TRE TEMI DI POLITICA MONETARIA - STUDI E NOTE DI ECONOMIA 2/96

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STUDI E NOTE DI ECONOMIA 2/96

TRE TEMI DI POLITICA MONETARIA

RICCARDO DE BONIS *

Introduzione
Da sempre, il dibattito di politica monetaria si sofferma su tre temi
principali: a) la capacità della politica monetaria di influenzare il red-
dito e i prezzi; b) i canali di trasmissione attraverso i quali essa opera;
c) la necessità o meno di utilizzare regole nella sua gestione e l’impor-
tanza dell’indipendenza della Banca centrale.
    Si tratta di temi classici, ridiscussi negli ultimi venti anni alla luce
di sviluppi teorici e di insuccessi della politica economica nel conteni-
mento dell’inflazione o nell’attenuazione delle fluttuazioni cicliche nei
maggiori paesi industriali. Tra gli sviluppi teorici si possono ricordare
l’ascesa delle aspettative razionali a nuova ortodossia economica
negli anni Settanta e le difficoltà successive del paradigma 1. Sotto il
profilo storico, un effetto decisivo ebbe la stagflazione degli anni
Settanta, che mise in crisi l’idea dell’esistenza di una curva di Phillips.
Il tasso medio di crescita del prodotto interno lordo dei paesi Ocse
cadde dal 4,7 per cento del 1963-72 al 2,8 del 1973-79; la disoccupa-
zione crebbe dal 2,7 al 5,1 per cento; nello stesso periodo, il tasso di
inflazione salì dal 4,3 all’8,7 per cento 2. Significativa è stata pure l’at-
tenzione per il credit crunch statunitense degli anni Novanta e per le
difficoltà della politica monetaria nel favorire la ripresa del ciclo: tra
il 1989 e il 1991, il tasso di crescita medio annuale del credito è sceso
al 6,2 per cento, rispetto a valori del 10 per cento osservati tra il 1986
e il 1988, del 13,1 tra il 1983 e il 1985, del 9,3 tra il 1980 e il 1982 3. È,
infine, crescente l’interesse per i meccanismi istituzionali della politica

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* Banca d’Italia - Servizio Studi.
Questo lavoro è stato svolto durante un periodo di soggiorno presso l’Università di
Harvard, negli Stati Uniti. Una precedente versione ha beneficiato dei commenti di F.
Lippi, C. Monticelli, R. Rinaldi, V. Sannucci, I. Visco. Sono naturalmente responsabi-
le degli errori e delle idee presenti nel testo. Le opinioni espresse non impegnano in
alcun modo l’Istituto di appartenenza.
¹ Per una sintesi si vedano, ad esempio, Krugman (1994) e Romer (1996).
² Vicarelli (1987).
³ Cfr. i saggi raccolti nel volume della Federal Bank of New York (1993).

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monetaria, alla luce del Trattato di Maastricht e delle conseguenti
riforme che nei paesi europei hanno rafforzato l’indipendenza delle
banche centrali 4.
    Il presente lavoro è diviso in cinque paragrafi. Il primo riassume il
quadro di riferimento teorico che fa da sfondo alla discussione. Il
secondo, il terzo e il quarto paragrafo analizzano i tre temi ricordati
all’inizio, con riferimento particolare alla letteratura apparsa negli
Stati Uniti. Il quinto paragrafo riporta alcune valutazioni di sintesi.
1. Il quadro di riferimento teorico
Alla fine degli anni Sessanta la macroeconomia aveva raggiunto un
consenso – uniforme negli Stati Uniti, più problematico in Europa –
fondato sul prevalere della sintesi neoclassica e sull’esistenza di una
curva di Phillips 5. Questo equilibrio fu investito dalla discussione sui
fondamenti microeconomici della macroeconomia e dall’introduzione
dell’ipotesi di aspettative razionali. La capacità della politica moneta-
ria di influenzare in permanenza il reddito fu messa in discussione 6.
    Nelle parole di Friedman (1968), nel lungo periodo la politica
monetaria non può stabilizzare i tassi di interesse, né influenzare il
livello dell’occupazione. Un aumento dell’offerta di moneta può
determinare solo nel breve periodo una riduzione dei tassi di interesse
e una crescita del reddito: le imprese, infatti, reagendo più velocemen-
te dei lavoratori alla politica monetaria più espansiva, aumenteranno
non solo la produzione, ma anche i prezzi. In un secondo momento, i
lavoratori si accorgeranno che i salari reali sono diminuiti: l’occupa-
zione è aumentata perché la politica monetaria ha sorpreso i lavora-
tori, ma essi richiederanno presto salari più elevati. La crescita del
salario reale ricondurrà l’occupazione verso il suo livello naturale.
    In questo schema, solo un nuovo aumento della moneta può dare
luogo a una nuova diminuzione della disoccupazione. Non esiste così
un trade-off permanente tra disoccupazione e inflazione. La disoccu-
pazione può rimanere sotto il suo livello naturale solo a costo di acce-
lerare l’inflazione. Esiste una sostituibilità temporanea tra inflazione
e disoccupazione, ma essa non è duratura perché non deriva dall’in-
flazione in sé, ma dall’inflazione non prevista.
    I contributi maggiori di Friedman sono due. In primo luogo, la
riproposizione dell’idea di un tasso naturale di disoccupazione, deter-
minato dalle forze reali dell’economia, una nozione da sempre pre-
sente nella macroeconomia prekeynesiana, ma riportato in auge dalle

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⁴ Sul tema si vedano, tra gli altri, Fischer (1994), Federal Reserve of Boston (1994),
Tendenze Monetarie (1995).
⁵ In Europa, la sintesi neoclassica è sempre stata vista come una ricostruzione distorta
del pensiero di Keynes. Per un giudizio in tal senso cfr., ad esempio, Vicarelli (1981).
⁶ Si vedano Mankiw (1990) e Blanchard (1990) per una sintesi.

