Parigi COP 21: un accordo storico o inutile? - Filodiritto

Pagina creata da Alberto Mazza
 
CONTINUA A LEGGERE
Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752
                                              Direttore responsabile: Antonio Zama

            Parigi COP 21: un accordo storico o inutile?
                                                 22 Febbraio 2016
                                                   Luca Bragoli

Il 12 Dicembre 2015 ben 196 Parti (195 Stati oltre all’Unione Europea) hanno adottato formalmente il testo
dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. Si tratta di un accordo comune con carattere (almeno in
parte) vincolante sulla lotta al cambiamento climatico, che impegna le Parti contraenti a contenere
l’incremento della temperatura globale ben al di sotto dei 2°C rispetto all’era preindustriale e a compiere
sforzi perché l’incremento possa limitarsi a 1.5°C. Il risultato è stato raggiunto dopo oltre 15 anni di
infruttuosi colloqui nell’ambito della Conferenza delle Parti all’interno della Conferenza Quadro sui
Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (UNFCC) e dopo oltre 15 giorni di negoziazioni nella Capitale
francese.
Il Protocollo di Kyoto ed il percorso verso Parigi
Nel Febbraio 1997 la Conferenza delle Parti all’interno della UNFCC aveva adottato il Protocollo di Kyoto
(entrato in vigore nel 2005, dopo la ratifica della Russia). Il Protocollo di Kyoto era un testo vincolante che
aveva ottenuto ampia approvazione nell’ambito della COP3, ma imponeva obiettivi per i soli Paesi
Allegato I (ossia i Paesi sviluppati), sulla base del principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”.
Kyoto stabiliva impegni vincolanti di riduzione delle emissioni rispetto a quelle registrate nel 1985 –
considerato come anno base – nel periodo 2008-2012. Nel corso degli anni, il numero degli Stati aderenti al
Protocollo era aumentato e il suo orizzonte era stato esteso al 2020.
L’assunto base del Protocollo di Kyoto era che i Paesi industrializzati fossero i principali responsabili dei
gas serra accumulati in atmosfera e per questo dovessero compiere sforzi per ridurre le proprie emissioni,
mentre i Paesi meno sviluppati dovevano essere privi di vincoli al fine di non limitarne il processo di
sviluppo economico.
I limiti del Protocollo emergevano ben presto. Gli USA, il principale emettitore di gas serra con una quota
del 36% sul totale, non ratificando l’accordo spingeva all’adozione di misure “morbide” per assicurare la
ratifica di altri Paesi a bilanciamento dell’assenza americana. Per tale ragione veniva deciso che fino al
2012 non sarebbe stata applicata alcuna sanzione rispetto al mancato raggiungimento degli obiettivi di
riduzione e paesi come Cina o India, qualificati come paesi “in transizione”, non erano assoggettati a
specifici impegni sulle emissioni di gas, “continuando il loro percorso di crescita che di lì a poco li
avrebbe resi protagonisti nella questione del cambiamento climatico”.[1] Ma proprio la crescita delle
emissioni dei Paesi emergenti - già nel 2013 la Cina rappresentava il principale Paese emettitore (29%),
superando Stati Uniti (15%) e Unione Europea (11%) – facevano emergere sempre più la necessità di
superare Kyoto e di imporre un vincolo al trend delle emissioni di tutti i Paesi (emergenti e sviluppati) ai
fini del contenimento della temperatura globale.
L’Accordo di Parigi è stato preceduto e “preparato” da una serie di lunghe negoziazioni all’interno delle
Conferenze delle Parti, riunite annualmente sotto un sistema di Presidenze rotanti e da alcuni accordi
politici di particolare rilievo. Con la COP17 tenutasi a Durban nel 2011, per la prima volta tutti i Paesi, sia
industrializzati che “emergenti”, si sono impegnati a raggiungere un accordo globale vincolante per la lotta
al cambiamento climatico non oltre il 2015 (ossia entro la COP21 di Parigi) che fissasse obiettivi a partire
dal 2020. Nel novembre 2014 Stati Uniti e Cina, i 2 principali emettitori mondiali, hanno annunciato i loro
impegni, fornendo un segnale politico molto importante. Infine, i Paesi del G7 nel giugno 2015 per la
prima volta hanno definito in modo unanime un obiettivo quantitativo congiunto di riduzione delle
emissioni.[2]
I contenuti dell’Accordo di Parigi
L’Accordo di Parigi si compone di 3 sezioni: una sezione di principi comuni, una sezione vincolante e una
non vincolante.[3] Tra i principi comuni le Parti è compreso l’impegno a “raggiungere il picco di emissioni
il più presto possibile e a raggiungere un equilibrio tra sorgenti e assorbimento di gas climalteranti entro
la metà di questo secolo” e quello a “mantenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto di 2°
C e a sforzarsi di limitarla a 1,5° C”.All’equilibrio tra emissioni ed assorbimento è sotteso il principio
della “neutralità climatica”, che, diversamente da quello delle “emissioni zero”, richiesto a gran voce dalle
associazioni ambientaliste, non implica una rinuncia immediata all’utilizzo dei combustibili fossili, ma
piuttosto il bilanciamento delle fonti emissive con altre di “cattura” dei gas climalteranti (attraverso, ad
esempio, la carbon sequestration o la riforestazione).
Inoltre le Parti si danno l’obiettivo di “accrescere la capacità di adattamento agli impatti avversi del
cambiamento climatico, promuovere la resilienza e uno sviluppo a basse emissioni di GHG, in maniera
che non sia minacciata la produzione alimentare” e quello di “creare flussi finanziari coerenti con un
percorso di sviluppo a basse emissioni di gas serra e resiliente ai cambiamenti climatici”.
Nella parte vincolante dell’Accordo ogni Parte firmataria si impegna a inviare i propri Piani nazionali di
riduzione delle emissioni e a revisionarli nell’ambito della COP ogni 5 anni, a partire dal 2023 (con un
primo dialogo informale nel 2018).
La parte non vincolante contiene la quasi totalità delle misure previste dall’Accordo (in particolare tutte le
disposizioni relative a modalità e ambizioni nazionali di riduzione delle emissioni).
