TRE TEMI DI POLITICA MONETARIA - STUDI E NOTE DI ECONOMIA 2/96
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
STUDI E NOTE DI ECONOMIA 2/96 TRE TEMI DI POLITICA MONETARIA RICCARDO DE BONIS * Introduzione Da sempre, il dibattito di politica monetaria si sofferma su tre temi principali: a) la capacità della politica monetaria di influenzare il red- dito e i prezzi; b) i canali di trasmissione attraverso i quali essa opera; c) la necessità o meno di utilizzare regole nella sua gestione e l’impor- tanza dell’indipendenza della Banca centrale. Si tratta di temi classici, ridiscussi negli ultimi venti anni alla luce di sviluppi teorici e di insuccessi della politica economica nel conteni- mento dell’inflazione o nell’attenuazione delle fluttuazioni cicliche nei maggiori paesi industriali. Tra gli sviluppi teorici si possono ricordare l’ascesa delle aspettative razionali a nuova ortodossia economica negli anni Settanta e le difficoltà successive del paradigma 1. Sotto il profilo storico, un effetto decisivo ebbe la stagflazione degli anni Settanta, che mise in crisi l’idea dell’esistenza di una curva di Phillips. Il tasso medio di crescita del prodotto interno lordo dei paesi Ocse cadde dal 4,7 per cento del 1963-72 al 2,8 del 1973-79; la disoccupa- zione crebbe dal 2,7 al 5,1 per cento; nello stesso periodo, il tasso di inflazione salì dal 4,3 all’8,7 per cento 2. Significativa è stata pure l’at- tenzione per il credit crunch statunitense degli anni Novanta e per le difficoltà della politica monetaria nel favorire la ripresa del ciclo: tra il 1989 e il 1991, il tasso di crescita medio annuale del credito è sceso al 6,2 per cento, rispetto a valori del 10 per cento osservati tra il 1986 e il 1988, del 13,1 tra il 1983 e il 1985, del 9,3 tra il 1980 e il 1982 3. È, infine, crescente l’interesse per i meccanismi istituzionali della politica ————————————— * Banca d’Italia - Servizio Studi. Questo lavoro è stato svolto durante un periodo di soggiorno presso l’Università di Harvard, negli Stati Uniti. Una precedente versione ha beneficiato dei commenti di F. Lippi, C. Monticelli, R. Rinaldi, V. Sannucci, I. Visco. Sono naturalmente responsabi- le degli errori e delle idee presenti nel testo. Le opinioni espresse non impegnano in alcun modo l’Istituto di appartenenza. ¹ Per una sintesi si vedano, ad esempio, Krugman (1994) e Romer (1996). ² Vicarelli (1987). ³ Cfr. i saggi raccolti nel volume della Federal Bank of New York (1993). 67
STUDI E NOTE DI ECONOMIA 2/96 monetaria, alla luce del Trattato di Maastricht e delle conseguenti riforme che nei paesi europei hanno rafforzato l’indipendenza delle banche centrali 4. Il presente lavoro è diviso in cinque paragrafi. Il primo riassume il quadro di riferimento teorico che fa da sfondo alla discussione. Il secondo, il terzo e il quarto paragrafo analizzano i tre temi ricordati all’inizio, con riferimento particolare alla letteratura apparsa negli Stati Uniti. Il quinto paragrafo riporta alcune valutazioni di sintesi. 1. Il quadro di riferimento teorico Alla fine degli anni Sessanta la macroeconomia aveva raggiunto un consenso – uniforme negli Stati Uniti, più problematico in Europa – fondato sul prevalere della sintesi neoclassica e sull’esistenza di una curva di Phillips 5. Questo equilibrio fu investito dalla discussione sui fondamenti microeconomici della macroeconomia e dall’introduzione dell’ipotesi di aspettative razionali. La capacità della politica moneta- ria di influenzare in permanenza il reddito fu messa in discussione 6. Nelle parole di Friedman (1968), nel lungo periodo la politica monetaria non può stabilizzare i tassi di interesse, né influenzare il livello dell’occupazione. Un aumento dell’offerta di moneta può determinare solo nel breve periodo una riduzione dei tassi di interesse e una crescita del reddito: le imprese, infatti, reagendo più velocemen- te dei lavoratori alla politica monetaria più espansiva, aumenteranno non solo la produzione, ma anche i prezzi. In un secondo momento, i lavoratori si accorgeranno che i salari reali sono diminuiti: l’occupa- zione è aumentata perché la politica monetaria ha sorpreso i lavora- tori, ma essi richiederanno presto salari più elevati. La crescita del salario reale ricondurrà l’occupazione verso il suo livello naturale. In questo schema, solo un nuovo aumento della moneta può dare luogo a una nuova diminuzione della disoccupazione. Non esiste così un trade-off permanente tra disoccupazione e inflazione. La disoccu- pazione può rimanere sotto il suo livello naturale solo a costo di acce- lerare l’inflazione. Esiste una sostituibilità temporanea tra inflazione e disoccupazione, ma essa non è duratura perché non deriva dall’in- flazione in sé, ma dall’inflazione non prevista. I contributi maggiori di Friedman sono due. In primo luogo, la riproposizione dell’idea di un tasso naturale di disoccupazione, deter- minato dalle forze reali dell’economia, una nozione da sempre pre- sente nella macroeconomia prekeynesiana, ma riportato in auge dalle ————————————— ⁴ Sul tema si vedano, tra gli altri, Fischer (1994), Federal Reserve of Boston (1994), Tendenze Monetarie (1995). ⁵ In Europa, la sintesi neoclassica è sempre stata vista come una ricostruzione distorta del pensiero di Keynes. Per un giudizio in tal senso cfr., ad esempio, Vicarelli (1981). ⁶ Si vedano Mankiw (1990) e Blanchard (1990) per una sintesi. 68
R. DE BONIS, TRE TEMI DI POLITICA MONETARIA difficoltà della curva di Phillips a partire dalla fine degli anni Sessanta. In secondo luogo, l’attenzione per l’inflazione non prevista come elemento di efficacia della politica monetaria, un tema che sarà ricorrente nella discussione successiva. Nel «modello delle isole » di Lucas (1973), ad esempio, le imprese non sono in grado di distinguere variazioni del livello assoluto dei prezzi da cambiamenti dei prezzi relativi. Gli agenti economici reagiscono a un aumento della moneta facendo salire la produzione, perché confondono una crescita del livello generale dei prezzi con un aumento del prezzo del bene che essi producono. L’informazione imperfetta fa sì che la politica monetaria non sia neutrale; nel breve periodo esiste una correlazione positiva tra moneta e prodotto reale e, quindi, una curva di Phillips con un’incli- nazione negativa. Abbandonando l’ipotesi di economie con informazione imperfet- ta, Sargent e Wallace (1975) mostrarono che solo assumendo aspetta- tive adattive si può parlare di un trade-off tra inflazione e disoccupa- zione e di una capacità della politica monetaria di influenzare il