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difficoltà della curva di Phillips a partire dalla fine degli anni
Sessanta. In secondo luogo, l’attenzione per l’inflazione non prevista
come elemento di efficacia della politica monetaria, un tema che sarà
ricorrente nella discussione successiva. Nel «modello delle isole » di
Lucas (1973), ad esempio, le imprese non sono in grado di distinguere
variazioni del livello assoluto dei prezzi da cambiamenti dei prezzi
relativi. Gli agenti economici reagiscono a un aumento della moneta
facendo salire la produzione, perché confondono una crescita del
livello generale dei prezzi con un aumento del prezzo del bene che essi
producono. L’informazione imperfetta fa sì che la politica monetaria
non sia neutrale; nel breve periodo esiste una correlazione positiva tra
moneta e prodotto reale e, quindi, una curva di Phillips con un’incli-
nazione negativa.
    Abbandonando l’ipotesi di economie con informazione imperfet-
ta, Sargent e Wallace (1975) mostrarono che solo assumendo aspetta-
tive adattive si può parlare di un trade-off tra inflazione e disoccupa-
zione e di una capacità della politica monetaria di influenzare il red-
dito. Al contrario, se i soggetti economici formano le loro aspettative
in maniera razionale e tenendo conto delle regole che presiedono alla
conduzione della politica monetaria, quest’ultima è inefficace, sia se
mira al controllo dei tassi di interesse, sia se intende controllare l’of-
ferta di moneta. In particolare, variazioni attese della moneta non
hanno effetti. Ancora una volta, solo sorprendendo gli agenti la poli-
tica monetaria ha un ruolo.
    Reagendo alla proposizione di inefficacia, si è mostrato che anche
se gli agenti hanno aspettative razionali la politica monetaria può
avere effetti reali, se i prezzi hanno qualche forma di rigidità; questa
rigidità è spesso una soluzione ottimale che emerge endogenamente,
piuttosto che un’ipotesi di partenza ad hoc. Se i contratti salariali
sono stipulati in termini nominali e hanno una durata maggiore del
tempo necessario alla politica monetaria per reagire agli shocks reali,
variazioni dell’offerta di moneta influenzano il reddito (Fischer,
1977). Con regole diverse per la fissazione dei salari, un aumento del-
la moneta può avere effetti permanenti sul reddito, dipendenti dalle
condizioni del mercato del lavoro (Taylor, 1979). In sintesi, l’assunto
di agenti con informazioni asimmetriche o l’esistenza di imperfezioni
dei mercati per la presenza di rigidità nominali o reali, per i prezzi o
per i salari, fanno sì che un aumento della moneta possa influenzare
nel breve periodo non solo i prezzi ma anche il reddito 7.
    A questa impostazione «neokeynesiana», si contrappone l’ap-

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⁷ I contributi più significativi in materia di contratti scaglionati, coordination failures,
costi di listino e «salari efficienza», sono raccolti nell’antologia a cura di Mankiw e
Romer (1991). Sotto particolari modalità delle regole che presiedono al cambiamento
di prezzi e salari, la moneta può comunque essere neutrale (cfr. ad esempio, Caplin e
Spulber, 1987).

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proccio del real business cycle (RBC), che riafferma l’inesistenza di un
ruolo per la politica monetaria. Piuttosto che essere influenzate da
variazioni della moneta o del credito o da cambiamenti della doman-
da effettiva, le fluttuazioni economiche derivano da shocks tecnologi-
ci, ai quali gli agenti reagiscono aumentando l’offerta di lavoro e
sostituendo intertemporalmente lavoro e ozio. Variazioni permanenti
dei salari non influenzano il comportamento dei soggetti. Al contra-
rio, aumenti temporanei dei salari conducono a un più forte impegno
lavorativo degli agenti, nell’aspettativa di un riposo maggiore in futu-
ro, quando le remunerazioni si saranno nuovamente ridotte. Un
aumento della produttività – e dei salari – aumenta il costo opportu-
nità del riposo e conduce a un maggior livello di occupazione.
L’interazione tra cambiamenti della tecnologia e offerta di lavoro
endogena da parte di individui ottimizzanti è all’origine del ciclo eco-
nomico, mentre i mercati sono in equilibrio, i soggetti hanno aspetta-
tive razionali e sono assenti asimmetrie informative 8.
    Elementi dei paradigmi appena sintetizzati contraddistinguono,
come si vedrà, i diversi punti di vista sull’operare della politica mone-
taria. Questi ultimi non sono che il riflesso della situazione di fram-
mentazione in cui versa la macroeconomia dopo la fuoriuscita dal
vecchio consenso degli anni Sessanta.
2. La politica monetaria « conta»?
La disponibilità di serie storiche sulle variabili macroeconomiche
segnala, in tutti i paesi, la presenza di correlazione positiva tra mone-
ta e credito, da un lato, e reddito, dall’altro. Le correlazioni sono
variabili per intensità, mutano a seconda dei periodi considerati, e
dipendono dall’aggregato monetario (o creditizio) analizzato o da
quale componente dell’attività produttiva si prenda in esame (consu-
mo, investimenti o loro sottoaggregati). Di recente, ad esempio, la
relazione stabile osservata in molti paesi tra moneta e reddito si è
indebolita 9. Al contrario, in Italia nella seconda metà degli anni
Ottanta era venuto meno un rapporto stabile tra credito e prodotto
nazionale, per effetto dell’intensificarsi della concorrenza tra le ban-
che dopo l’uscita definitiva dal massimale sui prestiti. Negli Stati
Uniti, all’inizio degli anni Ottanta la relazione tra credito e reddito fu
considerata da alcuni più costante di quella esistente tra moneta e
GDP, proprio quando la Fed si muoveva verso la scelta di un aggre-
gato monetario come obiettivo intermedio, peraltro abbandonato ver-
so la metà del decennio 10.
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⁸ Si vedano Prescott (1986) e Campbell (1994) per due esempi di modelli di RBC,
Summers (1986) per una critica e Stadler (1994) per una sintesi.
⁹ Per una recente sintesi di queste problematiche nel Regno Unito si veda Astley e
Haldane (1995).
¹⁰ Cfr. Vaciago (1985), Friedman e Kuttner (1992) sul caso americano.

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    Pur registrando l’esistenza di una correlazione tra moneta e reddi-
to, la direzione di causalità tra le due variabili non è stabilita. Da una
parte, la moneta potrebbe influenzare il reddito attraverso cambia-
menti dei tassi di interesse reali che modificano l’investimento e il
consumo. Allo stesso tempo, la moneta potrebbe essere endogena,
aggiustandosi alle variazioni del prodotto nazionale: un aumento del
reddito comporta una crescita della domanda di attività liquide, alla
quale la Banca centrale risponde accrescendo l’offerta di moneta. Il
nesso di causalità tra moneta e reddito e la possibilità di individuare
manovre monetarie effettivamente esogene, vale a dire non determi-
nate da cambiamenti delle variabili reali, sono i temi al centro della
discussione. Due filoni di analisi studiano se variazioni della politica
monetaria influenzano il reddito e non solo i prezzi, minando l’idea
di neutralità:
a) un approccio « narrativo », originato da Friedman e Schwartz
    (1963) e riutilizzato da Romer e Romer (1989);
b) un’impostazione basata sulla stima di forme ridotte attraverso
    VAR (vector autoregressions), che ha avuto origine negli Stati
    Uniti, ma per la quale esistono numerose applicazioni alle espe-
    rienze di altri paesi.
2.1. L’approccio narrativo
    Friedman e Schwartz (1963) partono dalle ipotesi di neutralità nel
lungo periodo della moneta e di non neutralità nel breve periodo. La
moneta influenza il reddito direttamente, senza modificare i tassi di
interesse, incidendo sulla spesa complessiva dell’economia, nella qua-
le la distinzione tra consumo e investimento è irrilevante. Natural-
mente, Friedman e Schwartz non affrontano le questioni statistiche di
esogenità o meno della moneta che dominano la letteratura successi-
va. L’idea di fondo è che le autorità monetarie hanno la possibilità di
modificare l’offerta di moneta. Si potrebbe dire che in Friedman e
Schwartz la moneta è indipendente, nel senso che la Federal Reserve
ha la possibilità di controllarla. La nota conclusione è che errori nella
conduzione della politica monetaria negli anni Trenta contribuirono
a un peggioramento della depressione e che altri episodi ciclici dell’e-
conomia statunitense furono imputabili al comportamento discrezio-
nale della Banca centrale 11.
    Secondo le versioni moderne dell’approccio «narrativo », passare
dalle correlazioni statistiche a direzioni di causalità tra le variabili
macroeconomiche è un esercizio debole o inutile. Il ricercatore si tro-
verà sempre in una situazione di incertezza. La moneta, ad esempio,
può aumentare prima del reddito, ma questo non prova l’esistenza di
una causalità che va dalla prima al secondo: le imprese hanno invece