L’intesa è stata costruita attraverso un approccio bottom-up.[4] Diversamente dal Protocollo di Kyoto dove
l’obiettivo complessivo di riduzione delle emissioni e la sua ripartizione tra le Parti erano stati fissati
nell’ambito dei negoziati UNFCCC ed accompagnati da rigide regole di compliance, per Parigi le Parti si
sono presentate con impegni vincolanti di riduzione delle emissioni (gli INDC)[5] che non sono stati
oggetto di negoziazione. L’Accordo di Parigi, infatti, si limita a definire un percorso di aggiornamento
degli impegni in ottica sempre più ambiziosa ogni 5 anni a partire dal 2020, senza prevedere alcun
meccanismo di compliance. [6]
Gli INDC avanzati dalle Parti presentano livelli di impegno e indicatori scelti per la definizione
dell’obiettivo molto diversi. Gli INDC differiscono poi per l’orizzonte temporale dell’impegno e per la
scelta dell’anno base. Alcuni Paesi hanno subordinato la validità dell’impegno a condizioni (ad esempio il
raggiungimento di un accordo globale) o si sono riservati la possibilità di rivedere l’impegno a valle della
COP di Parigi. L’Accordo di Parigi stabilisce che i Paesi industrializzati fissino gli obiettivi in termini di
riduzione assoluta delle emissioni, mentre gli altri Paesi sono incoraggiati a assumere in futuro un obiettivo
di questo tipo, purché nel frattempo aumentino progressivamente i loro sforzi. Tra i principali Paesi
emergenti, la Cina ha scelto di assumere un obiettivo di riduzione delle emissioni per unità di PIL, mentre
altri hanno scelto di fissare l’obiettivo con riferimento a uno scenario BAU.
Obiettivi post 2020 di riduzione delle emissioni di gas serra fissati dalle principali Parti negli INDC
Parte                                  Orizzonte               Anno base         Indicatore
UE-28                40%                2030                   1990               Riduzione assoluta
Stati Uniti          26-28%             2025                   2005               Riduzione assoluta
Russia               25-30%             2030                   1990               Riduzione assoluta
Cina                 60-65%             2030                   2005               Riduzione emissioni / PIL
India                33-35%             2030                   2005               Riduzione emissioni / PIL
                                                                                  Riduzione su scenario
Corea del Sud        37%                2030                   -
                                                                                  BAU
                                                                                  Riduzione su scenario
Messico              22%*               2030                   -
                                                                                  BAU
* L'obiettivo può salire al 36% in caso di accordo globale sfidante Fonte: INDC
Gli INDC presentati per Parigi però non consentono – secondo le stime degli esperti - di centrare
l’obiettivo di lungo termine definito dall’Accordo:[7] si tratta di una base di partenza, che dovrà essere
progressivamente (e necessariamente) migliorata dalle Parti, aumentando il loro impegno in occasione
degli aggiornamenti periodici. È questo un aspetto che ha generato perplessità,[8] anche perché non sono
chiari i poteri dell’UNFCCC rispetto all’aggiornamento degli INDC.
Diversamente dal Protocollo di Kyoto, che fissava un obiettivo di abbattimento delle emissioni per un
periodo prestabilito (2008-2012), non è previsto un termine al processo di aggiornamento periodico, per cui
l’accordo raggiunto ha portata temporale potenzialmente illimitata.
Il nuovo Accordo sul clima pone l’accento sulla necessità di aumentare il supporto per le azioni volte a
limitare l’incremento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli pre-
industriali. In questa prospettiva l’Accordo si cura di definire e quantificare gli strumenti finanziari
necessari per conseguire gli obiettivi di abbattimento delle emissioni.
In generale si è previsto il trasferimento di risorse dai Paesi industrializzati ai Paesi emergenti al fine di
supportare questi ultimi nelle attività di mitigazione delle emissioni e di adattamento alle conseguenze
sull’attività umana e sugli ecosistemi derivanti dal cambiamento del clima in atto. Si tratta di risorse non
inferiori 100 miliardi di dollari all’anno[9] da destinare ai Paesi emergenti a partire dal 2020, con fondi di
provenienza pubblica o privata.
La netta distinzione operata da Kyoto tra Paesi donatori (Europa, Nord America, Australia, Giappone) e
riceventi (il resto del mondo) è però più sfumata. Viene infatti incoraggiato, per la prima volta, il contributo
finanziario volontario di tutti i paesi membri della Convenzione e sono riconosciuti gli sforzi già realizzati
da alcuni. In particolare, in virtù del principio di responsabilità comuni ma differenziate e delle diverse
capacità, e in considerazione dello sviluppo economico raggiunto da alcuni paesi (quali Cina, India e Sud
Africa), l’Accordo pone le basi formali per una cooperazione “Sud-Sud”, complementare alla tradizionale
“Nord-Sud”.[10]
Inoltre, l’Accordo richiede di rafforzare in maniera significativa gli aiuti alle azioni di adattamento, che
finora hanno ricevuto una quota più ridotta degli investimenti effettuati. Benché alcuni paesi lo
caldeggiassero, il testo finale dell’accordo non indica nessun obiettivo numerico in merito alla finanza per
l’adattamento, ma si limita a chiedere una più bilanciata allocazione delle risorse tra azioni di mitigazione e
adattamento. [11]
I prossimi round negoziali, a partire da quello di Marrakesh del 2016, dovranno meglio definire i dettagli
ed i termini finanziari dell’Accordo e, in particolare, le modalità di erogazione dei contributi. Resta tuttavia
chiaro che per il momento non esiste alcun obbligo legale in capo agli Stati sviluppati di garantire risorse
finanziarie. Il riferimento ai 100 miliardi annui rimane quindi puramente indicativo.
Sul tema dei risarcimenti climatici per le perdite e i danni irreparabili (loss and damage) subìti dai Paesi
vulnerabili a un cambiamento climatico innescato dalle economie avanzate, si è assistito ad un acceso
confronto diplomatico. In particolare Unione Europea e Stati Uniti si sono opposti a qualsiasi sistema
coercitivo che potesse esporli a richieste di indennizzo da parte dei Paesi potenzialmente danneggiati dai
cataclismi.
Da Parigi arriva in generale un forte segnale politico alla comunità finanziaria e agli investitori. Si chiede
un impegno maggiore ad investire in maniera coerente con la rivoluzione “low-carbon” dell’economia
globale accompagnando la transizione verso un nuovo modello di sviluppo a bassa intensità di carbonio.
Un impegno che i privati hanno già avviato grazie alla riduzione dei costi delle tecnologie per le energie
rinnovabili e ai meccanismi di sostegno implementati dagli Stati. E che dopo Parigi continuerà,
ragionevolmente, con maggiore vigore.
Per garantire efficienza nel raggiungimento degli obiettivi, questo accordo, come quello di Kyoto in
precedenza, predilige lo sviluppo volontario di strumenti flessibili di mercato. La definizione di dettaglio
dei meccanismi avverrà alla COP22 programmata per la fine 2016 a Marrakesh. Per evitare il ripetersi di
esperienze negative del passato (si pensi ai progetti di abbattimento dei gas industriali HFC-23 e N2O per
la maggior parte realizzati in Cina) sarà necessario vigilare sull’efficacia di tali strumenti.
I prossimi step formali prevedono la sottoscrizione dell’Accordo (tra il 22 aprile 2016 e il 21 aprile 2017) e
successivamente la ratifica (o accettazione o approvazione) da parte degli Stati. L’entrata in vigore della
Dichiarazione avverrà 30 giorni dopo il deposito dello strumento di ratifica della 55° Parte aderente (a
condizione che gli aderenti siano responsabili di almeno il 55% delle emissioni globali).