red- dito. Al contrario, se i soggetti economici formano le loro aspettative in maniera razionale e tenendo conto delle regole che presiedono alla conduzione della politica monetaria, quest’ultima è inefficace, sia se mira al controllo dei tassi di interesse, sia se intende controllare l’of- ferta di moneta. In particolare, variazioni attese della moneta non hanno effetti. Ancora una volta, solo sorprendendo gli agenti la poli- tica monetaria ha un ruolo. Reagendo alla proposizione di inefficacia, si è mostrato che anche se gli agenti hanno aspettative razionali la politica monetaria può avere effetti reali, se i prezzi hanno qualche forma di rigidità; questa rigidità è spesso una soluzione ottimale che emerge endogenamente, piuttosto che un’ipotesi di partenza ad hoc. Se i contratti salariali sono stipulati in termini nominali e hanno una durata maggiore del tempo necessario alla politica monetaria per reagire agli shocks reali, variazioni dell’offerta di moneta influenzano il reddito (Fischer, 1977). Con regole diverse per la fissazione dei salari, un aumento del- la moneta può avere effetti permanenti sul reddito, dipendenti dalle condizioni del mercato del lavoro (Taylor, 1979). In sintesi, l’assunto di agenti con informazioni asimmetriche o l’esistenza di imperfezioni dei mercati per la presenza di rigidità nominali o reali, per i prezzi o per i salari, fanno sì che un aumento della moneta possa influenzare nel breve periodo non solo i prezzi ma anche il reddito 7. A questa impostazione «neokeynesiana», si contrappone l’ap- ————————————— ⁷ I contributi più significativi in materia di contratti scaglionati, coordination failures, costi di listino e «salari efficienza», sono raccolti nell’antologia a cura di Mankiw e Romer (1991). Sotto particolari modalità delle regole che presiedono al cambiamento di prezzi e salari, la moneta può comunque essere neutrale (cfr. ad esempio, Caplin e Spulber, 1987). 69
STUDI E NOTE DI ECONOMIA 2/96 proccio del real business cycle (RBC), che riafferma l’inesistenza di un ruolo per la politica monetaria. Piuttosto che essere influenzate da variazioni della moneta o del credito o da cambiamenti della doman- da effettiva, le fluttuazioni economiche derivano da shocks tecnologi- ci, ai quali gli agenti reagiscono aumentando l’offerta di lavoro e sostituendo intertemporalmente lavoro e ozio. Variazioni permanenti dei salari non influenzano il comportamento dei soggetti. Al contra- rio, aumenti temporanei dei salari conducono a un più forte impegno lavorativo degli agenti, nell’aspettativa di un riposo maggiore in futu- ro, quando le remunerazioni si saranno nuovamente ridotte. Un aumento della produttività – e dei salari – aumenta il costo opportu- nità del riposo e conduce a un maggior livello di occupazione. L’interazione tra cambiamenti della tecnologia e offerta di lavoro endogena da parte di individui ottimizzanti è all’origine del ciclo eco- nomico, mentre i mercati sono in equilibrio, i soggetti hanno aspetta- tive razionali e sono assenti asimmetrie informative 8. Elementi dei paradigmi appena sintetizzati contraddistinguono, come si vedrà, i diversi punti di vista sull’operare della politica mone- taria. Questi ultimi non sono che il riflesso della situazione di fram- mentazione in cui versa la macroeconomia dopo la fuoriuscita dal vecchio consenso degli anni Sessanta. 2. La politica monetaria « conta»? La disponibilità di serie storiche sulle variabili macroeconomiche segnala, in tutti i paesi, la presenza di correlazione positiva tra mone- ta e credito, da un lato, e reddito, dall’altro. Le correlazioni sono variabili per intensità, mutano a seconda dei periodi considerati, e dipendono dall’aggregato monetario (o creditizio) analizzato o da quale componente dell’attività produttiva si prenda in esame (consu- mo, investimenti o loro sottoaggregati). Di recente, ad esempio, la relazione stabile osservata in molti paesi tra moneta e reddito si è indebolita 9. Al contrario, in Italia nella seconda metà degli anni Ottanta era venuto meno un rapporto stabile tra credito e prodotto nazionale, per effetto dell’intensificarsi della concorrenza tra le ban- che dopo l’uscita definitiva dal massimale sui prestiti. Negli Stati Uniti, all’inizio degli anni Ottanta la relazione tra credito e reddito fu considerata da alcuni più costante di quella esistente tra moneta e GDP, proprio quando la Fed si muoveva verso la scelta di un aggre- gato monetario come obiettivo intermedio, peraltro abbandonato ver- so la metà del decennio 10. ————————————— ⁸ Si vedano Prescott (1986) e Campbell (1994) per due esempi di modelli di RBC, Summers (1986) per una critica e Stadler (1994) per una sintesi. ⁹ Per una recente sintesi di queste problematiche nel Regno Unito si veda Astley e Haldane (1995). ¹⁰ Cfr. Vaciago (1985), Friedman e Kuttner (1992) sul caso americano. 70
R. DE BONIS, TRE TEMI DI POLITICA MONETARIA Pur registrando l’esistenza di una correlazione tra moneta e reddi- to, la direzione di causalità tra le due variabili non è stabilita. Da una parte, la moneta potrebbe influenzare il reddito attraverso cambia- menti dei tassi di interesse reali che modificano l’investimento e il consumo. Allo stesso tempo, la moneta potrebbe essere endogena, aggiustandosi alle variazioni del prodotto nazionale: un aumento del reddito comporta una crescita della domanda di attività liquide, alla quale la Banca centrale risponde accrescendo l’offerta di moneta. Il nesso di causalità tra moneta e reddito e la possibilità di individuare manovre monetarie effettivamente esogene, vale a dire non determi- nate da cambiamenti delle variabili reali, sono i temi al centro della discussione. Due filoni di analisi studiano se variazioni della politica monetaria influenzano il reddito e non solo i prezzi, minando l’idea di neutralità: a) un approccio « narrativo », originato da Friedman e Schwartz (1963) e riutilizzato da Romer e Romer (1989); b) un’impostazione basata sulla stima di forme ridotte attraverso VAR (vector autoregressions), che ha avuto origine negli Stati Uniti, ma per la quale esistono numerose applicazioni alle espe- rienze di altri paesi. 