IL NOSTRO DONBASS di Willi Langthaler - sollevazione
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IL NOSTRO DONBASS di Willi Langthaler [ martedì 21 maggio 2019 ] Giorni addietro davamo conto della partecipazione di Fabio Frati, del Cc di Programma 101, alle celebrazioni per il quinto anniversario della fondazione delle repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk. Con Fabio c’erano altri compagni europei: francesi, tedeschi, austriaci, serbi, polacchi, ecc. Di seguito le considerazioni di viaggio di Willi Langthaler, della sinistra patriottica austriaca e portavoce del Campo Antimperialista. * * * In occasione delle celebrazioni della liberazione dall’occupazione nazista (9 maggio) e del quinto anniversario della fondazione delle Repubbliche del Donbass (11-12 maggio), una delegazione di 9 membri del movimento austriaco per la pace e la neutralità si è recata nei giorni scorsi nelle zone ribelli dell’Ucraina orientale. Malgrado una visita di pochi giorni, ogni osservatore ha potuto rendersi conto che alcune narrazioni, diffuse dai media occidentali sui cosiddetti territori separatisti, sono smentite in modo sfacciato. Almeno nelle capitali, Donetsk e
Lugansk, prevale la normale vita di tutti i giorni. Non si può dunque parlare di situazione di guerra o stato di emergenza. Le tracce della guerra le si deve andare a vedere. Si pensi a Parigi, davvero militarizzata. D’altra parte, si vedono in Donbass le difficoltà economiche, le conseguenze sociali della situazione incerta e la mancanza di investimenti. Politicamente e culturalmente, si potrebbe parlare di una sorta di Risovietizzazione politica, anche se le basi e le cause sociali sono completamente diverse. Due momenti stanno creando l’identità per le repubbliche popolari: da un lato, la centralità della classe operaia nell’industria del carbone e dell’acciaio, che da centralità ad un “proletariato” inimmaginabile nel nostro paese. Non c’è mai stata un’élite borghese e gli oligarchi che sono emersi negli ultimi decenni, sono scappati con la guerra civile. I protostati nacquero da una rivolta popolare vera che ha partorito una nuova leadership. Soprattutto a Lugansk, dove il carbone e l’acciaio sono ancora dominanti, qui i sindacati la fanno da padrone. Si potrebbe quindi parlare di una repubblica sindacale. Donetsk aveva più industria meccanica e una realtà metropolitana più importante. D’altra parte, c’è la vittoria sul nazismo tedesco, che è stato vinto soprattutto in questa regione con un bilancio particolarmente elevato. Ecco perché la connessione del nazionalismo ucraino alla tradizione nazista con Bandera & Co causa controreazioni particolarmente violente. Non per niente i numerosi monumenti sovietici sono intatti e continueranno ad essere onorati. Lenin lo si vede dappertutto.
Il 9 maggio è certamente un’alta priorità anche nella Federazione Russa, ma nel Donbass abbiamo a che fare con un’enorme mobilitazione dal basso, ancor più del 1° maggio, di cui molti degli altri partecipanti ci avevano parlato, oltre che i giorni fondatori delle repubbliche popolari. Tre volte in meno di due settimane, le masse scendono in piazza. Sebbene, ovviamente, le autorità sovrintendono all’organizzazione della partecipazione, un elemento di volontarietà spontanea è molto evidente. A questo proposito, il termine rivolta popolare è ancora valido, anche per quanto riguarda il 2014 militare e gli anni successivi. Se la Russia può aver sostenuto la rivolta, il punto di forza è stata la resistenza popolare. Un elemento nazionalista grande russo, che noi davamo per scontato, non è in alcun modo apprezzabile. La Chiesa ortodossa non giocò praticamente alcun ruolo, a differenza della stessa Russia, dove invece ha un grande peso. Persino i cosacchi, che si presentano nella regione come un momento di identità potenzialmente conservatrice nel senso di una meccanica culturale di stato, appaiono poco più che folklore, tranne che in un senso antifascista, non è un caso che, ad
