"Aiutarli a casa loro": politiche migratorie e cooperazione allo sviluppo
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“Aiutarli a casa loro”: politiche migratorie e cooperazione allo sviluppo Marco Rotelli, Giulio Di Blasi (Intersos) La “gobba migratoria” Secondo autorevoli recenti stime, circa 700 milioni di persone nel mondo desiderano migrare dal loro Paese d‟origine (Gallup 2010). È come se l‟intera popolazione europea desiderasse allontanarsi verso nuove opportunità di lavoro e di benessere. In particolare, le zone con una maggiore spinta all‟emigrazione sono l‟Africa sub-sahariana e il Medio Oriente, dove un numero variabile tra il 25% e il 35% della popolazione desidererebbe partire. Tra i Paesi di destinazione oltre 25 milioni di persone indicano l‟Italia. Da questi dati sembrerebbe intuitivo immaginare che la modalità migliore per ridurre i flussi migratori sia quella di promuovere sviluppo nei Paesi africani e mediorientali e, più in generale, nei Paesi poveri e a basso reddito, andando ad attuare una proposta che alcuni esponenti politici hanno riassunto con il paradigma dell‟ «aiutiamoli a casa loro». Tuttavia, una più attenta analisi del fenomeno migratorio inserisce nell‟equazione “povertà-migrazione” vari altri fattori, tra cui l‟esistenza delle condizioni necessarie per potere desiderare, progettare e realizzare l‟emigrazione. Nei Paesi di immigrazione, infatti, le comunità provenienti dalle zone più povere del mondo sono sottorappresentate. Anche in Italia, è più facile incontrare un romeno o un egiziano rispetto ad un somalo o un congolese, nonostante le condizioni oggettive della Somalia e del Congo siano nettamente peggiori rispetto a quelle dell‟Egitto o della Romania. La risposta a questo paradosso è da ricercarsi nel concetto di “condizionalità”. Per emigrare, alcune condizioni previe sono normalmente necessarie ed in particolare: essere consapevoli di volerlo e poterlo fare ed avere l‟intraprendenza e i mezzi necessari per riuscirci. Ad emigrare non sono principalmente le popolazioni delle aree di „povertà assoluta‟, bensì quelle dei Paesi a medio tasso di sviluppo e „povertà relativa‟ rispetto ai Paesi industrializzati. Emigra chi può permetterselo, in termini economici ma anche di maggiori conoscenze e istruzione. Anche le gravi crisi umanitarie quali siccità, carestie, inondazioni, o la condizione di grave povertà cronica, provocano sfollamenti soprattutto all‟interno dello stesso Paese o nei Paesi limitrofi, lasciando a minoranze più predisposte e intraprendenti la scelta migratoria più radicale. Questo fenomeno che lega l‟ampiezza dei flussi migratori ad alcuni fattori condizionanti, quali il reddito e l‟istruzione, è stato descritto già nel 2002 come migration hump (Widgren J. & Martin P.), gobba migratoria. La parte più alta della gobba, quella con le maggiori migrazioni, trova collocati Paesi a medio reddito, mentre i Paesi collocati nelle parti basse, a limitata emigrazione, risultano essere quelli più poveri o quelli caratterizzati da condizioni di benessere. 1
Questo modello, seppure indicativo, è relativamente semplicistico in quanto non prende in considerazione fattori come la distanza geografica, le informazioni disponibili, le leggi di emigrazione/immigrazione ed altri. Tuttavia, se applicato a livello globale viene costantemente confermato dai dati empirici, evidenziando dunque come i Paesi di emigrazione non siano quelli classificati come i più poveri. Anche nei Paesi in condizione di povertà cronica chi emigra è, soprattutto, chi vive in condizioni migliori all‟interno della propria comunità, mentre i più diseredati non riescono a farcela. Il complesso rapporto tra migrazioni e cooperazione allo sviluppo Dalla analisi precedente risulta chiaro come non sia possibile delineare un semplice