"Our democracy is walking on two legs". Storiche elezioni politiche in Kuwait
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
PUBBLICATO IN “AFRICHE E ORIENTI”, N. 1-2/2009. “Our democracy is walking on two legs”. Storiche elezioni politiche in Kuwait Anna Maria Medici Con le elezioni legislative del 16 maggio 2009 la presenza degli islamici nel parlamento del Kuwait subisce un duro colpo (da 26 seggi a 16 seggi), mentre 4 donne siedono per la prima volta nell’assemblea unicamerale del paese (di complessivi 50 membri eletti). Lo storico ingresso di deputati donne avviene esattamente quattro anni dopo l’emendamento alla legge elettorale del 1962 con il quale si sono riconosciuti i pieni diritti politici alle kuwaitiane (16 maggio 2005). Da allora, le cittadine avevano già votato in altre consultazioni, ma sino al maggio 2009 nessuna delle candidate ai seggi aveva conquistato preferenze bastanti per risultare eletta. L’esito delle elezioni 2009 ha fatto notizia in tutto il mondo. Persino la stampa italiana – colpita da sordità divenuta ormai imbarazzante verso le notizie politiche provenienti dal vicino mondo arabo che non siano episodi di guerra o di fanatismo religioso – ha scelto di occuparsene. Nei commenti, l’ingresso di deputati donne in parlamento ha fatto passare un po’ in secondo piano l’altro dato politico, altrettanto importante e significativo: il considerevole calo di consensi subìto dai gruppi di ispirazione religiosa. Sono due notizie che si lasciano analizzare anche in parallelo, l’una con l’altra, e parrebbero suggerire uno spostamento dell’elettorato in senso liberale. I religiosi sono stati infatti, più che avversari, fra i “nemici” più accesi delle candidate donne, con successioni di intimidazioni e insulti, vere e proprie campagne diffamatorie (come quella lanciata contro la docente universitaria Asiil al-Awadhi), appelli espliciti a boicottare le donne candidate, sino all’emanazione, ad esempio, di “sentenze religiose” con le quali si conferiva all’uomo il diritto di indicare alla moglie il candidato da votare (“sentenze” immediatamente confutate in una apposita nota fatta diramare dal governo, attraverso il ministero per gli Affari religiosi). Un’autorevole candidata ha denunciato il clima di “terrorismo sociale” che ha segnato la campagna elettorale, nel quale alcuni parlamentari islamisti si sono addirittura spinti a condannare come “peccato” il voto dato a candidate donne (ogni elettore può esprimere sino a 4 preferenze). In verità, le candidate hanno dovuto affrontare non uno ma due forti schieramenti ostili: da un lato i religiosi più radicali (fra i sunniti, in particolare, poiché la componente sciita, quasi un terzo della popolazione, si è invece mostrata da tempo più attenta alle battaglie per i diritti delle donne, come avvenuto anche fra i sunniti moderati), e dall’altro i potenti gruppi che negli ultimi decenni hanno costruito consenso intorno al recupero di appartenenze claniche e ruoli delle grandi famiglie (quello che la stampa chiama in modo un po’ fuorviante il voto “tribale”, o “tradizionale”). Sono, questi ultimi, gruppi che propongono e sostengono interessi locali e fedeltà familistiche e si fanno promotori di un neopatriarcato in nome della difesa di una non meglio definita identità kuwaitiana1. Peraltro, quasi tutti i principali clan familiari beduini, per non disperdere i loro