esempio, il monumento di Shevchenko — il poeta nazionale ucraino usato dai nazionalisti — non è stato rimosso. Si tratta del segnale consapevole che si è avuta una rivolta democratica e antifascista, non nazionalista. Senza dimenticare che il Donbass era un crogiolo sovietico, a differenza della Crimea russo-imperiale. Le questioni della situazione economica e le prospettive di sviluppo non possono essere messe a fuoco con la necessaria profondità in una visita di pochi giorni. Tuttavia, il ruolo schiacciante dello Stato è chiaro. Gli oligarchi sono scomparsi. Sebbene la loro proprietà sia stata formalmente preservata, la maggior parte dei governi ha dovuto intervenire e organizzarsi, senza dimenticare che non esiste un regolare sistema bancario e quindi nessun credito commerciale. Formalmente, tutte le relazioni economiche con l’Ucraina di Kiev sembrano interrotte. Tuttavia senti dire che un qualche scambio commerciale c’è ancora. Il carbone del Donbass trova ancora la strada per raggiungere le sue vecchie aree di vendita. Il fatto che i nazionalisti ucraini e i radicali di destra abbiano accusato i propri oligarchi di continuare le relazioni economiche nel corso dell’imposizione del blocco della Donbass indica che ciò è avvenuto. L’opportunità annunciata da Putin di rilasciare passaporti russi è stata accolta con entusiasmo. Grazie a questo è finalmente tornato disponibile per i cittadini del Donbass un documento di viaggio utilizzabile a livello internazionale, visto che non è possibile rinnovare i passaporti ucraini nelle Repubbliche popolari. Anche se Mosca stessa non ne vuole sapere, e per questo motivo anche i vertici delle repubbliche popolari stanno frenando, praticamente tutti vogliono la connessione con la Russia — anche per ragioni piuttosto pragmatiche. Sia che si tratti dell’enorme differenza sociale: un minatore del Donbass guadagna 25.000 Rubli (circa 350 €), nel Kuzbass russo due o tre volte più — sia in vista della normalizzazione della
situazione economica che dell’integrazione dell’industria pesante e metallurgica. Nessuno crede davvero alla “pace di Minsk” e all’autonomia in seno all’Ucraina in essa prevista, Kiev ha dimostrato di essere militarista ed estremista. La guerra fratricida imposta dagli estremisti di destra della regione perpetrata dal regime di Maidan appare fratricida e priva di senso. Tuttavia, l’ipotesi dell’autonomia resta sul tappeto come ipotesi politica, almeno finché non è esclusa una rivoluzione democratica vittoriosa a Kiev. Da notare le differenze tra Donetsk e Lugansk: Donetsk è più vicina alla Russia putiniana, mentre Lugansk affianca l’emblema nazionale ai simboli sovietici. A Donetsk le celebrazioni sono state organizzate dal ministero, a Lugansk dei sindacati. Per quanto riguarda certe destre dell’Europa occidentale, non si può incolpare le repubbliche isolate di accettare il loro sostegno simbolico. Inoltre, le porte per la sinistra sono aperte, e lo saranno di più in futuro. Quando Werner Murgg, membro del parlamento della Stiria, ha presentato la grande delegazione austriaca con un totale di quattro comunisti stiriani al ministero degli esteri di Donetsk, tutti erano contenti. Lugansk ha già fatto diversi inviti per il futuro. In vista del 9 maggio 2020, un’altra delegazione austriaca per la pace è stata concordata dai sindacati di Lugansk. Alcuni articoli sono già stati discussi. Visite nelle fabbriche per capire meglio la situazione sociale ed economica. La lotta antifascista continua. Sostieni SOLLEVAZIONE e Programma 101
LA SINISTRA PATRIOTTICA [ martedì 21 maggio 2019 ] In molti leggete SOLLEVAZIONE e condividete le idee, le analisi e le proposte di Programma 101. La maggior parte di voi, pur approvando, chi con il cuore chi anche con la testa le nostre battaglie, resta alla finestra, non si decide a darci fattivamente una mano, raggiungendo le nostre file. Prevale, anche tra i nostri tanti simpatizzanti, il disincanto, la sensazione d’impotenza, l’idea che fare militanza politica rappresenti, oltre che un enorme sacrificio, una lotta impari, destinata allo scacco. Il fardello dell’impegno resta dunque sulle spalle di alcune decine di militanti che resistono facendosi in quattro affinché la nostra voce non scompaia. Ci vorrebbero più militanti, più attivisti, più sedi, più iniziative pubbliche, un giornale stampato da diffondere, potenziare la nostra presenza sul Web. Per tutto questo occorrono più mezzi. Tra questi mezzi il più importante sono i soldi, e di soldi non ne abbiamo. Non abbiamo santi in paradiso, le sole risorse finanziarie di cui disponiamo vengono dai contributi volontari dei nostri aderenti. E sono risorse scarse che non ci permettono di fare di più e meglio. Per questo lanciamo una campagna di sottoscrizione per sostenere SOLLEVAZIONE e Programma 101.
