L'ADDIO A GIULIO ANDREOTTI: UNA VITA AL POTERE
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- LA COMMEDIA UMANA NEL SUO E NEL NOSTRO TRAGICO ROMANZO - - L'ADDIO A GIULIO ANDREOTTI: UNA VITA AL POTERE - - POLITICO REALISTA DELLA DOPPIA FEDELTA' CHE HA GENERATO I COSIDDETTI "MISTERI" DELLA PRIMA REPUBBLICA - - UN CATTOLICO PRATICANTE DEFINITO DAGLI AVVERSARI "IL PRINCIPE DI TUTTI I DIAVOLI" - - NAPOLITANO: LO GIUDICHERA' LA STORIA - IL FARO - Periodico del Centro Studi "Pier Giorgio Frassati" - Cariati (Cs) di Cataldo Greco Il 6 maggio, poco dopo la mezzanotte, è morto, a 94 anni, Giulio Andreotti. Se n'è andato «all'altro mondo», come si usa dire nel gergo romano, dopo non poche sofferenze sopportate con cristiana rassegnazione. La sua scomparsa lo proietta nella sconfinata dimensione di diverse vicende politiche durate 60 anni della Repubblica italiana, che il Tribunale della storia giudicherà con il necessario equilibrio e l'indispensabile impiego di tutte le cinque cose che Dio ha donato agli esseri viventi (l'intelligenza, la cultura, l'esperienza, la capacità di analisi e sintesi e il buonsenso), per far capire con il suo tragico romanzo la continua e costante commedia umana che ci coinvolge tutti inesorabilmente. Il "Divo" Giulio, è stato lo statista della Repubblica italiana più longevo: sette volte Presidente del Consiglio, più volte Ministro dei più importanti decasteri in innumerevoli governi, padre Costituente della Patria, uomo di fiducia del Vaticano, giornalista, scrittore, pioniere e leader della Democrazia Cristiana, l'uomo che ha impersonato maggiormente la doppia fedeltà, filo atlantica e repubblicana con l'ambigua politica araba, territorio dei segreti nazionali e internazionali, messo sotto processo per mafia, senatore a vita: ha rappresentato, infine, l'Italia di tutto il secondo Novecento a cominciare dal suo esordio al fianco di Alcide De Gasperi. Oggi, alle ore 17, si celebreranno i funerali nella Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, la sua Parrocchia, a pochi metri dalla sua abitazione: niente camera ardente, niente esequie di Stato, niente Vescovi e Cardinali; un addio senza fanfare e protocolli, esclusivamente privato. Il suo importante archivio è stato depositato nel caveau dell'Istituto don Sturzo: sono vari scritti e perfino testimonianze postume. L'ho incontrato e visto da vicino più volte, sempre attento e gentile. Diceva che "Forse - come tutti - doveva fare un pò di Purgatorio prima di andare in Paradiso, perché in Paradiso non ci si va con la carrozza". L'epitaffio da mettere sulla sua tomba lo suggerì lui stesso quando il Tg.5 andò a intervistarlo per i suoi 90 anni: «Ci scriverei: "Fatevi i fatti vostri"». Di battute sussurrate a fil di labbra ne ha dette centinaia e anche quelle che non erano sue sono state riportate e sono diventate notissime. Prendete quella sul pensar male, per esempio:«A pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso ci si indovina». «Il potere logora, ma è meglio non perderlo», svelò che l'aveva sentita nel 1939 dal Vicario di Roma, Marchetti Selvaggiani. La più famosa resta proprio: «Il potere logora chi non ce l'ha», una sorta di marchio di fabbrica. La pronunciò alla Camera nel 1954 in difesa di Alcide De Gasperi, a un deputato dell'opposizione che chiedeva allo statista, ormai ottantenne, di farsi da parte perché logorato. Rispondeva secco con il gusto della battuta che non lo ha mai abbandonato. «A parte le guerre puniche, mi viene attribuito veramente tutto», diceva di sé. Ed erano i tempi dei processi: mafia e