voti, hanno svolto consultazioni primarie per la selezione di candidati da sostenere alle elezioni del 2009. Votare “nel rispetto della legge islamica” L’ingresso in parlamento della rappresentanza femminile era atteso da anni in Kuwait, soprattutto dopo il 1999 quando una iniziativa di legge in tal senso, voluta dall’allora sovrano al-Jabir della dinastia regnante al-Sabah, non aveva ottenuto i voti necessari alla promulgazione (solo un terzo dei deputati votò a favore; la legge prevedeva l’entrata in vigore delle nuove disposizioni solo nel 2003). Ma all’interno dell’Assemblea il favore per l’iniziativa era già allora ben più ampio e molti deputati favorevoli, moderati e liberali, avevano votato contro solo perché consideravano lesiva delle prerogative dell’Assemblea la presentazione del decreto in un maxi provvedimento con altri 60 decreti, proposti al voto dopo lo scioglimento dell’Assemblea avvenuto il 4 maggio. Per questo, subito dopo il voto negativo, fu presentata un’identica iniziativa di legge che pareva poter essere decisiva ma che, all’ultimo momento e con minimo scarto di voti (32 a 30), non riuscì ad ottenere l’approvazione del parlamento. L’iniziativa del principe nel 1999 non deve quindi trarre in inganno: il processo di emancipazione femminile non è calato dall’alto in Kuwait. Il piccolo regno ha conosciuto decenni di mobilitazione in favore dei diritti politici alle donne; gli ultimi anni hanno visto impegnate in prima fila sia alcune delle neo-elette deputate, come l’attivista Rola Dashti, sia protagoniste della vita intellettuale del paese del Golfo come la scrittrice Laila Uthman, schierate contro gli esponenti più conservatori, ampiamente rappresentati sia nel governo sia nella Assemblea nazionale. La battaglia politica si è svolta lungo una linea di lacerazione profonda, fra convinti sostenitori e irriducibili contrari. E il sovrano è solo il più noto fra i molti uomini kuwaitiani che hanno sostenuto il soffragio universale e hanno partecipato attivamente alla campagna. La legge elettorale del 1962 negava espressamente il diritto di voto alle donne. Ma già all’inaugurazione del primo parlamento nel 1963, donne kuwaitiane organizzarono una manifestazione di protesta per la loro esclusione dai diritti politici e bruciarono i loro veli tradizionali abaja, dando inizio alla battaglia per il suffragio universale. In quell’anno una giovane laureata, Nuriya al-Sadani, fu fra le promotrici della Arab Women’s Development Society (Awds) che nel 1971 ha organizzato la prima conferenza sulle donne in Kuwait. Già dopo quell’importante appuntamento era stato sottoposto al parlamento un documento con sette richieste in favore della condizione femminile e fra queste, naturalmente, il diritto a partecipare alle elezioni. Ma il favore espresso dall’assemblea era ancora ben lontano dal divenire maggioranza2. Gli anni ’80, che vedono la matura organizzazione del movimento femminista, sono anche gli anni dell’affermarsi nella societ{ di forze islamiste che hanno esasperato, nel dibattito politico, la contrapposizione fra islamismo e secolarismo, che tanto è stata strumentalizzata intorno alla questione femminile. Nuove iniziative furono intraprese senza successo anche nel 1981, nel 1986, nel 1992 e nel 1996. Come avvenuto in molti altri paesi del mondo, dove lotte di liberazione nazionali hanno accelerato la causa femminile, anche in Kuwait l’attenzione alla domanda di diritti politici è divenuta più sensibile negli anni Novanta, dopo l’invasione irachena del Kuwait, anche come tardivo riconoscimento per il ruolo che le donne hanno avuto nella resistenza, durante l'invasione delle truppe di Saddam Hussein. Ma dopo l’inattesa sconfitta parlamentare del 1999, passa qualche anno prima che la situazione si sblocchi davvero. Nel maggio 2004 il governo approva un disegno di legge che ripropone il suffragio universale (ma il varo finale spetta sempre al parlamento). Il 19 aprile 2005