L’Accordo di Parigi e l’Unione Europea
L’Unione Europea ha sempre svolto il ruolo di traino a livello internazionale nella fissazione di impegni
unilaterali ambiziosi e ha potuto svolgere un ruolo di regia ospitando la COP21. Per quanto riguarda il
conseguimento dei propri obiettivi unilaterali contenuti nell’INDC, che coincidono con quelli del Pacchetto
Clima Energia 2030, la Commissione Europea sta procedendo affinché si completi al più presto il quadro
legislativo comunitario a supporto degli obiettivi.
A luglio ha già presentato la proposta di modifica della direttiva ETS,[12] mentre nel corso del 2016
dovrebbe avvenire la presentazione, tra le altre, delle proposte di modica delle direttive per la promozione
delle fonti rinnovabili e per l’efficienza energetica e del Burden Sharing Agreement. Tra il 2016 e il 2018
dovrebbero inoltre essere redatti i piani nazionali per l’energia e il clima, che dovrebbero tra l’altro
consentire di conseguire congiuntamente l’obiettivo comunitario per le fonti rinnovabili, sulla base delle
linee guida pubblicate dalla Commissione a novembre 2015.
Le più recenti stime contenute nello State of the Energy Union 2015 indicano che sulla base delle misure
attuali l’Unione Europea nel suo complesso nel 2030 ridurrà le sue emissioni del 27% rispetto al 1990, per
cui occorreranno misure aggiuntive per centrare l’obiettivo di abbattimento del 40% assunto
unilateralmente a livello internazionale.
Da una prospettiva europea l’Accordo di Parigi, seppur rilevante da un punto di vista politico, appare
neutro, nel senso che nel breve non sembrerebbe capace di influenzare l’andamento dei target al 2030.
Esiste tuttavia un elemento di interesse: l’accordo di Parigi fa menzione di un target di riduzione
dell’aumento delle temperature medie di 1,5 gradi. Tutte le proiezioni climatiche e conseguentemente la
definizione dei target 2030, sono basati su una riduzione di 2 gradi. Sarà interessante vedere se e come la
coalizione degli Stati membri “green” (guidati da Germania e Nordici) vorranno cercare un rilancio delle
ambizioni climatiche europee e come la coalizione dei carboniferi (Polonia in testa) si opporrà.
L’Accordo raggiunto a Parigi è stato da alcuni definito storico,[13] mentre altri ne hanno sottolineato le
lacune.[14]
Indubbiamente è stato centrato un risultato politico, quello di mettere d’accordo tutte le nazioni coinvolte
su un obiettivo di decarbonizzazione mondiale di lungo termine e di definire il processo e gli strumenti,
anche economici, per realizzarlo. In particolare l’Accordo assegna agli Stati, e non alle istituzioni
dell’UNFCCC, il ruolo di protagonisti del processo.
Più precisamente l’Accordo di Parigi ha sancito alcuni principi fondamentali che avevano bloccato ogni
possibile progresso nei round negoziali precedenti:
- riguarda ogni Parte firmataria, ponendo obiettivi complessivi in capo a tutte le Parti dell’accordo
(differentemente dal Protocollo di Kyoto);
- istituzionalizza un processo di revisione dei dati e degli obiettivi nazionali ogni 5 anni;
- fornisce una metodologia comune (anche se non esclusiva) per la misurazione delle emissioni;
- prevede un sistema di governance per le future discussioni e l’evoluzione degli obiettivi.
L’Accordo finalizzato nell’ambito della COP21 presenta però alcuni elementi di debolezza tra cui spiccano:
- l’assenza di meccanismi sanzionatori rispetto al mancato raggiungimento degli obiettivi nazionali;
- le attività di verifica sulle emissioni rimesse agli Stati stessi (e non all’UNFCCC), sebbene nell’ambito di
un regime di trasparenza obbligatorio;
- la mancata indicazione della data entro la quale si intende raggiungere il picco globale delle emissioni;[15]
- l’estromissione dall’accordo delle emissioni legate al trasporto internazionale (navi e aerei),[16] sebbene
esse siano rilevanti e ne sia prevista una crescita importante nei prossimi anni;
- l’assenza di ogni riferimento ai carbon market: in assenza di un sistema di cap and trade con
l’assegnazione centralizzata di quote, non sussistono le condizioni per il mantenimento dei meccanismi
flessibili previsti dal Protocollo di Kyoto.
La mancanza di impegni sfidanti da parte delle gradi economie emergenti (India e Cina in primis), inoltre,
è probabile che ridurrà la “praticabilità” politica, in Occidente, di generose sovvenzioni alle grandi
economie emettitrici in via di sviluppo. Difficile infatti spiegare all’elettore medio americano o giapponese
che paesi che non hanno preso impegni di natura vincolante, e che propongono misure inferiori a quelle che
essi stessi intendono perseguire in politica interna, siano candidati meritevoli di ricevere i 100 miliardi di
dollari annui.
A ben guardare, sarebbe stato difficile immaginare che Parigi potesse “partorire” un risultato migliore,
considerata la natura dello strumento utilizzato, cioè quella di un accordo multilaterale, con oltre 190
contraenti, caratterizzati da interessi e posizioni molto diverse, quando non confliggenti. E infatti vi è chi
tra gli osservatori[17] si è chiesto se l’accordo “esteso a tutti” fosse lo strumento più appropriato, o se non
sarebbe stato preferibile che i “grandi emettitori”[18] definissero in ambito ristretto un percorso di
transizione più preciso, stringente e dettagliato.
Di certo il raggiungimento dell’obiettivo globale dipenderà molto dalla responsabilità e dall’impegno delle
Parti, in particolare quelle che hanno oggi il peso maggiore in termini di emissioni o che lo potrebbero
aumentare considerevolmente in futuro (ad esempio Russia, Argentina, Brasile, Messico, Turchia).
E la responsabilità e l’impegno degli Stati a loro volta saranno tanto maggiori, quanto più forte sarà la
pressione e la spinta che le rispettive opinioni pubbliche sapranno esprimere sul tema del cambiamento
climatico.
V’è da augurarsi che tale pressione e spinta, per diventare davvero determinanti, non necessitino del
sopraggiungere di catastrofi e disastri naturali “planetari”. Che questi ultimi si verifichino, in assenza
dell’implementazione di policy adeguate e tempestive, è praticamente una certezza. Il rischio concreto è
che accadano quando oramai è troppo tardi per porvi rimedio.

[1] Ilaria Urbani, “COP21: un passo avanti o un altro punto di partenza?”, pubblicato il 29/12/2015 sul
sito http://www.geopolitica-rivista.org/.
[2] Si veda: REF Energia, Osservatorio Energia n. 193-194, Novembre/Dicembre 2015, pagg.41 e ss.
[3] Tale distinzione si è resa necessaria dall’opposizione indiana e cinese ad un accordo integralmente
vincolante.