e diretto rapporto di causalità tra povertà ed emigrazione e come, di conseguenza, le azioni di cooperazione allo sviluppo non siano automaticamente adatte a limitare i flussi migratori. Infatti, per sua stessa definizione la cooperazione allo sviluppo si prefigge l‟obiettivo primario di sconfiggere la povertà e garantire una vita dignitosa a coloro che versano in condizioni di precarietà economica, sociale e culturale promuovendo occasioni di sviluppo. Essa si dirige per lo più verso Paesi dove le persone sono troppo povere per riuscire ad emigrare. Paradossalmente, nel caso in cui la cooperazione raggiungesse i propri obiettivi creando sviluppo nei Paesi più poveri, è molto probabile una parallela crescita dei flussi migratori, almeno nel breve periodo. L‟uscita dall‟estrema povertà e l‟acquisizione di maggiore benessere (economico e culturale) favoriscono, infatti, le condizioni necessarie per potere immaginare, desiderare e realizzare l‟emigrazione. Questo risultato evidenzia ancora una volta la complessità del rapporto tra cooperazione allo sviluppo e gestione delle migrazioni internazionali e come questi due settori, seppure abbiano importanti punti in comune, debbano necessariamente restare separati nei mandati e nelle azioni da intraprendere, evitando di snaturare la cooperazione allo sviluppo e cercando di renderla uno strumento - peraltro poco efficace - per ridurre i flussi migratori. Ciò risulta ancora più chiaro se dall‟analisi dell‟impatto della povertà sulle migrazioni si passa a verificare quale sia l‟effetto dei flussi migratori sulla povertà. Alcuni tipi di emigrazione possono apportare importanti effetti benefici nei Paesi d‟origine. Ad esempio, secondo le stime della Banca Mondiale, un aumento del 10% nell‟ampiezza della diaspora determina un calo dell‟1,9% nel numero di persone che vivono sotto la soglia di povertà, con meno di un dollaro al giorno. Tale effetto positivo è in prevalenza legato ai flussi di rimesse finanziarie degli immigrarti verso i propri Paesi di provenienza, che nel 2009 secondo la Banca Mondiale ammontano a 414 miliardi di 2
dollari, costituendo uno dei sostegni più importanti al loro PIL nazionale. Nonostante siano generalmente dirette al ristretto circolo familiare del migrante, le rimesse hanno infatti un effetto positivo sull‟economia in generale, stimolando i consumi e gli investimenti (cfr, Dossier, infra). Tuttavia, le migrazioni possono avere anche ricadute negative sui processi di sviluppo, in particolare a causa del rischio del brain drain, „uscita dei cervelli‟, cioè dell‟emigrazione del capitale umano indispensabile per lo sviluppo del Paese. L‟esempio del Ghana è significativo: si stima abbia perso il 60% dei medici formati nel corso degli anni Ottanta, con evidenti ricadute sulla qualità e sostenibilità del proprio sistema sanitario. Nei Paesi in conflitto, le diaspore e le rimesse ad esse associate sono storicamente legate anche al rischio di esacerbare e prolungare gli scontri nel Paese d‟origine sostenendo finanziariamente le diverse fazioni in guerra e, in qualche particolare caso, anche network criminali e terroristici. Dalle considerazioni sopra esposte consegue che il rapporto tra povertà, migrazioni e cooperazione allo sviluppo è estremamente complesso e richiede valutazioni specifiche caso per caso. Quindi, pensare di poter applicare paradigmi semplicistici (come quello di „aiutarli a casa loro‟) quali strumenti della cooperazione allo sviluppo al fine della riduzione dei flussi migratori, oltre ad essere inefficace, rischia di sviare l‟attenzione da una più approfondita analisi sul ruolo, positivo o negativo, che la cooperazione da un lato e le migrazioni dall‟altro possono di volta in volta svolgere sullo sviluppo dei Paesi poveri. Il caso Italia Verificato quale sia lo