Cosa ci faremmo con i soldi che arriveranno dalla campagna di finanziamento è presto detto: vorremmo aprire un ufficio centrale e pubblicare un giornale mensile. Ce la faremo? Dipende anche da voi, dalla vostra generosità. Sostieni SOLLEVAZIONE e programma 101 CLIMA 7: PERCHÉ LO FANNO? di Leonardo Mazzei [ martedì 21 maggio 2019 ] Questo articolo — l’ultimo della serie dedicata ai “cambiamenti climatici” — non ha certo la pretesa di dare risposte definitive alla domanda contenuta nel titolo. Esso ha invece uno scopo più limitato, ma ugualmente importante: quello di esaminare i tanti motivi ed interessi che sembrano convergere nell’attuale narrazione dominante. Tuttavia, nella formulazione della domanda c’è già un giudizio ben preciso. Ci chiediamo infatti “perché lo fanno”, solo perché diamo per assodato il fatto che sul clima non ce la stanno raccontando giusta. Una convinzione, questa, che credo di aver motivato a sufficienza nei sei articoli già pubblicati. I precedenti interventi sul cosiddetto “riscaldamento globale”
— Clima 1 – E se fosse la lobby nucleare? (18 marzo 2019). Clima 2 – Quelli che non se la bevono (25 marzo 2019). Clima 3 – Nessuna catastrofe in vista (1 aprile 2019). Clima 4 – La bufala dell’aumento degli “eventi estremi” (11 aprile 2019). Clima 5 – Tutta colpa della CO2? (26 aprile) – Clima 6 – Catastrofismo e socialismo (6 maggio) * * * Una necessaria premessa (a proposito delle critiche ricevute) Come i precedenti, anche l’ultimo articolo ha suscitato commenti di segno diverso. Ed agli apprezzamenti fanno riscontro diverse critiche. E’ normale che sia così. Purtroppo, però, nessuno dei critici entra minimamente nel merito degli argomenti trattati. Eppure su temperature e livello dei mari, sugli eventi estremi come sul ruolo della CO2, i temi caldi non sono certo mancati. Perché, allora, questo silenzio? Forse mi sbaglierò, ma la sensazione è che tra i critici prevalga un atteggiamento religioso nei confronti della teoria dell’AGW (Anthropogenic Global Warming). Quella del “riscaldamento globale” è in fondo una religione assai degna del nostro tempo. Essa è infatti cangiante e personalizzabile, una merce ideale nel supermarket di un capitalismo che punta a colpevolizzare l’uomo per assolvere se stesso. Questa religione acchiappa tutto va bene, infatti, sia per chi crede alla neutralità ed alla sacralità della scienza, sia per chi immagina un bucolico ritorno ad un imprecisato “stato di natura”. Nulla di nuovo in tutto questo: turbocapitalismo e figli dei fiori son sempre state due facce di un’identica medaglia. Qualche riga in più la devo dedicare a Mauro Pasquinelli, il quale si è nuovamente scagliato contro i miei articoli sul clima con una foga degna di miglior causa. Come già in precedenza, Mauro mi attribuisce cose che non ho detto e convinzioni che non ho. E fin qui passi, che nel mondo ci vuol tanta pazienza. Poi, siccome a lui non va giù che mi sia dedicato alla questione del clima seriamente, entrando cioè
nel merito delle incongruenze della teoria dell’AGW — tema sul quale in tutta evidenza non sa cosa dire —, mi attacca perché avrei trattato la questione separandola dalle altre catastrofi prodotte dal capitalismo. Ragion per cui, egli ne consegue, sarei affetto da “idiotismo specialistico”. E’ questo un modo per non prendere atto di quella che è la mia tesi centrale, che ripeto per la centesima volta, e cioè che bisogna distinguere tra la sacrosanta lotta per l’ambiente e la salute (da promuovere e sostenere con ogni forza) e l’ingannevole narrazione dominante sul clima. Il perché l’ho già spiegato diverse volte e non ci torno sopra. Dico solo che si tratta di lottare, qui e ora, contro la catastrofe reale prodotta dal capitalismo reale, senza farsi avvolgere nelle spire di una narrazione basata su una teoria non dimostrata, che ha lo scopo di condannare indistintamente gli essere umani proprio per meglio assolvere il sistema. Questa mia tesi può essere ovviamente disapprovata (ci mancherebbe!), ma non si può dire che non l’abbia esposta in maniera chiara. Dunque non si può fingere di non averla intesa. Che dice invece Mauro? Semplice, poiché io respingo il catastrofismo sul clima sarei sostanzialmente diventato un “agente” del capitalismo. A questo punto, dopo essermi fatto quattro risate, che fan sempre bene alla salute, la chiudo qui. Su queste basi, al momento ogni discussione è palesemente impossibile. Più avanti vedremo, che il tempo è galantuomo. So bene che nella lotta contro il capitalismo la razionalità non basta, ma questo significa forse che le sciocchezze catastrofiste siano più efficaci? Ai lettori la ben poco ardua sentenza. In questo articolo Passiamo al tema che qui ci interessa trattare. In primo luogo vedremo cos’è l’IPCC, com’è nato, come funziona, qual è la sua credibilità. In secondo luogo – e questo è ovviamente il cuore dell’articolo – affronteremo i diversi interessi (economici, politici, di controllo sociale) che ben si intravvedono dietro la narrazione ufficiale. In terzo luogo, cercheremo di arrivare ad alcune conclusioni.
