L'Avvenire dei lavoratori - L'ADL speciale del 220405

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L'Avvenire dei lavoratori - L'ADL speciale del 220405
L'ADL speciale del 220405

          Ogge�o: L'ADL speciale del 220405
          Mi�ente: "La Red dell'ADL" 
          Data: 05/04/2022, 15:29
          A: gigibe�oli@gmail.com

          L’Avvenire
          dei
          lavoratori
           EDIZIONE SPECIALE NEL CENTENARIO DI MARIO
           COMENSOLI
           5 aprile 2022 – e-Settimanale della più antica testata della
           sinistra italiana
           Organo della F.S.I.S., Centro socialista italiano all’estero,
           fondato nel 1894
           Direttore: Andrea Ermano
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          Nei cento anni dalla nascita di
          MARIO COMENSOLI
          (Lugano 1922 - 1993 Zurigo)

          L’interesse per gli emarginati della società –
          questo il filo rosso dell’opera di Mario Comensoli

          VERNISSAGE (vai al sito)
          AL CENTRO COMENSOLI
          GIOVEDÌ 7 APRILE – ORE 18.30
          Heinrichstrasse 267/10 – 8005 Zurigo

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          QUESTO ADL SPECIALE
          PER MARIO COMENSOLI

          di Renzo Balmelli

          Ah, la guerra! La guerra, destinata a durare finché sulla
          terra – come dice il filosofo – ci sarà il genere umano.
             E all’arte sarà sempre affidato il compito di ritrarne le
          drammatiche conseguenze.
             Di fronte alle devastazioni causate dai conflitti di
          questi tempi che non è esagerato definire procellosi
          abbiamo provato a immaginare come le avrebbe
          raffigurate sulla tela Mario Comensoli, di cui ricorre nei
          prossimi giorni il centenario della nascita.
             Lo facciamo affidandoci, in questa edizione speciale
          dell’ADL, al contributo del giornalista Mario Barino che
          del grande artista – un maestro di cui è stato amico,
          testimone e sapiente interlocutore – e di cui oggi è tra i
          più competenti conoscitori e interpreti.
             Senza nulla anticipare di quanto scrive Barino e senza
          peccare di presunzione, qualcosa possiamo dire. Avendo
          visto come questo grande pittore svizzero del
          Dopoguerra ha affrontato nei suoi quadri la gestione delle
          difficoltà, dei dolori e delle emozioni che la vita tiene in
          serbo, noi pensiamo che egli rimarrebbe, anche in questi
          tempi tristi, fedele al suo stile inimitabile.
             Davanti a noi si staglierebbe allora l’immagine potente

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          e coinvolgente della sua forza espressiva. E ne vedremmo
          prorompere una reazione di sano furore e di esplicita
          condanna per i guasti irrimediabili della guerra.

          SPESSO LE OPERE DI MARIO COMENSOLI hanno
          avuto la funzione di esprimere una denuncia sociale alla
          quale non è mai mancato un tratto della solidarietà: pietas
          nei confronti dei vinti, di chi soffre, delle frange più
          deboli ed emarginate della società. Dignità e
          preoccupazione per il ricorso alla violenza sarebbero
          anche oggi la cifra espressiva, il Leitmotiv nell’opera di
          Comensoli, nella quale l’uomo – inteso come “Mensch”
          o “persona umana” – rimane la figura centrale, dipinta
          con sincerità, onestà e sensibilità.
             Comensoli ha sempre cercato il confronto con il
          mondo in cui viviamo per coglierne e restituirne le
          contraddizioni, le ingiustizie, ma anche l’inesauribile
          spinta verso il bello.
             Nato il 15 aprile 1922 in un quartiere popolare di
          Lugano, Mario Comensoli prima di lasciare il Ticino per
          altri lidi venne allevato da due sorelle che presto
          intuirono la sua vocazione a maneggiare pennelli e colori.
             Per celebrare degnamente il centesimo anniversario
          dalla nascita chi ne cura l’eredità ha previsto un vasto
          programma di appuntamenti lungo un arco di tempo che
          inizierà con il Vernissage di giovedì prossimo per
          concludersi alla fine di ottobre. Alcune opere di grande
          pregio sono esposte al Cooperativo, lo storico locale
          dell’antifascismo, del socialismo democratico e
          dell’emigrazione, sito nel cuore di Zurigo, città dove
          l’artista ha trascorso gran parte della sua vita. Chi varca

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          la soglia del Coopi e che Comensoli scopri ai tempi della
          Militärstrasse, avverte subito una sorpresa capace di
          nobilitare lo spirito e allietare lo sguardo agli ospiti di un
          luogo di tradizione, nel quale tra l’altro si mangia bene,
          ma che è non “soltanto” un ristorante, bensì anche una
          piccola e invitante galleria d’arte comensoliana.