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¹¹ Per una ricostruzione si veda Lucas (1994).

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programmato di espandere il prodotto e, quindi, hanno aumentato la
loro domanda di moneta. È il reddito atteso che fa muovere le attività
liquide e determina il prodotto del futuro (King e Plosser, 1984).
Regredire il reddito su valori correnti e passati della moneta e ottene-
re coefficienti statisticamente significativi – secondo l’impostazione
proposta in origine dalla Federal Reserve di St. Louis – non conduce
a conclusioni definitive 12. È allora preferibile considerare esperimenti
naturali, vale a dire dei casi specifici nei quali la politica monetaria ha
subito variazioni di regime.
    Recuperando l’impostazione di Friedman e Schwartz, Romer e
Romer (1989) hanno guardato a episodi singoli della politica moneta-
ria statunitense. Per isolare shocks di politica monetaria effettivamen-
te esogeni, Romer e Romer cercano di individuare i casi nei quali la
Fed ha modificato in senso restrittivo la sua azione per reagire ai
segnali di un’inflazione crescente. Le variazioni della moneta sono
considerate esogene, perché non legate a oscillazioni dell’attività pro-
duttiva, bensì a scelte autonome dell’autorità monetaria volte a con-
trastare l’aumento dei prezzi. Applicando questo metodo al periodo
compreso tra la fine della seconda guerra mondiale e il 1987, Romer e
Romer individuano sei date – ottobre 1947, settembre 1955, dicembre
1968, aprile 1974, agosto 1978, ottobre 1979 – nelle quali la Banca
centrale avrebbe deciso di sacrificare la crescita del reddito a una
riduzione dell’inflazione. La documentazione esaminata sono le deci-
sioni del «Federal Open Market Committee» e i «Record of Policy
Actions» delle riunioni dei Governatori del Sistema della Riserva
Federale. La conclusione è che una politica monetaria restrittiva ridu-
ce il reddito al di sotto del livello che si sarebbe osservato in sua
assenza. Piuttosto che da shocks esterni o da variazioni della produt-
tività, le recessioni sono prodotte da severe azioni monetarie che
influenzano le componenti della domanda effettiva. Questi effetti si
manifestano con ritardi e sono permanenti.
    L’impostazione « dei Romer» è stata sottoposta a numerose criti-
che, che collocano il dibattito in una permanente situazione di incer-
tezza:
— se da una parte gli autori hanno esaminato decisioni di policy in
    passato poco utilizzate, essi rinunciano a un ammontare di infor-
    mazioni statistiche disponibili, concentrandosi solo su alcuni epi-
    sodi; sono questi ultimi sufficienti per concludere che la politica
    monetaria è efficace?;
— Romer e Romer considerano solo orientamenti restrittivi della
    politica monetaria (ma recentemente gli autori hanno esaminato
    anche il contributo di manovre monetarie espansive al supera-

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¹² Per una discussione critica della cosiddetta « equazione di St Louis » si veda Romer
(1996).

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  mento delle recessioni, concludendo per la loro efficacia nell’in-
  fluenzare il reddito) 13;
— anche accettando l’impostazione narrativa, si può concludere che
  è l’inflazione, non la politica monetaria, che riduce il prodotto
  nazionale (anche se le verifiche empiriche sugli effetti negativi del-
  l’inflazione sulla crescita del reddito sono ancora dubbie). L’au-
  mento dei prezzi riduce la domanda di moneta in termini reali e
  induce la Banca centrale a una contrazione della base monetaria.
  In questa visione, l’autorità monetaria ratifica le recessioni, non le
  produce. Riappare il problema dell’identificazione di manovre
  monetarie effettivamente esogene 14.
2.3. La stima di Var
   La stima di Var è l’altro approccio che cerca di individuare un nes-
so di causalità tra moneta e reddito. La gran parte dei contributi si
concentra sull’identificazione di variazioni effettivamente autonome
dell’orientamento della politica monetaria 15. I lavori differiscono sia
per le assunzioni econometriche sia per gli indicatori utilizzati, quali,
ad esempio, il federal funds rate (il tasso overnight statunitense), altri
tassi a breve termine, le riserve libere delle banche. Malgrado le diver-
se metodologie utilizzate, negli Stati Uniti quattro risultati sembrano
ricorrenti 16:
a) la moneta influenza il reddito; variazioni della politica monetaria
   modificano non solo i prezzi, ma anche le variabili reali;
b) l’effetto della moneta si manifesta con ritardi; nei primi mesi suc-
    cessivi allo shock monetario, il reddito non è influenzato; successi-
    vamente, le componenti della domanda aggregata si muovono pri-
    ma dell’offerta; in caso di espansione monetaria, ad esempio,
    mentre la domanda inizia a crescere può osservarsi anche una ini-
    ziale diminuzione del GDP (output puzzle), perché le imprese dimi-
    nuiscono il livello delle scorte all’inizio del ciclo positivo; anche i
    prezzi non cambiano nel periodo immediatamente successivo alla
    variazione dell’impostazione della politica monetaria; all’interno

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¹³ Cfr. Romer e Romer (1994a).
¹⁴ Per queste e altre osservazioni cfr. Hoover e Perez (1994a, 1994b), Romer e Romer
(1994b), e i commenti al contributo originario di questi ultimi da parte di Anne
Schwartz e Benjamin Friedman.
¹⁵ Sims (1972) ha proposto una delle prime soluzioni del problema, influenzando gran
parte della letteratura seguente. Usando la definizione di causalità di Granger, Sims
conclude che la moneta influenza il reddito, senza un feedback dal secondo al primo.
Valori correnti e ritardati della moneta possono essere usati come variabili esogene in
una regressione nel quale il reddito appare come variabile dipendente. Cfr. Bagliano e
Favero (1995) per una sintesi delle problematiche econometriche legate all’utilizzo dei
Var.
¹⁶ Tra i diversi studi si possono ricordare Bernanke e Blinder (1992), Bernanke e
Mihov (1995), Gordon e Leeper (1994), Bernanke e Gertler (1995).