[4] “Con l’abbandono di un accordo “top-down”, calato dall’alto, come il protocollo di Kyoto, a favore di
un approccio “bottom-up”, si è data anzitutto la possibilità a ciascun Paese di enunciare un proprio piano
volontario di riduzione delle emissioni realizzando così la differenziazione perfetta” così Marzio Galeotti e
Alessandro Lanza, “L’accordo sul clima? Diplomatico” pubblicato il 15/12/15 su www.lavoce.info.
[5] INDC (impegni nazionali di riduzione delle emissioni): l'acronimo sta per Intended Nationally
Determined Contribution. Per facilitare i lavori e stimolare le nazioni partecipanti, l'UNFCCC ha previsto
che i partecipanti presentassero, prima della Cop21, dei piani in cui è scritto nero su bianco quel che ogni
parte intende fare per ridurre le emissioni; gli INDC sono appunti questi piani. Sul tavolo della Conferenza
sono arrivati 147 INDC, che riguardano 181 Stati (l'Unione Europea ad esempio ne ha uno) e coprono il
94% delle emissioni mondiali. Alcune parti hanno specificato obiettivi di riduzione in termini assoluti,
circa la metà hanno definito target con uno scenario business as usual, altre invece sulla base del loro
rapporto con il Pil, cioè la carbon intensity, mentre altre ancora (il caso più importante è la Cina) hanno
stabilito un determinato anno entro il quale le emissioni dovranno raggiungere il loro picco. Solo una
minoranza di Paesi ha incluso nei rispettivi INDC le azioni specifiche che intraprenderanno per ridurre la
CO2.
[6] Si tratta di un approccio almeno in parte simile a quello adottato dall’Unione Europea per il
conseguimento dell’obiettivo 2030 in termini di penetrazione del consumo da fonte rinnovabile: l’obiettivo
(27% del consumo finale lordo) è vincolante solo a livello comunitario e dovrebbe essere raggiunto
attraverso un sistema di governance coordinato dalla Commissione Europea che dovrebbe guidare i singoli
Stati a predisporre piani d’azione per l’energia e il clima coerenti con l’obiettivo complessivo. La
debolezza del meccanismo risiede nel fatto che non è chiaro il potere della Commissione nell’imporre
modifiche ai piani dei singoli Stati (salvo l’obbligo per gli Stati di conseguire gli obiettivi nazionali di
abbattimento delle emissioni nei settori non ETS), così come non è chiaro il potere che avrà l’UNFCCC in
occasione dell’aggiornamento degli INDC.
[7] Le emissioni sulla base degli impegni presi in base all’Accordo di Parigi raggiungeranno secondo
l’UNFCCC 55 GtCO2eq nel 2030, a fronte della soglia di 40 GtCO2eq ritenuta necessaria a contenere
l’aumento delle temperature entro i 2° C. Più specificamente i 158 piani inoltrati, rappresentando 186 paesi
e circa il 96 per cento delle emissioni globali nel 2010 (e il 97 per cento della popolazione mondiale),
traguarderebbero un aumento della temperatura a +2,7° C.
[8] “Siamo ben lontani da quegli ”adeguati meccanismi di controllo, di verifica periodica e di sanzione
delle inadempienze” auspicati da Papa Francesco nella Laudato sì. Inoltre gli impegni volontari portano
con sé il rischio che i governi futuri possano con facilità tirarsene fuori”; così Andrea Masullo, su La
Stampa del 29/12/2015.
[9] Il livello dello sforzo sarà rivisto in ambito COP entro il 2025, ma non potrà comunque essere inferiore
alla soglia dei 100 miliardi di dollari. Non è chiaro tuttavia come lo sforzo sarà ripartito tra i Paesi
industrializzati.
[10] Si veda: “Se il modello di sviluppo si tinge di verde” di Chiara Trabacchi e Barbara Buchner,
pubblicato il 18/12/15 su www.lavoce.info. Nel contributo le due autrici evidenziano che: “Secondo le
stime preliminari realizzate dall’Ocse in cooperazione con il Climate Policy Initiative (Cpi), le risorse
finanziarie mobilizzate dai paesi sviluppati hanno raggiunto i 57 miliardi di dollari in media nel periodo
2013-2014. Il Fondo verde per il clima, il meccanismo della Convezione quadro per i cambiamenti
climatici (Unfcc) creato per rafforzare il sostegno finanziario ai paesi in via di sviluppo, è diventato
operativo nel corso del 2015, approvando i primi otto progetti poche settimane prima del summit di Parigi.
Tuttavia, benché significativi, progressi e sforzi non sono ancora sufficienti. L’Agenzia internazionale per
l’energia stima, ad esempio, che per promuovere la transizione energetica saranno necessari 16,5 trilioni
(migliaia di miliardi) di dollari per investimenti in efficienza energetica e tecnologie a basse emissioni nei
prossimi quindici anni. Ulteriori risorse saranno necessarie per gestire i rischi associati ai cambiamenti
climatici (o cogliere eventuali opportunità)”.
[11] “Richiesta politica più che scientifica, perché la necessità di un equilibrio tra i due non è chiara” così
Chiara Trabacchi e Barbara Buchner, “Se il modello di sviluppo si tinge di verde”, (ut supra).
[12] Si veda la Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15/7/2015 che modifica la
direttiva 2003/87/CE per sostenere una riduzione delle emissioni più efficace sotto il profilo dei costi e
promuovere         investimenti        a      favore       di      basse      emissioni       di      carbonio;
https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2015/IT/1-2015-337-IT-F1-1.PDF
[13] Si         veda         l’articolo,        “Cop21,          arriva        la         firma”
http://www.repubblica.it/ambiente/2015/12/12/news/cop21_e_il_giorno_dell_accordo_sul_clima-
129303103/
[14] Si veda: Sergio Ferraris, “Cop21, accordo in bianco”, pubblicato il 14/12/2016, su
http://lanuovaecologia.it/cop21-accordo-bianco/.
[15] L’INDC della Cina contiene l’impegno a raggiungere il picco delle emissioni nazionali entro il 2030.
[16] Impegni che erano parte del testo di Copenaghen e che ricoprono circa il 10% delle emissioni totali.
[17] G.B. Zorzoli, “COP21, uno strumento inappropriato”, pubblicato il 18/12/2015, su
www.staffettaquotidiana.it.
[18] Stati Uniti, Cina, India, Unione Europea producono attualmente il 75% delle emissioni.
Il 12 Dicembre 2015 ben 196 Parti (195 Stati oltre all’Unione Europea) hanno adottato formalmente il testo
dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. Si tratta di un accordo comune con carattere (almeno in
parte) vincolante sulla lotta al cambiamento climatico, che impegna le Parti contraenti a contenere
l’incremento della temperatura globale ben al di sotto dei 2°C rispetto all’era preindustriale e a compiere
sforzi perché l’incremento possa limitarsi a 1.5°C. Il risultato è stato raggiunto dopo oltre 15 anni di
infruttuosi colloqui nell’ambito della Conferenza delle Parti all’interno della Conferenza Quadro sui
Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (UNFCC) e dopo oltre 15 giorni di negoziazioni nella Capitale
francese.