          CON L’ODIERNA EDIZIONE SPECIALE L’ADL
          intende contribuire a sottolineare il centenario di un
          artista che ha attraversato la seconda metà del Novecento
          lasciandovi un segno indelebile.
            In Mario Barino abbiamo un compagnon de route
          fidato e affidabile nella ricerca dei molteplici aspetti che
          costellano l’arte comensoliana, risultante dal percorso di
          un pittore che è stato anche valente scrittore, poeta
          ispirato e testimone del suo tempo con gli strumenti
          dell’arte.
             Su questo, e sul clima che esisteva negli anni

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          Cinquanta nella città lungo la Limmat, sugli eventi
          dell’epoca che hanno grandemente influenzato il lavoro
          di Comensoli attraverso le tappe successive della sua
          evoluzione artistica, su tutto ciò si sofferma Barino. Che
          è il Presidente della “Fondazione Mario ed Hélène
          Comensoli”, un’istituzione riconosciuta di “pubblica
          utilità” avente lo scopo di vegliare sull’eredità del pittore
          e di promuoverne l’opera, tramite la pubblicazione di
          cataloghi e studi, ma promuovendo anche numerose altre
          iniziative, come quelle ora previste per solennizzare la
          ricorrenza del centenario.
             Il programma delle manifestazioni è vasto e articolato.
          Inizierà il 7 aprile al Centro Comensoli di Zurigo con
          l’apertura della mostra Peinture du mouvement in cui si
          condensa una incredibile raccolta di opere comensoliane.
          Il 9 aprile seguirà l’inaugurazione di una nuova lapide
          commemorativa al cimitero di Sihlfeld in Zurigo. Nei
          prossimi mesi avranno luogo altre due esposizioni di
          grande respiro che faranno conoscere le molteplici
          sfaccettature dell’opera di Mario Comensoli
          nell’esplorazione dell’esistenza umana.
             La prima – dedicata al Punk – aprirà le porte il 15
          aprile alla “Fafa Fine Art Gallery di Lugano” (sito), e si
          preannuncia come una briosa festa dell’arte. Da non
          perdere.
             Un’altra mostra in calendario per fine maggio allo
          “Spazio Officina di Chiasso” (sito) passerà in rassegna il
          ciclo degli “uomini blu”, realizzato dall’artista nel cuore
          degli anni Cinquanta.
             Gli “uomini blu” appartengono a un capitolo di storia –
          scrive Chiara B. Gatti – “che si traduce in un’epopea dei

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          vinti che trovano però il loro riscatto nella capacità di
          volare ancora”.
             Sono umili eroi, ma protagonisti di gigantesche
          migrazioni operaie “nei cantieri febbrili del dopoguerra”
          dove la ricerca estetica – sono sempre parole di Chiara
          Gatti – “abbraccia la vocazione sociale che mai respinge
          ma consola”.
             Una retrospettiva prevista per il 10 settembre prossimo
          nella galleria “Valley Art” di Kempthal sarà dedicata alla
          saga dei No future e concluderà il ciclo delle
          manifestazioni per il centenario comensoliano ponendo
          un accento sull’ultima fase neo simbolista di un lungo
          itinerario artistico che rivela la grande statura di Mario
          Comensoli. Il quale, nel corso della sua narrazione, si è
          interamente dedicato a rappresentare, condividere e
          valorizzare il destino degli ultimi.