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    della domanda aggregata, gli investimenti sono la componente più
    reattiva;
c) l’effetto della moneta sul reddito non svanisce immediatamente,
    anche se è difficile specificarne la durata precisa; variazioni dei
    prezzi e del reddito sembrano comunque persistere più delle stesse
    variazioni degli aggregati monetari;
d) i tassi di interesse a breve termine possono non essere modificati
    dalle variazioni della politica monetaria (cosiddetto liquidity puzz-
    le), o possono tornare immediatamente ai loro vecchi livelli, addirit-
    tura prima che il reddito si modifichi. Se i saggi del mercato mone-
    tario scendono dopo uno shock positivo, può peraltro osservarsi un
    aumento dei tassi a lungo termine, perché i mercati intravedono il
    rischio di inflazione connesso a manovre monetarie espansive.
    Questi risultati corrispondono alle principali conclusioni raggiun-
te, come si è visto, dall’impostazione narrativa. Essi confermano vec-
chi punti di vista sull’operare della politica monetaria, soprattutto
sulla sua capacità di influenzare la domanda aggregata e il reddito,
ma anche su una incertezza elevata sui tempi con i quali manifesterà
la sua efficacia, che variano al modificarsi della struttura dei mercati.
I due approcci differiscono, in definitiva, soprattutto per il modo
diverso con il quale si individuano le « variazioni esogene » della poli-
tica monetaria (una scelta «qualitativa» da parte di Friedman-
Schwartz e dei Romer, più « statistica » da parte degli altri studi). Le
comparazioni internazionali segnalano, infine, che anche nei paesi
europei shocks monetari, in particolare variazioni dei tassi di interes-
se, hanno effetti reali 17. Concludendo, « the predominant weight of
the existing evidence suggests that the effects of monetary policy on
real economic activity are systematic, significant and sizeable» (B.
Friedman, 1995).
3. I canali di trasmissione
Attraverso quale canale la politica monetaria influenza l’economia?
Se si può affermare che essa influenza il reddito, più difficile è analiz-
zare come essa operi. Ad esempio, i tassi di interesse possono muo-
versi solo in piccola misura dopo manovre monetarie restrittive ma
l’investimento può, al contrario, registrare oscillazioni elevate. Da
cosa dipende tale anomalia? Anche in questo caso, sono individuabili
due approcci, i cui effetti possono sovrapporsi:
a) un’analisi dell’interazione tra bilanci delle imprese e fasi cicliche
    dell’economia;
b) una discussione dell’operare della politica monetaria attraverso il
    canale monetario o quello creditizio.

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¹⁷ Cfr. Bacchetta e Ballabriga (1995). Un esame del caso italiano è contenuto in
Buttiglione e Ferri (1994).

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R. DE BONIS, TRE TEMI DI POLITICA MONETARIA

3.1. L’acceleratore finanziario
    Secondo questa impostazione, le recessioni influenzano negativa-
mente i bilanci delle imprese, la cui peggiore situazione finanziaria
aggrava, a sua volta, l’intensità di una fase ciclica negativa. Esiste un
legame tra condizioni finanziarie delle imprese e fluttuazioni econo-
miche, che è indipendente rispetto al tradizionale meccanismo neo-
classico di cambiamento dei gusti e delle tecnologie 18.
    Le recessioni riducono le vendite e i profitti delle imprese, condu-
cendo a una diminuzione del valore delle garanzie sulle quali gli inter-
mediari possono contare. Le minori garanzie aumentano il costo dei
finanziamenti esterni per l’industria; scendono gli investimenti e la
domanda di attività finanziarie. Minori investimenti riducono i pro-
fitti, con una nuova diminuzione della ricchezza netta delle imprese.
Si innesca un circolo vizioso tra riduzione del valore delle garanzie,
calo dei prezzi delle attività finanziarie, indebolimento della posizione
finanziaria dei debitori, minori investimenti, aggravarsi della recessio-
ne. Ad esempio, una restrizione monetaria, che riduce il prodotto
nazionale, può avere effetti amplificati, spiegando perché gli investi-
menti possono continuare a diminuire dopo una stretta monetaria,
anche se i tassi di interesse sono tornati ai loro livelli iniziali.
Esisterebbe così un «acceleratore finanziario» delle recessioni, che va
dal reddito delle imprese agli investimenti. L’effetto è ancora maggio-
re se le banche riducono i finanziamenti.
    Questo schema è stato applicato alla recente esperienza del
Giappone. Attività a lungo termine quali la terra e i beni capitale
svolgono un duplice ruolo, di fattori di produzione per le imprese e di
garanzia per le banche. L’espansione dell’economia giapponese negli
anni Ottanta, accompagnata da un aumento del valore della terra e
delle attività finanziarie, avrebbe aumentato le possibilità di investi-
mento delle imprese, le quali hanno potuto offrire garanzie elevate
alle banche; la successiva recessione è stata aggravata dalle difficoltà
della Borsa, dalla discesa dei prezzi, dal peggioramento della posizio-
ne finanziaria dei debitori e delle banche, secondo un meccanismo
che ricorda la debt deflation di Irving Fisher.
    L’« acceleratore finanziario » rende soprattutto difficile per le
imprese raccogliere risorse esterne: quando esistono asimmetrie infor-
mative e costi di agenzia tra banche e debitori, la ricchezza netta di
questi ultimi – una variabile prociclica – è determinante per le decisio-
ni di investimento. La diminuzione delle garanzie che le imprese sono
in grado di offrire aumenta le risorse che le banche devono spendere
per controllare i debitori, provocando una contrazione dei progetti
industriali che possono essere finanziati. Già negli anni Trenta, subito

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¹⁸ Per esempi di modelli di questo tipo si vedano Bernanke e Gertler (1989), Bernanke,
Gertler e Gilchrist (1994).