Il Protocollo di Kyoto ed il percorso verso Parigi
Nel Febbraio 1997 la Conferenza delle Parti all’interno della UNFCC aveva adottato il Protocollo di Kyoto
(entrato in vigore nel 2005, dopo la ratifica della Russia). Il Protocollo di Kyoto era un testo vincolante che
aveva ottenuto ampia approvazione nell’ambito della COP3, ma imponeva obiettivi per i soli Paesi
Allegato I (ossia i Paesi sviluppati), sulla base del principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”.
Kyoto stabiliva impegni vincolanti di riduzione delle emissioni rispetto a quelle registrate nel 1985 –
considerato come anno base – nel periodo 2008-2012. Nel corso degli anni, il numero degli Stati aderenti al
Protocollo era aumentato e il suo orizzonte era stato esteso al 2020.
L’assunto base del Protocollo di Kyoto era che i Paesi industrializzati fossero i principali responsabili dei
gas serra accumulati in atmosfera e per questo dovessero compiere sforzi per ridurre le proprie emissioni,
mentre i Paesi meno sviluppati dovevano essere privi di vincoli al fine di non limitarne il processo di
sviluppo economico.
I limiti del Protocollo emergevano ben presto. Gli USA, il principale emettitore di gas serra con una quota
del 36% sul totale, non ratificando l’accordo spingeva all’adozione di misure “morbide” per assicurare la
ratifica di altri Paesi a bilanciamento dell’assenza americana. Per tale ragione veniva deciso che fino al
2012 non sarebbe stata applicata alcuna sanzione rispetto al mancato raggiungimento degli obiettivi di
riduzione e paesi come Cina o India, qualificati come paesi “in transizione”, non erano assoggettati a
specifici impegni sulle emissioni di gas, “continuando il loro percorso di crescita che di lì a poco li
avrebbe resi protagonisti nella questione del cambiamento climatico”.[1] Ma proprio la crescita delle
emissioni dei Paesi emergenti - già nel 2013 la Cina rappresentava il principale Paese emettitore (29%),
superando Stati Uniti (15%) e Unione Europea (11%) – facevano emergere sempre più la necessità di
superare Kyoto e di imporre un vincolo al trend delle emissioni di tutti i Paesi (emergenti e sviluppati) ai
fini del contenimento della temperatura globale.
L’Accordo di Parigi è stato preceduto e “preparato” da una serie di lunghe negoziazioni all’interno delle
Conferenze delle Parti, riunite annualmente sotto un sistema di Presidenze rotanti e da alcuni accordi
politici di particolare rilievo. Con la COP17 tenutasi a Durban nel 2011, per la prima volta tutti i Paesi, sia
industrializzati che “emergenti”, si sono impegnati a raggiungere un accordo globale vincolante per la lotta
al cambiamento climatico non oltre il 2015 (ossia entro la COP21 di Parigi) che fissasse obiettivi a partire
dal 2020. Nel novembre 2014 Stati Uniti e Cina, i 2 principali emettitori mondiali, hanno annunciato i loro
impegni, fornendo un segnale politico molto importante. Infine, i Paesi del G7 nel giugno 2015 per la
prima volta hanno definito in modo unanime un obiettivo quantitativo congiunto di riduzione delle
emissioni.[2]
I contenuti dell’Accordo di Parigi
L’Accordo di Parigi si compone di 3 sezioni: una sezione di principi comuni, una sezione vincolante e una
non vincolante.[3] Tra i principi comuni le Parti è compreso l’impegno a “raggiungere il picco di emissioni
il più presto possibile e a raggiungere un equilibrio tra sorgenti e assorbimento di gas climalteranti entro
la metà di questo secolo” e quello a “mantenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto di 2°
C e a sforzarsi di limitarla a 1,5° C”.All’equilibrio tra emissioni ed assorbimento è sotteso il principio
della “neutralità climatica”, che, diversamente da quello delle “emissioni zero”, richiesto a gran voce dalle
associazioni ambientaliste, non implica una rinuncia immediata all’utilizzo dei combustibili fossili, ma
piuttosto il bilanciamento delle fonti emissive con altre di “cattura” dei gas climalteranti (attraverso, ad
esempio, la carbon sequestration o la riforestazione).
Inoltre le Parti si danno l’obiettivo di “accrescere la capacità di adattamento agli impatti avversi del
cambiamento climatico, promuovere la resilienza e uno sviluppo a basse emissioni di GHG, in maniera
che non sia minacciata la produzione alimentare” e quello di “creare flussi finanziari coerenti con un
percorso di sviluppo a basse emissioni di gas serra e resiliente ai cambiamenti climatici”.
Nella parte vincolante dell’Accordo ogni Parte firmataria si impegna a inviare i propri Piani nazionali di
riduzione delle emissioni e a revisionarli nell’ambito della COP ogni 5 anni, a partire dal 2023 (con un
primo dialogo informale nel 2018).
La parte non vincolante contiene la quasi totalità delle misure previste dall’Accordo (in particolare tutte le
disposizioni relative a modalità e ambizioni nazionali di riduzione delle emissioni).
L’intesa è stata costruita attraverso un approccio bottom-up.[4] Diversamente dal Protocollo di Kyoto dove
l’obiettivo complessivo di riduzione delle emissioni e la sua ripartizione tra le Parti erano stati fissati
nell’ambito dei negoziati UNFCCC ed accompagnati da rigide regole di compliance, per Parigi le Parti si
sono presentate con impegni vincolanti di riduzione delle emissioni (gli INDC)[5] che non sono stati
oggetto di negoziazione. L’Accordo di Parigi, infatti, si limita a definire un percorso di aggiornamento
degli impegni in ottica sempre più ambiziosa ogni 5 anni a partire dal 2020, senza prevedere alcun
meccanismo di compliance. [6]
Gli INDC avanzati dalle Parti presentano livelli di impegno e indicatori scelti per la definizione
dell’obiettivo molto diversi. Gli INDC differiscono poi per l’orizzonte temporale dell’impegno e per la
scelta dell’anno base. Alcuni Paesi hanno subordinato la validità dell’impegno a condizioni (ad esempio il
raggiungimento di un accordo globale) o si sono riservati la possibilità di rivedere l’impegno a valle della
COP di Parigi. L’Accordo di Parigi stabilisce che i Paesi industrializzati fissino gli obiettivi in termini di
riduzione assoluta delle emissioni, mentre gli altri Paesi sono incoraggiati a assumere in futuro un obiettivo
di questo tipo, purché nel frattempo aumentino progressivamente i loro sforzi. Tra i principali Paesi
emergenti, la Cina ha scelto di assumere un obiettivo di riduzione delle emissioni per unità di PIL, mentre
altri hanno scelto di fissare l’obiettivo con riferimento a uno scenario BAU.