IL FARO - Periodico del Centro Studi "Pier Giorgio Frassati" - Cariati (Cs) omicidio Pecorelli. «La teoria che non si dicono bugie non potrebbe essere applicata nemmeno alle Suore di clausura, figuriamoci fra gli appartenenti di Cosa Nostra». «L'umiltà è una virtù stupenda. Ma non quando si esercita nella dichiarazione dei redditi». E ancora: «Non basta avere ragione: bisogna anche avere qualcuno che te la dia». A chi faceva notare il suo attaccamento al potere, replicava: «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia». «Nell'aldilà non sarei chiamato a rispondere nè di Pecorelli nè della mafia. Di altre cose sì, ma ho le carte in regola». «Montanelli scrisse un giorno che quando De Gasperi va in Chiesa parla con Dio, Andreotti con il sagrestano. Ironia per ironia, risposi al giornalista che il sagrestano era un elettore». «La sua colpa? Ha vissuto la politica troppo a lungo perché i poteri lo sopportassero», ha dichiarato a caldo l'ex DC Paolo Cirino Pomicino. Il leader dell'UDEUR Clemente Mastella, con estrema semplicità, ha detto «Non ci sono eredi politici. Andreotti è stato più un personaggio di governo che non di partito» Fu per questo l'uomo dei governi con i liberali e con i comunisti, un politico realista. Primo Presidente del Consiglio ad avere il voto di fiducia del PCI alla fine degli anni '70: detestato, accusato di congiure, complotti, collusioni mafiose, ma anche ammirato per cultura, praticità, concretezza invidiabile e non comune abilità di governo. Operante dei rapporti con gli USA, ma anche molto filo arabo. Fu l'uomo che ha inaugurato la politica ambigua definita: "la sposa americana e l'amante araba", motivo per cui fu definito "diplomatico vellutato, tessitore costante": un'anima romantica. Apprezzato per il suo trasversale senso dell'umorismo, per la sua costante perspicacia, che da questo senso dell'umorismo traeva una sorta di metodologia mentale. In politica estera aperto, come si è detto, al dialogo con il mondo arabo, è stato visto per anni come un Talleyrand del Mediterraneo, riuscendo a condurre una politica indipendente e spregiudicata in quella che dovrebbe essere la nostra naturale area di competenza e di responsabilità. L'Italia è geograficamente in prima linea, ma negli ultimi anni si è ridotta al ruolo di spettatrice, o di collaboratrice subordinata. Andreotti è stato l'ultimo
ad avere una politica mediterranea, spingendosi al limite del possibile. Una politica pragmatica, disinibita, spavalda. Va ricordato per un giudizio complessivo. Negli anni Ottanta si adoperò con attenta intelligenza per tenere fuori il nostro Paese dall'imperante terrorismo onde evitare terribili tragedie, anche se non sempre vi riuscì, ma non rinunciò a giocare la sua partita, pur avendo carte meno decisive della Francia, della Gran Bretagna e ovviamente degli Stati Uniti. Né va dimenticato che in Italia vi era il più forte Partito Comunista dell'Europa e di tutto l'Occidente, che rischiava continuamente di minacciare l'equilibrio della Nazione. Dopo Enrico Mattei, è stato Andreotti a diventare un partner per il dialogo con il mondo arabo. In una vecchia intervista disse: «È essenziale che non si confonda Nord-Sud, tra ricchi e poveri, con il rapporto Cristianesimo-Islam. Purtroppo è un errore in cui molti cadono». Gli arabi nella IL FARO - Periodico del Centro Studi "Pier Giorgio Frassati" - Cariati (Cs) loro politica verso l'Occidente disprezzano chi non ha rispetto per se stesso, e Andreotti seppe conquistare la loro stima. In Italia era considerato un machiavellico, nel mondo arabo era qualcuno di cui fidarsi, perché non prometteva mai più di quanto potesse mantenere, e non chiedeva l'impossibile. Gheddafi personificava Satana per gli Stati Uniti, ma quando decise di riavvicinarsi all'Occidente si rivolse ad Andreotti perché facesse da tramite con Reagan. Nel 1980 vengono compiuti con delle bombe gli attentati del DC9-ITAVIA, precipitato sul cielo di Ustica e della stazione ferroviaria di Bologna per impedire il trattato dell'oleodotto tra l'Italia e Malta, e si ingaggiò una incredibile disinformazione almeno dello Stato italiano. Nel 1984 andò a Bengasi ed ebbe un colloquio di due ore a quattr'occhi con il colonnello libico. Nel 1986 lanciò due missili contro la base militare della NATO di Lampedusa e nello stesso anno nel mese di aprile, fu sempre Andreotti (con Craxi) ad avvertire Gheddafi in anticipo