          Nei cento anni dalla nascita di
          MARIO COMENSOLI
          (Lugano 1922 - 1993 Zurigo)

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          FILM della Televisione Svizzera Italiana in occasione
          della retrospettiva al Museo d’Arte Moderna di
          Lugano nel 1998: Pittura come omaggio alla vita sul
          sito della Fondazione Comensoli (vai al sito)

          Un percorso controcorrente

          100 ANNI FA
          MARIO COMENSOLI
          di Mario Barino

          Vedi galleria virtuale Fondazione Comensoli

          Lo conobbi alla galleria “Walcheturm” di Zurigo in
          occasione della sua mostra dedicata all’uomo nella
          grande città, che era poi una serie di opere in cui si
          specchiavano la noia, lo stordimento, l’alienazione dei

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          figli del miracolo economico del dopoguerra, quegli
          svizzeri che Max Frisch definirà lo Herrenvolk, un
          popolo di signori. Era il 1962 e Mario Comensoli si era
          permesso una deroga al grande affresco sull’emigrazione,
          e cioè al ciclo dei lavoratori in blu: quella nuova serie –
          definita l’epoca marrone dal critico d’arte Guglielmo
          Volonterio per la dominanza di quel colore sullo sfondo
          di scene in cui si collocavano i neoricchi di Zurigo
          dall’esistenza vuota di slanci e ideali – si aprì e si
          concluse in un solo anno. Dopo la mostra andai a trovarlo
          nel suo atelier della Rousseaustrasse e mi regalò un libro
          in francese su Majakovskij, con versi e prose del grande
          scrittore russo scelti da Elsa Triolet. Era un volume che
          aveva probabilmente portato a Zurigo da Parigi, dov’era
          stato per approfondire la pittura postcubista alla fine degli
          anni quaranta e dove ritornava sempre volentieri, e mi
          ricordo che sfogliando le pagine andò sicuro su quella
          che riportava il suo testamento: “Come si suol dire:
          l’incidente è chiuso. La scialuppa dell’amore si è
          spezzata contro la corrente dell’esistenza. Ho saldato i
          conti con la vita. Inutile passare in rassegna i dolori, le
          disgrazie e i torti reciproci. Siate felici…”.
             Questo particolare mi è venuto alla memoria quando
          frugando tra i documenti di Mario che la Fondazione
          Comensoli conserva a Zurigo ho trovato un testo, forse
          scritto in un momento di disperazione poi rientrato: “Ho
          dovuto capire – diceva Comensoli – con tanti sforzi, ho
          capito troppo tardi. Me ne vado per sempre. Non ci sono
          “colpevoli”, c’è solo il segno di una morte, con il suo
          silenzio. Non più un gesto non più una parola…” Il foglio
          è stato scritto nel 1987 e indipendentemente dai motivi

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           che avevano mosso la penna mostra una grande amarezza
           espressa dignitosamente, come se avesse ancora presente
           quelle parole di Maiakovski. I motivi per abbandonarsi
           allo sconforto non erano pochi: passata la contestazione
           dei giovani della Bewegung, i “No future” di Zurigo con
           la loro illusione di strappare all’establishment zone
           franche per vivere liberamente la loro subcultura, stava
           iniziando lo squallido e apocalittico naufragio dalle parti
           del Platzspitz e del Letten. E Comensoli che questi
           giovani li aveva celebrati nella sua pittura come portatori
           di speranza, si vedeva costretto a fare i conti con una
           realtà brutale. Sul piano personale era ancora in attesa di
           un grande evento che lo consacrasse tra i maggiori pittori
           svizzeri e ancora non si parlava della mostra al
           “Kunsthaus” di Zurigo.
              E poi era ancora possibile fare della pittura? Quando le
           gallerie moderne guardavano ai minimal americani, alle
           performance, all’arte concettuale o a quella povera, ai
           video e al neon, in altre parole alla non pittura? E ancora:
           perché questo artista venuto dal Ticino non si era
           accodato fin dagli anni cinquanta alle correnti e alle
           mode, rinunciando al figurativo per la sobrietà asettica
           dell’astratto e del geometrico, una pittura questa nata per
           far dimenticare i problemi e che si prestava benissimo per
           decorare gli interni della ricca borghesia protestante?
              E poi, dietro quella sua curiosità di frugare entro gli
           spazi protetti della società non si nascondeva per caso
           qualche strategia eversiva, magari comunista?
              Doveva essere forte, Mario Comensoli. La sua è stata
           una perenne battaglia contro i mercanti del tempio (quelli
           cioè che avrebbero voluto inchiodarlo a una galleria