2.1. L’approccio narrativo Friedman e Schwartz (1963) partono dalle ipotesi di neutralità nel lungo periodo della moneta e di non neutralità nel breve periodo. La moneta influenza il reddito direttamente, senza modificare i tassi di interesse, incidendo sulla spesa complessiva dell’economia, nella qua- le la distinzione tra consumo e investimento è irrilevante. Natural- mente, Friedman e Schwartz non affrontano le questioni statistiche di esogenità o meno della moneta che dominano la letteratura successi- va. L’idea di fondo è che le autorità monetarie hanno la possibilità di modificare l’offerta di moneta. Si potrebbe dire che in Friedman e Schwartz la moneta è indipendente, nel senso che la Federal Reserve ha la possibilità di controllarla. La nota conclusione è che errori nella conduzione della politica monetaria negli anni Trenta contribuirono a un peggioramento della depressione e che altri episodi ciclici dell’e- conomia statunitense furono imputabili al comportamento discrezio- nale della Banca centrale 11. Secondo le versioni moderne dell’approccio «narrativo », passare dalle correlazioni statistiche a direzioni di causalità tra le variabili macroeconomiche è un esercizio debole o inutile. Il ricercatore si tro- verà sempre in una situazione di incertezza. La moneta, ad esempio, può aumentare prima del reddito, ma questo non prova l’esistenza di una causalità che va dalla prima al secondo: le imprese hanno invece ————————————— ¹¹ Per una ricostruzione si veda Lucas (1994). 71
STUDI E NOTE DI ECONOMIA 2/96 programmato di espandere il prodotto e, quindi, hanno aumentato la loro domanda di moneta. È il reddito atteso che fa muovere le attività liquide e determina il prodotto del futuro (King e Plosser, 1984). Regredire il reddito su valori correnti e passati della moneta e ottene- re coefficienti statisticamente significativi – secondo l’impostazione proposta in origine dalla Federal Reserve di St. Louis – non conduce a conclusioni definitive 12. È allora preferibile considerare esperimenti naturali, vale a dire dei casi specifici nei quali la politica monetaria ha subito variazioni di regime. Recuperando l’impostazione di Friedman e Schwartz, Romer e Romer (1989) hanno guardato a episodi singoli della politica moneta- ria statunitense. Per isolare shocks di politica monetaria effettivamen- te esogeni, Romer e Romer cercano di individuare i casi nei quali la Fed ha modificato in senso restrittivo la sua azione per reagire ai segnali di un’inflazione crescente. Le variazioni della moneta sono considerate esogene, perché non legate a oscillazioni dell’attività pro- duttiva, bensì a scelte autonome dell’autorità monetaria volte a con- trastare l’aumento dei prezzi. Applicando questo metodo al periodo compreso tra la fine della seconda guerra mondiale e il 1987, Romer e Romer individuano sei date – ottobre 1947, settembre 1955, dicembre 1968, aprile 1974, agosto 1978, ottobre 1979 – nelle quali la Banca centrale avrebbe deciso di sacrificare la crescita del reddito a una riduzione dell’inflazione. La documentazione esaminata sono le deci- sioni del «Federal Open Market Committee» e i «Record of Policy Actions» delle riunioni dei Governatori del Sistema della Riserva Federale. La conclusione è che una politica monetaria restrittiva ridu- ce il reddito al di sotto del livello che si sarebbe osservato in sua assenza. Piuttosto che da shocks esterni o da variazioni della produt- tività, le recessioni sono prodotte da severe azioni monetarie che influenzano le componenti della domanda effettiva. Questi effetti si manifestano con ritardi e sono permanenti. L’impostazione « dei Romer» è stata sottoposta a numerose criti- che, che collocano il dibattito in una permanente situazione di incer- tezza: — se da una parte gli autori hanno esaminato decisioni di policy in passato poco utilizzate, essi rinunciano a un ammontare di infor- mazioni statistiche disponibili, concentrandosi solo su alcuni epi- sodi; sono questi ultimi sufficienti per concludere che la politica monetaria è efficace?; — Romer e Romer considerano solo orientamenti restrittivi della politica monetaria (ma recentemente gli autori hanno esaminato anche il contributo di manovre monetarie espansive al supera- ————————————— ¹² Per una discussione critica della cosiddetta « equazione di St Louis » si veda Romer (1996). 72
R. DE BONIS, TRE TEMI DI POLITICA MONETARIA mento delle recessioni, concludendo per la loro efficacia nell’in- fluenzare il reddito) 13; — anche accettando l’impostazione narrativa, si può concludere che è l’inflazione, non la politica monetaria, che riduce il prodotto nazionale (anche se le verifiche empiriche sugli effetti negativi del- l’inflazione sulla crescita del reddito sono ancora dubbie). L’au- mento dei prezzi riduce la domanda di moneta in termini reali e induce la Banca centrale a una contrazione della base monetaria. In questa visione, l’autorità monetaria ratifica le recessioni, non le produce. Riappare il problema dell’identificazione di manovre monetarie effettivamente esogene 14. 2.3. La stima di Var La stima di Var è l’altro approccio che cerca di individuare un nes- so di causalità tra moneta e reddito. La gran parte dei contributi si concentra sull’identificazione di variazioni effettivamente autonome dell’orientamento della politica monetaria 15. I lavori differiscono sia per le assunzioni econometriche sia per gli indicatori utilizzati, quali, ad esempio, il federal funds rate (il tasso overnight statunitense), altri tassi a breve termine, le riserve libere delle banche. Malgrado le diver- se metodologie utilizzate, negli Stati Uniti quattro risultati sembrano ricorrenti 16: a) la moneta influenza il reddito; variazioni della politica monetaria modificano non solo i prezzi, ma anche le variabili reali; b) l’effetto della moneta si manifesta con ritardi; nei primi mesi suc- cessivi allo shock monetario, il reddito non è influenzato; successi- vamente, le componenti della domanda aggregata si muovono pri- ma dell’offerta; in caso di espansione monetaria, ad esempio, mentre la domanda inizia a crescere può osservarsi anche una ini- ziale diminuzione del GDP (output puzzle), perché le imprese dimi- nuiscono il livello delle scorte all’inizio del ciclo positivo; anche i prezzi non cambiano nel periodo immediatamente successivo alla variazione dell’impostazione della politica monetaria; all’interno ————————————— ¹³ Cfr. Romer e Romer (1994a). ¹⁴ Per queste e altre osservazioni cfr. Hoover e Perez (1994a, 1994b), Romer e Romer (1994b), e i commenti al contributo originario di questi ultimi da parte di Anne Schwartz e Benjamin Friedman. ¹⁵ Sims (1972) ha proposto una delle prime soluzioni del problema, influenzando gran parte della letteratura seguente. Usando la definizione di causalità di Granger, Sims conclude che la moneta influenza il reddito, senza un feedback dal secondo al primo. Valori correnti e ritardati della moneta possono essere usati come variabili esogene in una regressione nel quale il reddito appare come variabile dipendente. Cfr. Bagliano e Favero (1995) per una sintesi delle problematiche econometriche legate all’utilizzo dei Var. ¹⁶ Tra i diversi studi si possono ricordare Bernanke e Blinder (1992), Bernanke e Mihov (1995), Gordon e Leeper (1994), Bernanke e Gertler (1995). 73