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dopo la pubblicazione della Teoria Generale, analisi empiriche critica-
rono il nesso tra tasso di interesse e investimenti; il legame tra liqui-
dità delle imprese e investimenti fu un tema ripreso negli anni
Cinquanta 19. Le verifiche empiriche moderne cercano di identificare
le imprese con vincoli finanziari, che impediscono la raccolta di fondi
sui mercati, e i cui investimenti dipendono allora dalle risorse interne.
Se queste ultime, come è lecito attendersi, diminuiscono durante le
recessioni, l’attività di investimento sarà limitata. Negli Stati Uniti,
l’evidenza empirica segnalerebbe che le imprese con maggiori vincoli
di liquidità hanno il legame più forte tra cash flows e investimenti: il
nesso sarebbe più forte per le piccole imprese e si rafforzerebbe duran-
te le recessioni 20. Quest’ultimo risultato si osserva anche perché le
banche contraggono il credito nella fase negativa del ciclo? O deriva
soltanto dall’esistenza di imprese che diminuiscono la domanda di
finanziamenti quando la caduta dell’attività produttiva riduce i pro-
fitti e aumenta gli oneri finanziari? L’acceleratore finanziario enfatiz-
za una risposta positiva alla seconda domanda. Una risposta affer-
mativa alla prima domanda è invece fornita nel paragrafo seguente.
3.2. Canale monetario e canale creditizio
    Il meccanismo tradizionale di trasmissione della politica moneta-
ria opera attraverso le passività delle banche. Le operazioni di merca-
to aperto della Banca centrale e i tassi di interesse che essa controlla
influenzano le riserve bancarie. Una restrizione monetaria riduce le
riserve e i depositi bancari, alza i tassi di interesse reali, conduce a un
aumento dei titoli. Questa interpretazione può essere derivata da uno
schema IS-LM nel quale esistono solo due attività finanziarie, mone-
ta e titoli. Al contrario, nella lending view, l’economia vede la presen-
za di tre attività: moneta, titoli e prestiti (cfr., ad esempio, Bernanke e
Blinder, 1988). Una diminuzione delle riserve bancarie riduce l’offerta
di prestiti: ne derivano effetti reali, se le imprese non sono in grado di
emettere titoli.
    Già in passato diversi studiosi e filoni di analisi hanno messo in
luce l’importanza del credito: la lending view non è un punto di vista
nuovo. Roosa (1951) ha sottolineato che la disponibilità dei prestiti è
un fattore importante quanto il loro costo per la spiegazione dell’ope-
rare della politica monetaria. Nell’analisi del ciclo economico negli
Stati Uniti, si ricordano il credit crunch del 1966 e altri episodi di bru-
sca contrazione degli impieghi. Negli anni Sessanta, Tobin e Brainard

—————————————
¹⁹ Newlyn (1967) sintetizza i risultati delle indagini degli anni Trenta. Per la discussio-
ne successiva si veda la discussione sulle teorie dell’investimento contenuta in Berndt
(1990).
²⁰ Cfr. Fazzari, Hubbard e Petersen (1988). Per un punto di vista che mette in discus-
sione l’esistenza di imprese con vincoli finanziari si veda Kaplan e Zingales (1995).

76
R. DE BONIS, TRE TEMI DI POLITICA MONETARIA

hanno studiato la rilevanza di un aumento degli intermediari finan-
ziari non bancari per la trasmissione degli effetti della politica mone-
taria: se aumentano istituzioni finanziarie che non solo raccolgono
passività altamente sostituibili con la moneta, ma che offrono anche
credito, l’azione della Banca centrale può risultare inefficace. Come
ricordato nel paragrafo precedente, numerosi lavori empirici hanno
messo in luce che la correlazione tra tassi di interesse e investimenti è
debole; ne consegue la necessità di guardare alle condizioni di accesso
al credito delle imprese. Paesi come l’Italia, la Gran Bretagna, la
Francia, la Svezia, l’Olanda, il Giappone, la Nuova Zelanda hanno
inoltre utilizzato controlli quantitativi del credito, soprattutto negli
anni Sessanta e Settanta (abbandonandoli progressivamente negli
anni Ottanta): era diffusa – quasi scontata – l’idea che il credito sia
un meccanismo significativo di trasmissione della politica moneta-
ria 21.
    Sul finire degli anni Ottanta, negli Stati Uniti motivazioni diverse
hanno contribuito a riaprire il dibattito sul ruolo del credito. Sotto il
profilo storico, uno dei fattori aggravanti la grande depressione è sta-
to rintracciato nella diminuzione dei prestiti legata ai fallimenti ban-
cari, piuttosto che nella contrazione della moneta, la tradizionale ipo-
tesi in discussione dopo il lavoro di Friedman e Schwartz 22. Più di
recente, la recessione dell’economia all’inizio del decennio Novanta, il
crollo dei prezzi degli immobili, il credit crunch osservato in alcuni
Stati – da alcuni messo in relazione con l’introduzione, nel 1988, dei
coefficienti patrimoniali di Basilea per le grandi banche internazionali
– hanno riaperto la discussione sull’esistenza di un canale creditizio.
    Prima del recente, rinnovato interesse, la scarsa attenzione per il
canale creditizio può essere derivata dal prevalere del teorema di
Modigliani e Miller, sia per quanto riguarda i bilanci delle imprese,
sia per quanto attiene ai bilanci delle banche: se il teorema fosse vali-
do, il lending channel non potrebbe esistere, perché la struttura del
passivo è irrilevante, sia i) per l’industria, sia ii) per gli intermediari 23.
i) Sotto il primo punto di vista, se la composizione del capitale delle
   imprese non influenzasse le loro decisioni, prestiti e titoli dovrebbe-
   ro essere passività perfettamente sostituibili. Al contrario, è emerso
   che esistono imprese per le quali il debito bancario è una passività
   finanziaria diversa da un’obbligazione o dalla commercial paper. La
   specificità del prestito bancario può derivare dalla funzione di
   monitoring svolta dall’intermediario (Diamond, 1984); dalle verifi-

—————————————
²¹ Cfr. Goodhart (1991) per una sintesi delle esperienze estere. Sul caso italiano, si
veda Fazio (1969) per un’analisi del ruolo del credito e Cottarelli, Galli, Marullo
Reedtz e Pittaluga (1986) per un esame dei problemi creati, nel medio periodo, dal
massimale.
²² Si veda, per tutti, Bernanke (1983).
²³ Per un’analisi in questo senso, si veda Kashyap e Stein (1993).

