"JOBS ACT e la riforma dei contratti" - ORDINE CONSULENTI DEL LAVORO DI ASCOLI PICENO

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ORDINE CONSULENTI DEL LAVORO DI ASCOLI PICENO

                                                                    Convegno
                             “JOBS ACT e la riforma dei contratti”
                                                      San Benedetto del Tronto
                                                            22/5/2015

                                                                    Relazione
                                                        Avv. Prof. Francesco Stolfa
                                                           Ufficio Legale ANCLSU- Roma
                                           docente nel Master in “Gestione del Lavoro e Relazioni Sindacali”
                                                       Università degli Studi di Bari “ A. Moro”

SOMMARIO: Premessa - Il cd. contratto a tutele crescenti, ovvero la nuova disciplina dei licenziamenti individuali e collettivi (La disciplina
sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi). - L'esonero contributivo triennale ex art. 1, co. 118 ss. della L. 190/2014 - D. Lgs. 4 marzo 2015, n. 22: la
NASPI e i lavoratori licenziati per motivi disciplinari - La bozza di decreto sulle tipologie contrattuali

   Premessa.- Il legislatore italiano, in questo tormentato scorcio di legislatura, ha
proprio deciso di toglierci il sonno in quanto ha cominciato a inondare il diritto del
lavoro di riforme talmente complesse e, per molti versi, ambiziose che nessuno
avrebbe immaginato, fino a qualche mese fa, potessero essere realizzate nel nostro
complicatissimo Paese e sopratutto in così poco tempo. In pratica, è l'intero impianto
del nostro diritto del lavoro che viene messo in discussione e forse non abbiamo
ancora visto fino a che punto. Certo lo strappo politico, rispetto alle vecchie prassi
consociative e, in particolare, rispetto al ruolo decisivo tradizionalmente riconosciuto
alle organizzazioni sindacali in questi processi legislativi è stato forte, come
testimonia l'asprezza del dibattito parlamentare (se così volessimo definire una serie
di continue baruffe ai limiti [e spesso anche oltre i limiti] dello scontro fisico condite
di urla e parolacce) ed extraparlamentare (si pensi agli ormai inguardabili cd. talk-
show televisivi). Anche i convegni sul tema, anche quelli di più alto livello scientifico
risentono del clima da stadio e offrono molte, veementi analisi di tipo politico ma
pochissime analisi di tipo tecnico-giuridico, peraltro quasi sempre fortemente
orientate da pregiudizi pro o contro la riforma.
   Il compito che mi sono attribuito in questa mia relazione è, invece, quello di
evidenziare ed analizzare giuridicamente gli aspetti della riforma che incidono più
direttamente sull'operato del Consulente del Lavoro, evitando ogni valutazione
politica o comunque lasciandola sullo sfondo del mio ragionamento.
   Per tentare una corretta analisi interpretativa è sempre necessario partire dalla
individuazione della ratio della normativa da esaminare. Nel caso in esame, questa
indagine, per essere davvero corretta non può essere condotta con riferimento ai
singoli provvedimenti ma deve necessariamente estendersi al complessivo e articolato
intervento riformatore che va sotto il nome di Jobs Act, nell'ambito del quale occorre
ricomprendere non solo la legge delega 183 del 2014 e i relativi decreti delegati
(alcuni dei quali sono ancora in “gestazione”) ma deve estendersi quanto meno anche
al cd. esonero contributivo triennale introdotto dai comma 118 ss. della legge di
stabilità 2015, la L. 190/2014. Su questo argomento, nei primi commenti apparsi sulla

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pubblicistica specializzata ma anche in quelli della migliore dottrina giuslavoristica
sono state proposte letture insoddisfacenti o addirittura fuorvianti. La finalità
perseguita dal legislatore con questa normativa non pare affatto quella di ottenere
significativi incrementi occupazionali o addirittura la riduzione del tasso di
disoccupazione. Un obiettivo del genere pare difficilmente perseguibile con meri
strumenti di tipo legislativo e comunque non traspare in alcun modo dal testo
normativo. Più convincente appare la lettura di chi ritiene che scopo dell'esonero sia
quello di realizzare una sorta di “bonifica” del mercato del lavoro italiano da tutta una
serie di forme ibride e precarie di occupazione che da tempo lo avevano, come dire,
“inquinato” creando notevoli problemi ai lavoratori più giovani ma anche alle stesse
aziende. Chi opera professionalmente nel mercato del lavoro italiano sa bene che
queste forme ibride, di lavoro cd. parasubordinato, hanno avuto una diffusione
davvero abnorme. Le aziende, infatti, e anche un po' i consulenti sono stati indotti ad
utilizzarle diffusamente solo perchè la legge le aveva in qualche modo “codificate”
fissando adempimenti amministrativi interni (buste paga, libro unico ecc.) ed esterni
(comunicazioni al centro per l'impiego) nonchè previdenziali, che li facevano
assomigliare sin troppo al lavoro subordinato. Per cui molti operatori hanno
trascurato il problema della natura effettiva del rapporto che, ovviamente, poteva
essere qualificato come parasubordinato solo se era di lavoro autonomo. In realtà,
co.co.co., co.co.pro. o associazioni in partecipazione sono state utilizzate al solo
scopo di ridurre o flessibilizzare il costo del lavoro specie nei periodi iniziali di
rapporti che avevano spesso palese natura subordinata. A tutto ciò si aggiunga l'uso
eccessivo e distorto dei contratti a termine e di quelli apprendistato, quest'ultimo
divenuto – nelle intenzioni a suo tempo espresse dallo legislatore del cd. testo unico –
addirittura il canale principale di accesso al mondo del lavoro.
    Queste forme atipiche di occupazione, oltre ad elevare fuori misura il tasso di
precariato nel nostro mercato del lavoro, si sono spesso rivelate vere e proprie
trappole micidiali per le stesse aziende in quanto l'attività ispettiva del Ministero del
Lavoro o degli enti previdenziali non è mai stata tenera quando è stata chiamata a
valutarne la legittimità.
    È questa palude di instabilità, di incertezze e di conflitti che il Jobs Act mira a
disboscare: più che creare nuova occupazione lo scopo del legislatore pare essere,
quindi, quello di migliorare la qualità e soprattutto la stabilità di quella esistente.
Questo obbiettivo appare evidente già dalla esclusione dall'esonero contributivo
triennale dell'apprendistato e dei contratti a termine ma si coglie meglio se si
considera l'intervento riformatore complessivo e quindi anche gli altri strumenti
messi in campo con il cd. Jobs Act: riduzione delle tutele contro i licenziamenti (solo
per i nuovi assunti, allo scopo di rendere ulteriormente più conveniente il lavoro a
tempo determinato); drastica stretta sulle forme contrattuali atipiche quali partite IVA.
associazioni in partecipazione e collaborazione parasubordinate.
    Questi obiettivi della riforma trovano piena conferma nel testo legislativo sia delle
legge delega 183/2014 sia nel comma 118 della legge di stabilità (il cui incipit recita
proprio: “Al fine di promuovere forme di occupazione stabile...”) ed è stata