STUDI E NOTE DI ECONOMIA 2/96 della domanda aggregata, gli investimenti sono la componente più reattiva; c) l’effetto della moneta sul reddito non svanisce immediatamente, anche se è difficile specificarne la durata precisa; variazioni dei prezzi e del reddito sembrano comunque persistere più delle stesse variazioni degli aggregati monetari; d) i tassi di interesse a breve termine possono non essere modificati dalle variazioni della politica monetaria (cosiddetto liquidity puzz- le), o possono tornare immediatamente ai loro vecchi livelli, addirit- tura prima che il reddito si modifichi. Se i saggi del mercato mone- tario scendono dopo uno shock positivo, può peraltro osservarsi un aumento dei tassi a lungo termine, perché i mercati intravedono il rischio di inflazione connesso a manovre monetarie espansive. Questi risultati corrispondono alle principali conclusioni raggiun- te, come si è visto, dall’impostazione narrativa. Essi confermano vec- chi punti di vista sull’operare della politica monetaria, soprattutto sulla sua capacità di influenzare la domanda aggregata e il reddito, ma anche su una incertezza elevata sui tempi con i quali manifesterà la sua efficacia, che variano al modificarsi della struttura dei mercati. I due approcci differiscono, in definitiva, soprattutto per il modo diverso con il quale si individuano le « variazioni esogene » della poli- tica monetaria (una scelta «qualitativa» da parte di Friedman- Schwartz e dei Romer, più « statistica » da parte degli altri studi). Le comparazioni internazionali segnalano, infine, che anche nei paesi europei shocks monetari, in particolare variazioni dei tassi di interes- se, hanno effetti reali 17. Concludendo, « the predominant weight of the existing evidence suggests that the effects of monetary policy on real economic activity are systematic, significant and sizeable» (B. Friedman, 1995). 3. I canali di trasmissione Attraverso quale canale la politica monetaria influenza l’economia? Se si può affermare che essa influenza il reddito, più difficile è analiz- zare come essa operi. Ad esempio, i tassi di interesse possono muo- versi solo in piccola misura dopo manovre monetarie restrittive ma l’investimento può, al contrario, registrare oscillazioni elevate. Da cosa dipende tale anomalia? Anche in questo caso, sono individuabili due approcci, i cui effetti possono sovrapporsi: a) un’analisi dell’interazione tra bilanci delle imprese e fasi cicliche dell’economia; b) una discussione dell’operare della politica monetaria attraverso il canale monetario o quello creditizio. ————————————— ¹⁷ Cfr. Bacchetta e Ballabriga (1995). Un esame del caso italiano è contenuto in Buttiglione e Ferri (1994). 74
R. DE BONIS, TRE TEMI DI POLITICA MONETARIA 3.1. L’acceleratore finanziario Secondo questa impostazione, le recessioni influenzano negativa- mente i bilanci delle imprese, la cui peggiore situazione finanziaria aggrava, a sua volta, l’intensità di una fase ciclica negativa. Esiste un legame tra condizioni finanziarie delle imprese e fluttuazioni econo- miche, che è indipendente rispetto al tradizionale meccanismo neo- classico di cambiamento dei gusti e delle tecnologie 18. Le recessioni riducono le vendite e i profitti delle imprese, condu- cendo a una diminuzione del valore delle garanzie sulle quali gli inter- mediari possono contare. Le minori garanzie aumentano il costo dei finanziamenti esterni per l’industria; scendono gli investimenti e la domanda di attività finanziarie. Minori investimenti riducono i pro- fitti, con una nuova diminuzione della ricchezza netta delle imprese. Si innesca un circolo vizioso tra riduzione del valore delle garanzie, calo dei prezzi delle attività finanziarie, indebolimento della posizione finanziaria dei debitori, minori investimenti, aggravarsi della recessio- ne. Ad esempio, una restrizione monetaria, che riduce il prodotto nazionale, può avere effetti amplificati, spiegando perché gli investi- menti possono continuare a diminuire dopo una stretta monetaria, anche se i tassi di interesse sono tornati ai loro livelli iniziali. Esisterebbe così un «acceleratore finanziario» delle recessioni, che va dal reddito delle imprese agli investimenti. L’effetto è ancora maggio- re se le banche riducono i finanziamenti. Questo schema è stato applicato alla recente esperienza del Giappone. Attività a lungo termine quali la terra e i beni capitale svolgono un duplice ruolo, di fattori di produzione per le imprese e di garanzia per le banche. L’espansione dell’economia giapponese negli anni Ottanta, accompagnata da un aumento del valore della terra e delle attività finanziarie, avrebbe aumentato le possibilità di investi- mento delle imprese, le quali hanno potuto offrire garanzie elevate alle banche; la successiva recessione è stata aggravata dalle difficoltà della Borsa, dalla discesa dei prezzi, dal peggioramento della posizio- ne finanziaria dei debitori e delle banche, secondo un meccanismo che ricorda la debt deflation di Irving Fisher. L’« acceleratore finanziario » rende soprattutto difficile per le imprese raccogliere risorse esterne: quando esistono asimmetrie infor- mative e costi di agenzia tra banche e debitori, la ricchezza netta di questi ultimi – una variabile prociclica – è determinante per le decisio- ni di investimento. La diminuzione delle garanzie che le imprese sono in grado di offrire aumenta le risorse che le banche devono spendere per controllare i debitori, provocando una contrazione dei progetti industriali che possono essere finanziati. Già negli anni Trenta, subito ————————————— ¹⁸ Per esempi di modelli di questo tipo si vedano Bernanke e Gertler (1989), Bernanke, Gertler e Gilchrist (1994). 75