                                                                                   77
STUDI E NOTE DI ECONOMIA 2/96

   che empiriche sul segnale positivo che l’erogazione di credito banca-
   rio incorpora rispetto al messaggio negativo legato all’annuncio di
   emissioni azionarie (James, 1987); dall’importanza di relazioni di
   lungo periodo tra banca e impresa (Rajan, 1992); dalla dipendenza
   delle piccole imprese dalle banche (Petersen e Rajan, 1994 e 1995).
    Dopo le restrizioni monetarie, negli Stati Uniti le emissioni di
commercial paper aumentano, mentre la diminuzione dei prestiti è
abbastanza lenta rispetto al rallentamento dei depositi, perché esisto-
no impegni di prefinanziamento che le banche hanno assunto nei
confronti delle imprese: ciò appare in linea con il fenomeno ricordato
di un’azione ritardata della politica monetaria. La contrazione mone-
taria aumenta la differenza tra tasso sulla commercial paper e tasso
sui titoli pubblici. La crescita relativa della commercial paper rispetto
ai prestiti ha effetti reali, influenzando negativamente, ad esempio, le
scorte (Kashyap, Stein e Wilcox, 1993). Esisterebbe, pertanto, un
canale creditizio della politica monetaria. Accanto alle verifiche con-
dotte su dati aggregati, l’utilizzazione di panel data per i bilanci di sin-
gole imprese confermerebbe che negli Stati Uniti esiste una dipenden-
za delle piccole unità produttive dal credito bancario 24.
ii) Il teorema di Modigliani e Miller sembra difficile da accettare
    anche se si guarda al bilancio delle banche. Se il teorema fosse
    valido, le banche potrebbero contrastare una riduzione delle riser-
    ve e dei depositi – conseguenti a restrizioni monetarie – emettendo
    certificati di deposito (CD) o obbligazioni, gravati in minor misura
    o esenti dall’onere della riserva obbligatoria. Il livello dei prestiti
    non sarebbe così influenzato da politiche restrittive. Malgrado le
    affermazioni di un’equivalenza tra i certificati e le altre passività
    bancarie e la riaffermazione di una money view pura (Romer e
    Romer, 1990), non sembra che i CD siano perfettamente sostitui-
    bili ai conti correnti. Ciò a causa sia della scelta dei risparmiatori
    – che percepiscono i CD come strumenti finanziari specifici – sia
    perché i certificati implicano un costo maggiore per le banche
    rispetto alla raccolta di depositi a vista 25.
—————————————
²⁴ Cfr. Bernanke, Gertler e Gilchrist (1994) e Schiantarelli (1995) per una rassegna;
Oliner e Rudebush (1995) per un’opinione contraria. Bianco e Giannini (1995) discuto-
no i limiti delle basi informative statunitensi e le caratteristiche delle fonti statistiche
italiane in materia di rapporti tra banche e imprese. Angeloni, Buttiglione, Ferri e
Gaiotti (1995) verificano l’esistenza di un credit channel in Italia, ma non trovano un
effetto più acuto delle variazioni del regime della politica monetaria sulle imprese più
piccole.
²⁵ In Italia, nella seconda metà del 1995, esisteva una differenza di quasi due punti
percentuali tra il tasso medio sui CD e il costo medio dei depositi bancari. Ciò non ha
comunque impedito ai CD di accrescere la quota sul totale dei depositi, dal 10 per cen-
to dell’inizio del 1987 a quasi il 38 per cento alla fine del 1995. Dal giugno del 1994, i
CD con scadenza non inferiore ai 18 mesi non sono assoggettati alla Rob (in confor-
mità alla Legge 483/1993). In precedenza, i CD hanno goduto di una remunerazione
maggiore e di un’aliquota di riserva inferiore.

78
R. DE BONIS, TRE TEMI DI POLITICA MONETARIA

    Concentrando l’attenzione sull’attivo di bilancio, un livello di pre-
stiti invariato dopo una restrizione monetaria sarebbe osservato se le
banche potessero vendere titoli per finanziare l’attività di finanzia-
mento. Se la vendita di titoli per il finanziamento di prestiti è un feno-
meno connaturato all’attività bancaria, un quantitativo minimo dei
primi è comunque indispensabile per far fronte a improvvisi bisogni
di liquidità. Esiste così un « cuscinetto» di titoli, il cui livello è peral-
tro difficile da stabilire empiricamente, al di sotto del quale le banche
tendono a non scendere. In una fase di tassi di interesse crescenti,
inoltre, la cessione di titoli per finanziare l’offerta di impieghi espone
gli intermediari a perdite in conto capitale 26.
    Un indebolimento del canale creditizio della politica monetaria
potrebbe in definitiva osservarsi in due casi:
a) una perdita di centralità dei finanziamenti bancari, per l’emergere
    di altri intermediari. In questo caso, le banche centrali influenze-
    rebbero le riserve bancarie, ma non sarebbero in grado di incidere
    sui prestiti di altre istituzioni finanziarie, non sottoposte alla riser-
    va obbligatoria; questi intermediari rimarrebbero comunque sog-
    getti all’influenza della politica monetaria attraverso le variazioni
    dei tassi d’interesse (che potrebbero, ad esempio, elevare il costo
    dei fondi da essi raccolti presso le banche). Una perdita di centra-
    lità dei prestiti delle banche – e un ruolo accresciuto di altri inter-
    mediari – si osservano soprattutto negli Stati Uniti. Nel 1974 le
    imprese americane ottenevano il 35 per cento dei fondi dalle ban-
    che: nel 1994 solo il 22 per cento. Anche la quota di mercato delle
    banche delle attività di bilancio complessive degli intermediari
    finanziari è scesa dal 39 per cento del 1960 al 29 per cento del
    1994. Ma queste tendenze non sono estendibili ai paesi europei.
    Malgrado gli sviluppi dei mercati finanziari e le previsioni, diffuse
    all’inizio degli anni Ottanta, di una « scomparsa » delle banche,
    queste ultime restano ancora centrali nell’offerta di credito nei
    maggiori paesi industriali (in particolare in Italia, vedi Tabella 1) 27;
b) l’obbligo delle banche di rispettare i coefficienti patrimoniali.
    Secondo alcune spiegazioni, durante la recessione statunitense del
    1990-91, la politica monetaria espansiva non è stata sufficiente a
    innescare una ripresa economica perché le banche erano tenute al
    rispetto dei ratios introdotti nel 1987 dall’Accordo di Basilea. Da
    vincoli applicati in origine alle grandi banche con attività interna-
    zionale, i coefficienti sono stati estesi, nei maggiori paesi industria-

—————————————
²⁶ L’esempio si applica al caso italiano di rialzo dei tassi nella prima parte del 1995. In
Italia, il rapporto tra titoli e impieghi delle banche è diminuito dai livelli superiori al 50
per cento del 1987, fino a un minimo intorno al 25 per cento all’inizio del 1991. Dal
36,3 per cento del gennaio 1995, il rapporto è sceso al 32,3 per cento alla fine del-
l’anno.

                                                                                          79
STUDI E NOTE DI ECONOMIA 2/96

Tabella 1 – Prestiti di banche e di altri intermediari (quote percentuali rispetto
al totale dei prestiti alle imprese)
                                  1983                                1993

                      Banche             Altri         Banche                Altri
                                     intermediari                        intermediari
    Francia            70/88 *           30/12 *           74/85 *           26/15 *
    Germania              84                16                89                11
    Italia                89                11                89                11
    Giappone              45                55                54                46
    Regno Unito        56/95 **           44/5 **          56/92 **           44/8 **
    Stati Uniti           66                34                50                50
* Il secondo valore è valido se le «istituzioni di credito specializzato» sono
classificate come banche.
** Il secondo valore è quello valido se le building societies sono classificate
come banche.
Fonte: Borio (1994) e Banca d’Italia.