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espressamente evidenziata anche nella circolare INPS, n. 17/2015.
   Certo quello appena esaminato non è l'unico obiettivo perseguito dalla riforma.
Evidente traspare anche l'intento di semplificare e flessibilizzare i vincoli e le tutele
nell'ambito del rapporto di lavoro, aumentando invece, almeno teoricamente, quelle
destinate a operare nell'ambito del mercato del lavoro (riforma degli ammortizzatori
sociali con la creazione della Naspi); ma, a mio avviso, l'obiettivo principale resta
quello di bonificare il mercato del lavoro e ricondurre ad unità le forme contrattuali.
Non è compito nostro, in questa sede, valutare né la bontà di tali obiettivi né la
congruità degli strumenti messi in campo per perseguirli; ma è certamente compito
nostro tenere conto di questa ratio legis al fine di interpretare correttamente le nuove
disposizioni.
   Prima di procedere all'esame dei singoli provvedimenti voglio tuttavia fornirvi
un'altra importante avvertenza d'uso. La riforma nel suo complesso è stata accolta
con sfavore dalla dottrina giuslavoristica (storicamente molto influenzata dalle
posizioni del sindacato confederale) e vista come un notevole “arretramento” rispetto
ai livelli di tutela che erano assicurati dalla disciplina previgente. La maggior parte
dei commentatori, quindi, si sta orientando verso un'esegesi dichiaratamente orientata
a “limitare i danni”, ossia a ridimensionarne la portata innovativa. Orientamento
interpretativo che poi finirà per influenzare inevitabilmente le pronunce della
giurisprudenza.
   Questo contrasto fra l’orientamento del legislatore e quello degli interpreti più
qualificati rappresenta un problema gravissimo per gli operatori professionali
(imprenditori e loro consulenti) i quali, nell’applicare quelle leggi, sono costretti a
fare anche un po' da indovini, dovendo tener conto della possibilità che sorgano e si
affermino opzioni interpretative molto restrittive, talvolta in non piena sintonia col
testo normativo, e per tentare di prevedere i problemi (e i rischi) che ne potrebbero
derivare alle aziende.
   Nel corso di questa mia relazione - tenendo anche conto del dibattito già emerso
nei primi convegni scientifici svoltisi sul tema - tenterò di aiutarvi ad individuare
alcune di queste “sorprese” che potrebbero emergere in sede interpretativa e le
possibili soluzioni prudenziali adottabili in via prudenziale.

   Il cd. contratto a tutele crescenti, ovvero la nuova disciplina dei licenziamenti
individuali e collettivi.
   È opportuno partire dal D. Lgs. 23/2015, quello, fra i due decreti delegati già in
vigore che pare destinato a introdurre le novità più importanti nel nostro mercato del
lavoro.
   La prima considerazione da fare è che si tratta di una disciplina destinata a
produrre effetti più ampi di quelli dichiarati poiché non è stato posto alcun limite
temporale alla sua vigenza (come ci si sarebbe aspettati tenendo conto dello scopo di
incentivare le assunzioni a tempo indeterminato) ed essa è destinata ad estendersi
progressivamente a tutta la platea dei lavoratori operanti sul nostro mercato del
lavoro. Il normale turn-orver già determinerebbe col tempo una progressiva

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estensione delle “tutele crescenti” man mano che i rapporti di lavoro oggi in essere
verranno via via sostituiti con nuove assunzioni. Ma c'è da giurare che, nel periodo
successivo all'entrata in vigore del nuovo decreto legislativo, il normale turn-over
subirà una accelerazione per la naturale tendenza degli imprenditori a far cessare i
rapporti in corso per sostituirli con quelli nuovi meno tutelati. Un argine contro
questa prevedibile tendenza era stato individuato dalla Commissione Lavoro della
Camera che aveva suggerito di escludere dal campo di applicazione del nuovo
decreto i rapporti di lavoro che rappresentassero la riproposizione di precedenti
rapporti già esistenti fra le medesime parti; ma il governo, titolare della funzione
legislativa delegata, non ha inteso raccogliere questo suggerimento.
   Nel decreto, anzi, sono presenti due norme che sono destinate ad estenderne gli
effetti anche su alcuni rapporti di lavoro preesistenti:
   1) l'art. 1, co. 2, infatti, estende la disciplina delle tutele crescenti anche ai rapporti
di lavoro costituiti a tempo determinato o in forma di apprendistato, prima
dell'entrata in vigore della riforma, e successivamente trasformati a tempo
indeterminato, dopo il decreto attuativo del Jobs Act;
   2) il successivo comma 3, la estende anche ai rapporti di lavoro costituiti
precedentemente in aziende che, a seguito delle nuove assunzioni (effettuate in
vigenza del decreto), abbiano superato i limiti dimensionali previsti come condizione
per l'applicazione dell'art. 18, L. 300/70. Quest'ultimo comma persegue
evidentemente lo scopo di incentivare la crescita dimensionale delle imprese,
evitando quegli assurdi fenomeni di nanismo aziendale indotto dalla legge, tipici del
nostro mercato del lavoro.
   Sotto questo profilo, alcune fra le prime analisi intervenute in sede scientifica
hanno ipotizzato una illegittimità costituzionale del decreto legislativo poichè
avrebbe ecceduto la delega di cui alla L. 183/2014; questa, all'art. 1, comma 7, lett.
c), autorizzava, infatti, il governo a regolare solo le “nuove assunzioni” e non gli
consentirebbe, quindi, di intervenire su contratti già stipulati prima della sua entrata
in vigore. Dico subito che una simile interpretazione della legge delega lo ritengo
piuttosto discutibile in quanto il riferimento operato dal legislatore alle “nuove
assunzioni” pare rigiardare chiaramente i contratti a tempo indeterminato e non certo
le varie forme di rapporti precari che in essi potrebbero convertirsi. A ciò si aggiunga
che scopo evidente della riforma pare proprio quello di incentivare la sostituzione dei
contratti precari con quelli stabili e non si vede perché tale incentivo non dovrebbe
operare anche nei confronti dei contratti precari già costituiti. Questa però è una di
quelle “trappole” di cui parlavo prima, specie tenendo conto dell'atteggiamento ostile
degli interpreti che rende elevato il rischio che la questione venga effettivamente
sollevata dinanzi alla Corte Costituzionale; e se questa l'accogliesse, magari a
distanza di anni, ne deriverebbe l'applicazione della disciplina generale sui
licenziamenti a quei contratti che si era creduto di stipulare “a tutele crescenti”.
   A questo punto, perciò, indipendentemente dalla fondatezza o meno della
questione, poiché le aziende hanno la possibilità di scegliere se operare la
conversione dei contratti a termine e di apprendistato ovvero far cessare quei rapporti

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per poi stipulare un nuovo contratto a tempo indeterminato, non pare proprio il caso
di correre il rischio ed è, quindi, consigliabile adottare la seconda soluzione.
   Restano espressamente esclusi dal campo di applicazione del Jobs Act i rapporti di
lavoro dei dirigenti.