del bombardamento americano su Tripoli. E gli salvò la vita. In seguito si limitò a dire: «Quel bombardamento era una iniziativa impropria... con i Paesi vicini coltivate relazioni e rimossi pregiudizi. Ora noi con la Libia abbiamo pagato più di tutti per effetto della politica dell'ONU, abbiamo però sempre mantenuto un filo di comunicazione. È la nostra vocazione naturale svolgere un ruolo di mediazione con i Paesi arabi, pur nel rispetto delle alleanze». E Gheddafi nella sua prima visita a Roma lo chiamò "amico". Dopo, Gheddafi capì che avrebbe potuto abusare e ridicolizzare gli Italiani. Il nostro "tradimento", partecipando alla guerra voluta dai Francesi e dagli Americani, ha inferto un colpo letale a tutti i Paesi arabi, anche a quelli ostili a Tripoli. Nel 1987, si dice che Andreotti fu tra quelli che si adoperarono per porre fine al potere trentennale di Bourghiba in Tunisia. Sarà probabile, ma la sua arte era quella di non mettersi in mostra, di saper rinunciare agli elogi, per riscuotere crediti. Ben Alì gli fu grato e la Tunisia divenne più amica dell'Italia e della Francia. Nella crisi di Sigonella, quando nell'ottobre '85, Craxi si rifiutò di consegnare i terroristi palestinesi responsabili del dirottamento dell' "Achille Lauro", fu sempre Andreotti a svolgere la parte di mediatore dietro le quinte. A Craxi fu attribuito il "colpo di teatro", mentre lui telefonava al Presidente egiziano Mubarak e ad Arafat per stabilire gli accordi vitali per il "dopo". Gli amici bisogna saperli scegliere prima che diventino potenti. Andreotti aveva incontrato Mubarak nel 1979, quando era ancora un generale dell'aviazione, e non si prevedeva che potesse prendere il posto di Sadat. E Arafat era stato invitato a Roma già nel settembre dell'82, un' iniziativa che suscitò le dure reazioni di Israele per tanta audacia. A dicembre del 1985, i terroristi palestinesi compirono un duplice attentato negli aeroporti di Vienna e di Roma. A Fiumicino uccisero16 passeggeri (in un altro attentato nel dicembre del 1973 a Fiumicino i Palestinesi provocarono 29 vittime). Si era tornati in prima linea e fu
Andreotti a riprendere il dialogo, sottoscrivendo incredibili compromessi che gli alleati europei rinfacciarono. Riusciva con estrema semplicità a vedere i problemi con la prospettiva dell' "altro", che non era mai un nemico con cui non trattare. Si ricorda, infatti, il suo aforisma: "Se fossi nato in un campo di profughi palestinesi, forse sarei diventato anche io un terrorista". Giuseppe De Lutiis, già consulente della commissione stragi, uno dei maggiori esperti della storia dei servizi segreti e delle zone grigie della storia italiana fondamentale il suo libro "Il golpe di via Fani", del 2007, ha ricordato: «La doppia fedeltà, inevitabile nei Paesi occidentali, è stata più robusta in Italia, per il suo ruolo nel Mediterraneo e per i suoi confini orientali. Questo ha pesato e ha influenzato anche i grandi statisti. Andreotti è stato l'uomo che ha impersonato maggiormente la doppia fedeltà, ma è riuscito anche ad affrancarsi: penso ai governi di solidarietà nazionale tra il 1976 e il 1979 sostenuti dal PCI di Berlinguer». IL FARO - Periodico del Centro Studi "Pier Giorgio Frassati" - Cariati (Cs) «Dietro il caso Moro e delle Brigate rosse - non ha esitato a dire - non deve stupire, c'erano le grandi potenze ed altri ambienti, vedi la questione del Centro Hyperion di Parigi. Andreotti riuscì a barcamenarsi ma questo costò la vita a Moro. Tuttavia quando è stato il momento di ridare più autonomia all'Italia, appunto con la solidarietà nazionale, non si è tirato indietro. E l'omicidio di Moro è stato innanzitutto il tentativo di impedire l'ingresso del PCI nel governo». Poi c'è la storia di Andreotti, di quando le brigate rosse volevano sequestrarlo nel 1974, come ha rivelato nel suo racconto il leader brigatista Alberto Franceschini, nel volume: "Mara, Renato e io". L'organizzazione sovversiva aveva preparato la cattura di Giulio Andreotti