    li, al complesso del sistema creditizio. Le verifiche empiriche della
    loro efficacia sono complesse. Non è facile mostrare che le banche
    con inadeguatezza patrimoniale hanno ridotto in maggior misura
    i prestiti rispetto agli intermediari con un grado più elevato di
    patrimonializzazione: anche in questo caso il rallentamento del
    credito potrebbe essere imputato a una diminuzione della doman-
    da di prestiti delle imprese 28. Emerge, comunque, un contrasto
    potenziale tra efficacia della politica monetaria ed esigenze di
    regolamentazione efficiente delle banche. È probabile che la pre-
    senza di coefficienti patrimoniali sia solo un elemento ulteriore per
    confermare il vecchio punto di vista che sostiene l’efficacia della
    politica monetaria in senso restrittivo, ma le sue difficoltà a
    influenzare l’economia in senso espansivo.
    In definitiva, sia sotto il profilo teorico sia sotto quello empirico
esistono buone ragioni per sostenere l’esistenza di un canale cre-
ditizio 29. Quantificare la sua portata è peraltro difficile. La critica più
forte è quella che sottolinea la maggiore importanza di spostamenti
autonomi della domanda di credito da parte delle imprese durante le
recessioni, anche per effetto del meccanismo dell’acceleratore finan-
ziario. Più che una lending view operante in maniera autonoma per

—————————————
²⁷ Per alcune considerazioni sul tema si veda De Bonis (1994).
²⁸ Così Berger e Udell (1994); a favore di un effetto autonomo dei coefficienti sul
credit crunch sono invece Brinkmann e Horvitz (1995).
²⁹ Oltre a Romer e Romer (1990), peraltro, anche Driscoll (1995) non trova evidenza
empirica a favore di un credit channel.

80
R. DE BONIS, TRE TEMI DI POLITICA MONETARIA

effetto di una restrizione monetaria, sarebbero le imprese a diminuire
autonomamente la domanda di prestiti durante il ciclo negativo. In
altre parole, è difficile distinguere tra un autonomo canale creditizio e
il meccanismo indipendente che agisce direttamente sui bilanci del-
l’industria 30.
    Negli Stati Uniti, la valutazione dei canali di trasmissione della
politica monetaria va collocata accanto ad alcune tendenze recenti
degli aggregati monetari e creditizi. Negli anni Ottanta è venuta meno
la relazione osservata in passato tra moneta, da un lato, e reddito e
prezzi, dall’altro 31. Anche la relazione tra credito e prodotto è stata
più instabile che in precedenza. Al contrario, la differenza tra il sag-
gio di interesse sulla commercial paper e il tasso sui titoli pubblici a
breve termine è emersa, nel dopoguerra, come ottimo previsore del
ciclo: lo spread ha sempre previsto le recessioni, innalzandosi prima
dell’inizio della caduta dell’attività produttiva. Questa relazione è
peraltro venuta meno nella recessione del 1990-91, prima della quale
il differenziale non si è elevato.
    Le spiegazioni di tale anomalia sono due. In primo luogo, il diffe-
renziale è il segnale che la politica monetaria si fa più severa: ma la
recessione degli anni Novanta non è stata innescata da una azione
restrittiva della Federal Reserve (in altre parole, il biennio 90-91 non
apparirebbe in un aggiornamento del lavoro dei Romer). La conclu-
sione è significativa, perché getta luce su un aspetto evidente: non tut-
te le fasi depressive dell’economia possono essere naturalmente impu-
tate a politiche monetarie restrittive. In secondo luogo, negli Stati
Uniti le quantità relative di commercial paper e di titoli pubblici a bre-
ve termine sono cambiate rispetto al passato per ragioni indipendenti
dal ciclo economico (per esempio a causa di modificazioni nella
gestione del debito pubblico): ciò ha comportato variazioni nei tassi
d’interesse dei due strumenti finanziari.
    La lezione che si trae è l’ennesima conferma della difficoltà di
individuare variabili monetarie, creditizie e di tasso che presentino
relazioni stabili e di lunga durata con il reddito. L’azione della Fed si
è indirizzata in maggior misura a un obiettivo di breve periodo, il
controllo del federal fund rate, senza una forte attenzione per un tar-
get intermedio di quantità. Il federal fund rate viene influenzato
tenendo conto di diversi indicatori che forniscono informazioni sul-
l’andamento finale dei prezzi e del reddito. Il consiglio di policy,
comune a tante banche centrali, sembra essere: abbiate tanti indicato-
ri ma non fidatevi di nessun obiettivo intermedio 32. Di recente, a que-

—————————————
³⁰ Cfr., per una sintesi, Bernanke e Gertler (1995).
³¹ Per questa analisi si vedano Friedman (1988), Friedman e Kuttner (1992) e (1994).
³² Goodfriend (1995) ricostruisce l’attuazione della politica monetaria statunitense a
partire dal 1979.

                                                                                   81
STUDI E NOTE DI ECONOMIA 2/96

ste modalità di gestione della politica monetaria è stata assegnata la
denominazione di stile « classico », nel quale « ...la banca centrale non
assume impegni formali, nei confronti di alcun obiettivo, né interme-
dio né finale... (e) fa riferimento a più indicatori, nella consapevolezza
che ciascuno va interpretato tenendo conto degli altri e che in
momenti differenti essi possono risultare diversamente significa-
tivi» 33. La necessità di guardare in maniera flessibile agli obiettivi
intermedi è confermata dall’osservazione empirica: il loro consegui-
mento è stato mancato in Germania 9 volte e in Italia 11 volte (tra il
1975 e il 1993); 8 volte in Francia (tra il 1977 e il 1993); 7 volte in
Spagna (tra il 1978 e il 1993) 34.
4. Regole, strategie, credibilità e indipendenza della Banca centrale
Hicks ha sostenuto in più occasioni l’esistenza di due linee di pensiero
sul legame tra stabilità dell’economia e conduzione della politica
monetaria. Secondo la prima corrente, che va da Ricardo a
Friedman, passando per Hayek, l’economia è intrinsecamente stabile
e manovre monetarie discrezionali la destabilizzano. Secondo il filone
alternativo, che va da Thornton a Keynes, passando per Scumpeter,
un’economia capitalistica è soggetta a crisi ricorrenti e politiche
monetarie discrezionali sono indispensabili 35.
    L’adozione di regole nell’utilizzo degli strumenti di politica mone-
taria è oggi sostenuta utilizzando argomentazioni diverse da quelle
classiche di Friedman. In passato le banche centrali venivano invitate
ad abbandonare la discrezionalità e le politiche di fine tuning per l’esi-
stenza di ritardi e ignoranza degli effetti della politica monetaria.
Secondo questa impostazione, la politica economica si illude di cono-
scere la struttura dell’economia e il comportamento degli agenti,
macchiandosi di una «presunzione di conoscenza», secondo l’espres-
sione di Hayek, e producendo risultati inferiori a quelli conseguibili
dalla scelta di una regola semplice 36.
    La stessa prescrizione della necessità di abbandonare la discrezio-
nalità deriva, oggi, dall’assunto di aspettative razionali e da una pre-
ferenza per l’inflazione che caratterizzerebbe i comportamenti delle
politiche economiche. In particolare, la scelta del Governo non è
«coerente dinamicamente» (Kydland e Prescott, 1988). Il policy
maker annuncia un tasso di inflazione sulla base del quale gli opera-
tori formano le aspettative. Una volta che queste ultime si siano for-

—————————————
³³ Padoa-Schioppa (1995), pag. 90.
³⁴ I dati sono tratti da Goodhart e Vinals (1994).
³⁵ Cfr. Hicks (1967).
³⁶ Cfr., ad esempio, Simons (1936), e il dibattito riassunto in Bellone (1972), Hayek
(1945) contiene una delle prime critiche all’idea che il policy maker possieda informa-
zioni che il mercato non ha.