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           dettando le loro condizioni e pretendendo da lui una
           pittura accomodante), contro le false etichette. Un pittore
           in prima linea nell’impegno civile, contro la minaccia
           nucleare e la tortura, un combattente contro la xenofobia
           negli anni di Schwarzenbach, un protagonista della
           campagna contro gli stupri e la violenza alle donne, per la
           parità di diritti tra i due sessi, e sempre seguendo il suo
           istinto, una settimana prima di morire un ultimo solenne
           atto di fede nella sua battaglia di sempre per le piste
           ciclabili: tutto questo era Comensoli.
              Da quel lontano 1962 sono andato centinaia di volte a
           trovarlo nel suo studio al numero 59 della
           Rousseaustrasse. Al pianterreno della casa color mattone
           si passava davanti allo studio di Hans Brandenberg, lo
           scultore nazionalpopolare che aveva creato per la Landi
           del 39 il soldato dal torso nudo e possente nell’atto
           d’infilarsi la giacca (“Wehrbereitschaft” – “Pronti a
           combattere”) e che qui passava le giornate sepolto tra le
           sue statue, dimenticato da tutti. Salivo due rampe di scale
           ed entravo nello stanzone che era appartenuto allo
           scultore Karl Geiser che qui si era suicidato, non
           reggendo al l’incomprensione di coloro che non
           riconoscevano più nelle sue opere quelle figure classiche
           e amene che aveva modellato tra le due guerre (negli
           ultimi anni era infatti passato a un realismo sociale – suo
           il gruppo di operai e massaie con la borsa della spesa
           della Helvetiaplatz – e la critica gli si era scagliata
           contro). Qui nell’ex atelier di Geiser, appoggiate con la
           faccia al muro vi erano le grandi tele di Comensoli che
           aspettava un mio giudizio. Mario Comensoli – il meglio
           allenato dei pittori svizzeri come lo aveva definito il suo

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           amico Peter Killer, ricordando che giocava al pallone
           anche a cinquant’anni – sollevava quelle enormi tele
           come fuscelli e le sistemava girate finalmente dalla parte
           giusta sotto i miei occhi ammirati.
              Ricordo l’impressione straordinaria che mi fecero quei
           quadri alla vigilia della mostra del “Kunsthaus” di Zurigo
           nell’agosto del 1989 e l’insensatezza del ricercare
           risposte adeguate alla curiosità un po’ironica del pittore.
           So soltanto che annotai una frase di Elias Canetti, che –
           cito a memoria – dice: Finché non avrò capito in
           maniera chiara e definitiva qual è il vero significato della
           morte, io non avrò vissuto.

           Vedi galleria virtuale Fondazione Comensoli

              Riallineo nel ricordo le varie composizioni, quelle
           figure larvali di adolescenti perduti, calvi pallidi

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           inespressivi che grattano i muri, annaspano cercando
           qualcosa tra il verde stento dell’erba, vomitano la loro
           anima nell’indifferenza, assistiti da un cane randagio. C’è
           chi sostiene che l’adolescenza non è un’età dell’uomo ma
           una malattia. E Comensoli a questa malattia dava
           l’impronta leggera dell’irreparabile, il marchio della
           condanna definitiva.
              I suoi adolescenti erano gli angeli maledetti del parco
           dei tossici al Landesmuseum: figure che nella sua pittura
           assumevano la cupa eleganza di una profezia. Per
           arrivare a questi risultati nei quali si fondono innocenza e
           perdizione, Mario Comensoli era partito da molto
           lontano. Figlio di un operaio di idee anarchiche di origine
           toscana stabilitosi a Lugano, nell’allora quartiere
           proletario di Molino Nuovo, Comensoli non ha mai
           conosciuto la madre morta pochi mesi dopo un difficile
           parto. Il piccolo in fasce – era il 1922 – era stato affidato
           a un orfanotrofio dal quale l’avevano prelevato due
           sorelle romagnole, mosse a compassione da quel
           bambino gracile, la cui vita era messa continuamente in
           forse da ripetute polmoniti. E così Palma e Giovanna
           Ghirardi – “le mie due mamme” come le chiamava
           Comensoli – l’avevano tirato su togliendosi spesso il
           boccone di bocca (facevano le pulizie nelle ville dei
           signori) e Mario ricorda che era gran festa quando
           riuscivano a portare a casa i resti della cucina del sindaco
           di Lugano Defilippis.
              A Comensoli era rimasta impressa una scena: le sue
           due madri mangiano con il piatto sulle ginocchia
           lasciando a lui il tavolo per disegnare. Poi, nel 1937, le
           due donne torneranno in Italia, a Cesena, e per quel