   La disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi.
   Le novità introdotte riguardano, in particolare, le conseguenze sanzionatorie dei
licenziamenti illegittimi; al riguardo essa distingue quattro grandi gruppi:
    1) licenziamenti (individuali o collettivi) discriminatori, nulli o orali nonché
       licenziamenti intimati per inidoneità psico-fisica; [licenziamenti intimati per
       superamento del periodo di comporto].
    2) licenziamenti per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo per i quali
       sia stata direttamente provata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale
       contestato al lavoratore;
    3) altri casi di licenziamento individuale illegittimo nel merito, intimato per giusta
       causa e per giustificato motivo soggettivo (compresi quelli per i quali il fatto
       contestato sia stato accertato ma la sanzione espulsiva sia stata ritenuta
       eccessiva dal Giudice nonché tutti quelli intimati per giustificato motivo
       oggettivo, quelli collettivi illegittimi per violazione delle procedure o dei
       criteri di scelta dei licenziandi);
    4) licenziamenti ritenuti illegittimi per carenza di motivazione o per altri motivi
       formali o procedurali.

  Per ognuno di questi gruppi prevede una distinta reazione sanzionatoria
dell'ordinamento.

   Gruppo 1. Si tratta di licenziamenti giuridicamente nulli o addirittura inesistenti in
quanto affetti da gravissimi vizi di carattere sostanziale (intimati per motivi
discriminatori, ritorsivi ecc. o tali da incidere su diritto fondamentali del lavoratore
come persona, come il diritto alla salute) o formale (carenza di forma scritta). In
questi casi la sanzione è quella massima, corrispondente alla cd. tutela reale piena,
mirante cioè a ripristinare il rapporto di lavoro tenendo esente il lavoratore da
qualsiasi pregiudizio. Quindi: reintegrazione, pagamento integrale delle retribuzioni
arretrate (commisurata a quella utile ai fini del TFR, con limite minimo di 5 mensilità
e detrazione dell'aliunde perceptum) e dei relativi contributi.

   Gruppo 2. Sono i licenziamenti di natura disciplinare che incidono sulla dignità
personale e sull'immagine pubblica del lavoratore e che, per questo, sono assistiti
dalla cd. tutela reale parziale: reintegrazione, pagamento al lavoratore di una
indennità risarcitoria da zero a dodici mensilità retributive, versamento integrale agli
enti previdenziali dei contributi dovuti per tutto il periodo intercorso fra il
licenziamento e la reintegrazione (o la richiesta di indennità sostitutiva).

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Gruppo 3. Questo gruppo, per la verità appare disomogeneo in quanto comprende
tutti i tipi di licenziamento adottati nell'interesse dell'impresa (secondo la definizione
di pera) sia individuali che collettivi; e questo appare conforme alla lettera e alla ratio
della delega che, appunto, si riferiva a tutti i licenziamenti cd. economici, senza
alcuna distinzione e comunque è chiaramente orientata ad attenuare le sanzioni del
recesso che non incida su diritti del lavoratore in quanto persona (quelli dei due
gruppi precedenti, appunto). Comprende però anche i licenziamenti disciplinari
esclusi dal campo di applicazione del comma 2 e cioè quelli per i quali non sia stata
fornita prova del fatto contestato o – come meglio vedremo più oltre - non rientranti
proprio della relativa fattispecie. La tutela, per questo gruppo di licenziamenti è di
tipo meramente obbligatorio e implica il pagamento di una indennità risarcitoria, non
assoggettata a contribuzione previdenziale, crescente, cioè proporzionata all'anzianità
di servizio del lavoratore di importo pari a due mensilità per ogni anno di servizio del
prestatore, con tetto massimo di ventiquattro e minimo di quattro.

   Gruppo 4. una tutela ulteriormente attenuata è prevista, infine, per i licenziamenti
viziati sul piano meramente formale per carenza di motivazione (in violazione
dell'art. 2, co. 2 della L. 604/1966) o per mancato rispetto della procedura
disciplinare prevista dall'art. 7, L. 300/1970 (o, deve ritenersi, anche dalla
contrattazione collettiva). In tal caso, l'ammontare dell'indennità risarcitoria è fissato
fra un minimo di due e un massimo di dodici mensilità.

   Piccole imprese. La nuova disciplina non si sottrae comunque completamente
all'antico dualismo del mercato del lavoro derivante dalla dimensione delle imprese:
quelle che non raggiungono i (due) requisiti dimensionali previsti dall'art. 18, L.
300/70, infatti, restano assoggettate alla tutela reale piena prevista per il gruppo 1 (in
caso licenziamento nullo o orale) ma non a quella prevista per il Gruppo 2
(licenziamento disciplinare per fatto infondato). Gli importi della tutela obbligatoria,
infine, così come prevista per licenziamenti di cui ai Gruppi 3 e 4, per le piccole
imprese sono ridotti alla metà, con tetto massimo pari a sei mensilità.

  [SI VEDA LA TABELLA RIASSUNTIVA ALLEGATA]

    Organizzazioni di tendenza. Una importante novità rispetto al passato è
rappresentata dalla piena estensione della disciplina sanzionatoria a tutte le cd.
organizzazioni di tendenza (partiti, sindacati, enti religiosi ecc.) che in passato erano
sempre stati assoggettati a una tutela attenuata in ragione della speciale rilevanza che
il cd. intuitus personae assume nell'ambito dei rapporti di lavoro da esse costituiti.

  In relazione ai licenziamenti disciplinari occorre sottolineare che la nuova
normativa recepisce i primi orientamenti affermatisi in giurisprudenza sulla legge
Fornero in questi due anni trascorsi dalla sua emanazione. L’art. 3, II comma, del
decreto fa rientrare esplicitamente fra le ipotesi di tutela meramente obbligatoria