Cos’è l’IPCC Partiamo dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) perché in fondo è quella la decisiva fonte che alimenta incessantemente la teoria dell’AGW. La qual cosa è del tutto naturale, dato che l’IPCC non è sorto per studiare il clima, ma per avallare la tesi dei “cambiamenti climatici”, che se per caso dovesse arrivare alla conclusione che i cambiamenti in corso sono del tutto compatibili con la ciclicità climatica storicamente conosciuta, l’IPCC dovrebbe semplicemente chiudere i battenti con tutte le spiacevoli conseguenze del caso. Il nome, del resto, dice già tutto. L’IPCC non è un’istituzione scientifica in senso proprio, bensì un “gruppo intergovernativo”, cioè di fatto una struttura sostanzialmente politica. A chi risponde questa struttura? Lasciamo la parola a due scienziati, Sonja Boehmer-Christiansen e Aynsley John Kellow: «Il Dipartimento di Stato USA voleva che le conclusioni scientifiche fossero nelle mani del governo e non di accademici senza controllo. Così usò la sua influenza sulla Commissione Esecutiva dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO) per dare il via alla creazione dell’IPCC sotto l’egida del WMO e dell’UNEP (il Programma ONU per l’Ambiente), nel 1988… L’IPCC fu disegnato come un’organizzazione intergovernativa formata da scienziati ma con il coinvolgimento dei governi nel processo di approvazione delle conclusioni: in pratica i governi tengono
il controllo dei processi di formazione dei documenti finali». Siamo dunque alla scienza di Stato, ci dicono i due autori al pari di altre migliaia di scienziati in tutto il mondo. Già, ma quale Stato in particolare? Evidentemente gli Stati Uniti d’America. Comprendo che questa affermazione possa prestarsi a critiche. Non è forse proprio negli USA che si manifestano a livello politico i maggiori contrasti (vedi Trump) sulla teoria dei “cambiamenti climatici”? E’ indubbiamente così, ma è così perché essendo tuttora gli USA il centro del sistema, è lì che si addensano maggiormente i conflitti tra i diversi interessi in gioco. Quel che è certo, però, è che con la svolta degli anni ottanta gli Stati Uniti, assodata la sua rilevanza strategica (ed anche militare), abbiano deciso di prendere in mano la questione del clima. E lo strumento principale di questo controllo è proprio l’IPCC. Come funziona l’IPCC? I media amano presentarci l’IPCC come un consesso di scienziati intenti a studiare tutti gli aspetti dell’andamento climatico. Si tratta però di una falsa rappresentazione. In realtà l’IPCC è un ibrido senza precedenti. Esso include sia uomini di scienza che rappresentanti politici, ma alla fine le decisioni che contano spettano sempre a questi ultimi. I report finali, cioè i famosi documenti che dovrebbero orientare i decisori politici, vengono infatti definiti in un processo a tre stadi. Il primo è di competenza dei soli esperti, i quali però non sono per lo più climatologi, ma specialisti delle varie discipline che confluiscono nei report. In pratica ogni gruppo di lavoro – composto con criteri geografici e coordinato dal panel vero e proprio, in cui siedono i rappresentanti nominati dai governi – opera in maniera separata dagli altri. Nonostante questi limiti è questa la fase propriamente scientifica. Nel secondo stadio, di revisione dei lavori scientifici, un numero più ristretto di esperti lavora insieme ai rappresentanti governativi. Alla terza e decisiva fase, quella che porta alla stesura dei documenti finali, tra i quali i Summaries for Policy Makers,
partecipano soltanto i rappresentanti dei governi. Domanda leggermente retorica: possiamo definire “scienza” una roba del genere? Ovvio che no. A proposito delle “opportune modifiche” abitualmente apportate nella fase finale di cui sopra, già nel lontano 1996 così scriveva l’ex presidente dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti, Frederick Seitz: «Non ho mai visto una insopportabile corruzione del processo di revisione come questa che ha portato al secondo rapporto dell’IPCC. Quasi tutte le modifiche hanno rimosso ogni accenno di possibile scetticismo con cui molti scienziati guardano alle affermazioni sul riscaldamento globale». (da Che tempo farà – R. Cascioli e A. Gaspari) Ma non c’è solo l’IPCC. Giusto 10 anni fa, nel 2009, scoppiò il cosiddetto Climategate. La diffusione di 5mila e-mail dell’unità di ricerca climatica della University of East Anglia (Gran Bretagna) portò a galla la disonestà intellettuale di certi “scienziati”. «Il fatto è che non riusciamo a dar conto del mancato riscaldamento al momento. Non riuscirci è una farsa», scriveva ad esempio uno di loro. Insomma: se i dati non danno ragione alla nostra teoria bisognerà pure inventarsi qualcosa… Segui i soldi e… troverai l’AGW «Segui i soldi e troverai la mafia», diceva Giovanni Falcone.
