ITALIA, COME IL PAESE DEI MIRACOLI E' FINITO AL CRACK
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ITALIA, COME IL PAESE DEI MIRACOLI E' FINITO AL CRACK Ogni tanto affiora la domanda: i nostri guai risalgono ad oltre quarant’anni fa o ad anni più recenti? Per una risposta immediata basta rifarsi ai maggiori indicatori economici: il tasso di crescita, il tasso di inflazione, il deficit di bilancio e il tasso di indebitamento rispetto al PIL. Anche la stabilità del tasso di cambio riveste una notevole importanza visto che nell’era del dopo Maastricht, non sono pochi quelli che rimpiangono la “belle epoque” dei cambi flessibili che consentivano svalutazioni monetarie salvatutto. Nel corso del tempo, utilizzando tutti questi strumenti di politica nazionale, si è riusciti a conciliare fino a metà degli anni ’90 un tasso di crescita soddisfacente, accompagnato da un livello di occupazione stabile al costo di tassi di inflazione per lungo tempo intorno alle due cifre e nell’ultimo periodo (1985-1993) accompagnato da tassi, via via decrescenti verso il 3-4% annuo. In deciso, costante peggioramento però, sia i deficit annuali, sia l’indebitamento rispetto al PIL. Per decenni siamo stati considerati un Paese ballerino, sempre sull’orlo del baratro, senza tuttavia precipitarvi mai. In un incontro internazionale, (a cavallo ’70-’80) il solito americano dai giudizi impietosi, mi disse: ah, gli italiani! Il Paese dei miracoli! Vuoi dire, replico io, il miracolo economico degli anni ’50-’60? No. Parlo del miracolo di adesso, anni ’70- ’80 perchè nessuno capisce come fate a stare in piedi. Detto questo vale la pena di riprendere il discorso al momento in cui nacquero i primi segni di una danza spericolata, fortunatamente mai conclusasi sprofondando nel baratro. Dalla metà degli anni ’50 in avanti nasce il problema politico di allargare le basi della democrazia. Si trattava di aprire le porte al partito socialista come forza di Governo. Una esigenza più che fondata che ha trovato il largo consenso degli italiani e soprattutto di noi giovani (tali eravamo all’epoca) militanti nella CISL. Sul piano sindacale da anni erano vistosi i contatti diretti con la componente socialista della CGIL ma anche con l’ala riformista della componente comunista o di altra estrazione. La presenza del partito socialista come forza di Governo appariva e se ne ebbe la
conferma, come un mezzo di garanzia delle libertà democratiche, del consolidamento delle istituzioni democratiche e la costruzione di una società articolata e pluralista in un contesto di valori solidaristici. In particolare nell’area socialista emergevano due distinte strategie e condizioni per assumere responsabilità di governo. Una prima linea strategica consisteva nell’idea di adottare una linea di Programmazione economica. La seconda linea era quella di proporre soluzioni per uno sviluppo di un capitalismo non fondato sul profitto. Sulla Programmazione economica, c’era una base comune di convergenza rappresentata dal Piano Vanoni espresso dalle forze più attive della DC, largamente condiviso dalla CISL che vi apportò significativi contributi in ogni sede operativa. La seconda prospettiva conteneva indubbi elementi di fascino e Riccardo Lombardi (una eminente figura di catto-socialista) trascinava l’entusiasmo di tutta l’ala progressista e giovanile interessata a respingere sia il modello della Pianificazione burocratica sovietica, sia il modello americano di un capitalismo pilotato dalla dinamica del profitto. I livelli di profitto trascinavano le scelte di investimento Trovare una soluzione di terza via che emarginasse da un lato il capitalismo delle grandi corporations e dall’altro il burocratismo sovietico non mancava di essere un’idea affascinante. Riccardo Lombardi non mancava della capacità di indicare non solo una strategia ma anche il modo di attuarla. Nel mondo capitalista ed in particolare negli Stati Uniti, sviluppo economico, opportunità di investimento, occupazione, crescita nella stabilità monetaria e in tutti gli indicatori di buona gestione macro-economica, indicavano nelle norme di concorrenza lo strumento operativo necessario per tagliare le unghie ai Monopoli e trasformare la competizione interna ed internazionale in uno strumento automatico, accanto ai profitti, per indirizzare la struttura degli investimenti. Riccardo Lombardi pensava, ad una strategia alternativa, che i risultati della concorrenza potessero essere raggiunti con la nazionalizzazione. La proposta immediata e concreta fu appunto quella, nel 1963 di nazionalizzare l’industria elettrica. L’idea strategica partiva di lì per conseguire ulteriori obiettivi. Discriminando le tariffe di consumo dell’energia non solo in funzione dei consumatori ma anche all’interno della struttura produttiva, si poteva attuare una sorta di programmazione dirigistica. Praticando tariffe più basse per i settori che si