Obiettivi post 2020 di riduzione delle emissioni di gas serra fissati dalle principali Parti negli INDC
Parte                                  Orizzonte               Anno base         Indicatore
UE-28                40%               2030                    1990              Riduzione assoluta
Stati Uniti          26-28%            2025                    2005              Riduzione assoluta
Russia               25-30%            2030                    1990              Riduzione assoluta
Cina                 60-65%            2030                    2005              Riduzione emissioni / PIL
India                33-35%            2030                    2005              Riduzione emissioni / PIL
                                                                                 Riduzione su scenario
Corea del Sud        37%               2030                    -
                                                                                 BAU
                                                                                 Riduzione su scenario
Messico              22%*              2030                    -
                                                                                 BAU
* L'obiettivo può salire al 36% in caso di accordo globale sfidante Fonte: INDC
Gli INDC presentati per Parigi però non consentono – secondo le stime degli esperti - di centrare
l’obiettivo di lungo termine definito dall’Accordo:[7] si tratta di una base di partenza, che dovrà essere
progressivamente (e necessariamente) migliorata dalle Parti, aumentando il loro impegno in occasione
degli aggiornamenti periodici. È questo un aspetto che ha generato perplessità,[8] anche perché non sono
chiari i poteri dell’UNFCCC rispetto all’aggiornamento degli INDC.
Diversamente dal Protocollo di Kyoto, che fissava un obiettivo di abbattimento delle emissioni per un
periodo prestabilito (2008-2012), non è previsto un termine al processo di aggiornamento periodico, per cui
l’accordo raggiunto ha portata temporale potenzialmente illimitata.
Il nuovo Accordo sul clima pone l’accento sulla necessità di aumentare il supporto per le azioni volte a
limitare l’incremento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli pre-
industriali. In questa prospettiva l’Accordo si cura di definire e quantificare gli strumenti finanziari
necessari per conseguire gli obiettivi di abbattimento delle emissioni.
In generale si è previsto il trasferimento di risorse dai Paesi industrializzati ai Paesi emergenti al fine di
supportare questi ultimi nelle attività di mitigazione delle emissioni e di adattamento alle conseguenze
sull’attività umana e sugli ecosistemi derivanti dal cambiamento del clima in atto. Si tratta di risorse non
inferiori 100 miliardi di dollari all’anno[9] da destinare ai Paesi emergenti a partire dal 2020, con fondi di
provenienza pubblica o privata.
La netta distinzione operata da Kyoto tra Paesi donatori (Europa, Nord America, Australia, Giappone) e
riceventi (il resto del mondo) è però più sfumata. Viene infatti incoraggiato, per la prima volta, il contributo
finanziario volontario di tutti i paesi membri della Convenzione e sono riconosciuti gli sforzi già realizzati
da alcuni. In particolare, in virtù del principio di responsabilità comuni ma differenziate e delle diverse
capacità, e in considerazione dello sviluppo economico raggiunto da alcuni paesi (quali Cina, India e Sud
Africa), l’Accordo pone le basi formali per una cooperazione “Sud-Sud”, complementare alla tradizionale
“Nord-Sud”.[10]
Inoltre, l’Accordo richiede di rafforzare in maniera significativa gli aiuti alle azioni di adattamento, che
finora hanno ricevuto una quota più ridotta degli investimenti effettuati. Benché alcuni paesi lo
caldeggiassero, il testo finale dell’accordo non indica nessun obiettivo numerico in merito alla finanza per
l’adattamento, ma si limita a chiedere una più bilanciata allocazione delle risorse tra azioni di mitigazione e
adattamento. [11]
I prossimi round negoziali, a partire da quello di Marrakesh del 2016, dovranno meglio definire i dettagli
ed i termini finanziari dell’Accordo e, in particolare, le modalità di erogazione dei contributi. Resta tuttavia
chiaro che per il momento non esiste alcun obbligo legale in capo agli Stati sviluppati di garantire risorse
finanziarie. Il riferimento ai 100 miliardi annui rimane quindi puramente indicativo.
Sul tema dei risarcimenti climatici per le perdite e i danni irreparabili (loss and damage) subìti dai Paesi
vulnerabili a un cambiamento climatico innescato dalle economie avanzate, si è assistito ad un acceso
confronto diplomatico. In particolare Unione Europea e Stati Uniti si sono opposti a qualsiasi sistema
coercitivo che potesse esporli a richieste di indennizzo da parte dei Paesi potenzialmente danneggiati dai
cataclismi.
Da Parigi arriva in generale un forte segnale politico alla comunità finanziaria e agli investitori. Si chiede
un impegno maggiore ad investire in maniera coerente con la rivoluzione “low-carbon” dell’economia
globale accompagnando la transizione verso un nuovo modello di sviluppo a bassa intensità di carbonio.
Un impegno che i privati hanno già avviato grazie alla riduzione dei costi delle tecnologie per le energie
rinnovabili e ai meccanismi di sostegno implementati dagli Stati. E che dopo Parigi continuerà,
ragionevolmente, con maggiore vigore.
Per garantire efficienza nel raggiungimento degli obiettivi, questo accordo, come quello di Kyoto in
precedenza, predilige lo sviluppo volontario di strumenti flessibili di mercato. La definizione di dettaglio
dei meccanismi avverrà alla COP22 programmata per la fine 2016 a Marrakesh. Per evitare il ripetersi di
esperienze negative del passato (si pensi ai progetti di abbattimento dei gas industriali HFC-23 e N2O per
la maggior parte realizzati in Cina) sarà necessario vigilare sull’efficacia di tali strumenti.
I prossimi step formali prevedono la sottoscrizione dell’Accordo (tra il 22 aprile 2016 e il 21 aprile 2017) e
successivamente la ratifica (o accettazione o approvazione) da parte degli Stati. L’entrata in vigore della
Dichiarazione avverrà 30 giorni dopo il deposito dello strumento di ratifica della 55° Parte aderente (a
condizione che gli aderenti siano responsabili di almeno il 55% delle emissioni globali).
L’Accordo di Parigi e l’Unione Europea
L’Unione Europea ha sempre svolto il ruolo di traino a livello internazionale nella fissazione di impegni
unilaterali ambiziosi e ha potuto svolgere un ruolo di regia ospitando la COP21. Per quanto riguarda il
conseguimento dei propri obiettivi unilaterali contenuti nell’INDC, che coincidono con quelli del Pacchetto
Clima Energia 2030, la Commissione Europea sta procedendo affinché si completi al più presto il quadro
legislativo comunitario a supporto degli obiettivi.
A luglio ha già presentato la proposta di modifica della direttiva ETS,[12] mentre nel corso del 2016
dovrebbe avvenire la presentazione, tra le altre, delle proposte di modica delle direttive per la promozione
delle fonti rinnovabili e per l’efficienza energetica e del Burden Sharing Agreement. Tra il 2016 e il 2018
dovrebbero inoltre essere redatti i piani nazionali per l’energia e il clima, che dovrebbero tra l’altro
consentire di conseguire congiuntamente l’obiettivo comunitario per le fonti rinnovabili, sulla base delle
linee guida pubblicate dalla Commissione a novembre 2015.