STUDI E NOTE DI ECONOMIA 2/96 dopo la pubblicazione della Teoria Generale, analisi empiriche critica- rono il nesso tra tasso di interesse e investimenti; il legame tra liqui- dità delle imprese e investimenti fu un tema ripreso negli anni Cinquanta 19. Le verifiche empiriche moderne cercano di identificare le imprese con vincoli finanziari, che impediscono la raccolta di fondi sui mercati, e i cui investimenti dipendono allora dalle risorse interne. Se queste ultime, come è lecito attendersi, diminuiscono durante le recessioni, l’attività di investimento sarà limitata. Negli Stati Uniti, l’evidenza empirica segnalerebbe che le imprese con maggiori vincoli di liquidità hanno il legame più forte tra cash flows e investimenti: il nesso sarebbe più forte per le piccole imprese e si rafforzerebbe duran- te le recessioni 20. Quest’ultimo risultato si osserva anche perché le banche contraggono il credito nella fase negativa del ciclo? O deriva soltanto dall’esistenza di imprese che diminuiscono la domanda di finanziamenti quando la caduta dell’attività produttiva riduce i pro- fitti e aumenta gli oneri finanziari? L’acceleratore finanziario enfatiz- za una risposta positiva alla seconda domanda. Una risposta affer- mativa alla prima domanda è invece fornita nel paragrafo seguente. 3.2. Canale monetario e canale creditizio Il meccanismo tradizionale di trasmissione della politica moneta- ria opera attraverso le passività delle banche. Le operazioni di merca- to aperto della Banca centrale e i tassi di interesse che essa controlla influenzano le riserve bancarie. Una restrizione monetaria riduce le riserve e i depositi bancari, alza i tassi di interesse reali, conduce a un aumento dei titoli. Questa interpretazione può essere derivata da uno schema IS-LM nel quale esistono solo due attività finanziarie, mone- ta e titoli. Al contrario, nella lending view, l’economia vede la presen- za di tre attività: moneta, titoli e prestiti (cfr., ad esempio, Bernanke e Blinder, 1988). Una diminuzione delle riserve bancarie riduce l’offerta di prestiti: ne derivano effetti reali, se le imprese non sono in grado di emettere titoli. Già in passato diversi studiosi e filoni di analisi hanno messo in luce l’importanza del credito: la lending view non è un punto di vista nuovo. Roosa (1951) ha sottolineato che la disponibilità dei prestiti è un fattore importante quanto il loro costo per la spiegazione dell’ope- rare della politica monetaria. Nell’analisi del ciclo economico negli Stati Uniti, si ricordano il credit crunch del 1966 e altri episodi di bru- sca contrazione degli impieghi. Negli anni Sessanta, Tobin e Brainard ————————————— ¹⁹ Newlyn (1967) sintetizza i risultati delle indagini degli anni Trenta. Per la discussio- ne successiva si veda la discussione sulle teorie dell’investimento contenuta in Berndt (1990). ²⁰ Cfr. Fazzari, Hubbard e Petersen (1988). Per un punto di vista che mette in discus- sione l’esistenza di imprese con vincoli finanziari si veda Kaplan e Zingales (1995). 76
R. DE BONIS, TRE TEMI DI POLITICA MONETARIA hanno studiato la rilevanza di un aumento degli intermediari finan- ziari non bancari per la trasmissione degli effetti della politica mone- taria: se aumentano istituzioni finanziarie che non solo raccolgono passività altamente sostituibili con la moneta, ma che offrono anche credito, l’azione della Banca centrale può risultare inefficace. Come ricordato nel paragrafo precedente, numerosi lavori empirici hanno messo in luce che la correlazione tra tassi di interesse e investimenti è debole; ne consegue la necessità di guardare alle condizioni di accesso al credito delle imprese. Paesi come l’Italia, la Gran Bretagna, la Francia, la Svezia, l’Olanda, il Giappone, la Nuova Zelanda hanno inoltre utilizzato controlli quantitativi del credito, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta (abbandonandoli progressivamente negli anni Ottanta): era diffusa – quasi scontata – l’idea che il credito sia un meccanismo significativo di trasmissione della politica moneta- ria 21. Sul finire degli anni Ottanta, negli Stati Uniti motivazioni diverse hanno contribuito a riaprire il dibattito sul ruolo del credito. Sotto il profilo storico, uno dei fattori aggravanti la grande depressione è sta- to rintracciato nella diminuzione dei prestiti legata ai fallimenti ban- cari, piuttosto che nella contrazione della moneta, la tradizionale ipo- tesi in discussione dopo il lavoro di Friedman e Schwartz 22. Più di recente, la recessione dell’economia all’inizio del decennio Novanta, il crollo dei prezzi degli immobili, il credit crunch osservato in alcuni Stati – da alcuni messo in relazione con l’introduzione, nel 1988, dei coefficienti patrimoniali di Basilea per le grandi banche internazionali – hanno riaperto la discussione sull’esistenza di un canale creditizio. Prima del recente, rinnovato interesse, la scarsa attenzione per il canale creditizio può essere derivata dal prevalere del teorema di Modigliani e Miller, sia per quanto riguarda i bilanci delle imprese, sia per quanto attiene ai bilanci delle banche: se il teorema fosse vali- do, il lending channel non potrebbe esistere, perché la struttura del passivo è irrilevante, sia i) per l’industria, sia ii) per gli intermediari 23. i) Sotto il primo punto di vista, se la composizione del capitale delle imprese non influenzasse le loro decisioni, prestiti e titoli dovrebbe- ro essere passività perfettamente sostituibili. Al contrario, è emerso che esistono imprese per le quali il debito bancario è una passività finanziaria diversa da un’obbligazione o dalla commercial paper. La specificità del prestito bancario può derivare dalla funzione di monitoring svolta dall’intermediario (Diamond, 1984); dalle verifi- ————————————— ²¹ Cfr. Goodhart (1991) per una sintesi delle esperienze estere. Sul caso italiano, si veda Fazio (1969) per un’analisi del ruolo del credito e Cottarelli, Galli, Marullo Reedtz e Pittaluga (1986) per un esame dei problemi creati, nel medio periodo, dal massimale. ²² Si veda, per tutti, Bernanke (1983). ²³ Per un’analisi in questo senso, si veda Kashyap e Stein (1993). 77