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anche i casi di licenziamento ritenuto illegittimo dal Giudice sulla base di una
valutazione di “non proporzionalità”. In tal senso si era espressa recentemente la
giurisprudenza della Cassazione (Cass. Sez. Lav. 06/11/2014 n. 23669) ritenendo che
il richiamo alla “insussistenza del fatto” operato dalla legge Fornero fosse da
intendersi, appunto, con riferimento al fatto materiale e non alla fattispecie giuridica.
Ciò, in parole povere, significa che se al lavoratore viene contestato un determinato
inadempimento e il Giudice accerta che il fatto materiale addebitato è realmente
accaduto e, purtuttavia, egli non lo ritiene abbastanza grave da giustificare il
licenziamento, a quel lavoratore verrà applicata la tutela meramente obbligatoria e il
datore di lavoro rischierà soltanto di pagare l’indennità di cui all’art. 3, I comma (due
mensilità per ogni anno di servizio, con un tetto minimo di quattro e uno massimo di
24). La disciplina generale (art. 18, come modificato dalla L. 92/2912), come è noto,
prevede invece un tetto minimo di 12 mensilità ed è, appunto, meno chiara sulla
disciplina applicabile al licenziamento ritenuto "non proporzionato". La riforma, in
buona sostanza, riduce la discrezionalità del giudice sia nella individuazione della
fattispecie tutelata sia nella determinazione dell’indennizzo. E ciò dovrebbe
comportare, presumibilmente, anche una riduzione dei contenziosi. È il caso di
rammentare che l’ANCL-SU, del resto, nel documento che aveva presentato al
Governo e ai Parlamentari (da tempo pubblicato anche sul sito istituzionale ANCL)
aveva espressamente richiesto una riduzione del tetto minimo di 12 mensilità che la
legge Fornero fissava irrazionalmente per tutti i casi di tutela obbligatoria e che
risultava palesemente eccessivo per le PMI.
   Rispetto a questo tipo di licenziamenti si è aperto tuttavia un rilevante contrasto
interpretativo derivante dal fatto che il D. Lgs. 23/2015, nel delineare le ipotesi in cui
esclude, in caso di licenziamento disciplinare illegittimo, la sanzione della
reintegrazione, non menziona più quella in cui il contratto collettivo o il codice
disciplinare aziendale puniscano il fatto contestato con una sanzione di tipo
conservativo. Da una lettura della norma strettamente legata al dato testuale si
potrebbe, quindi, ricavare la convinzione che la reintegrazione resti esclusa anche in
presenza di inadempimenti particolarmente lievi, sempre che il fatto materiale
contestato sia stato provato in giudizio (e sempre che esso costituisca un
inadempimento contrattuale). A titolo di esempio si può pensare a un ritardo di
mezz'ora nell'inizio del lavoro che costituisce certamente un inadempimento alle
obbligazioni derivanti dal contratto di lavoro ma rispetto al quale la sanzione del
licenziamento non potrebbe certo considerarsi adeguata; un lieve inadempimento del
genere è sicuramente sanzionabile secondo il CCNL e il codice disciplinare con una
sanzione molto meno grave del licenziamento. Ma, come abbiamo visto, il nuovo
decreto parrebbe escludere che il licenziamento illegittimo in quanto sproporzionato
possa essere sanzionato con la reintegrazione. Si potrebbe quindi pensare, appunto,
che la riforma escluda l'applicabilità della tutela reale anche in ipotesi di
inadempimento minimale, con conseguente applicazione della sola tutela obbligatoria
(che, come visto, nei primi anni di lavoro comporta il versamento di indennizzi
irrisori). Si potrebbe persino arrivare a ritene, come alcuni primi commentatori hanno

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fatto, che l'onere della prova del fatto materiale contestato, ai soli fini del giudizio
inerente la sanzione risarcitoria, sia onerato il lavoratore.
   Ma questa è appunto un'altra delle trappole di cui parlavo in premessa, poiché
nelle prime analisi critiche della riforma si sta facendo strada la tesi secondo cui una
simile lettura della norma si porrebbe in contrasto con la Costituzione o con i trattati
europei; conseguentemente da più parti sono stati preannunciati ricorsi alla Corte
Costituzionale e alla Corte di Giustizia Europea. Si stanno, quindi, ipotizzando da più
parti altre interpretazioni della norma che mirano ad estendere la reintegrazione ai
casi in cui il licenziamento sia stato comminato in fattispecie chiaramente sanzionate
dal codice disciplinare (aziendale o del CCNL) con provvedimenti di tipo
conservativo.
   Personalmente ritengo, ad esempio, che l'art. 3, co. 2, del D. Lgs. 23/2015 richieda
non solo che sia stato provato in giudizio il fatto contestato ma anche che quel fatto
integri comunque una fattispecie di licenziamento per giusta causa o per giustificato
motivo soggettivo; la norma infatti recita testualmente: “Esclusivamente nelle ipotesi
di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia
direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato”.
Prima di accertare, quindi, se il fatto materiale contestato sia stato provato è
necessario accertare se esso rientri nelle fattispecie tipizzate come g.c. o g.m.o..
Questo accertamento preliminare non può non essere condotto alla luce delle
disposizioni negoziali che individuano tali fattispecie e delle quali il giudice è
obbligato a tenere conto in forza del disposto dell'art. 30, comma 3, della L. 183/2010
(cd. collegato lavoro), che dispone: “Nel valutare le motivazioni poste a base del
licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato
motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati
comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove
stipulati con l'assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui al
titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive
modificazioni”. Il giudice, quindi, è chiamato a compiere un duplice accertamento:
innanzitutto a verificare se il fatto contestato rientra astrattamente fra le fattispecie
punite dal codice disciplinare con la sanzione del licenziamento e solo
successivamente dovrà accertare la veridicità del medesimo. Una volta accertata la
corrispondenza del fatto contestato ai casi di licenziamento e accertato che tale fatto è
realmente accaduto, gli resta inibita un terzo accertamento, quello inerente la
proporzionalità in concreto della sanzione espulsiva rispetto al fatto/inadempimento
contestato e accertato. In altre parole il giudizio di proporzionalità sottratto al giudice
è solo quello da realizzare “in concreto”, una volta accertato il fatto materiale e defini
i suoi contorni. Non è stata sottratta, invece, al giudice la valutazione della
sussumibilità di quel fatto nelle fattispecie punite dalla contrattazione collettiva con il
licenziamento. Per fare un esempio concreto. Poniamo che il CCNL disponga che il
furto sia punito col licenziamento e che l'azienda abbia contestato appunto un furto
che poi venga provato in giudizio. A quel punto il giudice, ove ritenga che rispetto a
quel quel furto il licenziamento sia sanzione sproporzionata, potrà annullare il

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licenziamento ma non potrà applicare la reintegrazione. Se invece il fatto contestato è
un piccolo ritardo, il giudice potrà escludere anche la reintegrazione ritenendo che
esso esuli dalle fattispecie anche astrattamente punibili alla luce del medesimo codice
disciplinare aziendale.
   Indipendentemente, però, dalla fondatezza di tali rilievi e di tali orientamenti
esegetici, tenendo anche conto dell'atteggiamento complessivo di dottrina e
giurisprudenza il consiglio prudenziale che si può dare è quello di usare l'arma del
licenziamento disciplinare, anche in questi rapporti a tutele crescenti, con buon senso
e misura. In particolare, pare consigliabile rimanere comunque nei limiti del potere
disciplinare così come delinati dal codici disciplinari evitando fughe in avanti che
potrebbero rivelarsi rischiose.
   Del resto anche alla luce dei principi generali relativi alla esecuzione secondo
correttezza e buona fede del contratto di lavoro – e nell'ottica di una moderna
gestione delle risorse umane - mi pare opportuno che il lavoratore debba poter
contare sulla tutela reale tutte le volte che il licenziamento violi palesemente le regole
che lo stesso imprenditore si è autoimposto redigendo – in sede collettiva o aziendale
– le norme del codice disciplinare.