intendeva incentivare si sarebbe potuto ottenere l’effetto di orientare l’intera struttura degli investimenti. Questa proposta fu largamente sostenuta dai riformisti più convinti presenti nei partiti e nella società italiana, sia perché sembrava dar concretezza alla linea programmatica, sia perché mostrava come arrivare ad un’economia di mercato profondamente riformata. Per di più la nazionalizzazione si rivelò ben presto come leva capace di incidere profondamente nei rapporti tra mercato del credito e delle finanze e finanza di impresa. L’epoca degasperiana ed einaudiana si concluse rapidamente sotto la spinta della nazionalizzazione dell’industria elettrica. Bisogna ricordare infatti che fino a quel momento il finanziamento di impresa avveniva con il mercato finanziario alimentato dai risparmiatori in particolare dalle famiglie, naturalmente non in stato di povertà. Avvalendosi dei migliori consigli di banche, amici o parenti, usavano investire in borsa. Questo potrà sorprendere le generazioni dei cinquantenni di oggi. Ma la borsa italiana ebbe incredibili successi e registrò punte altissime intorno agli anni ’58, ’62. Un’indagine Medio-Banca al riguardo segnala un’inversione di tendenza al ribasso senza recuperi significativi fino ai nostri giorni a ridosso della nazionalizzazione dell’industria elettrica. Inoltre cambiarono radicalmente le fonti di finanziamento dell’impresa. Dalla fonte del risparmio delle persone, consapevoli dei gradi di rischio che accettavano liberamente, si è passati ad un finanziamento delle imprese sempre più marcatamente affidate al mercato delle obbligazioni in larga misura garantite dallo Stato. L’accettazione del rischio non fu più connaturato alle scelte di investimento. Con il senno di poi si può riconoscere che Riccardo Lombardi conseguì l’obiettivo di cambiare strutturalmente la natura del capitalismo italiano, del mercato finanziario realizzando un capitalismo da terza via come era nei suoi propositi e nelle aspettative di tutta l’ala riformista, diffusa nei partiti e nei sindacati. L’incisività del cambiamento realizzato da Lombardi e accolto dall’insieme delle forze politiche e sindacali, non fu mai sottolineata in tutta la sua portata. I problemi di tutti i giorni presero il posto di una valutazione degli effetti di questi mutamenti strutturali. Ci si preoccupava dei problemi emergenti da risolvere giorno per giorno: salvaguardia dell’occupazione, dinamica positiva o non positiva
delle retribuzioni, adeguamento delle infrastrutture, politiche di bilancio, etc.. Ma quei cambiamenti strutturali spostarono più o meno inavvertitamente l’asse delle strutture economiche verso maggiori responsabilità pubbliche con sollievo di chi voleva progredire o conservare senza rischiare. Si dilatò il ruolo dell’IRI che perdeva mano a mano l’impronta iniziale di responsabilità verso il mercato. Grado a grado la struttura economica specie quella industriale entrò nell’area di un capitalismo assistito nel quale era impossibile morire anche se della morte vi erano tutti i segni visibili. Questa eredità fu consegnata alla fine degli anni ’80 ai governi, che dovettero procedere a drastiche misure di privatizzazioni, liberalizzazioni e riduzione del ruolo gestionale dello Stato in uno col tentativo di riportare la gestione macro-economica a condizioni che consentissero l’accesso alla Moneta Unica ed al rispetto dei vincoli di Maastricht. Certo negli anni ’90 i governi che si sono succeduti furono protagonisti di una svolta storica e la sostanziale adesione degli italiani all’Europa (perché non ricordare che tutti fummo disposti a pagare una tassa per entrarvi?). Ma è stato anche l’ultimo guizzo di entusiasmo. A missione compiuta, anche grazie alle spinte competitive e violente del processo di Globalizzazione, il nostro morale si è offuscato. Siamo entrati in una fase di transizione che stiamo affrontando con uno spirito non adatto. Proprio in questi giorni il World Economic Forum ci rimprovera di ripiegarci immotivatamente nel pessimismo e nell’autocommiserazione, aggravando i problemi che abbiamo. Ci sarebbero molte altre cose da dire. Ma questa ricostruzione sicuramente affrettata non può nascondere la necessità di riconsiderare il nostro passato. Personalmente, con qualche ricerca ad hoc sono giunto alla conclusione che il tratto storico dal 1945 alle soglie del 1965-70 rappresenta l’esperienza più positiva della crescita economica, dell’avvio al benessere sociale e della buona gestione macro-economica. Ciò giustifica ampiamente il riconoscimento di “miracolo economico” dell’Italia di allora. E’ singolare constatare che pur in mezzo a conflitti, sociali e politici, fu possibile dare corpo ad una strategia di sviluppo economico di benessere sociale non disgiunto da rigore e responsabilità. Varrebbe la pena di sottolineare il merito del sindacalismo, da quello unitario a quello tri-partito, che in qualche modo seppe sempre trovare un punto di compromesso tra rivendicazioni ed interesse generale. Alla luce della evoluzione di quei primi lustri di esperienza liberal-democratica è possibile valutare ciò che è cambiato con i cambiamenti strutturali suggeriti da
Riccardo Lombardi e fatti propri dall’intero Paese. Se debbo esprimere una opinione oggi, certamente diversa da quella che ebbi ieri, devo dire che quella terza via che tanto ci ha entusiasmato, ci ha consegnato più problemi che soluzioni comparabili a quelle del primo periodo post-bellico. Abbiamo faticato molto a partire dagli aggiustamenti degli anni ’90. La vicenda è tutt’altro che conclusa e la transizione, diversamente dal passato, appare meno lucida quanto i mezzi per uscire dal tunnel. Concentrarsi sulle manovre finanziarie serve a poco. Anzi è addirittura un inconveniente se, pensando di evitare soluzioni dolorose, rinviamo sempre più nel tempo quelle decisioni certamente non gradevoli ma necessarie per uscire da una condizione di “declino senza speranze” per passare ad una di “declino con speranza”. Perché questo è il problema di cui discutono animatamente i nostri migliori economisti. Pietro Merli Brandini Per qualche non superfluo approfondimento leggere “Cinquant’anni di vita italiana” di Guido Carli, Capitolo 6
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