82
R. DE BONIS, TRE TEMI DI POLITICA MONETARIA

mate, egli devierà da quanto annunciato, aumentando l’offerta di
moneta. Il Governo ha convenienza a deviare dalla regola annuncia-
ta, perché nel breve periodo una politica monetaria espansiva, crean-
do più inflazione di quella che gli agenti si aspettano, può ridurre la
disoccupazione; l’aumento dei prezzi può essere vantaggioso anche
per un obiettivo fiscale (i guadagni derivanti dall’imposta da inflazio-
ne o la riduzione del valore reale del debito pubblico). Ma se il policy
maker dà l’impressione che muterà in futuro politiche preannunciate
in passato, i soggetti economici baseranno il loro comportamento
assumendo che questi cambiamenti avranno luogo. In altre parole, gli
agenti non si faranno sorprendere sempre dalle variazioni improvvise
della politica monetaria e incorporeranno nei propri comportamenti
le attese di inflazione maggiore. Una politica discrezionale crea così
più inflazione, senza ridurre la disoccupazione al di sotto del livello
naturale, dato che con il tasso di crescita dei prezzi esiste una trade-
off solo di breve periodo. Per acquisire credibilità la soluzione miglio-
re per il Governo è adottare una regola, segnalando al mercato l’indi-
sponibilità a modificare i propri comportamenti. L’idea di partenza,
sulla quale ritorneremo, è la capacità del policy maker di controllare
la moneta e l’inflazione, senza incertezze sulla relazione che lega le
due variabili.
    L’adozione di una regola per gli strumenti (o gli obiettivi interme-
di) della politica monetaria è sempre stata criticata per la sua rigidità,
perché non può tener conto di eventi imprevedibili che possono veri-
ficarsi (chi aveva previsto il crollo di Borsa dell’ottobre 1987 o la crisi
del Sistema monetario europeo nell’estate del 1992?), nei confronti
dei quali sono necessarie risposte flessibili. Al tempo stesso, se l’intro-
duzione di una regola automatica non è una scelta realistica, nella let-
teratura rimangono al centro dell’analisi le soluzioni alla discreziona-
lità potenzialmente eccessiva della politica monetaria. Le soluzioni
possono essere ricondotte a quattro filoni. Di seguito presentiamo i
quattro approcci, insieme alla proposta dell’inflation targeting; nel
paragrafo 4.1. si esprimono alcune valutazioni critiche. Pur nella loro
diversità, un tratto comune alle quattro proposte è l’attenzione per la
struttura istituzionale della politica economica, in particolare per l’in-
terazione strategica che si instaura non solo tra le autorità pubbliche
e gli agenti economici, ma anche tra gli stessi organismi responsabili
delle scelte monetarie e fiscali (Governo e Banca centrale) 37.
i)ii Scegliere una regola per aumentare la reputazione. Supponendo
     che l’interazione tra policy maker e agenti prosegua nel tempo, un
     assunto che appare realistico, il primo potrebbe puntare sull’ado-
     zione di regole per guadagnare una maggiore reputazione, rinun-

—————————————
³⁷ Per una sintesi delle tematiche, cfr. l’introduzione e l’antologia di Persson e
Tabellini (1994).

                                                                               83
STUDI E NOTE DI ECONOMIA 2/96

     ciando alla strategia di perseguire una sorpresa continua dei sog-
     getti economici (Barro e Gordon, 1983). La scelta di una regola è
     una decisione autonoma del policy maker, al fine di guadagnare
     reputazione e, di conseguenza, credibilità. Ma questa soluzione si
     presta alla critica ricordata di rigidità eccessiva, nonché della
     natura di condizione di sufficienza, ma non di necessità, della
     scelta di «legarsi le mani ».
ii)i Delegare la conduzione della politica monetaria a una Banca cen-
     trale «conservatrice» e indipendente. Lo Stato può assegnare la
     conduzione della politica monetaria a un agente esterno, che asse-
     gni un’importanza elevata alla riduzione dell’inflazione (Rogoff,
     1985). La società preferisce avere un banchiere centrale che nella
     minimizzazione della sua funzione di perdita assegni un valore
     elevato alla stabilizzazione dei prezzi rispetto a quella della disoc-
     cupazione. Si noti bene che il banchiere centrale non deve attri-
     buire un peso infinito a un valore basso dell’inflazione; il peso
     deve essere semplicemente maggiore di quello che gli assegna la
     società. Il banchiere centrale è «conservatore», ma è consapevole
     del trade-off di breve periodo tra inflazione e disoccupazione. La
     soluzione di Rogoff non può essere accusata di rigidità: un esem-
     pio è rappresentato dal rientro dall’inflazione all’inizio degli anni
     Ottanta da parte degli Stati Uniti (il tasso di crescita dei prezzi
     scese dal 13,6 per cento del 1980 all’1,9 per cento del 1986, vedi
     Tabella 2), senza adottare una regola precisa per la politica mone-
     taria. Banche centrali indipendenti, ad esempio quelle di Germa-
     nia e Stati Uniti – i cui Governatori sarebbero espressione di
     comunità finanziarie «conservatrici» – mantengono la discrezio-
     nalità necessaria senza rinunciare a ottimi risultati contro l’infla-
     zione, senza «legarsi le mani» con regole fisse. La flessibilità è
     consentita dalla credibilità raggiunta nel corso del tempo per
     mezzo di un orientamento di fondo antiinflazionistico.
iii) Introdurre vincoli costituzionali o legislativi. Se non si crede al
     banchiere centrale conservatore, gli incentivi delle istituzioni
     monetarie a mantenere la stabilità dei prezzi, nonché la loro cre-
     dibilità, possono essere aumentati attraverso scelte legislative. Si
     può ricordare l’inserimento in Germania dell’obiettivo della sta-
     bilità del valore della moneta nella Costituzione e l’assegnazione
     del suo perseguimento alla Bundesbank, o lo statuto della Banca
     centrale europea, con il riferimento al solo obiettivo della stabilità
     dei prezzi. Il Trattato di Maastricht ha contribuito alle revisioni
     degli statuti di molte banche centrali comunitarie, al fine di raf-
     forzarne l’indipendenza dai Governi. La stessa tendenza si osser-
     va in paesi in via di sviluppo (ad esempio, Cile e Messico) o nelle
     ex nazioni dell’Est (Ungheria, Repubblica Ceca). Negli Stati
     Uniti si sostiene da più parti l’opportunità che la Fed iscriva nel
     suo statuto che il suo unico obiettivo è il contenimento dell’infla-

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