L'ordine pubblico nella Repubblica (1943-1981)

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L’ordine pubblico nella Repubblica (1943-1981)
                                      2021

                              Benedetta Tobagi

La gestione dell’ordine pubblico nell’Italia repubblicana è condizionata in
modo pesante dalla mancanza di una radicale epurazione e rinnovamento
degli apparati di sicurezza dopo il ventennio fascista. La riattivazione delle
vecchie strutture cominciò con l’armistizio dell’8 settembre 1943: alla fine della
guerra, la drammatica carenza di risorse fece passare in secondo piano le
istanze di riforma per un rinnovamento profondo della cultura e
organizzazione delle forze di sicurezza, che pure erano portate avanti da più
parti, anche da gruppi di “agenti democratici” all’interno della stessa polizia.

Nella neonata Repubblica resta in vigore il Testo unico delle leggi di pubblica
sicurezza promulgato nel 1931 e vengono reintegrati questori e ispettori
generali che avevano operato sotto il Fascismo e persino nella Repubblica
Sociale di Salò. La continuità di uomini e istituzioni è pressoché totale, le
epurazioni si limitano a sporadici casi singoli, là dove fosse stata accertata una
condotta di rilievo penale. Permangono intatte la mentalità gerarchica,
l’organizzazione centralizzata e la militarizzazione, contro le proposte di
adottare il modello anglosassone e smilitarizzare il corpo.
Particolarmente significativa la sopravvivenza di istituti-simbolo della
repressione fascista del dissenso come gli uffici politici delle questure
(scompaiono solo nel 1978, con la riorganizzazione conseguente alla creazione
dell’Ucigos), nonché il casellario politico centrale, ricostituito nell’agosto 1945
e abolito soltanto nel 1968.

A una prima, limitata immissione di personale proveniente dalle file degli ex
partigiani nel febbraio 1946 (compensata peraltro dall’arruolamento di ex
appartenenti al disciolto corpo della polizia coloniale dell’Africa italiana,
composta in gran parte di ex squadristi delle milizie fasciste), segue, nel giro
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di pochi anni, l’estromissione da ruoli di vertice nelle prefetture e questure di
chi aveva combattuto nella guerra di Liberazione e il ripristino delle gerarchie
tradizionali, composte da personale di carriera. La pubblica sicurezza resta ciò
che è sempre stata sin dall’età liberale: una forza impegnata nella difesa dei
governi in carica più che nella tutela dei cittadini e dell’ordine pubblico e
sociale.

La Guerra fredda favorisce il perdurare di prassi repressive ereditate dal
passato in materia di ordine pubblico. Il personale già fascista, infatti, offre
maggiori credenziali in termini di anticomunismo. Dopo le brevi parentesi
dell’azionista Ferruccio Parri e del socialista Giuseppe Romita, dal luglio 1946
il Viminale fu sempre in mano ai democristiani, e dal 1947, con la fine della
stagione dei governi di coalizione con i partiti della sinistra, i comunisti
diventano il bersaglio principale delle attenzioni della polizia. Un ex
comunista, Giorgio Napolitano, è nominato Ministro dell’Interno soltanto nel
1996.

Dalla fine degli anni Quaranta, le forze di sicurezza sono impiegate nel
reprimere con particolare durezza le manifestazioni e le proteste dei lavoratori.
Il simbolo di questa stagione è la Celere. Il reparto nasce in realtà per sostituire,
nella gestione dell’ordine pubblico durante le manifestazioni, l’impiego delle
armi da fuoco con mezzi meno letali, come caroselli di jeep, cariche di
manganelli, idranti e gas lacrimogeni, dunque per “civilizzare” gli interventi
repressivi, ma accentua in modo marcato le caratteristiche militari del corpo.
La Celere fu creata dal socialista Giuseppe Romita, ma è col ministro Mario
Scelba (profondamente antifascista e altrettanto anticomunista) che si
comincia a utilizzarla in modo massiccio e sistematico su tutto il territorio
nazionale per reprimere le manifestazioni dei lavoratori, soprattutto nelle
“regioni rosse”, nelle città industriali e nelle aree dove il conflitto sociale era
più aspro, dotando gli agenti di autoblindo, armi automatiche e mortai. Scelba
amplia inoltre in misura notevole gli organici della polizia, che superano le 79
mila unità e fa «piazza pulita», come dichiara lui stesso in un’intervista, dei
circa 8.000 ex partigiani che ancora lavoravano nella pubblica sicurezza.
Nei suoi anni al Viminale, si riconsolidano le vecchie concezioni autoritarie
all’interno del corpo: la gestione dell’ordine pubblico è fortemente repressiva
e decisamente insofferente ai principi introdotti dalla Costituzione. Nel
pesante clima di Guerra fredda interna, il diritto delle sinistre a manifestare e
a diffondere volantini o manifesti, per esempio, subisce limitazioni pesanti e
sistematiche (la Corte Costituzionale potrà cominciare a intervenire sul Testo