   Ai contratti a tutele crescenti non si applica la speciale procedura di conciliazione
preventiva fissata dall'art. 7 della L. 604/1966 per i licenziamenti intimati per
giustificato motivo oggettivo ed introdotta dalla Legge Fornero. Questa eliminazione
appare il segno dell'ennesimo fallimento delle procedure deflattive del contenzioso
affidate agli uffici periferici del Ministero del Lavoro molti dei quali, in questo
periodo di prima applicazione, si erano distinti per una eccessiva ingerenza
nell'autonomia negoziale delle parti e, in particolare, nella determinazione dei
contenuti dei verbali di conciliazione; cosa che aveva rappresentato l'ennesimo
esempio di appesantimento burocratico non previsto dalla legge e aggiunto in sede
amministrativa.
   La disciplina della revoca del licenziamento non presenta novità rispetto alla
disciplina di carattere generale come modificata dalla cd. legge Fornero.
   Interessante, seppur farraginosa, è anche l’offerta di conciliazione disciplinata
dall’art. 6. Essa, in sostanza, consentirà di conciliare le liti in materia di
licenziamento escludendo da imposizione fiscale e previdenziale le somme da versare
al lavoratore. Una richiesta simile aveva avanzato anche l'ANCL nel menzionato
documento presentato alle forze politiche laddove aveva proposto di esentare da
imposizione fiscale e previdenziale i versamenti che trovino origine nei verbali di
conciliazione, al fine di incentivare la definizione non contenziosa della controversie.
È prevedibile che questa norma, anche perché impone tempi molto celeri al tentativo
di conciliazione (l’offerta deve essere formulata entro 60 giorni dal licenziamento),
risulti efficace e possa costituire un utile incentivo alle conciliazioni. È prevedibile
anche che in questa causale finiscano pure somme derivanti da rivendicazioni di altro
tipo (differenze retributive, straordinari, ecc.).
   Un'altra novità molto importante è il dibattutissimo assoggettamento alla tutela

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meramente obbligatoria dei licenziamenti collettivi, in caso di violazione delle
procedure o dei criteri di scelta. Resta fuori solo l'ipotesi del licenziamento collettivo
privo di forma scritta che sarà ovviamente sanzionato con la tutela reale piena, come
ogni licenziamento orale. L'ANCL si era più volte espressa, nel corso dell'iter
legislativo per questa soluzione, ritenendo che la genericità dei criteri di scelta fissati
dalla legge o dalla contrattazione collettiva renda tali procedure eccessivamente
rischiose per aziende che già si trovano in difficoltà. Prevedere, del resto, la
reintegrazione per la violazione dei criteri di scelta significa innescare una sorta di
guerra fra poveri, poiché, non essendo in discussione la giustificatezza di quel dato
numero di esuberi, si tratterebbe solo di individuare i licenziandi; con la conseguenza,
quindi, che la reintegrazione di alcuni comporterebbe inevitabilmente il
licenziamento di altri. La tutela di tipo risarcitorio, in questi casi, appare più adatta in
quanto viene incontro agli interessi dei lavoratori che hanno fatto causa senza
danneggiare gli altri. Il problema, del resto, sembra già risolto nella delega che
esclude dalla reintegrazione tutti i licenziamenti economici, senza operare alcuna
distinzione, e quindi con chiaro riferimento anche ai licenziamenti collettivi. Se il
decreto delegato avesse mantenuto la reintegrazione per questi ultimi avrebbe, quindi,
con tutta probabilità, violato la delega conferita dal Parlamento.
   Un problema che la riforma lascia del tutto aperto, ed è la terza e ultima delle
trappole, è quella della sanzione applicabile al licenziamento per superamento del
periodo di comporto. La giurisprudenza ha da tempo stabilito che tale fattispecie non
rientra né nella giusta causa né nel giustificato motivo (oggettivo o soggettivo). La
legge Fornero lo aveva inserito fra le fattispecie sanzionate con la tutela reale parziale
così come quello per inidonietà psico-fisica. Ora il D. Lgs. 23/2015 non ne parla
affatto mentre ha assoggettato alla tutela reale piena (la medesima prevista per i
licenziamenti nulli) il licenziamento per inidoneità. Un'omissione del tutto
inspiegabile. Qualcuno ha parlato di malafede ma compito dell'interprete non è quello
di psicanalizzare il legislatore bensì quello di porre rimedio alle sue lacune. Vi sono
stati alcuni commentatori - di quelli che scrivono il giorno prima dell'entrata in vigore
della legge sui maggiori quotidiani economici o su siti particolarmente frequentati
anche dai consulenti del lavoro - i quali hanno sostenuto che il licenziamento per
superamento del periodo di comporto potesse essere assimilato al g.m.o. e quindi
assoggettato alla tutela meramente obbligatoria. È mio dovere segnalare che, invece,
nei primi commenti di carattere scientifico la dottrina pare in maggioranza orientata a
riesumare la figura della nullità per contrasto con norma imperativa di legge (l'art.
2110 cod. civ., che vieta di licenziare prima che sia decorso il comporto). Negli anni
scorsi, a dire il vero, la giurisprudenza aveva escluso che questo tipo di licenziamento
potesse essere ritenuto invalido, ma nulla impedisce che, alla luce della nuova legge,
questo orientamento possa essere modificato. La pericolosità del licenziamento per
comporto, dunque, non va minimamente sottovalutata poiché se dovesse affermarsi al
tesi della nullità ex art. 1428 cod. civ. ciò comporterebbe il diritto del lavoratore
licenziato al pagamento di tutte le retribuzioni maturate fino al ripristino del rapporto,
con i relativi contributi, maggiorati di sanzioni (per evasione). Il licenziamento per

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superamento del periodo di comporto va utilizzato quindi con estrema e, anzi,
maggiorata prudenza. Nè si pensi che si tratta di un licenziamento molto semplice e
privo di rischi derivando da meri calcoli matematici: le aule giudiziarie sono piene di
cause in cui si discute di cosa si intenda per anno solare o anno civile, della
computabilità dei giorni non lavorativi intercorrenti fra i vari periodi di malattia, del
tempo massimo entro cui il licenziamento deve essere adottato (cd. spatium
deliberandi ecc.).
   Del tutto inspiegabile, infine, risulta la decisione del legislatore di non applicare ai
“nuovi” licenziamenti il rito processuale introdotto dagli art. 48-68 della L. 92/2012
(legge Fornero) che assicura una corsia preferenziale e un rito abbreviato alle cause
che abbiano ad oggetto un'impugnativa di licenziamento. Si tratta di un istituto
processuale che sta ormai andando "a regime" e ha provocato una nettissima
riduzione dei tempi processuali occorrenti per arrivare a un provvedimento esecutivo
nelle controversie, con reciproco evidente vantaggio sia per i lavoratori che per le
aziende. Su questo punto le raccomandazioni dell’ANCL, purtroppo, non sono state
ascoltate e ora il danno sarà soprattutto per i lavoratori che dovranno attendere anni
(come avveniva in passato) per essere reintegrati o risarciti. Le aziende sono, invece,
ormai parzialmente al riparo dal rischio di un eccessivo dilatarsi degli importi
risarcitori (derivante dal protrarsi delle cause) in virtù dei tetti massimi ora fissati
dalla legge ai risarcimenti.
   Nei rapporti di lavoro sorti prima della riforma continuerà, invece, ad applicarsi sia
il vecchio art. 18 sia il processo accelerato, creandosi così un dualismo davvero
inspiegabile.