stato dell‟arte del dibattito internazionale in materia, è ora possibile analizzare se le analisi maggiormente riconosciute trovino effettiva applicazione anche in Italia. Infatti, le peculiari caratteristiche del nostro Paese, che si protende verso il continente africano costituendo un punto di approdo naturale per le popolazioni in fuga dalla povertà e dai conflitti dell‟Africa sub-sahariana, potrebbero far supporre che le analisi sopra esposte siano meno applicabili al nostro specifico contesto. Prima ancora di affrontare l‟argomento, è in ogni caso opportuno ricordare che solo il 5% degli immigrati è arrivato nel nostro Paese seguendo il tragitto via mare. Di conseguenza, nonostante la sovraesposizione mediatica di cui hanno goduto le “carrette del mare”, la stragrande maggioranza delle presenze è da ascriversi a trasferimenti per via terrestre o aerea. Tornando alla specifica questione delle interrelazioni tra politiche di cooperazione e migrazioni, è possibile analizzare se i modelli internazionali valgano anche per la situazione italiana. Prendendo in considerazione le diverse comunità di migranti presenti in Italia e l‟Indice di sviluppo umano del Paese di provenienza, elaborato annualmente dalle Nazioni Unite, risulta immediatamente chiaro come il modello del migration hump sia applicabile anche al nostro Paese. ITALIA. Presenze/ Indice di Sviluppo Umano/Pil Pro Capite (primi 15 paesi) Presenze ISU PIL Pro Capite Romania 887.763 837 14.198 Albania 466.684 818 8.246 Marocco 431.529 654 4.575 Cina R.P. 188.352 772 6.675 Ucraina 174.129 796 6.327 Filippine 123.584 751 3.546 India 105.863 612 3,248 Polonia 105.608 880 19.059 Moldova R. 105.600 720 2.828 Tunisia 103.678 769 8.284 Macedonia 92.847 817 10.824 Perù 87.747 806 8.647 3
Ecuador 85.940 806 8.280 Egitto 82.064 703 5.680 Sri Lanka 75.343 759 4.779 FONTE: ISTAT; UNDP; World Bank Sono infatti i Paesi che presentano indici di sviluppo medi (quelli al centro della curva) a caratterizzarsi per una maggiore presenza, mentre i Paesi a basso indice di sviluppo sono quelli con un numero nettamente inferiore di migranti nel nostro Paese. I risultati sopra esposti sembrano confermati anche da una analisi che prenda, quale indicatore della povertà, il PIL pro capite. Anche in questo caso, infatti, i picchi più alti della curva si raggiungono nei Paesi in cui il reddito annuo per ciascun cittadino si trova in una fascia variabile tra i 5000 e i 10000 dollari annui, ovvero quelli che vengono comunemente classificati come Paesi di medio sviluppo. Ovviamente, appurato che sono i Paesi a medio reddito quelli da cui provengono la maggior parte degli immigrati presenti in Italia, le variazioni all‟interno di una stessa fascia sono legate a fattori esogeni allo sviluppo come ad esempio: la distanza geografica, i legami storico-culturali, le reti etniche, particolari normative che favoriscono la circolazione delle persone. Rilevato dunque che l‟Italia, nonostante la sua particolare posizione geografica, non si distanzia particolarmente dai modelli sui flussi migratori elaborati a livello internazionale, è ora possibile valutare con maggiore attenzione la proposta di „aiutarli a casa loro‟, attraverso interventi di cooperazione allo sviluppo, al fine di mettere un freno all‟emigrazione. Come recita la legge 49 del 1987, la cooperazione allo sviluppo “è finalizzata al soddisfacimento dei bisogni primari e in primo luogo alla salvaguardia della vita umana, alla autosufficienza alimentare, alla valorizzazione delle risorse umane, alla conservazione del patrimonio ambientale, all'attuazione e al consolidamento dei processi di sviluppo endogeno e alla crescita economica, sociale e culturale dei Paesi in via di sviluppo” (Legge 49/1987, Art.1). Pertanto, difficilmente essa potrà essere diretta prioritariamente