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           ragazzo alto e allampanato dagli occhi chiari prima di
           coronare il sogno della pittura, vi sarà un incerto periodo
           di lavori occasionali: apprendista parrucchiere, garzone
           di un fruttivendolo, manovale. Con la rabbia
           dell’autodidatta, studiando però di notte sui libri giusti e
           dipingendo acquarelli per i turisti durante il giorno,
           Mario Comensoli riesce a imporsi ai primi concorsi di
           pittura, a guadagnare borse di studio. Segue a vent’anni
           la partenza per Zurigo, poi per Parigi, con quella bulimia
           di sapere che lo tormenta. Le lettere alla moglie Hélène
           sono cariche di ingordigia intellettuale, anche un po’
           presuntuose, tradiscono la concitazione di chi si trova a
           due passi da un traguardo vitale. E verrà la prima mostra
           a Zurigo, al museo dello “Helmhaus”: un meritato trionfo
           poi messo in forse da un pittore parigino che, fiutando
           l’arrosto pubblicitario, lo accusa di essersi appropriato
           dei moduli della sua pittura. Basterebbe confrontare i
           quadri di Comensoli con quelli dell’ex amico parigino
           per capire che l’accusa non regge, che da una parte c’è
           una pittura convinta e virile che già tende a scardinare la
           realtà e dall’altra una pittura leziosa e decorativa che non
           farà molta strada. Comensoli però, che è un’anima
           ipersensibile, crolla e si dispera come dimostrano alcune
           lettere inviate a Guido Gonzato un pittore di origine
           veronese che vive tra il Ticino e Zurigo e che è per Mario
           una figura paterna. E tuttavia questa crisi è forse la
           salvezza per il pittore: rinuncia infatti a una pittura carica
           di elementi postcubisti e letterari, che si esprime
           attraverso un gioco d’incastri di figure stilizzate
           cromaticamente suggestive e che l’avrebbe forse portato
           verso l’astrattismo (“la peinture du mouvement”, la

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           definiva per il tentativo di catturare la folle dinamica dei
           corpi in movimento) e ritorna a guardare la realtà con
           occhio partecipe. E siamo a quello che qualcuno
           considera il periodo di maggiore forza espressiva del
           pittore (altri si estasiano invece al cospetto del Comensoli
           ultima maniera, quello dei “No future “) cioè
           all’invenzione di un realismo lirico, che si si caratterizza
           attraverso un’intensa partecipazione emotiva. È una
           pittura che nasce dalle emozioni e che non intende
           fabbricarne per un discorso sociale o politico: è come se
           dal profondo della memoria Mario Comensoli attinga
           sentimenti, illusioni, disinganni sperimentati nella sua
           povera infanzia di Molino Nuovo e rimasti innocenti,
           incontaminati.
              Siamo giunti alla metà degli anni cinquanta e si assiste
           a una massiccia immigrazione dall’Italia: sono centinaia
           di migliaia di calabresi, pugliesi, siciliani che stanno
           cambiando la faccia di questo Paese. E così mentre gli
           artisti svizzeri celebrano il trionfo della geometria o si
           rifugiano nel limbo dell’espressionismo astratto,
           Comensoli va nelle baracche e nei cantieri a scoprire quel
           proletariato anonimo venuto dalle campagne del sud e
           che sta costruendo le future cattedrali della Svizzera e
           cioè le dighe idroelettriche e le gallerie alpine e che con
           un lavoro oscuro prepara la conquista dei mercati delle
           grandi multinazionali elvetiche della metallurgia, dei
           tessili, della chimica.
              Nascono così “i lavoratori in blu” che sono poi gli
           operai italiani con le loro tute: e per la prima volta un
           indumento povero diventa un nobile drappeggio. Le
           ragioni della pittura si appropriano di abiti dimessi da