con pedinamenti e appostamenti. Andreotti va a messa senza nessuno a proteggerlo, senza scorta. Ne resta stupito, è convinto che il sequestro si possa fare e ne parla con gli altri: "Mi ascoltarono come se stessi raccontando una favola". «Colpendo Andreotti - scrive nel suo libro - avrei raggiunto un mio obiettivo di sempre, farla pagare alla DC. E me lo sognavo fotografato con un rospo in bocca, di quelli preparati per le elezioni del 1948, da far ingoiare ai democristiani». «Il potere era nelle nostre mani e tutto mi sembrava facile, bello, molto bello». Ma l'8 settembre 1974 Franceschini e Renato Curcio vengono arrestati. Il progetto Andreotti abortisce per trasformarsi dopo nemmeno quattro anni, e in tutto un altro contesto, nella strage di via Fani e nel sequestro e uccisione di Aldo Moro. Nella primavera del 1993 l'Italia è nel pieno di tangentopoli. Gli occhi del Paese sono puntati sulla Procura di Milano e sulla Prima Repubblica che si sgretola sotto i colpi di "Mani Pulite". Ma a metà marzo è da Palermo che arriva la notizia destinata a fare subito il giro del Mondo. Andreotti è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Il sette volte Presidente del Consiglio riceve la richiesta di autorizzazione a procedere da Giovanni Spadolini, allora Presidente del Senato. Sono 246 pagine firmate
dal Procuratore Capo di Palermo dottor Giancarlo Caselli, che tratteggiamo «il contributo non occasionale dato da Andreotti a Cosa Nostra». Il 27 marzo '93 è lo stesso senatore a vita a informare la stampa: «Accusare me di mafia - dichiarerà - è paradossale. Come governo e in prima persona, ho adottato contro i mafiosi duri provvedimenti e proposto leggi severissime ed efficaci. Dovevo attendermi la loro vendetta e in un certo senso è meglio così che con la lupara». Il rinvio a giudizio arriva dopo due anni di indagini preliminari e il 26 settembre del '95 si va in dibattimento. La prima udienza si apre in aula bunker dell'Ucciardone, davanti a centinaia di giornalisti, con la memorabile stretta di mano fra Andreotti e Caselli. In aula fu imputato modello, che perderà poche udienze. Il resto è noto. Tutte le accuse andranno a vuoto anche sul caso Pecorelli. Indicato da 37 pentiti con l'assurdo bacio con Riina, che suggellava i legami con le cosche mafiose, secondo Balduccio IL FARO - Periodico del Centro Studi "Pier Giorgio Frassati" - Cariati (Cs) Di Maggio. «Non mi piace baciare gli uomini» fu la replica di Andreotti. Resta l'ombra della prescrizione. Giulia Bongiorno, avvocato di Andreotti nel processo per Mafia, non ha esitato ad affermare con onestà intellettuale: «Lui è stato "assoltissimo", e lo dico perché conosco le carte. Ha ribaltato tutte le accuse. Anche nella famosa prescrizione non c'è assolutamente un giudizio di colpevolezza». Giancarlo Caselli, l'ex Procuratore di Palermo, se n'è uscito con questa semplice dichiarazione: «Fino al 1980 l'imputato è stato ritenuto responsabile di rapporti con Cosa Nostra. Dopo il 1980 è stato assolto» (sic!). Qual'é stato il "lato oscuro" di uno dei politici più potenti e discussi della Prima Repubblica? Per quarant'anni Giulio Andreotti è stato il simbolo del potere e dei suoi aspetti più tenebrosi. Un potere di cui tempo fa si gloriava, con l'abituale ironia: «Sono nato nel gennaio del 1919. In quell'anno sono anche nati il Partito Popolare e il Fascismo. Di tutti e tre sono rimasto solo io». In un monologo del film "Il Divo", il regista Paolo Sorrentino gli fa dire: «Guerre puniche a parte, mi hanno accusato di tutto quello che è successo in Italia. Nel corso degli anni mi hanno onorato di numerosi soprannomi: il Divo Giulio, il Gobbo, la Volpe, il Molock, la Salamandra, il Papa Nero, l'uomo delle Tenebre, Belzebù». Una cosa è certa; il "Grande Vecchio" della politica italiana era partecipe di molti dei "misteri" della Repubblica. Solo di alcuni (mafia, Salvo Lima, casi Pecorelli e Sindona, P2, l'anello, il supercoperto servizio segreto) si può dire qualcosa utilizzando