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unico delle leggi di pubblica sicurezza - Tulps solo a partire dal 1956, quando
finalmente entra in funzione).
Lo “scelbismo” fa molte vittime. La pubblica sicurezza, infatti, non esita a
usare le armi contro le manifestazioni. La prima prova di forza ha luogo
durante lo sciopero generale proclamato dalla Cgil dopo l’attentato al
segretario del Pci Palmiro Togliatti il 14 luglio 1948, in cui perdono la vita 11
civili e 6 membri delle forze dell’ordine.
La polizia usa le armi anche contro i contadini in Calabria: il 29 ottobre 1949, a
Melissa, uccide tre persone che stanno occupando un fondo e ne ferisce 15; il
29 novembre, a Torremaggiore, uccide altre due persone che manifestano
davanti alla Camera del Lavoro locale, e una terza muore di spavento; il 14
dicembre, a Montescaglioso, durante un rastrellamento alla ricerca di chi aveva
guidato l’occupazione delle terre nei giorni precedenti, la polizia uccide 2
braccianti e ne ferisce 5. Il 9 gennaio 1950, a Modena, nel corso di uno sciopero
generale, le forze dell’ordine uccidono 6 manifestanti (colpiti di spalle o alla
nuca, dunque mentre si stavano allontanando dal luogo dell’assembramento)
e ne feriscono 15.
I lavoratori uccisi nel corso di scontri con la polizia tra il 1947 e il 1954 sono
almeno 109. La versione ufficiale fornita solitamente dal Viminale, che si
trattasse di casi di legittima difesa da parte degli agenti oppure di fatalità,
appare spesso insostenibile, mentre in alcuni casi le circostanze sembrano
provare che ci fosse l’esplicita indicazione di sparare sui manifestanti.

La battaglia per i diritti civili portata avanti dall’opposizione negli anni
Cinquanta acquista maggiori consensi quando la polizia, oltre che per gli
incidenti di ordine pubblico, si trova sotto accusa per la cattiva gestione in casi
giudiziari di grande rilievo, come l’omicidio della giovane Wilma Montesi, il
primo affaire politico-sessuale della storia repubblicana (il capo della p .s. fu
accusato di aver insabbiato le indagini quando si avvicinarono ad alcuni
esponenti politici democristiani). Ma l’uso della violenza nei confronti dei
manifestanti, pur scemando, continua fino agli anni Sessanta: l’episodio più
clamoroso avviene a Reggio Emilia il 7 luglio 1960, con l’uccisione di 5 operai
nel corso di una manifestazione sindacale.

Con l’avvento del centrosinistra (la formula che vede il Partito socialista al
Governo insieme alla Dc) si fa più urgente il tema di riformare profondamente
la gestione dell’ordine pubblico, e in particolare gli interventi della forza
pubblica nei conflitti di lavoro. La “copertura” politica della gestione
repressiva tipica dello scelbismo, d’altra parte, aveva già cominciato a vacillare
di fronte alle proteste del luglio 1960 a Genova in nome dei valori della
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Resistenza, contro il congresso del Msi e il Governo di centrodestra del
democristiano Fernando Tambroni.

Il democristiano Paolo Emilio Taviani, Ministro dell’Interno quasi
ininterrottamente dal 1962 al 1968, cerca di imprimere un nuovo indirizzo alle
forze dell’ordine e alla gestione dell’ordine pubblico, per tradurre in pratica
«il concetto di essere e sentirsi al servizio della legge e degli stessi cittadini».
Il Ministro istituisce una commissione permanente per lo studio dell’ordine
pubblico, emana direttive tese a limitare l’uso della forza e cerca di
modernizzare l’organizzazione e le dotazioni tecniche. Presso le questure,
per esempio, vengono istituite le squadre mobili, specializzate
nell’investigazione, mentre il nucleo tecnico dedito alle intercettazioni
dell’Ufficio Affari riservati del Viminale raggiunge livelli d’eccellenza.
Il Viminale, infine, investe sul miglioramento della preparazione degli
agenti, anche per promuovere una cultura democratica all’interno del corpo.