STUDI E NOTE DI ECONOMIA 2/96 che empiriche sul segnale positivo che l’erogazione di credito banca- rio incorpora rispetto al messaggio negativo legato all’annuncio di emissioni azionarie (James, 1987); dall’importanza di relazioni di lungo periodo tra banca e impresa (Rajan, 1992); dalla dipendenza delle piccole imprese dalle banche (Petersen e Rajan, 1994 e 1995). Dopo le restrizioni monetarie, negli Stati Uniti le emissioni di commercial paper aumentano, mentre la diminuzione dei prestiti è abbastanza lenta rispetto al rallentamento dei depositi, perché esisto- no impegni di prefinanziamento che le banche hanno assunto nei confronti delle imprese: ciò appare in linea con il fenomeno ricordato di un’azione ritardata della politica monetaria. La contrazione mone- taria aumenta la differenza tra tasso sulla commercial paper e tasso sui titoli pubblici. La crescita relativa della commercial paper rispetto ai prestiti ha effetti reali, influenzando negativamente, ad esempio, le scorte (Kashyap, Stein e Wilcox, 1993). Esisterebbe, pertanto, un canale creditizio della politica monetaria. Accanto alle verifiche con- dotte su dati aggregati, l’utilizzazione di panel data per i bilanci di sin- gole imprese confermerebbe che negli Stati Uniti esiste una dipenden- za delle piccole unità produttive dal credito bancario 24. ii) Il teorema di Modigliani e Miller sembra difficile da accettare anche se si guarda al bilancio delle banche. Se il teorema fosse valido, le banche potrebbero contrastare una riduzione delle riser- ve e dei depositi – conseguenti a restrizioni monetarie – emettendo certificati di deposito (CD) o obbligazioni, gravati in minor misura o esenti dall’onere della riserva obbligatoria. Il livello dei prestiti non sarebbe così influenzato da politiche restrittive. Malgrado le affermazioni di un’equivalenza tra i certificati e le altre passività bancarie e la riaffermazione di una money view pura (Romer e Romer, 1990), non sembra che i CD siano perfettamente sostitui- bili ai conti correnti. Ciò a causa sia della scelta dei risparmiatori – che percepiscono i CD come strumenti finanziari specifici – sia perché i certificati implicano un costo maggiore per le banche rispetto alla raccolta di depositi a vista 25. ————————————— ²⁴ Cfr. Bernanke, Gertler e Gilchrist (1994) e Schiantarelli (1995) per una rassegna; Oliner e Rudebush (1995) per un’opinione contraria. Bianco e Giannini (1995) discuto- no i limiti delle basi informative statunitensi e le caratteristiche delle fonti statistiche italiane in materia di rapporti tra banche e imprese. Angeloni, Buttiglione, Ferri e Gaiotti (1995) verificano l’esistenza di un credit channel in Italia, ma non trovano un effetto più acuto delle variazioni del regime della politica monetaria sulle imprese più piccole. ²⁵ In Italia, nella seconda metà del 1995, esisteva una differenza di quasi due punti percentuali tra il tasso medio sui CD e il costo medio dei depositi bancari. Ciò non ha comunque impedito ai CD di accrescere la quota sul totale dei depositi, dal 10 per cen- to dell’inizio del 1987 a quasi il 38 per cento alla fine del 1995. Dal giugno del 1994, i CD con scadenza non inferiore ai 18 mesi non sono assoggettati alla Rob (in confor- mità alla Legge 483/1993). In precedenza, i CD hanno goduto di una remunerazione maggiore e di un’aliquota di riserva inferiore. 78
R. DE BONIS, TRE TEMI DI POLITICA MONETARIA Concentrando l’attenzione sull’attivo di bilancio, un livello di pre- stiti invariato dopo una restrizione monetaria sarebbe osservato se le banche potessero vendere titoli per finanziare l’attività di finanzia- mento. Se la vendita di titoli per il finanziamento di prestiti è un feno- meno connaturato all’attività bancaria, un quantitativo minimo dei primi è comunque indispensabile per far fronte a improvvisi bisogni di liquidità. Esiste così un « cuscinetto» di titoli, il cui livello è peral- tro difficile da stabilire empiricamente, al di sotto del quale le banche tendono a non scendere. In una fase di tassi di interesse crescenti, inoltre, la cessione di titoli per finanziare l’offerta di impieghi espone gli intermediari a perdite in conto capitale 26. Un indebolimento del canale creditizio della politica monetaria potrebbe in definitiva osservarsi in due casi: a) una perdita di centralità dei finanziamenti bancari, per l’emergere di altri intermediari. In questo caso, le banche centrali influenze- rebbero le riserve bancarie, ma non sarebbero in grado di incidere sui prestiti di altre istituzioni finanziarie, non sottoposte alla riser- va obbligatoria; questi intermediari rimarrebbero comunque sog- getti all’influenza della politica monetaria attraverso le variazioni dei tassi d’interesse (che potrebbero, ad esempio, elevare il costo dei fondi da essi raccolti presso le banche). Una perdita di centra- lità dei prestiti delle banche – e un ruolo accresciuto di altri inter- mediari – si osservano soprattutto negli Stati Uniti. Nel 1974 le imprese americane ottenevano il 35 per cento dei fondi dalle ban- che: nel 1994 solo il 22 per cento. Anche la quota di mercato delle banche delle attività di bilancio complessive degli intermediari finanziari è scesa dal 39 per cento del 1960 al 29 per cento del 1994. Ma queste tendenze non sono estendibili ai paesi europei. Malgrado gli sviluppi dei mercati finanziari e le previsioni, diffuse all’inizio degli anni Ottanta, di una « scomparsa » delle banche, queste ultime restano ancora centrali nell’offerta di credito nei maggiori paesi industriali (in particolare in Italia, vedi Tabella 1) 27; b) l’obbligo delle banche di rispettare i coefficienti patrimoniali. Secondo alcune spiegazioni, durante la recessione statunitense del 1990-91, la politica monetaria espansiva non è stata sufficiente a innescare una ripresa economica perché le banche erano tenute al rispetto dei ratios introdotti nel 1987 dall’Accordo di Basilea. Da vincoli applicati in origine alle grandi banche con attività interna- zionale, i coefficienti sono stati estesi, nei maggiori paesi industria- ————————————— ²⁶ L’esempio si applica al caso italiano di rialzo dei tassi nella prima parte del 1995. In Italia, il rapporto tra titoli e impieghi delle banche è diminuito dai livelli superiori al 50 per cento del 1987, fino a un minimo intorno al 25 per cento all’inizio del 1991. Dal 36,3 per cento del gennaio 1995, il rapporto è sceso al 32,3 per cento alla fine del- l’anno. 79
STUDI E NOTE DI ECONOMIA 2/96 Tabella 1 – Prestiti di banche e di altri intermediari (quote percentuali rispetto al totale dei prestiti alle imprese) 1983 1993 Banche Altri Banche Altri intermediari intermediari Francia 70/88 * 30/12 * 74/85 * 26/15 * Germania 84 16 89 11 Italia 89 11 89 11 Giappone 45 55 54 46 Regno Unito 56/95 ** 44/5 ** 56/92 ** 44/8 ** Stati Uniti 66 34 50 50 * Il secondo valore è valido se le «istituzioni di credito specializzato» sono classificate come banche. ** Il secondo valore è quello valido se le building societies sono classificate come banche. Fonte: Borio (1994) e Banca d’Italia. li, al complesso del sistema creditizio. Le verifiche empiriche della loro efficacia sono complesse. Non è facile mostrare che le banche con inadeguatezza patrimoniale hanno ridotto in maggior misura i prestiti rispetto agli intermediari con un grado più elevato di patrimonializzazione: anche in questo caso il rallentamento del credito potrebbe essere imputato a una diminuzione della doman- da di prestiti delle imprese 28. Emerge, comunque, un