Bene, seguire la scia dei soldi è un buon metodo per capire come funziona oggi la scienza. A dirlo non sono io. Sono gli scienziati, quelli seri. Nel campo della climatologia, inteso qui in senso lato, i soldi vanno in una sola direzione, quella che incoraggia l’allarmismo climatico. Università, agenzie ed istituzioni varie che lavorano sul clima sanno perciò come devono comportarsi in proposito: mai ridurre l’allarme, piuttosto incrementarlo ad ogni passo. «I flussi di denaro sono diventati la raison d’être di molta della ricerca fisica, il sostentamento vitale di una sua porzione ancor maggiore, e forniscono il sostentamento ad un indicibile numero di occupazioni professionali». Queste le parole del fisico Harold Lewis – ne abbiamo già parlato nel secondo articolo – nella sua lettera di dimissioni dall’American Physical Society, dove denuncia la «frode del riscaldamento globale»… «che ha corrotto così tanti scienziati Gli interessi in gioco I sostenitori della teoria dell’AGW amano denunciare gli interessi delle grandi multinazionali che operano nel settore delle fonti fossili. Interessi indubbiamente giganteschi, ma non più grandi di quelli di altri settori dell’economia che dalla narrazione catastrofista sul clima hanno tutto da guadagnare. E’ il capitalismo, bellezza! Un sistema centrato sul profitto, non importa se ottenuto con la produzione di alimenti per bambini oppure con quella di mine antiuomo. Ma dietro alla teoria dell’AGW non ci sono soltanto interessi economici. Ci sono pure interessi politici e di classe, dato che quella teoria mentre da un lato si sposa alla perfezione con il disegno globalista, dall’altro funge anche da formidabile ingrediente di un più sofisticato meccanismo di controllo sociale. Andiamo dunque a vedere meglio tutti questi aspetti.
Gli interessi economici Parlando degli interessi economici, la cosa fondamentale da capire è solo una: che mentre quelli di chi difende le fonti fossili tradizionali sono puramente “conservativi” – si mira cioè a conservare ciò che già esiste -, quelli legati alla transizione energetica sono sistemici e “rivoluzionari” al tempo stesso – si mira cioè ad innescare un nuovo salto tecnologico ed industriale, e soprattutto un nuovo ciclo di accumulazione capitalistica. Se si comprende questa cosa non sarà difficile capire quali dei due interessi è, specie in tendenza, il più forte. Avere ben presente questa realtà non significa affatto sposare gli “interessi conservativi” contro quelli innovativi e sistemici. Significa invece un’altra cosa: porre la necessità di un punto di vista autonomo ed alternativo alle dinamiche del capitalismo, un punto di vista socialista su questa gigantesca questione. Partiamo allora da un punto fermo. Il sottoscritto è per realizzare, nel più breve tempo possibile, il passaggio alle energie rinnovabili. Ho scritto della necessità e della ragionevole realizzabilità di questo passaggio certo assai più di tutti i miei critici messi insieme. E, nel mio piccolo, ho sostenuto questa posizione fin dalla fine degli anni settanta. La transizione energetica va dunque realizzata, ma non perché il disastro climatico sia alle porte – cosa che abbiamo visto ad abundantiam non essere vera – bensì perché è necessario combattere l’inquinamento e preservare materie prime (si pensi al petrolio ed alla petrolchimica) utili anche in futuro. Ma c’è modo e modo di realizzare questa transizione. E per elaborare un punto di vista socialista occorre anzitutto averne chiara l’immane portata. Non sto qui a citare le stime sul business della transizione energetica. Per comprenderne le dimensioni basti pensare alla dismissione di tutte le centrali termoelettriche, alla loro sostituzione con nuovi impianti, dunque (senza considerare per ora il nucleare) alla gigantesca produzione di pannelli
fotovoltaici e turbine eoliche, alla sostituzione integrale dell’attuale parco automobilistico con quello nuovo con motori elettrici, ai nuovi sistemi di rifornimento. Ma non basta. Mentre dovranno scomparire pozzi petroliferi e gasiferi, miniere di carbone, oleodotti, gasdotti e raffinerie (con i relativi problemi di bonifica), nasceranno inevitabilmente nuove e più potenti linee per il trasporto dell’energia elettrica, dunque nuove stazioni di trasformazione, eccetera, eccetera. Non solo, se alcune materie prime perderanno quasi del tutto la loro importanza, con conseguenze devastanti per interi stati, altre diventeranno ancora più preziose: si pensi al rame per l’elettrificazione integrale del sistema energetico, al litio ed al cobalto per le potenti batterie delle auto (e più avanti dei camion, degli autobus, e già si pensa agli aerei). Da questa sommaria descrizione emergono in tutta evidenza sia problemi di ordine geopolitico, che di natura ambientale e sociale. Su quelli ambientali voglio ricordare tre cose. La prima è che anche le centrali rinnovabili hanno il loro impatto sull’ambiente, si pensi ad esempio alle pale eoliche che sarà sempre più necessario posizionare in mare. La seconda è che il consumo di materie prime continuerà, anche se in termini generali in misura assai ridotta rispetto ad oggi. Cosa che però non varrà per i già citati litio e cobalto, che vedranno invece impennare i consumi. Giusto per dare un’idea, se nelle batterie degli smartphone troviamo 20 grammi di cobalto, in quelle delle auto elettriche si arriva a 15 kg. Detto in altri termini, una macchina elettrica vale in cobalto 750 smartphone. E visto che parliamo di batterie, ecco il