verso i Paesi di maggiore emigrazione, quelli cioè a medio livello di sviluppo, ma continuerà a focalizzarsi innanzitutto sui Paesi a più basso tasso di sviluppo o a sviluppo bloccato da gravi difficoltà politiche, con il probabile effetto, nel medio periodo, di incrementarne i flussi migratori. A conferma di ciò basta confrontare i 10 maggiori Paesi di provenienza degli immigrati in Italia con i Paesi verso cui si dirigono prioritariamente gli aiuti italiani per lo sviluppo Tra i dieci Paesi prioritari degli interventi di cooperazione allo sviluppo tra il 2007 e il 2008 (Iraq, Afghanistan, Etiopia, Libia, Cina, Marocco, Palestina, Mozambico, Albania e Sierra Leone), solamente Cina, Marocco e Albania hanno una significativa presenza migratoria in Italia e in nessun caso si può affermare che la cooperazione allo sviluppo abbia influito sul contenimento dei flussi migratori. 4
In generale, può esistere correlazione tra aiuti allo sviluppo e migrazioni solo se l‟“aiuto a casa loro” si trasforma da semplice slogan in serio e concreto impegno politico. Il problema è duplice: da un lato, gli aiuti non produrranno in merito alcun effetto positivo se continueranno ad essere minimi; dall‟altro, occorre affrontare il tema con una visione politica e strategica di lunga durata, in modo coordinato a livello europeo e internazionale, con programmi di aiuto che creino realmente crescita e sviluppo nelle aree più povere in modo diffuso. Solo con un livello di vita, economico, sociale e culturale che soddisfi adeguatamente, a casa loro, i bisogni e le aspirazioni familiari, solo con un livello di reddito che possa garantire una vita dignitosa per sé e la propria famiglia e un futuro decoroso ai propri figli, la spinta all‟emigrazione si affievolirà e inizierà al contempo quella inversa del ritorno a casa. E non basterà che il reddito pro capite medio aumenti, ma sarà necessario che tale aumento medio sia diffuso e generalizzato e non permetta il perdurare di significative sacche di miseria nel Paese. È importante inoltre verificare quale sia l‟impatto degli stessi immigrati presenti in Italia sullo sviluppo dei Paesi di provenienza. Infatti, come evidenziato in precedenza, le migrazioni possono costituire, attraverso le rimesse o il rafforzamento del capitale sociale dei migranti, un importante veicolo di sviluppo. In questo quadro il dato di maggiore interesse risulta essere proprio quello relativo alle rimesse dei migranti. Nel corso del 2009, sulla base dei dati della Banca d‟Italia, riportati in altro capitolo del dossier, i flussi di rimesse in uscita dal nostro Paese si sono attestati attorno ai 6,5 miliardi di Euro, in aumento rispetto ai 6,2 miliardi del 2008 (ma sono anche aumentati gli stranieri residenti). Per avere un raffronto significativo basti pensare che l‟intero ammontare della cooperazione allo sviluppo del Governo italiano nel 2008 è stato di 4,8 miliardi di dollari (3,7 miliardi di Euro), mentre nel 2009 si è registrata una flessione con lo stanziamento di 3,3 miliardi di dollari (2,1 miliardi di Euro). Da questi dati si evince chiaramente come le risorse economiche derivanti dalle rimesse inviate nei Paesi in via di sviluppo dagli immigrati residenti in Italia siano nettamente superiori ai flussi finanziari della cooperazione italiana, e soprattutto come le prime, in una fase di crisi economica internazionale, riescano a svolgere un indispensabile ruolo anti-ciclico, mentre le risorse per la cooperazione subiscono continue riduzioni. Non va dimenticato infine che, oltre all‟effetto positivo sul proprio Paese di origine grazie alle rimesse, gli immigrati contribuiscono in modo rilevante al benessere complessivo del Paese che li accoglie. Questa realtà è stata più volte evidenziata da approfonditi studi economici. John Kenneth Galbraith così la riassume e la commenta: “Le migrazioni sono la più antica azione di contrasto alla povertà, selezionano coloro i quali desiderano maggiormente riscattarsi, sono utili per il Paese che li riceve, aiutano a rompere l‟equilibrio di povertà nel Paese di origine; quale perversione dell‟animo umano ci impedisce di riconoscere un beneficio tanto ovvio?”