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           lavoro e li trasformano in poesia. Annotava in quegli anni
           il pittore e scrittore Carlo Levi presentando una mostra di
           Mario Comensoli a Roma: “Comensoli ci racconta in
           modo semplice e austero il destino dei suoi personaggi. Il
           tono è fraterno, il punto di vista è quello di chi vive e
           sente sullo stesso piano e cerca non una curiosità ma una
           somiglianza”.
               Eppure, proprio a Roma, Mario Comensoli non ebbe
           quell’accoglienza positiva che meritava. Come ha scritto
           trent’anni dopo Saverio Vertone “nei suoi dipinti
           mancava la spinta alla protesta, l’artificio politico che
           solo potevano consentire negli ambienti intellettuali della
           sinistra l’apprezzamento estetico dei soggetti e delle
           opere comensoliane”. E poi c’era una influente
           personalità ad osteggiarlo, il vate incontrastato del
           realismo, Renato Guttuso, che in quell’occasione
           espresse non poche riserve nei confronti di un’arte che
           forse non gli pareva sufficientemente celebrativa, perché
           non era di denuncia, non raccontava “l’uomo che grida,
           accusa, si difende”. In realtà, l’opposizione di Guttuso
           era rivolta a un pittore nelle cui opere avvertiva una
           sconfessione dei suoi stessi lavori.
              Scriveva in quegli anni Guglielmo Volonterio ne
           L’uomo nuovo di Comensoli (in “Rivista della Svizzera
           Italiana”, febbraio 1959): “Il realismo di Comensoli tende
           a illustrare una vita più morale che politica, ed è ciò che
           distingue sostanzialmente questa forma di realismo da
           quello italiano che tende più al l’annotazione e alla
           polemica che non alla frase approfondita”. E più avanti,
           giustificando il rifiuto comensoliano della lezione
           parigina e il suo linguaggio spontaneo, immediato, anti-

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           intellettuale e anti-letterario: “La tela di Comensoli non
           ha bisogno di essere interpretata, non si rivolge a nessun
           iniziato. Essa parla nella lingua più popolare e
           immediata: tutto può essere compreso nel modo più
           facile. Con Comensoli si avvera un fatto prodigioso:
           l’avanguardismo diventa arte popolare nel senso più bello
           e grande del termine. E quando si osa parlare al popolo è
           perché non si ha nulla da nascondergli”.

           Vedi galleria virtuale Fondazione Comensoli

           In ogni caso per Comensoli che non aveva mai
           conosciuto i sottili giochi dialettici, i bizantinismi, la
           pungente ironia dei salotti, quella di Roma fu

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           un’esperienza traumatica. Mario Comensoli si riportò a
           casa quei ritratti d’operaio, quei personaggi dal volto di
           terracotta e dalle mani grosse e callose – che pure
           diventano lievi quando colgono un fiore, stringono al
           petto un bambino, carezzano un gatto – ripromettendosi
           di non più esporre in Italia, lui che era figlio di un
           emigrante.
              Portò invece i suoi dipinti tra gli operai delle fabbriche
           svizzere; a Lyss, nelle officine dove si montavano i pezzi
           della Volvo, alla Maschinenfabrik di Rüti, nella
           campagna zurighese, partecipò a mostre organizzate dai
           sindacati a Bienne, Lugano e Bellinzona.
              Erano gli anni in cui frequentava assiduamente il
           Cooperativo, un locale in cui si trovava bene, oggi colmo
           di suoi dipinti. Con Ezio Canonica che aveva conosciuto
           molto tempo prima che diventasse il presidente della più
           grande organizzazione sindacale svizzera aveva un
           rapporto affettuoso: Canonica aveva subito scommesso
           su quel pittore ancora sconosciuto appena era approdato a
           Zurigo dal Ticino e aveva fatto sacrifici per acquistare oli
           che ora sono diventati dei classici: uno splendido
           paesaggio inondato dal sole mediterraneo, un’allegra
           libagione di contadini (“Il grappolo”), per poi integrare la
           sua collezione con bellissimi quadri del periodo blu come
           “La cucitrice”. Comensoli, dal canto suo, aveva
           partecipato a campagne contro le armi atomiche e contro
           la tortura nel mondo e aveva disegnato manifesti
           sindacali che si distinguevano dall’iconografia corrente
           per la leggerezza del disegno e una personalissima dose
           di autoironia.
              Più tardi in una Svizzera percorsa da furibonde ondate