terzo problema da segnalare: quello del loro smaltimento. Detto questo, giusto per ricordarci che non esistono soluzioni miracolistiche ad impatto zero, la mia opinione resta assolutamente favorevole alla transizione energetica inclusa l’auto elettrica, purché ci si ricordi che quest’ultima è davvero più ecologica solo a condizione che il sistema di produzione dell’elettricità sia stato nel frattempo interamente decarbonizzato. Ma le nostre ragioni, ambientalmente e socialmente motivate, non sono le stesse delle gigantesche forze sistemiche che spingono alla transizione energetica, in primo luogo con l’ingannevole narrazione dei “cambiamenti climatici”. Ma cos’è allora che muove i dominanti? Un interessante articolo di Alessandro Visalli Poco dopo il famoso 15 marzo, Alessandro Visalli ha scritto un interessante articolo che può aiutarci nel nostro ragionamento. Visalli non entra nel merito della teoria dell’AGW, dunque non la mette in discussione ed anzi sembra avallarla. Lo fa però con una certa prudenza, perché avverte anch’egli l’insostenibilità della narrazione dominante. Ma questa è la parte meno interessante dello scritto. Tralasciando qui le conclusioni (sulle quali ci sarebbe da discutere), la questione centrale che Visalli pone è un’altra, ed è esattamente la stessa del titolo del nostro articolo: perché lo fanno? L’autore, partendo dallo schema interpretativo di Giovanni Arrighi sui cicli di accumulazione del sistema capitalista, giunge ad inquadrare l’attuale campagna sul clima nella spinta verso una nuova fase di «espansione del sistema-mondo allo scopo di trovare “terre vergini” nelle quali siano presenti opportunità più convenienti».
Si tratterebbe, in altri termini, di risolvere la crisi superando l’attuale fase terminale finanziaria del precedente ciclo espansivo, creando le condizioni per un nuovo ciclo che per avviarsi ha bisogno di investimenti produttivi in qualche modo forzati dall’esterno, attraverso una dialettica tra gli interessi degli agenti economici (i capitalisti) e la logica di potenza del soggetto che si impone in quel ciclo come centro del sistema. In questa dinamica c’è dunque un elemento economico (l’uscita dalla crisi), ma anche uno politico (la definizione del nuovo centro), laddove il determinarsi del secondo elemento è condizione per la piena realizzazione del primo. Ma affinché questo processo possa andare a buon fine, dice Visalli, occorre che gli “spiriti animali” del capitalismo – sempre portati a guardare solo i guadagni del giorno dopo – vengano indeboliti da un’emergenza che li metta momentaneamente a tacere. Detto in altro modo, quel che occorre al capitalismo è che – almeno per un periodo – gli interessi generali del sistema (dunque gli stessi interessi di classe dei dominanti visti nel loro insieme) prevalgano sugli interessi immediati dei singoli capitalisti. Quale potrà essere allora l’emergenza da utilizzare a tale scopo? Questa è la sua ipotesi: «La quadra, come fu negli anni cinquanta la guerra fredda, può venire dalla ‘distruzione del pianeta’. In questo modo i capitali possono forzatamente essere impiegati in investimenti guidati dallo Stato, ma salvaguardanti l’iniziativa privata. In conseguenza nella parte diffusa della ‘manutenzione territoriale’ e della ‘economia
circolare’ si impiegano i ‘superflui’, combattendo il sottoconsumo occidentale, e la capacità produttiva si riconverte riducendo la sovracapacità e la sovrapproduzione. Una quadra perfetta per quello che Minsky chiamava “Keynesismo privatizzato”». Quindi: «La riconversione ecologica e slogan come “Non c’è più tempo”, svolgerebbe questa funzione strutturale vista dal punto di vista delle élite». Ma c’è un altro passaggio di Visalli che mi pare utile segnalare. Poiché la lotta per conquistare il centro del sistema è anche lotta per l’egemonia, ecco che entra in gioco un potere addizionale di cui dobbiamo tenere conto: «La questione è che l’egemonia mondiale si ottiene quando alla capacità di governance delle forze sistemiche si aggiunge la leadership, che come dicono Arrighi e Silver in “Caos e governo del mondo”: “si fonda sulla capacità del gruppo dominante di presentarsi, ed essere percepito, come portatore di interessi generali” (p.30), questa capacità porta un potere “addizionale”. Gruppo dominante e gruppi subordinati in qualche modo concordano che la direzione nella quale il primo dirige le forze è a vantaggio comune. Il sistema è gestibile, dunque, senza ricorrere alla pura e semplice forza». Bene, in queste righe c’è esattamente l’ipotesi che stiamo sostenendo, individuando nella questione climatica (ed ovviamente nella sua gestione) uno snodo di portata strategica per l’intero sistema capitalista. Questo significa che si debba allora esser contro alla transizione energetica? Ovviamente no, e questo vale (al di là delle diverse valutazioni della teoria dell’AGW) tanto per Visalli (il cui pensiero spero e credo di aver riportato correttamente) quanto per il sottoscritto. Chi guiderà la transizione energetica?