Le più recenti stime contenute nello State of the Energy Union 2015 indicano che sulla base delle misure
attuali l’Unione Europea nel suo complesso nel 2030 ridurrà le sue emissioni del 27% rispetto al 1990, per
cui occorreranno misure aggiuntive per centrare l’obiettivo di abbattimento del 40% assunto
unilateralmente a livello internazionale.
Da una prospettiva europea l’Accordo di Parigi, seppur rilevante da un punto di vista politico, appare
neutro, nel senso che nel breve non sembrerebbe capace di influenzare l’andamento dei target al 2030.
Esiste tuttavia un elemento di interesse: l’accordo di Parigi fa menzione di un target di riduzione
dell’aumento delle temperature medie di 1,5 gradi. Tutte le proiezioni climatiche e conseguentemente la
definizione dei target 2030, sono basati su una riduzione di 2 gradi. Sarà interessante vedere se e come la
coalizione degli Stati membri “green” (guidati da Germania e Nordici) vorranno cercare un rilancio delle
ambizioni climatiche europee e come la coalizione dei carboniferi (Polonia in testa) si opporrà.
L’Accordo raggiunto a Parigi è stato da alcuni definito storico,[13] mentre altri ne hanno sottolineato le
lacune.[14]
Indubbiamente è stato centrato un risultato politico, quello di mettere d’accordo tutte le nazioni coinvolte
su un obiettivo di decarbonizzazione mondiale di lungo termine e di definire il processo e gli strumenti,
anche economici, per realizzarlo. In particolare l’Accordo assegna agli Stati, e non alle istituzioni
dell’UNFCCC, il ruolo di protagonisti del processo.
Più precisamente l’Accordo di Parigi ha sancito alcuni principi fondamentali che avevano bloccato ogni
possibile progresso nei round negoziali precedenti:
- riguarda ogni Parte firmataria, ponendo obiettivi complessivi in capo a tutte le Parti dell’accordo
(differentemente dal Protocollo di Kyoto);
- istituzionalizza un processo di revisione dei dati e degli obiettivi nazionali ogni 5 anni;
- fornisce una metodologia comune (anche se non esclusiva) per la misurazione delle emissioni;
- prevede un sistema di governance per le future discussioni e l’evoluzione degli obiettivi.
L’Accordo finalizzato nell’ambito della COP21 presenta però alcuni elementi di debolezza tra cui spiccano:
- l’assenza di meccanismi sanzionatori rispetto al mancato raggiungimento degli obiettivi nazionali;
- le attività di verifica sulle emissioni rimesse agli Stati stessi (e non all’UNFCCC), sebbene nell’ambito di
un regime di trasparenza obbligatorio;
- la mancata indicazione della data entro la quale si intende raggiungere il picco globale delle emissioni;[15]
- l’estromissione dall’accordo delle emissioni legate al trasporto internazionale (navi e aerei),[16] sebbene
esse siano rilevanti e ne sia prevista una crescita importante nei prossimi anni;
- l’assenza di ogni riferimento ai carbon market: in assenza di un sistema di cap and trade con
l’assegnazione centralizzata di quote, non sussistono le condizioni per il mantenimento dei meccanismi
flessibili previsti dal Protocollo di Kyoto.
La mancanza di impegni sfidanti da parte delle gradi economie emergenti (India e Cina in primis), inoltre,
è probabile che ridurrà la “praticabilità” politica, in Occidente, di generose sovvenzioni alle grandi
economie emettitrici in via di sviluppo. Difficile infatti spiegare all’elettore medio americano o giapponese
che paesi che non hanno preso impegni di natura vincolante, e che propongono misure inferiori a quelle che
essi stessi intendono perseguire in politica interna, siano candidati meritevoli di ricevere i 100 miliardi di
dollari annui.
A ben guardare, sarebbe stato difficile immaginare che Parigi potesse “partorire” un risultato migliore,
considerata la natura dello strumento utilizzato, cioè quella di un accordo multilaterale, con oltre 190
contraenti, caratterizzati da interessi e posizioni molto diverse, quando non confliggenti. E infatti vi è chi
tra gli osservatori[17] si è chiesto se l’accordo “esteso a tutti” fosse lo strumento più appropriato, o se non
sarebbe stato preferibile che i “grandi emettitori”[18] definissero in ambito ristretto un percorso di
transizione più preciso, stringente e dettagliato.
Di certo il raggiungimento dell’obiettivo globale dipenderà molto dalla responsabilità e dall’impegno delle
Parti, in particolare quelle che hanno oggi il peso maggiore in termini di emissioni o che lo potrebbero
aumentare considerevolmente in futuro (ad esempio Russia, Argentina, Brasile, Messico, Turchia).
E la responsabilità e l’impegno degli Stati a loro volta saranno tanto maggiori, quanto più forte sarà la
pressione e la spinta che le rispettive opinioni pubbliche sapranno esprimere sul tema del cambiamento
climatico.
V’è da augurarsi che tale pressione e spinta, per diventare davvero determinanti, non necessitino del
sopraggiungere di catastrofi e disastri naturali “planetari”. Che questi ultimi si verifichino, in assenza
dell’implementazione di policy adeguate e tempestive, è praticamente una certezza. Il rischio concreto è
che accadano quando oramai è troppo tardi per porvi rimedio.

[1] Ilaria Urbani, “COP21: un passo avanti o un altro punto di partenza?”, pubblicato il 29/12/2015 sul
sito http://www.geopolitica-rivista.org/.
[2] Si veda: REF Energia, Osservatorio Energia n. 193-194, Novembre/Dicembre 2015, pagg.41 e ss.
[3] Tale distinzione si è resa necessaria dall’opposizione indiana e cinese ad un accordo integralmente
vincolante.
[4] “Con l’abbandono di un accordo “top-down”, calato dall’alto, come il protocollo di Kyoto, a favore di
un approccio “bottom-up”, si è data anzitutto la possibilità a ciascun Paese di enunciare un proprio piano
volontario di riduzione delle emissioni realizzando così la differenziazione perfetta” così Marzio Galeotti e
Alessandro Lanza, “L’accordo sul clima? Diplomatico” pubblicato il 15/12/15 su www.lavoce.info.
[5] INDC (impegni nazionali di riduzione delle emissioni): l'acronimo sta per Intended Nationally
Determined Contribution. Per facilitare i lavori e stimolare le nazioni partecipanti, l'UNFCCC ha previsto
che i partecipanti presentassero, prima della Cop21, dei piani in cui è scritto nero su bianco quel che ogni
parte intende fare per ridurre le emissioni; gli INDC sono appunti questi piani. Sul tavolo della Conferenza
sono arrivati 147 INDC, che riguardano 181 Stati (l'Unione Europea ad esempio ne ha uno) e coprono il
94% delle emissioni mondiali. Alcune parti hanno specificato obiettivi di riduzione in termini assoluti,
circa la metà hanno definito target con uno scenario business as usual, altre invece sulla base del loro
rapporto con il Pil, cioè la carbon intensity, mentre altre ancora (il caso più importante è la Cina) hanno
stabilito un determinato anno entro il quale le emissioni dovranno raggiungere il loro picco. Solo una
minoranza di Paesi ha incluso nei rispettivi INDC le azioni specifiche che intraprenderanno per ridurre la
CO2.