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           xenofobe (erano gli anni dei referendum di James
           Schwarzenbach e Valentin Oehen) Comensoli solidarizzò
           con gli immigrati: al Cooperativo è appeso ad esempio
           un quadro grottesco dove la figura di Schwarzenbach è
           inserita ironicamente nella scena di un “flirt” tra una
           ragazza elvetica e un apollineo ragazzo del sud.
              Siamo ormai al cospetto di una pittura ormai diversa
           dalle figure iconiche e monumentali del periodo blu: il
           68, la contestazione giovanile, hanno infatti ispirato a
           Comensoli un controcanto gioioso e irriverente dei nuovi
           miti in circolazione. Esplosione consumistica, riscoperta
           e maturazione dei nuovi ruoli sociali, femminismo:
           Mario Comensoli si getta in questo magma incandescente
           armato del proprio pennello, ma all’indignazione del
           moralista egli oppone una consapevolezza ironica che è
           tutta moderna. Per questo i suoi quadri degli anni settanta
           muovono al sorriso e – talvolta – anche all’allegria.
           Comensoli ci ubriaca di colori, stravolge i simboli del
           quotidiano, riscopre gestualità e stupori barocchi in
           anticipo di un decennio sulla Transavanguardia, turba le
           femministe, sgomenta i “barbudos” di casa nostra. È un
           periodo di gioia creativa ma anche di amarezze. C’è chi
           vorrebbe far pagare al pittore tanta spregiudicatezza: e
           tuttavia a Lugano un museo – la “Villa Malpensata” –
           ospiterà le sue opere, e una nuova generazione di critici
           (Peter Killer, Magnaguagno, Jehle, Billeter, Hans Rudolf
           Hilty, Aurel Schmidt) dà l’impressione di capirlo, di
           condividere la sua concezione della pittura in lotta con il
           conformismo imperante.
              Nel 1970 cioè proprio nell’anno in cui si vota il
           referendum di Schwarzenbach che vorrebbe rispedire a

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           casa trecentomila stranieri, in grande maggioranza
           italiani, un’associazione di immigrati presieduta da un
           meccanico genovese, Vittorio Brullo, decide di
           consegnargli un premio, il Sankt Niklaus Preis, che si
           ispira al patrono degli svizzeri, Nicolao della Flüe.
              Il riconoscimento gli viene assegnato – si legge nella
           motivazione – per l’esaltazione della modesta vita
           dell’immigrato colta nei suoi momenti lirici e
           drammatici. Con Comensoli sono premiati lo scrittore
           Max Frisch (autore di un famoso saggio con il fulminante
           inizio “Un popolo di signori si sente in pericolo:
           aspettava delle braccia e sono arrivati degli uomini”); il
           regista Alexander Seiler, che ha firmato il toccante
           documentario “Siamo italiani”, e –alla memoria – il
           professore Guido Calgari che dai microfoni della radio
           della Svizzera italiana nella sua rubrica “Gli amici del
           sud” si batteva per l’integrazione degli italiani nella
           Confederazione.
              Quel premio porterà fortuna alla causa degli emigranti:
           pochi mesi dopo infatti il popolo svizzero, sia pure di
           misura, boccerà il progetto di Schwarzenbach. Dopo
           questa votazione gli xenofobi tenteranno di rialzare la
           testa, ma saranno sempre sconfitti alle urne.
              Ed è proprio ai figli degli emigranti che Comensoli
           rivolge ormai la sua attenzione. Dopo l’ubriacatura del
           68: il pittore guarda a questi giovani (i “secondos” come
           vengono chiamati) come ai protagonisti occasionali di un
           processo di rivalutazione della vita, di una potente
           affermazione dei sensi, di fronte a una società che si sta
           nuovamente ripiegando su sé stessa, rimettendo in riga
           chi non soggiace alle fredde norme zwingliane (è di