   L'esonero contributivo triennale ex art. 1, co. 118 ss. della L. 190/2014
   Consentitemi di esprimere qualche breve considerazione anche sull'esonero
contributivo.
   Il primo rilevante problema esegetico concerne la riutilizzabilità del beneficio
con il medesimo lavoratore in caso di sua assunzione da parte di altro datore di
lavoro. Il caso è quello del lavoratore assunto con l'esonero ma licenziato prima dello
scadere dell'anno di riferimento il quale venga assunto, sempre nel corso del 2015, da
un datore di lavoro diverso dal precedente.
   Durante il travagliato iter legislativo della legge di stabilità, da più parti, era stato
segnalato il rischio che la norma in esame potesse essere interpretata nel senso di non
consentire tale possibilità. La norma recita infatti: “L'esonero ... non spetta con
riferimento a lavoratori per i quali il beneficio di cui al presente comma sia già stato
usufruito in relazione a precedente assunzione a tempo indeterminato”. Erano stati
quindi presentati anche diversi emendamenti volti ad aggiungere a questo periodo la
frase “con lo stesso datore di lavoro”, in modo da chiarire, in modo inequivoco, la
possibilità di riutilizzazione del medesimo esonero in caso di successiva assunzione
presso altro datore di lavoro. Diversi di questi emendamenti erano stati “suggeriti”
dall'ANCL, tramite il suo ufficio legale ed erano stati fatti propri da diversi deputati
che poi li avevano formalizzati. Purtroppo tali emendamenti, insieme a tutti gli altri di

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origine parlamentare, sono sistematicamente decaduti a causa della reiterata
presentazione della questione di fiducia da parte del Governo; per cui il problema ora
è rimesso all'interprete.
   Si tratta di un tema particolarmente delicato in quanto ne potrebbero derivare
conseguenze rilevanti in termini di segmentazione del mercato del lavoro o
addirittura di discriminazione fra lavoratori.
   Occorre chiedersi, in definitiva, se un lavoratore assunto con l'esonero e
successivamente licenziato, possa essere riassunto, con l’esonero contributivo, una
volta riaccumulati i sei mesi di disoccupazione, presso altro datore di lavoro. Il
testo legislativo pare fornire a questa tesi elementi di conforto poiché l’esclusione di
cui alla seconda parte del secondo periodo del comma 118, può ben essere riferita ad
assunzioni effettuate presso il medesimo datore di lavoro visto che solo nella prima
parte di quel periodo si fa riferimento alle assunzioni effettuate presso “qualsiasi
datore di lavoro”, specificazione questa che non ricorre, invece, nella seconda parte
del medesimo periodo con riferimento alla fruizione ripetuta del beneficio. Ma è
soprattutto, appunto, la ratio legis a confortare l’esegesi proposta poiché, se l'esonero
è riconosciuto non al lavoratore bensì all'azienda per incentivarla alla stabilizzazione
dei rapporti di lavoro, quest'ultima non può minimamente essere penalizzata da
precedenti rapporti di lavoro di quel medesimo prestatore ma di cui essa potrebbe
anche non essere a conoscenza.
   Del resto, accumulando gli altri sei mesi di disoccupazione, quel lavoratore si
troverebbe nuovamente in quella condizione di difficile collocabilità che costituisce il
presupposto fondamentale per la fruizione integrale dell’incentivo in questione.
Nell'ambito della finalità principale che, come si è detto, è quella di incentivare la
stabilizzazione dei rapporti di lavoro, infatti, l'esonero di cui all'art. 1, comma 118 ss.,
della L. 190/2015, persegue anche chiaramente una finalità secondaria (non in ordine
di importanza) che è quella di aiutare l'occupazione di quei lavoratori che trovino
difficoltà nella collocazione o ricollocazione lavorativa (e che per questo siano
rimasti senza stabile occupazione da oltre sei mesi). Ebbene, non si vede per quale
ragione quel medesimo lavoratore non possa essere aiutato più di una volta se dopo
una primo periodo incentivato venga nuovamente a trovarsi in difficoltà e perchè mai
debba, al contrario, trovarsi “penalizzato” rispetto agli altri lavoratori.
   Può quindi ritenersi che, quel lavoratore possa essere assunto da qualsiasi altro
datore di lavoro purchè nell'intervallo fra il primo e il secondo rapporto abbia
riacquisito l’anzianità di disoccupazione di sei mesi con diritto – del secondo datore
di lavoro - ad usufruire del periodo completo (36 mesi) di esonero contributivo.
   Questa tesi ha trovato pieno conferma persino nella circolare n. 17/2015 dell'INPS.
   Il ragionamento può essere spinto, però, a mio avviso, anche oltre arrivando a
domandarsi se l'esonero possa essere concesso, almeno in parte, anche al datore di
lavoro che assuma il lavoratore già occupato in precedenza con l'esonero, presso altro
datore di lavoro, senza aver maturato fra il primo e il secondo rapporto i sei mesi di
disoccupazione, ma per un periodo inferiore ai trentasei mesi, ciò al fine di
completare il periodo di esonero contributivo previsto dalla legge.

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Sul punto, il testo legislativo non pare porre ostacoli insuperabili in quanto dispone
che l’esonero “non spetta con riferimento a lavoratori per i quali il beneficio di cui al
presente comma sia già stato usufruito”, laddove appare però ragionevole e conforme
a giustizia intendere tale participio passato (usufruito) come riferito al beneficio
integrale consentendo quindi di ritenere che l’impedimento alla seconda fruizione
sorga solo quando il beneficio sia stato in precedenza goduto in modo completo. E’
allora possibile riconoscere, al datore di lavoro che assuma quel lavoratore, il diritto
di usufruire dell’esonero anche se solo per la parte residua non goduta dal precedente
datore di lavoro. Su questo punto la circolare INPS non offre alcuna conferma per cui
è opportuno procedere con prudenza.
   In ordine alla individuazione del soggetto beneficiario non sorgono invero
particolari problemi poiché la norma si riferisce indifferentemente a tutti i datori di
lavoro, non assumendo rilevanza la natura imprenditoriale o meno dell'attività svolta,
come invece accadeva, secondo l'interpretazione corrente, con la vecchia e ora
abrogata, L. 407/1990. Ne sono escluse le pubbliche amministrazioni ma la circolare
INPS opera a questo riguardo una condivisibile apertura esegetica in favore degli enti
pubblici economici che, del resto erano pacificamente destinatari anche del beneficio
pieno di cui alla L. 407/90.
   Qualche discussione è sorta in ordine alle condizioni da rispettare per ottenere il
beneficio. In particolare si è dubitato se all'esonero si applichino solo le condizioni
espressamente sancite dal comma 118 (oltre alle già menzionate anzianità di
“disoccupazione” e non fruizione in precedenza del beneficio la norma sancisce
espressamente la incumulabilità con altri benefici, e richiede l’inesistenza di
precedente assunzione a tempo indeterminato nei tre mesi precedenti l'entrata in
vigore della legge anche presso aziende del medesimo gruppo societario) o si
applichino anche le ulteriori condizioni di carattere generale sancite dalla legge
Fornero per tutti gli incentivi (inesistenza di un preesistente obbligo legale o
contrattuale di effettuare l'assunzione incentivata; non violazione del diritto di
precedenza, stabilito dalla legge o dal contratto collettivo, alla riassunzione di un
altro lavoratore; inesistenza di sospensioni dal lavoro connesse ad una crisi o
riorganizzazione aziendale; inesistenza di un precedente rapporto di lavoro da parte di
altra azienda appartenente al medesimo gruppo societario) nonchè quelle sancite dal
comma 1175 dell'art. 1, L. 296/2006 per ogni beneficio (diritto al DURC e rispetto
del contratto collettivo di categoria).
   A questo proposito, in alcuni interventi nella pubblicistica si era dubitato
dell'applicabilità di tali ulteriori condizioni, fissate da altre fonti normative, in ragione
della particolare natura dell'istituto previsto dalla legge 190/2014 che dalla medesima
legge viene qualificato come esonero e non come beneficio contributivo. Ora, a parte
la difficoltà oggettiva di fondare una netta linea di demarcazione fra beneficio ed
esonero contributivo nella nostra farraginosa legislazione previdenziale, ciò che pare
tagliare la testa al proverbiale toro è che la l'art. 4, co. 12 della L. 92/2012 non parla
né di benefici né di esoneri bensì di “incentivi all'assunzione” definizione che si
sposa pienamente con l'incipit del comma 118 che, come già rilevato, recita