. Conclusioni Questa breve analisi dei rapporti che intercorrono tra politiche migratorie e cooperazione allo sviluppo ha messo in evidenza come paradigmi semplicistici come quello di „aiutarli a casa loro‟, non siano in grado di cogliere la complessità tipica dei fenomeni migratori. A partire dagli studi esistenti e dei dati statistici riferiti all‟Italia, si riscontra che i paesi di maggiore emigrazione siano quelli a medio reddito che spesso non risultano prioritari per la cooperazione allo sviluppo, mentre una politica di cooperazione in grado di alleviare la povertà potrebbe avere il paradossale effetto, almeno nel breve periodo, di incrementare i flussi migratori. Solo una seria e consistente cooperazione, coordinata internazionalmente e realizzata in modo continuativo può invertire tale tendenza. A questa prima, si è aggiunta una seconda analisi relativa al ruolo delle migrazioni nell‟alleviare la povertà nei paesi d‟origine. Anche in questo caso, seppure una generalizzazione assoluta non sia possibile, è stato evidenziato come gli immigrati rivestano un ruolo importante nella promozione 5
dello sviluppo tanto nei paesi di accoglimento quanto nei paesi di provenienza. Di conseguenza, iniziative volte a sostenere questo impatto positivo dovrebbero essere favorite anche dalle istituzioni pubbliche ed in particolare da quelle attive nella cooperazione allo sviluppo. Alle stesse conclusioni è giunto in vari suoi interventi N. Sergi, presidente dell‟ong Intersos (http://www.intersos.org/italia_migrazione.htm), secondo cui la riduzione dei flussi verso l‟Italia può dipendere nel breve periodo solo in modo molto limitato dall'incremento degli aiuti e della cooperazione con i Paesi di provenienza. I Paesi di origine della gran parte degli immigrati difficilmente possono qualificarsi per significativi interventi di aiuto in quanto solo in minima parte corrispondono ai criteri e priorità dell‟aiuto pubblico allo sviluppo. Salvo casi di persecuzione o guerra, infatti, normalmente i più poveri non „possono permettersi‟ di emigrare. Emigra chi può permetterselo, in termini economici ma anche di maggiori conoscenze, istruzione, salute, capacità di iniziativa, intraprendenza. Ciò non significa che non esista alcun rapporto tra cooperazione allo sviluppo e migrazioni: il tema va tuttavia affrontato con una visione politica e strategica di lunga durata, in modo coordinato a livello europeo e internazionale, con programmi di aiuto e coerenti politiche economiche e commerciali di sostegno, per creare realmente crescita e sviluppo stabili e diffusi nelle aree più povere. In particolare, bisogna chiedersi se sia possibile che l‟aiuto pubblico allo sviluppo dell‟Italia possa passare da un marginale 0,14% del PIL allo 0,56% come programmato in sede europea e internazionale. L‟auspicio è che venga favorito un atteggiamento più attento da parte delle istituzioni, dei media e della politica perché, sull‟esempio di quanto avvenuto a livello di Commissione Europea, in particolare tra la fine degli anni ‟80 e il 2000, si possano abbandonare una volta per tutte gli slogan strumentali, per avviare una politica di gestione dei flussi migratori capace di affrontarli nella loro complessità, con severa coerenza politica e impegni adeguati e con una visione dello sviluppo che, guardando all‟oggi, riesca anche a cogliere le positività e i benefici del domani. 6
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