l’Assemblea nazionale vota una legge che garantisce per la prima volta diritto di voto ed eleggibilità alle donne ma solo alle elezioni amministrative, per i consigli municipali (il voto passa con maggioranza di 26 su 20 e 3 astenuti). La ratifica della legge, prevista dall’ordinamento kuwaitiano, non supera però il quorum richiesto di 33 voti (solo 29 favorevoli, e 29 astenuti, al voto di ratifica del 2 maggio). Poche settimane dopo, il 16 maggio del 2005, viene ripresentato al voto l’emendamento alla legge elettorale che riconosce diritti politici alle cittadine e il provvedimento è infine varato dall’assemblea con 35 voti a favore, 23 contro e 1 solo astenuto. È la svolta attesa. Un articolo della legge precisa che ogni donna partecipa con pieni diritti al voto, come elettrice o candidata, “nel rispetto della legge islamica” e sin dall’approvazione non era ben chiaro cosa questo significasse ed eventualmente quali limiti ponesse ai diritti delle donne. Per questo, la piena applicazione della norma e il clima politico che l’accompagna assume un particolare significato in Kuwait. Pochi mesi dopo, nel gennaio 2006, sopravviene la morte del re Jaber al-Sabah, già promotore dell’iniziativa di legge del 1999, leader riconosciuto della resistenza anti-irachena e icona della liberazione. A questo punto alcuni commentatori, soprattutto nei media internazionali, esprimono forti dubbi sul fatto che il processo avviato possa effettivamente compiersi, prevedendo invece che l’articolo sul rispetto della legge islamica possa essere invocato per bloccare l’applicazione del suffragio universale. In realt{, nonostante la complessa successione al trono e le competizioni politiche e dinastiche, la legge ha fatto il suo regolare corso nel paese, come ulteriore conferma del percorso politico vissuto dalla società e dalla classe politica nella dialettica sociale e istituzionale, pur fra gli accesi scontri politici. Del resto, la determinazione del governo si era già espressa immediatamente dopo la promulgazione della legge del 2005 con la prima nomina a ministro di una donna kuwaitiana: Ma’suma al Mubarak, docente alla Kuwait University, era divenuta Minister of Planning e Minister for Administrative Development Affairs. Le kuwaitiane hanno votato per la prima volta alle elezioni municipali suppletive del 4 aprile 2006, convocate per uno dei consigli della capitale Kuwait City. In quella prima occasione, una delle due candidate ammesse aveva sfidato per la prima volta i pregiudizi sociali impegnandosi attivamente in comizi politici pubblici, risultando poi la seconda più votata, pur distanziata dal vincitore (e dunque la prima fra i non eletti): la candidata in questione era l’ingegnere chimico Jenan Bushehri, di 33 anni. Poche settimane dopo, nel giugno 2006, le donne sono state chiamate al voto per le prime elezioni legislative dalla promulgazione della legge e rappresentavano la maggioranza degli aventi diritto al voto (il 57% della popolazione con diritto di cittadinanza). Si trattava di elezioni anticipate, per una delle crisi politiche che si sono susseguite da alcuni anni nel regno, come esito degli scontri fra governo (di nomina reale) e parlamento (controllato dall’opposizione). Ma né in questa consultazione, né in quella successiva del 2008 (anch’essa frutto di una crisi politica istituzionale) i kuwaitiani hanno eletto una candidata donna in parlamento, nonostante fossero state presentate 28 candidature femminili nel 2006 e 27 nel 2008. Dopo le elezioni del 2008, la nomina di altre due donne ministro ha prodotto contestazioni per il fatto che le nominate non indossavano alcun tipo di velo islamico. Al momento del giuramento in aula 9 deputati sono usciti in segno di protesta contro l’abbigliamento dei neo- ministri. Il caso è stato anche portato davanti al Legal and Legislative Committee. Questa commissione ha poi deciso all’unanimit{ che la procedura ha violato l’articolo 82 della Costituzione e l’art. 1 della legge elettorale (i 4 membri conservatori e i 3 della minoranza liberale hanno votato insieme contro la tenuta non islamica dei due ministri). Alla successiva inaugurazione della sessione parlamentare, il nuovo sovrano Sabah al-Ahmad non ha però fatto alcun riferimento al caso, riportando all’irrilevanza la questione delle vesti nella prassi politica.