I risultati si vedono: sebbene non manchino episodi di violenza, dal 1962 al
1968 non ci sono vittime civili nelle manifestazioni. Ma le contraddizioni e i
limiti della cultura repressiva che ancora permea la pubblica sicurezza non si
dissolvono. Le divisioni profonde all’interno della maggioranza, e tra governo
e opposizioni, impediscono di lavorare a una riforma complessiva. Le proposte
di democratizzazione e smilitarizzazione restano lettera morta; anche il
progetto di modifica di svariati articoli della legge di pubblica sicurezza,
presentato nell’aprile del 1964 e approvato dal Senato solo nel giugno 1967, finì
per decadere per mancata approvazione della Camera.

Dal 1968, con il riaccendersi delle tensioni nelle piazze e l’inizio di un ciclo di
protesta d’intensità inedita, le forze di polizia tornano a fare vittime: due
braccianti sono uccisi durante un corteo sindacale ad Avola, nel siracusano, il
2 dicembre 1968; altri due manifestanti (un’insegnante e uno studente) sono
uccisi a Battipaglia, in provincia di Salerno, il 9 aprile 1969.
Dopo la Strage di piazza Fontana, la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli,
precipitato dalla finestra dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi
dell’Ufficio politico, al quarto piano della Questura milanese di via
Fatebenefratelli, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, in circostanze mai
del tutto chiarite, mentre si trovava in stato di fermo illegale, diventa ben
presto il simbolo degli abusi di potere da parte dello Stato, non solo delle
forze dell’ordine.
Sebbene nel 1969 il capo della polizia Angelo Vicari raccomandi ai suoi uomini
«il senso della misura nell’uso della forza», le morti continuano: a Milano, il 12
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dicembre 1970 lo studente Saverio Saltarelli muore nel corso di un corteo per
la Strage di piazza Fontana; la stessa sorte tocca a Giuseppe Tavecchio, l’11
marzo 1972; l’anarchico pisano Franco Serantini, arrestato a Pisa durante una
manifestazione, muore in carcere il 7 maggio 1972 a seguito delle percosse
ricevute dagli agenti della Celere; il 23 gennaio 1973, lo studente Roberto
Franceschi è assassinato davanti all’Università Bocconi: non si è mai
identificato l’agente che gli sparò, ma la polizia è stata condannata in sede
civile per uso eccessivo e ingiustificato della forza.

Dal punto di vista delle forze dell’ordine, la morte del ventiduenne agente di
p. s. Antonio Annarumma durante una manifestazione per il diritto alla casa
in via Larga, a Milano, il 19 dicembre 1969, accresce l’esasperazione dei
poliziotti impiegati nei servizi di ordine pubblico, sfruttati e sottopagati (nella
sua autobiografia, un agente di polizia racconta l’odio che si sviluppa nei
confronti degli studenti «figli di papà», di cui scrisse anche Pasolini,
schierandosi dalla parte dei «ragazzi poliziotti», «figli di poveri», nella
celeberrima poesia Vi odio, cari studenti).
Sul fronte opposto, lo stillicidio di morti provocate dalla polizia esacerba la
conflittualità sociale. L’opinione pubblica progressista, non solo la sinistra
extraparlamentare, è sempre più ostile nei confronti delle forze dell’ordine. Il
17 maggio 1972 il commissario Calabresi, ritenuto responsabile della morte di
Pinelli, è assassinato da Lotta continua.
Nel corso degli anni Settanta, il personale delle forze di sicurezza è uno degli
obiettivi principali del terrorismo, soprattutto rosso, ma spesso ai caduti e alle
loro famiglie non è riservata alcuna solidarietà, soprattutto negli ambienti di
sinistra, extraparlamentare e non: i pesanti pregressi di violenza da parte delle
forze dell’ordine hanno creato lacerazioni profonde.

Nel 1975, a fronte dell’escalation di violenza terroristica e alla militarizzazione
delle manifestazioni e dello scontro tra rossi e neri, il Governo amplia i poteri
di polizia nella gestione dell’ordine pubblico con la cosiddetta “Legge Reale”
(n. 152 del 22 maggio 1975, Disposizioni a tutela dell'ordine pubblico).
La legge è oggetto di forti contestazioni da parte di un ampio fronte garantista,
perché amplia la facoltà della polizia di fermare “sospetti” e i casi di non
punibilità degli agenti in caso di uso delle armi. Tra il 1975 e il 1979 si registrano
ben 63 morti durante controlli di polizia.