[6] Si tratta di un approccio almeno in parte simile a quello adottato dall’Unione Europea per il
conseguimento dell’obiettivo 2030 in termini di penetrazione del consumo da fonte rinnovabile: l’obiettivo
(27% del consumo finale lordo) è vincolante solo a livello comunitario e dovrebbe essere raggiunto
attraverso un sistema di governance coordinato dalla Commissione Europea che dovrebbe guidare i singoli
Stati a predisporre piani d’azione per l’energia e il clima coerenti con l’obiettivo complessivo. La
debolezza del meccanismo risiede nel fatto che non è chiaro il potere della Commissione nell’imporre
modifiche ai piani dei singoli Stati (salvo l’obbligo per gli Stati di conseguire gli obiettivi nazionali di
abbattimento delle emissioni nei settori non ETS), così come non è chiaro il potere che avrà l’UNFCCC in
occasione dell’aggiornamento degli INDC.
[7] Le emissioni sulla base degli impegni presi in base all’Accordo di Parigi raggiungeranno secondo
l’UNFCCC 55 GtCO2eq nel 2030, a fronte della soglia di 40 GtCO2eq ritenuta necessaria a contenere
l’aumento delle temperature entro i 2° C. Più specificamente i 158 piani inoltrati, rappresentando 186 paesi
e circa il 96 per cento delle emissioni globali nel 2010 (e il 97 per cento della popolazione mondiale),
traguarderebbero un aumento della temperatura a +2,7° C.
[8] “Siamo ben lontani da quegli ”adeguati meccanismi di controllo, di verifica periodica e di sanzione
delle inadempienze” auspicati da Papa Francesco nella Laudato sì. Inoltre gli impegni volontari portano
con sé il rischio che i governi futuri possano con facilità tirarsene fuori”; così Andrea Masullo, su La
Stampa del 29/12/2015.
[9] Il livello dello sforzo sarà rivisto in ambito COP entro il 2025, ma non potrà comunque essere inferiore
alla soglia dei 100 miliardi di dollari. Non è chiaro tuttavia come lo sforzo sarà ripartito tra i Paesi
industrializzati.
[10] Si veda: “Se il modello di sviluppo si tinge di verde” di Chiara Trabacchi e Barbara Buchner,
pubblicato il 18/12/15 su www.lavoce.info. Nel contributo le due autrici evidenziano che: “Secondo le
stime preliminari realizzate dall’Ocse in cooperazione con il Climate Policy Initiative (Cpi), le risorse
finanziarie mobilizzate dai paesi sviluppati hanno raggiunto i 57 miliardi di dollari in media nel periodo
2013-2014. Il Fondo verde per il clima, il meccanismo della Convezione quadro per i cambiamenti
climatici (Unfcc) creato per rafforzare il sostegno finanziario ai paesi in via di sviluppo, è diventato
operativo nel corso del 2015, approvando i primi otto progetti poche settimane prima del summit di Parigi.
Tuttavia, benché significativi, progressi e sforzi non sono ancora sufficienti. L’Agenzia internazionale per
l’energia stima, ad esempio, che per promuovere la transizione energetica saranno necessari 16,5 trilioni
(migliaia di miliardi) di dollari per investimenti in efficienza energetica e tecnologie a basse emissioni nei
prossimi quindici anni. Ulteriori risorse saranno necessarie per gestire i rischi associati ai cambiamenti
climatici (o cogliere eventuali opportunità)”.
[11] “Richiesta politica più che scientifica, perché la necessità di un equilibrio tra i due non è chiara” così
Chiara Trabacchi e Barbara Buchner, “Se il modello di sviluppo si tinge di verde”, (ut supra).
[12] Si veda la Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15/7/2015 che modifica la
direttiva 2003/87/CE per sostenere una riduzione delle emissioni più efficace sotto il profilo dei costi e
promuovere         investimenti        a    favore     di      basse      emissioni       di      carbonio;
https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2015/IT/1-2015-337-IT-F1-1.PDF
[13] Si         veda         l’articolo,       “Cop21,       arriva         la       firma”
http://www.repubblica.it/ambiente/2015/12/12/news/cop21_e_il_giorno_dell_accordo_sul_clima-
129303103/
[14] Si veda: Sergio Ferraris, “Cop21, accordo in bianco”, pubblicato il 14/12/2016, su
http://lanuovaecologia.it/cop21-accordo-bianco/.
[15] L’INDC della Cina contiene l’impegno a raggiungere il picco delle emissioni nazionali entro il 2030.
[16] Impegni che erano parte del testo di Copenaghen e che ricoprono circa il 10% delle emissioni totali.
[17] G.B. Zorzoli, “COP21, uno strumento inappropriato”, pubblicato il 18/12/2015, su
www.staffettaquotidiana.it.
[18] Stati Uniti, Cina, India, Unione Europea producono attualmente il 75% delle emissioni.

TAG: Protocollo di Kyoto, Diritto internazionale

Avvertenza
La pubblicazione di contributi, approfondimenti, articoli e in genere di tutte le opere dottrinarie e di
commento (ivi comprese le news) presenti su Filodiritto è stata concessa (e richiesta) dai rispettivi autori,
titolari di tutti i diritti morali e patrimoniali ai sensi della legge sul diritto d'autore e sui diritti connessi
(Legge 633/1941). La riproduzione ed ogni altra forma di diffusione al pubblico delle predette opere
(anche in parte), in difetto di autorizzazione dell'autore, è punita a norma degli articoli 171, 171-bis, 171-
ter, 174-bis e 174-ter della menzionata Legge 633/1941. È consentito scaricare, prendere visione, estrarre
copia o stampare i documenti pubblicati su Filodiritto nella sezione Dottrina per ragioni esclusivamente
personali, a scopo informativo-culturale e non commerciale, esclusa ogni modifica o alterazione. Sono
parimenti consentite le citazioni a titolo di cronaca, studio, critica o recensione, purché accompagnate dal
nome dell'autore dell'articolo e dall'indicazione della fonte, ad esempio: Luca Martini, La discrezionalità
del sanitario nella qualificazione di reato perseguibile d'ufficio ai fini dell'obbligo di referto ex. art 365
cod. pen., in "Filodiritto" (https://www.filodiritto.com), con relativo collegamento ipertestuale. Se l'autore
non è altrimenti indicato i diritti sono di Inforomatica S.r.l. e la riproduzione è vietata senza il consenso
esplicito della stessa. È sempre gradita la comunicazione del testo, telematico o cartaceo, ove è avvenuta
la citazione.

                                Filodiritto(Filodiritto.com) un marchio di InFOROmatica S.r.l
Puoi anche leggere