contrasto potenziale tra efficacia della politica monetaria ed esigenze di regolamentazione efficiente delle banche. È probabile che la pre- senza di coefficienti patrimoniali sia solo un elemento ulteriore per confermare il vecchio punto di vista che sostiene l’efficacia della politica monetaria in senso restrittivo, ma le sue difficoltà a influenzare l’economia in senso espansivo. In definitiva, sia sotto il profilo teorico sia sotto quello empirico esistono buone ragioni per sostenere l’esistenza di un canale cre- ditizio 29. Quantificare la sua portata è peraltro difficile. La critica più forte è quella che sottolinea la maggiore importanza di spostamenti autonomi della domanda di credito da parte delle imprese durante le recessioni, anche per effetto del meccanismo dell’acceleratore finan- ziario. Più che una lending view operante in maniera autonoma per ————————————— ²⁷ Per alcune considerazioni sul tema si veda De Bonis (1994). ²⁸ Così Berger e Udell (1994); a favore di un effetto autonomo dei coefficienti sul credit crunch sono invece Brinkmann e Horvitz (1995). ²⁹ Oltre a Romer e Romer (1990), peraltro, anche Driscoll (1995) non trova evidenza empirica a favore di un credit channel. 80
R. DE BONIS, TRE TEMI DI POLITICA MONETARIA effetto di una restrizione monetaria, sarebbero le imprese a diminuire autonomamente la domanda di prestiti durante il ciclo negativo. In altre parole, è difficile distinguere tra un autonomo canale creditizio e il meccanismo indipendente che agisce direttamente sui bilanci del- l’industria 30. Negli Stati Uniti, la valutazione dei canali di trasmissione della politica monetaria va collocata accanto ad alcune tendenze recenti degli aggregati monetari e creditizi. Negli anni Ottanta è venuta meno la relazione osservata in passato tra moneta, da un lato, e reddito e prezzi, dall’altro 31. Anche la relazione tra credito e prodotto è stata più instabile che in precedenza. Al contrario, la differenza tra il sag- gio di interesse sulla commercial paper e il tasso sui titoli pubblici a breve termine è emersa, nel dopoguerra, come ottimo previsore del ciclo: lo spread ha sempre previsto le recessioni, innalzandosi prima dell’inizio della caduta dell’attività produttiva. Questa relazione è peraltro venuta meno nella recessione del 1990-91, prima della quale il differenziale non si è elevato. Le spiegazioni di tale anomalia sono due. In primo luogo, il diffe- renziale è il segnale che la politica monetaria si fa più severa: ma la recessione degli anni Novanta non è stata innescata da una azione restrittiva della Federal Reserve (in altre parole, il biennio 90-91 non apparirebbe in un aggiornamento del lavoro dei Romer). La conclu- sione è significativa, perché getta luce su un aspetto evidente: non tut- te le fasi depressive dell’economia possono essere naturalmente impu- tate a politiche monetarie restrittive. In secondo luogo, negli Stati Uniti le quantità relative di commercial paper e di titoli pubblici a bre- ve termine sono cambiate rispetto al passato per ragioni indipendenti dal ciclo economico (per esempio a causa di modificazioni nella gestione del debito pubblico): ciò ha comportato variazioni nei tassi d’interesse dei due strumenti finanziari. La lezione che si trae è l’ennesima conferma della difficoltà di individuare variabili monetarie, creditizie e di tasso che presentino relazioni stabili e di lunga durata con il reddito. L’azione della Fed si è indirizzata in maggior misura a un obiettivo di breve periodo, il controllo del federal fund rate, senza una forte attenzione per un tar- get intermedio di quantità. Il federal fund rate viene influenzato tenendo conto di diversi indicatori che forniscono informazioni sul- l’andamento finale dei prezzi e del reddito. Il consiglio di policy, comune a tante banche centrali, sembra essere: abbiate tanti indicato- ri ma non fidatevi di nessun obiettivo intermedio 32. Di recente, a que- ————————————— ³⁰ Cfr., per una sintesi, Bernanke e Gertler (1995). ³¹ Per questa analisi si vedano Friedman (1988), Friedman e Kuttner (1992) e (1994). ³² Goodfriend (1995) ricostruisce l’attuazione della politica monetaria statunitense a partire dal 1979. 81
STUDI E NOTE DI ECONOMIA 2/96 ste modalità di gestione della politica monetaria è stata assegnata la denominazione di stile « classico », nel quale « ...la banca centrale non assume impegni formali, nei confronti di alcun obiettivo, né interme- dio né finale... (e) fa riferimento a più indicatori, nella consapevolezza che ciascuno va interpretato tenendo conto degli altri e che in momenti differenti essi possono risultare diversamente significa- tivi» 33. La necessità di guardare in maniera flessibile agli obiettivi intermedi è confermata dall’osservazione empirica: il loro consegui- mento è stato mancato in Germania 9 volte e in Italia 11 volte (tra il 1975 e il 1993); 8 volte in Francia (tra il 1977 e il 1993); 7 volte in Spagna (tra il 1978 e il 1993) 34. 4. Regole, strategie, credibilità e indipendenza della Banca centrale Hicks ha sostenuto in più occasioni l’esistenza di due linee di pensiero sul legame tra stabilità dell’economia e conduzione della politica monetaria. Secondo la prima corrente, che va da Ricardo a Friedman, passando per Hayek, l’economia è intrinsecamente stabile e manovre monetarie discrezionali la destabilizzano. Secondo il filone alternativo, che va da Thornton a Keynes, passando per Scumpeter, un’economia capitalistica è soggetta a crisi ricorrenti e politiche monetarie discrezionali sono indispensabili 35. L’adozione di regole nell’utilizzo degli strumenti di politica mone- taria è oggi sostenuta utilizzando argomentazioni diverse da quelle classiche di Friedman. In passato le banche centrali venivano invitate ad abbandonare la discrezionalità e le politiche di fine tuning per l’esi- stenza di ritardi e ignoranza degli effetti della politica monetaria. Secondo questa impostazione, la politica economica si illude di cono- scere la struttura dell’economia e il comportamento degli agenti, macchiandosi di una «presunzione di conoscenza», secondo l’espres- sione di Hayek, e producendo risultati inferiori a quelli conseguibili dalla scelta di una regola semplice 36. La stessa prescrizione della necessità di abbandonare la discrezio- nalità deriva, oggi, dall’assunto di aspettative razionali e da una pre- ferenza per l’inflazione che caratterizzerebbe i comportamenti delle politiche economiche. In particolare, la scelta del Governo non è «coerente dinamicamente» (Kydland e Prescott, 1988). Il policy maker annuncia un tasso di inflazione sulla base del quale gli opera- tori formano le aspettative. Una volta che queste ultime si siano for- ————————————— ³³ Padoa-Schioppa (1995), pag. 90. ³⁴ I dati sono tratti da Goodhart e Vinals (1994). ³⁵ Cfr. Hicks (1967). ³⁶ Cfr., ad esempio, Simons (1936), e il dibattito riassunto in Bellone (1972), Hayek (1945) contiene una delle prime critiche all’idea che il policy maker possieda informa- zioni che il mercato non ha. 82