Del resto, non solo le ministre, ma anche due delle 4 neo-elette deputato vestono senza alcun velo. Le elezioni 2009: il traguardo “storico” Alle elezioni del 16 maggio 2009, le 16 donne che hanno presentato la candidatura (sui 211 in corsa per i 50 posti disponibili) hanno dovuto affrontare un clima politico fortemente ostile, consolidatosi soprattutto dopo la fase di irrestitibile ascesa dei gruppi politici di ispirazione religiosa, che nelle ultime legislature erano giunti a dominare l’Assemblea. Ma i segnali di cambiamento sociale e culturale non sono mancati. Durante la campagna elettorale del maggio 2009, per la prima volta, le candidate liberali (che naturalmente non portano il velo) sono state invitate e ascoltate anche nei salotti politici tradizionalmente maschili (diwaniyya); la docente universitaria e candidata al-Awadhi (poi eletta) ha riferito di aver avuto così tanti inviti da salotti simili da non poter presenziare a tutti. Sono i dati elettorali a registrare infine il traguardo atteso e a restituire le biografie di 4 donne che sono diventate deputato alle elezioni legislative del 16 maggio 2009: - Asiil al-Awadhi, 40 anni, è docente di Filosofia alla Facolt{ di Scienze Politiche dell’Universit{ del Kuwait; aveva già sfiorato l'elezione nel 2008, quando si era presentata con il gruppo di Alleanza democratica nazionale, compagine liberale e mista, risultando per pochissimi voti undicesima: la prima dei non eletti del suo distretto. La al-Awadhi si è impegnata contro la separazione di ragazzi e ragazze nelle scuole kuwaitiane, attirando su di sé una dura reazione da parte dei religiosi. Come tutte le altre candidate ha perfezionato gli studi negli Stati Uniti. - Rola Dashti, 45 anni, (già candidata alle elezioni del 2008) è una economista molto nota, non solo in Kuwait, candidata nello schieramento liberale. Formatasi alla Johns Hopkins University, è divenuta presto economista di spicco della National Bank of Kuwait e consulente della World Bank. Si è occupata di tutti i contratti firmati a nome del Kuwait per il programma di ricostruzione durante e immediatamente dopo l’invasione irachena del 1990-91. È citata fra le prime 100 personalità del mondo arabo più influenti nel mondo per il 2007 e per il 2008 (secondo la classifica di Arabian Business) e tra le 20 donne più influenti del mondo arabo secondo la classifica stilata dal “Financial Times” nel 2008. - Ma’suma al Mubarak è anch’essa docente universitario ed è stata la prima donna a diventare ministro nel 2005. - Salwa al-Jassar è docente di pedagogia, attivista per i diritti delle donne e presidente della Ong Women’s Empowerment Center. Queste kuwaitiane non sono entrate in parlamento per un vincolo di “quote rosa”, né per candidature imposte dall’alto, ma con voti di preferenza conquistati nel paese. Con la loro eccellente formazione politica e culturale hanno conquistato seggi anche in un contesto fortemente influenzato da canali di orientamento del voto come quelli clanici o quelli di interesse, o di scambio. Sin dal 2006, ad esempio, al primo punto del programma dell’economista Rola Dashti c'è la lotta alla corruzione: tema che, insieme alla questione femminile, ha dominato la campagna elettorale. Le legge elettorale divide l’emirato in 5 distretti, ciascuno dei quali elegge 10 rappresentanti. In questo panorama si misura il successo raccolto: Mubarak e Awadhi sono arrivate a conquistare il 1° e il 2° posto nei rispettivi distretti elettorali, risultando fra i deputati più votati alle elezioni; Dashti si è posizionata al 7° posto e Jassar al 10°. Quanto all’esiguo numero di deputate elette, si è fatto notare da più parti che il valore percentuale di kuwaitiane elette in parlamento (che corrisponde all’8%, su un’assise di complessivi 50 seggi, in un paese di circa 3 milioni di abitanti) non ha poi tanto da invidiare a quella di diversi paesi europei; in Italia era
