarie, l’emissione di titoli pubblici in Euro e la possibilità di optare per
conti bancari in Euro. Nel periodo compreso fra il 1 gennaio e il 1 luglio 2002 le banconote
e le monete in Euro sostituirono le valute nazionali.
        I paesi che non hanno perseguito il conseguimento dei criteri di Maastricht alla data
del 1 gennaio 1999 (Danimarca, Gran Bretagna e Svezia) o il cui soddisfacimento dei criteri
fu giudicato insufficiente nella valutazione di conformità del 1998 (la Grecia, ammessa
nell’UME solo dal 1 gennaio 2000) regolavano le parità delle rispettive valute mediante il
MTC II.
  La Banca Centrale Europea
Successivamente alla decisione di dare avvio all’unione monetaria nel 1999, il processo di
convergenza nominale fra i paesi dell’UME subì una forte accelerazione. Parallelamente
alla convergenza nei tassi di interesse reali, indotta dalla accelerazione nella discesa dei tassi
di inflazione, a partire dal 1994 i tassi di interesse nominale a breve termine conobbero una
notevole riduzione della dispersione, fino all’azzeramento del valore della deviazione
standard con l’introduzione dell’Euro ed il definitivo passaggio della politica monetaria alla
Banca Centrale Europea (BCE) il 1 gennaio 2002.
        La BCE ha finora dichiarato di non volere influenzare l’andamento dell’Euro nei
mercati valutari internazionali e di volere lasciare che la determinazione del suo valore - in
un contesto di crescente liberalizzazione ed integrazione dei mercati delle merci e dei
capitali - sia esclusivamente guidata dalle forze di mercato. Tuttavia, quanto più articolata
diverrà l’interrelazione fra mercati reali, finanziari e valutari, tanto più i fondamenti
istituzionali - dall’armonizzazione fra i regimi fiscali nazionali, all’interrelazione fra i
sistema legali di common law e di civil law, alle regole di politica monetaria e di politica
fiscale seguite dalle banche centrali - acquisiranno rilevanza nel determinare ruolo ed
influenza delle valute di riferimento delle tre grandi aree valutarie mondiali.
        Il processo di integrazione economica è stato notevolmente accelerato da due fattori:
1) la fine del rischio di cambio con l’introduzione dell’Euro e 2) la reputazione acquisita
della banca centrale nell’ancorare la politica monetaria all’obiettivo prioritario della stabilità
monetaria.
        Il sistema europeo delle banche centrali comprende la BCE e le banche centrali
nazionali (BCN) dei paesi membri dell’Unione Europea che hanno introdotto l’Euro. Più
precisamente, con la nascita della moneta unica la politica monetaria è stata centralizzata
presso la BCE. La funzione di vigilanza sul sistema bancario e sulla stabilità finanziaria – in
base al principio di sussidiarietà – sono rimaste prerogativa delle BCN.
                                               146
L’assetto istituzionale della politica monetaria evoca la struttura tipica degli stati
federali. Vi convivono l’accentramento decisionale rappresentato dal fatto che le decisioni
di politica monetaria – benché siano preparate sul piano statistico ed econometrico sia dalla
BCE che dalle BCN – vengono prese al livello centrale e il decentramento operativo, in
quanto le singole banche centrali provvedono ad attuare le direttive nei rispettivi stati.
        Gli organismi decisionali della BCE sono il Comitato Esecutivo e il Consiglio
Direttivo. I membri del Comitato Esecutivo, chiamati a svolgere un mandato non
rinnovabile di 8 anni, sono: un Presidente, un Vice Presidente e 4 “esperti” di alto profilo
professionale in campo monetario. Il Consiglio Direttivo, che si riunisce ogni due settimane
nella sede centrale di Francoforte, è invece composto dal primo organismo e dai governatori
delle dodici banche centrali nazionali. Le decisioni vengono prese a maggioranza semplice;
ogni membri dispone di un voto, in ossequio al principio accolto nel Trattato di Maastricht
secondo il quale essi devono servire l’interesse comune dei paesi dell’UME nel loro
complesso e non gli interessi particolari di un singolo paese.
        La credibilità delle decisioni di politica monetaria poggia essenzialmente sulla
reputazione di una banca centrale. La reputazione dipende a sua volta da due fattori:
l’indipendenza (in primo luogo, dai governi nazionali) e la responsabilità (accountability).
        La scelta di esplicitare la sola stabilità dei prezzi come obiettivo della politica della
BCE è stato interpretata come un segnale ai mercati finanziari internazionali che la BCE si
pone come erede dell’impegno anti-inflazionistico che nello SME assicurò la centralità alla
Bundesbank.
        I maggiori pericoli di tensioni inflazionistiche vengono associati all’eventualità che
nei paesi dell’UME si generi una tendenza a stipulare contratti salariali che eccedano la
dinamica della produttività, oppure vengano attuate manovre fiscali discrezionali
incompatibili con il rispetto dei vincoli del patto di stabilità e crescita (PSC) con
conseguente pressione dei governi sul rappresentante della propria banca centrale nazionale
perché il Consiglio Direttivo adotti una politica monetaria più accomodante. Il messaggio è
che la politica monetaria comune non dovrà né potrà cedere a pressioni da parte di singoli
stati relative alla “monetizzazione” di eccessi di domanda di liquidità.