Per un punto di vista socialista sulla questione Si pone adesso un piccolo problema: chi guiderà questa transizione? Certo, chi la sta guidando ad oggi è fin troppo evidente. E poiché le forze socialiste sono non deboli, ma debolissime ai quattro punti cardinali, poco c’è da illudersi sulla capacità di incidere sul tema. Ma come affermare almeno un diverso punto di vista socialista sulla questione? Il tema è talmente vasto che conviene qui limitarsi a segnalare le questioni principali. In primo luogo si tratta di sostenere una transizione energetica che non solo non includa un rilancio del nucleare, ma che ne determini invece la definitiva chiusura (ma su questo torneremo più avanti). In secondo luogo le fonti rinnovabili vanno sostenute ed incentivate, ma con grande attenzione sia al loro impatto (che comunque c’è) sia alle speculazioni di ogni tipo che un passaggio fatto all’insegna del “non c’è più tempo” porterebbe inevitabilmente con se. In terzo luogo – e qui si va oltre il settore energetico in senso stretto – bisogna dire di no ad ogni intervento artificiale sul clima (no dunque alla geoingegneria, ma anche di questo parleremo più avanti). In quarto luogo, i costi di questa gigantesca transizione dovranno essere fatti ricadere sui ceti più abbienti, tutelando invece in pieno le classi popolari. In quinto luogo, contro il “Keynesismo privatizzato“, bisogna affermare il controllo e la proprietà pubblica (dunque dello Stato) dell’intero sistema energetico. Attenzione, però, questo punto di vista socialista potrà emergere solo ad una imprescindibile condizione: che si contesti con decisione la narrazione dominante sul clima e dunque la teoria dell’AGW. E’ questo un punto ostico quanto decisivo, dato che se invece si accetta la narrazione del “non c’è più tempo“, i dominanti avranno gioco facile a far passare
ogni porcheria, a scaricare sui più deboli i costi dell’intera operazione, a favorire gli interessi delle grandi corporation del settore energetico e non solo. Di più, avranno buon gioco pure nel prevedibile rilancio del nucleare. Di nuovo sul nucleare Ne abbiamo già parlato nel primo articolo di questa serie: attualmente il nucleare è in naftalina, ma potrebbe venire facilmente riesumato qualora si accettasse davvero il folle “non c’è più tempo” della propaganda sul clima Il perché è presto detto. Il passaggio alle rinnovabili è possibile, oltre che desiderabile, ma richiederà un certo numero di decenni. Viceversa, qualora accettassimo la narrazione dominante sul clima, tutto quel tempo non ci sarebbe. L’unica cosa da fare sarebbe la rapida elettrificazione integrale del sistema energetico (per la gioia delle grandi multinazionali dell’auto), contestualmente ad un’altrettanto rapida nuclearizzazione del sistema elettrico (per la felicità dei signori dell’atomo), un processo nel quale le rinnovabili potrebbero aspirare solo ad un ruolo complementare, ma non sostitutivo come è invece necessario. Alla fine di questo processo avremmo sì meno CO2 (la cui effettiva incidenza sul clima è tutta da accertarsi), ma un ben più alto rischio nucleare (la cui pericolosità milioni di essere umani hanno invece già accertato nella realtà). E’ davvero il caso di rischiare di finire dalla padella alla brace? La risposta mi pare fin troppo scontata. Gli interessi politici della narrazione dominante Già parlando degli interessi economici abbiamo visto come