più o meno la stessa alla metà degli anni Novanta in Senato e, oggi, la percentuale di donne presenti in totale nelle due camere in Italia è del 22% (negli Emirati Arabi è del 23% e in Tunisia del 26%). Si riassume nel commento della eletta Salwa al-Jassar il percorso compiuto dal Kuwait verso il suffragio universale: “Finally our democracy is walking on two legs as we have male and female parliamentarians”3. Petrolio e welfare. Il suffragio universale della minoranza L’area del Golfo Persico accoglie sistemi politici anche molto diversi fra loro, in alcuni casi definiti “democrazie a met{”: istituzioni parlamentari rappresentative e regolari processi elettorali si accostano a livelli istituzionali più o meno “bloccati”, sia da “custodi della religione”, sia da prerogative dinastiche. Il Kuwait ha nel Golfo una tradizione democratica riconosciuta, le elezioni sono giudicate libere e corrette, la partecipazione politica degli elettori, sempre elevata (circa il 67% nel 2008), inizia però a risentire delle continue crisi che hanno portato a tre elezioni e cinque nuovi governi negli ultimi tre anni; così, nel maggio scorso, l’affluenza è scesa al 55%. Unica macchia all’immagine del Kuwait democratico in queste recenti elezioni: l’arresto di tre candidati con l’accusa di oltraggio al re e alla famiglia reale, poi rilasciati su cauzione. Il dibattito politico è partecipato, le opinioni e i commenti elettorali si esprimono fra la popolazione attraverso tutti i mezzi di comunicazione, compresi i più moderni (dagli sms ai blog), e diverse testate di stampa nazionali seguono le vicende politiche del paese. Il Kuwait è stato il primo emirato del Golfo a dotarsi di un parlamento nel 1963, dopo essersi liberato della “protezione” britannica nel 1961, ed è un regno dove complesse crisi di successione sono state governate, come avvenuto nel 2006, con la Costituzione alla mano, senza gravi scosse. I primati democratici del paese avevano fatto prevedere che il Kuwait sarebbe stato il primo paese del Golfo a garantire diritti politici alle donne; invece, il piccolo regno della dinastia degli al-Sabah è arrivato solo quarto, dopo Bahrain, Qatar e Oman. Il sistema di monarchia parlamentare kuwaitiano riserva un considerevole ruolo alla dinastia: il governo è di nomina reale e spetta al sovrano anche il potere di scioglimento dell’Assemblea nazionale. Molte voci si sono levate negli ultimi anni, soprattutto fra i riformisti, per reclamare una nuova Costituzione e una revisione del ruolo della dinastia nel sistema politico. Esistono tuttavia alcuni contrappesi. Il re nomina il principe ereditario, ma l’accettazione e la proclamazione del nuovo re dev’essere espressa dal parlamento nazionale (che già nel 2006 ha modificato la successione non accordando fiducia al principe ereditario designato dal sovrano defunto). Soprattutto, ogni provvedimento legislativo deve essere ratificato dall’assemblea, che ha poteri legislativi e di controllo e che negli ultimi anni esprime una maggioranza di opposizione al governo. Il parlamento può convocare i ministri per interpellarli e anche sfiduciarli, e diverse volte il sovrano ha sciolto l’Assemblea per evitare una di queste convocazioni indirizzate a esponenti del governo. La recente fragilità istituzionale e governativa del Kuwait appare dunque, da un lato, segno di rafforzamento della dialettica democratica, ma anche, dall’altro, indicatore di difficolt{ del sistema, con lunghe fasi di paralisi dell’attivit{ politica. In Kuwait non sono ufficialmente costituiti dei partiti politici e ciascun candidato è considerato indipendente, ma l’attivit{ politica organizzata ha prodotto diverse liste elettorali, che si sono costituite senza alcuna restrizione e, con esse, altrettanti gruppi parlamentari. Fra i principali: l’Alleanza islamica salafi (gruppo sunnita), il Movimento costituzionale islamico (sunnita, legato alla Fratellanza musulmana e favorevole al voto alle donne), l’Alleanza islamica