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           quegli anni Mars, uscito in Italia sotto il titolo Il
           cavaliere, la morte e il diavolo, romanzo autobiografico
           di un giovane della società dorata zurighese, Fritz Zorn,
           ammalato di cancro, che accusa genitori e società di
           averlo soffocato con un’educazione all’ordine e alla
           disciplina in rinuncia alla vita).
              Nascono così i dipinti della serie “Cinema” e
           “Discovirus”: da una parte giovani della seconda
           generazione che fanno le maschere o vendono popcorn in
           livrea nelle sale cinematografiche, dall’altra gli italos che
           si abbandonano alla febbre del sabato sera nelle
           discoteche di Oerlikon. È una generazione che nelle
           acrobazie del rock cerca di liberarsi dalle nevrosi
           collettive e Comensoli racconta a suo modo una festa
           dell’eros, dove le fluorescenze dello schermo e il neon
           delle discoteche assumono magiche tonalità.
               I giovani inventano e realizzano un proprio spettacolo
           che si ispira volutamente a stereotipi consumistici ma in
           modo scanzonato e spregiudicato. Sarà una fase pittorica
           relativamente breve perché contemporaneamente su
           questa esplosione liberatoria dei ragazzi della seconda
           generazione se ne sta sovrapponendo un’altra nelle
           piazze elvetiche, quella cioè dei contestatori della
           cosiddetta Bewegung, un movimento giovanile che porta
           con sé i sogni o gli incubi “no future”.

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           Vedi galleria virtuale Fondazione Comensoli

              Sulle prime, in questi ragazzi dalle zazzere variopinte
           che ironizzano sulla Bananarepublic della borghesia e
           che vorrebbero sciogliere la calotta di ghiaccio che
           avvolge Zurigo Mario Comensoli ripone la speranza di
           una felice utopia, che gradualmente si spegne, però, al
           cospetto di una brutale realtà rappresentata
           dall’infiltrazione massiccia delle droghe pesanti nei centri
           giovanili. I suoi ultimi amarissimi lavori, ispirati in parte
           alle vicende del Letten e di Platzspitz, assumono quindi il
           significato apocalittico di un’epoca senza più certezze,
           caratterizzata dal senso del vuoto e dell’abisso.
              Gli ultimi quadri che, secondo la definizione di Guido
           Magnaguagno, rappresentano una sorta di “memento
           mori” (Comensoli si spegne nel suo atelier della
           Rousseaustrasse il 2 giugno 1993) hanno prodotto grande
           impressione nei critici italiani, accorsi numerosi ad
           ammirare la grande retrospettiva organizzata a Milano

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           dalla “Fondazione Mazzotta” nel 2002 e successivamente
           riproposta al Museo bolognese di “Cà la Ghironda”.
              Il sunto di questo crollo di speranze e di illusioni
           potrebbe essere rappresentato dall’enigmatico dipinto
           “L’anello”. In quest’opera quasi surrealista e quasi
           bergmaniana (si ricordi il sogno del vecchio professore
           de Il posto delle fragole) ogni panorama “altro” o
           “altrove” si chiude e – commenta amaramente Pietro
           Bellasi – “il dipinto è un interrogativo struggente e
           solitario sul limite ultimo e irrisolvibile della propria
           esistenza.”

           Film di Raniero Fratini per la TSI

           MARIO COMENSOLI E
           I SINDACATI OPERAI

           FILM SU COMENSOLI E I SINDACATI di Raniero
           Fratini, realizzato in occasione della mostra
           omonima. Vedi sul sito della Fondazione Comensoli

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L'ADL speciale del 220405

           (vai al sito)

           L’Avvenire dei lavoratori
           EDITRICE SOCIALISTA FONDATA NEL 1897
           L’Avvenire dei lavoratori è parte della Società Coopera�va
           Italiana Zurigo, storico is�tuto che opera in emigrazione senza
           fini di lucro e che nel triennio 1941-1944 fu sede del "Centro
           estero socialista". Fondato nel 1897 dalla federazione estera
           del Par�to Socialista Italiano e dall’Unione Sindacale Svizzera
           come organo di stampa per le nascen� organizzazioni operaie
           all’estero, L’ADL ha preso parte a�va al movimento pacifista
           durante la Prima guerra mondiale; durante il ventennio
           fascista ha ospitato in co-edizione l’Avan�! garantendo la
           stampa e la distribuzione dei materiali elabora� dal Centro
           estero socialista in opposizione alla di�atura e a sostegno
           della Resistenza. Nel secondo Dopoguerra L’ADL ha iniziato
           una nuova, lunga ba�aglia per l’integrazione dei migran�,
           contro la xenofobia e per la dignità della persona umana. Dal
           1996, in controtendenza rispe�o all’eclissi della sinistra
           italiana, diamo il nostro contributo alla salvaguardia di un
           patrimonio ideale che appar�ene a tu�.

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