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testualmente: “Al fine di promuovere forme di occupazione stabile”. Ne deriva
l’inevitabile applicazione al nuovo esonero anche delle condizioni fissate dalla
Fornero. Qualche problema in più si pone in relazione al comma 1175 che invece si
riferisce ai benefici; ma, francamente, dubitare che un'agevolazione così rilevante
come quella sancita dal comma 118 in esame debba essere condizionata alla
correntezza contributiva dell'azienda e al rispetto del trattamento previsto dalla
contrattazione collettiva mi pare avventato non solo sul piano sistematico ma anche
su quello strettamente testuale poiché tali obblighi sono sanciti da numerose altre
norme dell'ordinamento vigente (solo per fare qualche esempio, penso all'art. 6,
comma 9, del DL 338/1989 e all'art. 36 della L. 300/1970).
   Al riguardo la circolare n. 17 dell'INPS si esprime con nettezza precisando
opportunamente che ai criteri fissati direttamente dalla L. 190 deve riconoscersi il
carattere della specialità con conseguente loro prevalenza rispetto a quelli di carattere
generale fissati dalle altre leggi.
   Abbastanza pacifica appare, inoltre, la tesi secondo cui un precedente rapporto di
lavoro a tempo determinato o in somministrazione o altre forme di lavoro non
subordinato intercorsi nei sei mesi precedenti, non impediscano la fruizione
dell'esonero; tanto in ragione del chiaro dettato testuale che esclude solo i “lavoratori
che nei sei mesi precedenti siano risultati occupati a tempo indeterminato”.
   Per quanto riguarda il lavoro intermittente, la circolare INPS esclude che quel
tipo di assunzione possa dare diritto all'esonero, attesa la sua sostanziale precarietà.
Per la medesima ragione, a contrariis, la stessa circolare esclude che tale rapporto di
lavoro, ove sia intercorso nei tre mesi precedenti l'entrata in vigore della legge di
stabilità 2015, possa impedire l'insorgenza del diritto all'esonero. Aggiungerei, con
relativa tranquillità, che, per le stesse ragioni, ove tale rapporto di lavoro intermittente
intercorra nel periodo di sei mesi precedente l’assunzione, non interrompa l'anzianità
di “disoccupazione” e non possa quindi essere di ostacolo all'esonero.

   D. Lgs. 4 marzo 2015, n. 22: la NASPI e i lavoratori licenziati per motivi
disciplinari
   Poche osservazioni sull'altro decreto legislativo già entrato in vigore in materia di
ammortizzatori sociali che ha introdotto la Naspi, il nuovo istituto di sostegno del
reddito dei lavoratori disoccupati che dal 1° maggio 2015 ha sostituito l'Aspi.
   La nuova normativa sembra aver disegnato in modo significativamente diverso il
campo di applicazione dell'istituto assistenziale. Essa ribadisce innanzitutto (all'art. 3,
comma 1) una disposizione già contenuta nella legge Fornero (art. 2, co. 4, L.
92/2012) secondo cui la Naspi è destinata ai soli lavoratori che abbiano perduto
involontariamente la propria occupazione, con ciò ribadendo un principio
storicamente presente da sempre nella disciplina legislativa dell'indennità di
disoccupazione.
   Non viene però riproposta nella nuova norma la disposizione contenuta nell'art. 2,
co. 5, della legge Fornero laddove si escludevano espressamente dal campo di
intervento dell'Aspi solo i casi di dimissioni e risoluzione consensuale intervenuta

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nell'ambito della procedura conciliativa “preventiva” prevista dall'articolo 7 della
legge 15 luglio 1966, n. 604, in materia di licenziamento per giustificato motivo
oggettivo. Sulla base di tale formulazione il Ministero del Lavoro e l'INPS avevano
riconosciuto l'Aspi anche ai lavoratori licenziati per motivi disciplinari i quali, pur
non potendo ritenersi - a mio avviso - disoccupati involontari, non erano
espressamente menzionati dalla norma fra i casi di esclusione. I datori di lavoro,
quindi, si erano trovati a dover versare il contributo Aspi anche in favore di lavoratori
resisi responsabili di comportamenti inadempienti talmente gravi da giustificare il
loro licenziamento in tronco. E l'INPS si trovava a versare l'Aspi anche in favore di
lavoratori che non avevano certo dimostrato ... attaccamento al proprio posto di
lavoro.
    Contro questa situazione normativa si erano levate alcune voci (poche per la
verità) e tra queste la nostra Associazione che aveva fortemente sollecitato il Governo
a rimediare a questa assurdità con il Jobs Act (si veda il corposo documento
presentato al Parlamento e al Governo nel corso dell'iter legislativo).
    Ebbene, il testo del decreto legislativo n. 22/2015 sembra venire incontro a tali
doglianze, poichè omette proprio la disposizione “incriminata” sulle esclusioni, il cui
testo è ora volto in positivo, non prevede più esclusioni e si limita a stabilire che “la
NASpI è riconosciuta anche ai lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni per
giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta
nell'ambito della procedura di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604”.
Coniugando questa nuova norma con il principio, rimasto immutato, secondo cui
l'evento tutelato è solo la disoccupazione involontaria, ne consegue a mio avviso che i
lavoratori licenziati per motivi disciplinari (cioè per giusta causa o per giustificato
motivo soggettivo) non rientrano tra i beneficiari della Naspi e che,
conseguentemente, in occasione di tali licenziamenti non si dovrebbe neanche versare
il relativo contributo straordinario.
    In questo modo, la normativa in materia di indennità di disoccupazione,
tornerebbe a riacquisire quella coerenza interna che la legge Fornero aveva alterato.
    Ebbene, pochi giorni dopo le Osservazioni diffuse dall'Ufficio Legale ANCL la
CISL ha presentato sull'argomento un esplicito interpello al Ministero del lavoro che
ha risposto con l'atto n. 15 del 2015. Una risposta nettamente negativa che non ci
convince affatto. Il Ministero, infatti, pur prendendo atto della significativa
variazione intervenuta nel testo normativo, finisce evidentemente per ritenerla …
priva di significato, in quanto conclude ugualmente per l'inclusione dei lavoratori
licenziati per motivi disciplinari fra i beneficiari della Naspi.
    Non convincono in particolare le argomentazione utilizzate che, riprendono
sostanzialmente quelle già articolate nel precedente interpello n. 29 del 2013. Il
Ministero, infatti, ritiene che la natura disciplinare del licenziamento non possa far
ritenere di carattere volontario lo stato di disoccupazione del licenziato e attribuisce
rilevanza al fatto che la cessazione del rapporto derivi da un esercizio discrezionale
del potere disciplinare del datore di lavoro il quale potrebbe anche decidere di non
sanzionare l'inadempimento del prestatore. Sottolinea inoltre l'eventualità che il