qualcosa, utilizzando le carte processuali che hanno visto il suo coinvolgimento. I misteri non esistono, esistono le devianze per non avere la verità. La verità è scandalo. Per evitare lo scandalo non si è fatto sapere chi ha messo le bombe sul DC9-ITAVIA (Ustica) e nella Stazione di Bologna, ma la verità un giorno emergerà, fa parte della nostra commedia umana e del tragico romanzo della nostra esistenza. Andreotti, pur essendo stato una figura simbolo del partito, non riuscì mai a guidare la DC. Con Forlani ci fu forte rivalità, con Moro notevole incomprensione e con De Mita una marcata ostilità. Alla Presidenza del Senato - un "fiasco" indimenticabile per Andreotti - candidato contro Marini per il centrodestra, nel 2006 perse la sfida a vantaggio dell'altro ex della "Balena bianca", come veniva apostrofata la DC. Ma la sua più grande delusione fu la mancata elezione al Colle. Il Divo si vendicò... E anche Forlani disse addio al Quirinale. Al conclamato amore per la politica, Giulio Andreotti ha aggiunto un'inenarrabile passione per lo sport e la Roma. Impedì il passaggio di Falcao all'Inter. Era un vero appassionato di ippica e amava frequentare gli ippodromi. "Si sentiva un giornalista vero ed era allergico alle smentite e non voleva mai querelare un collega", "Mettiamoci nei suoi panni" diceva quando leggeva un articolo cattivo o bugiardo. Sapeva, da persona colta, che il giornalismo è fatto di intrighi e di intrecci: pieno di menzogne. Ma soprattutto gestiva il suo comportamento con grande equilibrio, con ammirevole generosità e una
profonda fede. Fu autore in 38 anni di 39 libri, alcuni dei quali best-seller tradotti in molte lingue, vendendo un milione e seicento mila copie. Un vero e proprio record che lo colloca tra i "long-sellers" dell'editoria italiana. Tra le sue opere (pubblicate sempre con Rizzoli), il maggior successo commerciale è la serie di libri «Visti da vicino», una trilogia pubblicata tra il 1982 e il 1985, cui hanno fatto seguito altri due volumi su USA e URSS, sempre «visti da vicino», per un IL FARO - Periodico del Centro Studi "Pier Giorgio Frassati" - Cariati (Cs) totale di circa 500 mila copie, comprese le edizioni tascabili. Indro Montanelli citava spesso un giudizio dato da Alcide De Gasperi su Andreotti: «Un ragazzo talmente capace a tutto, che può diventare capace di tutto». Va detto a onore della cronaca: dentro le istituzioni, quella di Umberto Ambrosoli, è una voce fuori dal coro. Mentre tutto il Consiglio regionale lombardo di cui fa parte, commemorava Giulio Andreotti, il figlio del commissario liquidatore della Banca Privata Italiana freddato nel 1979 dai sicari di Michele Sindona, è uscito dall'aula. Quasi in punta di piedi - si è letto - «non voglio fare polemiche», ha detto il coordinatore del centrosinistra, che lo aveva candidato governatore, sebbene fosse chiaro che il suo gesto avrebbe destato scalpore. "Andreotti disse che mio padre se l'era cercata. Ecco perché non potevo omaggiarlo", ha spiegato ai cronisti, ripensando al padre Giorgio, l'eroe borghese di Corrado Stajano. «Ma non è il caso - ha aggiunto - di fare polemiche: è giusto che le istituzioni ricordino gli uomini delle istituzioni, ma chi ne fa parte faccia i conti con la propria coscienza». "Siamo un Paese portato a giustificare tutto. E questo conduce all'immobilismo, all'impossibilità di cambiare". «Crede nel diavolo al quale è stato politicamente tante volte paragonato?» , gli chiese nel 2008, Bruno Vespa. Ridacchiò e poi disse: «Mi astengo...». «Per conflitto di interessi?», Vespa insistette. «Ah, no - rispose - speriamo di non vederlo nell'aldilà. Di qua un certo numero di allievi ce l'ha. Se ne avesse uno meno sarebbe meglio...». Poi, non esitò a dire, l'altra tragica realtà:«In politica ci sono più Dracula che donatori di sangue». A pagare, è ovvio, la "povera gente", ignara degli inganni: non ci sono punizioni per le menzogne. Roma 07/05/2013
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