        La costituzione dell’unione monetaria ha avuto come presupposto il soddisfacimento
dei criteri di Maastricht da parte degli stati che hanno adottato l’Euro. Il PSC è entrato in
vigore il 1 luglio del 1998 allo scopo di procrastinare il vincolo sui deficit pubblici dei paesi
dell’UME successivamente al 1 gennaio 1999. Una volta che il varo dell’unione monetaria
avesse annullato l’effetto di disincentivo della sanzione di esclusione dall’Euro in caso di
eccessivi deficit e/o debito pubblico sulla sorveglianza dei conti pubblici, i governi
avrebbero potuto riconquistare piena autonomia, con il rischio di vedere una ripresa della
formazione di deficit che avrebbe messo in dubbio la sostenibilità del debito pubblico. La
logica economica del PSC è dunque l’obiettivo di formulare un nuovo meccanismo di
enforcement della “disciplina fiscale”.
        Una volta definiti i tassi di cambio irrevocabilmente fissi undici valute3 il 1 gennaio
1999 diedero vita all’unione monetaria. Esattamente un anno dopo, l’ingresso nell’UME
della dracma greca (rientrata nel MTC solo nel marzo 1998) portò a dodici il numero di
paesi dell’UE che il 1 gennaio 2002 misero in circolazione l’euro. La Slovenia è entrata

3
 Le undici valute sono quelle in corso nei seguenti paesi: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia,
Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna.
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nell’UME il 1.1.2007, seguita poi da Malta e Cipro (2008), Slovacchia (2009), Estonia
(2011), Lettonia (2014).
       Le principali integrazioni al Patto sono state: 1) la Risoluzione, approvata dal
Consiglio Europeo nel 1997, che introdusse la formula “close to balance or in surplus” che
impone l’obbligo di raggiungere nel medio termine un bilancio pubblico “vicino al pareggio
o in surplus”. La logica economica di questo vincolo aggiuntivo è che, nell’equilibrio
macroeconomico, la posizione fiscale “normale” è il bilancio in pareggio. Una volta
raggiunto il pareggio, in occasione di uno shock un paese si troverà nella condizione di
potere sfruttare in tutta la sua ampiezza l’intervallo fra 0 (bilancio in pareggio nel medio
termine) e 3% (vincolo sul deficit pubblico annuale), senza il timore che l’effetto espansivo,
anche quello generato dal più robusto fra i sistemi di stabilizzatori automatici, possa causare
lo “sfondamento” del limite. Per rimanere ancorati al pareggio di bilancio nel medio
termine, i paesi membri dovrebbero rinunciare a politiche discrezionali di stabilizzazione ed
affidare la correzione del ciclo economico ai soli stabilizzatori automatici; 2) l’Opinione del
Consiglio Europeo del 2002 secondo la quale il saldo strutturale (depurato dal ciclo) del
bilancio pubblico è la misura appropriata per valutare la posizione fiscale di un paese; 3) il
“nuovo PSC”, ovvero la revisione che nel marzo 2005 ha introdotto modifiche rivolte a
rendere meno cogenti i vincoli del PSC: un periodo più esteso entro il quale correggere i
deficit eccessivi; una maggiore discrezionalità nella valutazione delle suddette tre
condizioni; in particolare, per i paesi con un “basso” rapporto debito pubblico/PIL, il limite
non soggetto a sanzione è elevato al 3,5%, il periodo di tolleranza è esteso a due anni e dal
computo del deficit pubblico sono deducibili alcune specifiche spese dirette a promuovere la
crescita.
       La “procedura di debito eccessivo” (Excess Deficit Procedure, PDE) prevista nel
TUE assegna alla Commissione Europea il compito di monitorare l’andamento dei deficit e
dei debiti pubblici rispetto al PIL dei paesi che adottano l’euro, fissa una procedura intesa ad
esercitare una moral suasion nei confronti delle autorità fiscali nazionali affinché
perseguano le misure di contenimento suggerite e prevede sanzioni in caso di sfondamento
del tetto. È però il Consiglio dei Ministri dell’Economia (Ecofin), su indicazione della
Commissione, l’istituzione (politica) che emette un “preavviso di infrazione” (early
warning). Se la moral suasion non convince l’autorità fiscale del paese a perseguire le
misure di contenimento suggerite, viene comminata una sanzione: l’accantonamento in un
deposito infruttifero di una forte pena pecuniaria. Ciò è avvenuto quando ad eccedere il
“tetto” del 3% nel 2002 fu il Portogallo (la sanzione fu comminata, benché non eseguita);
ma quando a trovarsi in condizioni di inadempienza simili sono state nel 2003 Francia e
Germania, la proposta di sanzione formulata dalla Commissione non è stata accolta.