R. DE BONIS, TRE TEMI DI POLITICA MONETARIA mate, egli devierà da quanto annunciato, aumentando l’offerta di moneta. Il Governo ha convenienza a deviare dalla regola annuncia- ta, perché nel breve periodo una politica monetaria espansiva, crean- do più inflazione di quella che gli agenti si aspettano, può ridurre la disoccupazione; l’aumento dei prezzi può essere vantaggioso anche per un obiettivo fiscale (i guadagni derivanti dall’imposta da inflazio- ne o la riduzione del valore reale del debito pubblico). Ma se il policy maker dà l’impressione che muterà in futuro politiche preannunciate in passato, i soggetti economici baseranno il loro comportamento assumendo che questi cambiamenti avranno luogo. In altre parole, gli agenti non si faranno sorprendere sempre dalle variazioni improvvise della politica monetaria e incorporeranno nei propri comportamenti le attese di inflazione maggiore. Una politica discrezionale crea così più inflazione, senza ridurre la disoccupazione al di sotto del livello naturale, dato che con il tasso di crescita dei prezzi esiste una trade- off solo di breve periodo. Per acquisire credibilità la soluzione miglio- re per il Governo è adottare una regola, segnalando al mercato l’indi- sponibilità a modificare i propri comportamenti. L’idea di partenza, sulla quale ritorneremo, è la capacità del policy maker di controllare la moneta e l’inflazione, senza incertezze sulla relazione che lega le due variabili. L’adozione di una regola per gli strumenti (o gli obiettivi interme- di) della politica monetaria è sempre stata criticata per la sua rigidità, perché non può tener conto di eventi imprevedibili che possono veri- ficarsi (chi aveva previsto il crollo di Borsa dell’ottobre 1987 o la crisi del Sistema monetario europeo nell’estate del 1992?), nei confronti dei quali sono necessarie risposte flessibili. Al tempo stesso, se l’intro- duzione di una regola automatica non è una scelta realistica, nella let- teratura rimangono al centro dell’analisi le soluzioni alla discreziona- lità potenzialmente eccessiva della politica monetaria. Le soluzioni possono essere ricondotte a quattro filoni. Di seguito presentiamo i quattro approcci, insieme alla proposta dell’inflation targeting; nel paragrafo 4.1. si esprimono alcune valutazioni critiche. Pur nella loro diversità, un tratto comune alle quattro proposte è l’attenzione per la struttura istituzionale della politica economica, in particolare per l’in- terazione strategica che si instaura non solo tra le autorità pubbliche e gli agenti economici, ma anche tra gli stessi organismi responsabili delle scelte monetarie e fiscali (Governo e Banca centrale) 37. i)ii Scegliere una regola per aumentare la reputazione. Supponendo che l’interazione tra policy maker e agenti prosegua nel tempo, un assunto che appare realistico, il primo potrebbe puntare sull’ado- zione di regole per guadagnare una maggiore reputazione, rinun- ————————————— ³⁷ Per una sintesi delle tematiche, cfr. l’introduzione e l’antologia di Persson e Tabellini (1994). 83
STUDI E NOTE DI ECONOMIA 2/96 ciando alla strategia di perseguire una sorpresa continua dei sog- getti economici (Barro e Gordon, 1983). La scelta di una regola è una decisione autonoma del policy maker, al fine di guadagnare reputazione e, di conseguenza, credibilità. Ma questa soluzione si presta alla critica ricordata di rigidità eccessiva, nonché della natura di condizione di sufficienza, ma non di necessità, della scelta di «legarsi le mani ». ii)i Delegare la conduzione della politica monetaria a una Banca cen- trale «conservatrice» e indipendente. Lo Stato può assegnare la conduzione della politica monetaria a un agente esterno, che asse- gni un’importanza elevata alla riduzione dell’inflazione (Rogoff, 1985). La società preferisce avere un banchiere centrale che nella minimizzazione della sua funzione di perdita assegni un valore elevato alla stabilizzazione dei prezzi rispetto a quella della disoc- cupazione. Si noti bene che il banchiere centrale non deve attri- buire un peso infinito a un valore basso dell’inflazione; il peso deve essere semplicemente maggiore di quello che gli assegna la società. Il banchiere centrale è «conservatore», ma è consapevole del trade-off di breve periodo tra inflazione e disoccupazione. La soluzione di Rogoff non può essere accusata di rigidità: un esem- pio è rappresentato dal rientro dall’inflazione all’inizio degli anni Ottanta da parte degli Stati Uniti (il tasso di crescita dei prezzi scese dal 13,6 per cento del 1980 all’1,9 per cento del 1986, vedi Tabella 2), senza adottare una regola precisa per la politica mone- taria. Banche centrali indipendenti, ad esempio quelle di Germa- nia e Stati Uniti – i cui Governatori sarebbero espressione di comunità finanziarie «conservatrici» – mantengono la discrezio- nalità necessaria senza rinunciare a ottimi risultati contro l’infla- zione, senza «legarsi le mani» con regole fisse. La flessibilità è consentita dalla credibilità raggiunta nel corso del tempo per mezzo di un orientamento di fondo antiinflazionistico. iii) Introdurre vincoli costituzionali o legislativi. Se non si crede al banchiere centrale conservatore, gli incentivi delle istituzioni monetarie a mantenere la stabilità dei prezzi, nonché la loro cre- dibilità, possono essere aumentati attraverso scelte legislative. Si può ricordare l’inserimento in Germania dell’obiettivo della sta- bilità del valore della moneta nella Costituzione e l’assegnazione del suo perseguimento alla Bundesbank, o lo statuto della Banca centrale europea, con il riferimento al solo obiettivo della stabilità dei prezzi. Il Trattato di Maastricht ha contribuito alle revisioni degli statuti di molte banche centrali comunitarie, al fine di raf- forzarne l’indipendenza dai Governi. La stessa tendenza si osser- va in paesi in via di sviluppo (ad esempio, Cile e Messico) o nelle ex nazioni dell’Est (Ungheria, Repubblica Ceca). Negli Stati Uniti si sostiene da più parti l’opportunità che la Fed iscriva nel suo statuto che il suo unico obiettivo è il contenimento dell’infla- 84
Puoi anche leggere