 Mentre la gestione dei conflitti di lavoro è sempre più improntata alla
 negoziazione e non rappresenta più un problema di polizia, il nuovo ciclo di
 proteste giovanili del ’77 pone una grossa sfida alla gestione dell’ordine
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 pubblico, poiché è caratterizzato dalle pratiche sempre più violente dei
 manifestanti legati all’Autonomia operaia organizzata (soprattutto a Milano,
 Roma e Padova).
 Le forze dell’ordine fanno nuove vittime: destano grande clamore l’uccisione
 di Francesco Lorusso a Bologna e di Giorgiana Masi a Roma nel corso di
 manifestazioni (quest’ultima in circostanze mai del tutto chiarite).
 Il Viminale, retto da Francesco Cossiga, sceglie la linea dura, mandando
 mezzi blindati in piazza a Bologna, dopo l’uccisione di Francesco Lorusso, e
 alla Sapienza di Roma, dopo la violenta contestazione del segretario della Cgil
 Luciano Lama durante un comizio, nel febbraio del 1977. Cossiga diviene il
 simbolo della repressione ed è fortemente contestato dal movimento (il suo
 nome viene scritto sui muri con la K e la doppia S a mo’ di rune naziste). In
 un’intervista del 2007, Cossiga stesso dichiara che l’aver «stroncato
 definitivamente l’autonomia» chiudendo lo «sfogatoio» delle piazze «spostò
 molti verso le Brigate rosse e Prima linea», una dinamica confermata anche
 dalle testimonianze di militanti dell’Autonomia. Le organizzazioni
 terroristiche in effetti crescono notevolmente, dopo il 1977, con un’escalation
 impressionante di attentati omicidiali verso la fine del decennio.

Mentre si intensifica la spirale della violenza, però, si moltiplicano anche le
spinte verso una riforma complessiva della pubblica sicurezza. Tra i
protagonisti, il movimento dei Poliziotti democratici (i cui partecipanti si
autodefinivano “carbonari” dovendo muoversi di nascosto dai superiori, dato
che non erano autorizzati a riunirsi per discutere questioni legate al proprio
lavoro, e in generale erano assai malvisti dai superiori), raccolto attorno alla
rivista «Ordine pubblico» di Franco Fedeli, che premono per maggiori diritti,
riprendendo richieste già avanzate dai loro colleghi nell’immediato
dopoguerra, come la possibilità di organizzarsi in un sindacato.
Dal 1974, i Poliziotti democratici si muovono con l’appoggio delle
confederazioni sindacali, mentre nell’ottobre 1976 una circolare del Ministro
Cossiga consente agli agenti di riunirsi per palare dei propri problemi sul posto
di lavoro.

Dopo una lunga gestazione, a conclusione dei lavori di un comitato per
l’unificazione dei diversi progetti di legge (Pci, Psi, Dc, Pli, Pri e Psdi avevano
presentato ciascuno il proprio), la riforma della pubblica sicurezza è infine
approvata da tutti partiti dell’arco costituzionale il 23 marzo 1981.
La legge smilitarizza la polizia, opera una profonda riorganizzazione delle
strutture interne e una revisione dei sistemi di reclutamento e di qualificazione
professionale. Ai poliziotti sono riconosciuti inoltre una serie di diritti propri
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delle altre categorie di lavoratori, incluso quello di costituire un sindacato.
Nonostante i suoi limiti, la riforma, e ancor più il movimento che l’aveva
preceduta, dentro e fuori dal corpo, ha contribuito a trasformare i rapporti tra
polizia e cittadini e (sebbene nei decenni successivi non siano mancati gli abusi,
anche gravissimi, come a Genova nel 2001) a far maturare una visione più
democratica, flessibile e selettiva della gestione dell’ordine pubblico.

Bibliografia essenziale
Donatella della Porta ed Herbert Reiter, Polizia e protesta. L’ordine pubblico dalla
Liberazione ai “no global”, il Mulino, Bologna 2003.
Michele Di Giorgio, Per una polizia nuova. Il movimento per la riforma della
Pubblica Sicurezza (1969-1981), Viella, Roma 2019.
Giovanna Tosatti, Storia del Ministero dell’Interno. Dall’Unità alla
regionalizzazione, il Mulino, Bologna 2009.

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