nazionale (sciita), l’Alleanza per la pace e la giustizia (sciita), il Blocco di azione popolare (liberale), il Forum democratico del Kuwait (gruppo liberale riformista). Non è solo l’instabilit{ politica del regno a preoccupare i kuwaitiani; fra i temi dibattuti in campagna elettorale c’era anche la crisi economica internazionale. Nel ricchissimo emirato i proventi della vendita di petrolio continuano a rappresentare il 90% delle entrate nazionali, sensibili alle oscillazioni delle quotazioni internazionali delle materie prime. Il governo ha previsto un intervento da 5 bilioni di dollari per affrontare la crisi. Ma la reale incognita politica del paese appare essere, come in altre ricche monarchie del Golfo, il notevole squilibrio demografico fra una minoranza di cittadini e una maggioranza di “immigrati”, uomini e donne, ai quali non è riconosciuta la cittadinanza. È su questa base che la crisi può generare instabilità sociale in un paese come il Kuwait. La scoperta del petrolio, dalla prima met{ del ‘900, ha radicalmente modificato l’economia dei paesi del Golfo e le loro societ{. L’esplosione di ricchezza ha anche attirato massicci flussi di immigrazione. Nel piccolo Kuwait gli immigrati rappresentano oltre il 60% della popolazione (e circa l’80% della forza lavoro impiegata). Una maggioranza di esclusi dalla vita politica. Persino fra i cittadini sono emerse distinzioni. In Kuwait sono stati definiti hadhar coloro la cui famiglia risiedeva in Kuwait prima del periodo petrolifero e viveva delle attività economiche sino ad allora prevalenti (commercio, pesca, lavorazione del pesce, raccolta delle perle), mentre sono stati definiti badu gruppi diversi di immigrati giunti nel paese fra gli anni ’60 e gli anni ’80, con una difficile definizione di chi sia effettivamente appartenente a categorie simili e con significative differenze di accesso ai servizi e alla vita sociale e politica. Come ricorda una donna hadhar: “Negli anni ’60 eravamo tutti kuwaitiani. Nessuno ti chiedeva mai da quale tribù provenissi […] il fatto di essere del Kuwait era sufficiente. Oggi invece si va alla ricerca di nomi tribali per identificarsi”4. In Kuwait, per molti aspetti, la cittadinanza appare definita in termini di accesso ai servizi di welfare più ancora che ai diritti politici; e secondo alcuni osservatori il Kuwait rientrerebbe fra quegli Stati in cui particolari sistemi di welfare (e soprattutto di accesso al welfare) contribuiscono alla genesi di processi di etnicizzazione e all’affermarsi di etnopolitiche. In Kuwait, come altrove, un medesimo tormento identitario appare alimentato sia dalle tensioni neopatriarcali e religiose che mirano a conservare il ruolo subordinato delle donne, sia dalle enormi questioni sociali ed economiche aperte dall’immigrazione. Bibliografia Al Mughni H. (1997), “From Gender Equality to Female Subjugation: The Changing Agendas of Women's Groups in Kuwait”, in Dawn Chatty and Annika Rabo (eds.), Organizing Women: Formal and informal women's groups in the Middle East, BERG, 195-209 Doumato E. A. e M. P. Posusney (2003), Women and Globalization in the Arab Middle East. Gender, Economy and Society, Lynne Rienner, Boulder CO Herb M. (2002), Emirs and Parliaments in the Gulf, in: “Journal of Democracy”, vol. 13, n. 4, 41- 47 Longva A.N. (2006), Nationalism in Pre-Modern Guise: The Discourse on Hadhar and Badu In Kuwait, in “International Journal of Middle East Studies”, n. 38, 171–187
Sharabi H. (1988), Neopatriarchy: A Theory of Distorted Change in Arab Society, Oxford University Press, New York Willoughby J. (2008), Segmented Feminization and the Decline of Neopatriarchy in GCC Countries of the Persian Gulf, in “Comparative Studies of South Asia, Africa and the Middle East”, vol. 28, n. 1, 184-199 Yazbeck Haddad Y. e J. L. Esposito (eds.) (1998), Islam, Gender, and Social Change, Oxford University Press, Oxford 1 Hisham Sharabi, Neopatriarchy: A Theory of Distorted Change in Arab Society, New York: Oxford University Press, 1988. 2 Yvonne Yazbeck Haddad e John L. Esposito (eds.), Islam, Gender, and Social Change, Oxford University Press, 1998. 3 Intervista raccolta da James Calderwood, Kuwait women enjoy poll celebration, “The National”, 20 maggio 2009 (http://www.thenational.ae/article/20090520/FOREIGN/705199824). 4 Anh Nga Longva, Nationalism in Pre-Modern Guise: The Discourse on Hadhar and Badu In Kuwait, in “International Journal of Middle East Studies”, 38 (2006), 172.
Puoi anche leggere