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licenziamento possa anche essere annullato in sede giudiziale.
    Tali argomentazioni appaiono non solo insoddisfacenti ma anche dettate da una
concezione dei rapporti di lavoro che pare risentire di una pregiudiziale pro-labour
che, soprattutto in un caso del genere, è del tutto ingiustificata.
    Per quanto riguarda il primo aspetto, infatti, non si comprende come la
discrezionalità del potere disciplinare del datore di lavoro possa influire sulla natura
volontaria o involontaria dello stato di disoccupazione del prestatore che si sia resto
responsabile di una grave inadempienza. L'esercizio del potere disciplinare, infatti,
non interrompe il rapporto causale fra il comportamento inadempiente del lavoratore
e il suo stato di disoccupazione che da esso deriva, invece, con nesso diretto. In altre
parole, un lavoratore che ruba, aggredisce o compie atti simili, non può certo dire che
si ritrova senza lavoro per colpa o per decisione del suo datore di lavoro!
    Anche l'eventualità che il licenziamento sia successivamente annullato iussu
iudicis, appare irrilevante poiché, finchè non intervenga un provvedimento esecutivo
di annullamento, il licenziamento intimato è atto valido e produce i suoi effetti
interruttivi sul rapporto di lavoro. Del resto, se il licenziamento dovesse essere
annullato si determinerebbe una situazione del tutto nuova rispetto alla quale rivedere
il diritto alla Naspi: se interviene la reintegrazione il lavoratore non sarà più
disoccupato; se egli ottiene, invece, una tutela meramente obbligatoria, avrà diritto
indubbiamente alla Naspi.
    In ogni caso, anche a voler seguire per un momento il ragionamento del Ministero,
si dovrebbe escludere dalla tutela quanto meno il lavoratore licenziato per motivi
disciplinari che abbia rinunziato a impugnare il licenziamento (o esplicitamente o,
tacitamente, facendo decorrere il termine di decadenza).
    Ciò che soprattutto il Ministero non pare considerare è che il trattamento
assistenziale in esame è in misura rilevante finanziato con un contributo straordinario
posto a carico del datore di lavoro e che appare estremamente iniquo pretendere tale
contributo in riferimento a un lavoratore che si sia reso responsabile di condotte
altamente riprovevoli contro il datore di lavoro.
    In attesa che la situazione interpretativa si chiarisca, come Ufficio Legale
riteniamo opportuno che il versamento contributivo Naspi, in caso di lavoratore
licenziato per motivi disciplinari, sia prudenzialmente effettuato ma
accompagnandolo con una formale riserva di ripetizione che si potrà
successivamente far valere dinanzi al Giudice del lavoro.

   La bozza di decreto sulle tipologie contrattuali
   Gli altri decreti licenziati in bozza dal consiglio dei ministri non sono ancora stati
approvati definitivamente e non è il caso che ci impegniamo in analisi interpretative
di testi che potrebbero subire modifiche anche significative.
   Le commissioni Lavoro di Camera e Senato hanno formulato infatti pareri
favorevoli per entrambi i decreti (quello sulle tipologie contrattuali e quello sulla
conciliazione delle esigenze di cura, vita e lavoro) ma corredandolo di numerose
osservazioni e suggerimenti. Non è dato, quindi, prevedere quante di queste saranno

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accolte anche perchè il clima che accompagna questi nuovi due decreti è molto meno
teso di quello che ha generato i primi due e ciò potrebbe favorire l'accoglimento di
alcune proposte parlamentari.
   Mi preme tuttavia dire qualcosa su un aspetto di quello sulle tipologie contrattuali
che difficilmente potrà cambiare.
   Esso contiene infatti una ardita operazione di trasformazione di co.co.pro., partite
IVA e associazioni in partecipazione che credo porrà delicati problemi giuridico-
interpretativi.
   Partiamo dalle collaborazioni coordinate e continuative che fino ad oggi si
distinguevano in co.co.co. e co.co.pro.. Ebbene, proprio questa distinzione è
destinata, a quanto pare, a scomparire poiché la riforma elimina la normativa posta
dalla legge Biagi (D. lgs. 276/2003) che imponeva la presenza dei famosi progetti.
Con l'entrata in vigore del nuovo decreto legislativo, infatti, secondo il combinato
diposto degli artt. 47 e 49, non sarà più possibile stipulare contratti a progetto ma solo
contratti di collaborazione coordinata e continuativa ai sensi dell'art. 409 n. 3 cod.
proc. civ.. Le norme sui contratti a progetto, ai sensi del menzionato art. 49,
continueranno ad essere applicate ai soli contratti di collaborazione già stipulati prima
dell'entrata in vigore della riforma. Per le nuove stipule non sarà necessario alcun
progetto e il contratto, quindi, potrà essere regolato anche a tempo indeterminato.
   La riforma, tuttavia, introduce una rilevantissima novità in ordine alla disciplina
applicabile in quanto, con una norma che sicuramente farà discutere a lungo i giuristi
del lavoro, sancisce, d'un colpo, l'applicabilità a una parte di tali contratti di lavoro
“parasubordinato” (così si definivano una volta) l'intero corpus normativo del diritto
del lavoro posto a tutela del lavoratore subordinato. In pratica, viene così a perdere
importanza la ricostruzione di quella che fin'ora veniva considerata come la
“fattispecie tipica” del diritto del lavoro, ossia il contratto di lavoro subordinato, sulla
cui definizione la dottrina e la giurisprudenza giuslavoristiche, negli ultimi cento
anni, hanno speso le loro migliori energie. Nella aule universitarie fin'ora si è sempre
sottolineata l'importanza fondamentale della distinzione fra lavoro subordinato e
lavoro autonomo (o associato) poiché quello era il confine su cui erano destinate a
combattersi tutte le battaglie giudiziarie ingaggiate per decidere se a un determinato
prestatore di lavoro spettasse la tutela “forte” via via introdotta dalla legge e dalla
contrattazione collettiva sul piano retributivo, normativo e previdenziale in favore dei
lavoratori dipendenti. Fino a un recente passato, l'esito di tali battaglie determinava
l'applicazione o l'esclusione totale di quella tutela. Più recentemente, ai rapporti di
collaborazione autonoma caratterizzati dai requisiti di cui all'art. 409 n. 3 c.p.c., era
stata assicurata una tutela crescente di carattere soprattutto previdenziale e
amministrativo, di livello comunque nettamente inferiore a quella assicurata dei
lavoratori dipendenti. Ora, sotto questo profilo, cambia tutto o quasi, in quanto quella
linea di confine viene spostata molto al di là della fattispecie del lavoro subordinato
la cui individuazione, quindi, è destinata perdere molta della sua importanza. Il nuovo
confine passa, invece, all'interno dell'art. 47 del nuovo decreto che introduce una
distinzione destinata ad acquisire enorme rilevanza: quella fra co. co. co. dotati dei

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