       Fino alla recente revisione del Patto di Stabilità e Crescita (PSC), l’eccesso rispetto al
3% poteva giustificarsi soltanto in presenza delle tre condizioni previste:
       1) l’eccezionalità: una grave recessione;
       2) la transitorietà: una tendenza al rientro nel limite dopo il primo anno e
       3) la prossimità: un valore del rapporto non lontano dal “tetto”.
       In seguito alla recessione economica dei primi anni del nuovo millennio, la discesa
del rapporto deficit pubblico/PIL ha subito in molti paesi un’inversione di tendenza. Il
rapporto con il PIL dei deficit pubblici dei tre maggiori paesi europei ha superato il 3% ed il
debito pubblico di alcuni di essi (Italia, Belgio e Grecia) permaneva ancora attorno al 100%
del PIL. La decisione di elevare il limite non soggetto a sanzione al 3,5% e di estendere il
periodo di tolleranza a 2 anni, presa dall’ECOFIN all’inizio del 2005, lungi dal risolvere la
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questione del coordinamento delle politiche fiscali nazionali, avrebbe potuto accrescere la
probabilità di un conflitto fra BCE ed uno o più governi.
        La logica sottostante all’introduzione di un limite sul deficit pubblico / PIL ha
ricevuto molte interpretazioni:
        1) turbativa della capacità della BCE di controllare il tasso di interesse sull’euro.
Ingenti emissioni di titoli pubblici da parte di uno o più paesi dell’UME, generando un
eccesso di domanda di fondi liquidi, potrebbe innescare tensioni al rialzo del tasso di
interesse nei mercati finanziari europei.
        2) timore che la BCE sia indotta a concedere credito ad un paese in difficoltà. Se un
governo si vede costretto a rifinanziare il proprio debito a tassi crescenti e si nutrono dubbi
sulla sua solvibilità fiscale, alla BCE è fatto divieto dallo Statuto di procedere al salvataggio
(no bail-out clause). Tale clausola è rivolta ad evitare che la crisi di solvibilità di uno stato
provochi un effetto sistemico sui mercati finanziari europei.
        La questione di fondo consiste nella potenziale contraddizione che sorge fra obiettivo
di breve periodo della stabilizzazione e l’obiettivo di lungo periodo della solvibilità fiscale.
Nelle fasi cicliche di espansione economica il primo obiettivo viene perseguito dalla
stabilizzazione in senso anticiclico operata dagli stabilizzatori automatici; nel generare un
gettito fiscale addizionale destinabile alla decumulazione del debito pubblico il ciclo
economico espansivo è in armonia con la sostenibilità fiscale di lungo periodo.
4.2. La teoria delle aree valutarie ottimali
La geografia economica di un’area rileva essenzialmente per due ordini di fattori: i) il
radicamento di una comunità ad un territorio, attraverso l’insieme dei beni pubblici che vi
sono stati realizzati in base a determinati fattori culturali ed economici; ii) l’impatto
sull’efficienza economica della distanza geografica fra i diversi stati o regioni che
compongono un’area valutaria. Nel descrivere un’area monetaria, si ricorre a volte alle
definizioni di Centro e Periferia. Ma gli economisti che analizzano la corrispondenza fra
condizioni di efficienza economica e confini delle unioni monetarie spesso scoprono che in
un’area valutaria sono incluse regioni della Periferia non omogenee con quelle del Centro.
Se il criterio in base al quale si dà vita ad un’area valutaria ottimale fosse esclusivamente
economico, la nuova valuta che subentri ad una pluralità di valute “regionali” non dovrebbe
estendere la propria sovranità oltre la “regione marginale”, da intendersi come la regione
che presenta l’eguaglianza fra benefici e costi dell’inclusione nell’area valutaria. In effetti, è
proprio questa la definizione adottata nella teoria economica.
 Benefici e costi di un’area valutaria ottimale
Un’area valutaria si definisce ottima (AVO) quando la sovranità monetaria di una valuta si
esercita sulla superficie territoriale corrispondente alla massimizzazione della differenza fra
benefici e costi.
        I costi discendono essenzialmente dalla antinomia fra uniformità dell’esposizione alla
politica monetaria comune e l’eterogeneità fra i paesi dell’unione monetaria rispetto ai
valori medi dell’Unione Monetaria Europea (UME) di inflazione ed output successivamente
ad uno shock. Infatti, gli effetti di uno shock (simmetrico o asimmetrico) si diffondono in
maniera diseguale fra i vari paesi. Supponiamo si determini uno shock di domanda negativo.
La politica monetaria della Banca Centrale Europea (BCE), essendo orientata per assorbire
gli effetti “medi” su inflazione ed output si impegnerà nella modifica del tasso di interesse
(da cui conseguirà una variazione del tasso di cambio, anche se la BCE non esprime un
obiettivo di cambio). Soltanto i paesi con variazioni di inflazione ed output pari a quelle
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