questi si intreccino con importanti interessi politici. Tra questi ultimi bisogna distinguere tra i grandi interessi (sistemici) ed i “piccoli interessi” dei vari governi nazionali e locali. Liquidiamo subito questi ultimi, perché meno importanti dei primi, anche se talvolta pure questi “piccoli interessi” sono davvero irritanti. Tutti avranno notato come ormai al più piccolo stormir di foglie si grida all’uragano, e se per caso una zona si allaga è certo che lì ha colpito il male assoluto: quel “cambiamento climatico” tanto sfuggente quanto terrorizzante. In questo modo i “bravi” governanti possono sempre autoassolversi. Una zona si è allagata? Nessuno parlerà più della cattiva politica del territorio, della sua progressiva cementificazione, tanto a spiegar tutto basterà l’immaginifica “bomba d’acqua” subito invocata dai media. In città una pianta è caduta (ma oggi nel linguaggio mediatico si dice “crollata”, quasi fosse un edificio!) colpendo a morte un passante? La colpa non è della cattiva manutenzione alle aree verdi, magari dovuta pure ai tagli imposti dall’Europa (non sia mai!), ma del fatto che i colpi di vento son diventati quasi tutti dei tornado. E si potrebbe continuare con gli esempi. Ma veniamo ora ai ben più importanti interessi sistemici. Cosa c’è di meglio dell’allarme climatico per rilanciare una globalizzazione in crisi? Cos’è in fondo il modello di funzionamento dell’IPCC di cui ci siamo occupati, se non una prova tecnica di governo mondiale? D’altronde, qualora accettassimo la teoria dominante, è chiaro che nuove e rilevanti cessioni di sovranità statuale si renderebbero necessarie. Questo modello è utile alle classi dominanti perché serve anche a tecnicizzare la politica, a “depurarla” da ogni residuo di democrazia. Non vedere questo aspetto, tanto più da parte di chi vorrebbe porsi in alternativa all’attuale sistema, è semplicemente intollerabile. Un modo di essere ciechi anche se si hanno dieci decimi dall’oculista. Ma c’è di più. L’attuale narrazione climatica potrebbe portarci non solo verso un sistema nei migliore dei casi ademocratico. Essa potrebbe condurci addirittura verso forme
dispotiche del tutto nuove, basate sul controllo del clima attraverso qualche applicazione della geoingegneria. Attenzione alla geoingegneria! Sono forse diventato un complottista? No, se ne scrivo non è per una lettura notturna di qualche misterioso sito dedito alla dietrologia, bensì per un articolo apparso sull’autorevole rivista (si fa per dire) le Scienze. «Clima: ultima chiamata», questo il titolo di copertina del numero di aprile di questa rivista. Bene, ho subito pensato, forse ci sarà qualche novità. Oppure, nella peggiore delle ipotesi, ci verrà solo riproposta la solita solfa degli ultimi tempi. Invece no. Né l’una né l’altra, le Scienze ha infatti deciso di andare oltre. Ce lo spiega subito il sottotitolo: «Ridurre le emissioni non basta più. Per limitare l’aumento della temperatura dovremo anche eliminare dall’atmosfera la CO2 accumulata finora». Siamo cioè alla tesi della urgente necessità delle cosiddette “emissioni negative”. Una cosa assurda, dato che ove si ponesse davvero fine alle emissioni industriali (e prescindendo qui dalla variabilità di quelle naturali, di cui abbiamo parlato nel quinto articolo, ma che i sostenitori dell’AGW nemmeno prendono in considerazione), il problema della CO2 si risolverebbe progressivamente da solo, dato che la sua permanenza in atmosfera è comunque limitato nel tempo. Ma di cosa si tratta esattamente? L’articolo a pag. 46 ha un titolo sobrio, roba da scienziati attenti a non impressionare: «L’ultima speranza». Avete capito bene: l’ultima speranza. Insomma, la rivista si è portata avanti col lavoro. Anche in questo caso è interessante il sottotitolo: «Riusciremo a
eliminare dall’atmosfera abbastanza CO2 da rallentare o addirittura invertire il cambiamento climatico?». Invertire? Si proprio “invertire”, come se qualcuno sapesse che la temperatura giusta per il pianeta è quella, che ne so, del 1860 piuttosto che quella del 1917 (effettivamente a me più simpatica). Avete capito dove si vuole arrivare? L’autore, Richard Conniff, riferisce di alcuni studi sul tema ed elenca 7 possibili metodi per la cattura della CO2. Di questi solo uno è naturale: la riforestazione delle foreste abbattute e l’afforestazione, ciò la trasformazione in foreste di terreni oggi non alberati. Troppo facile, troppo naturale, ma soprattutto troppo poco redditizio per i moderni stregoni della CO2. Gli altri 6 metodi sono invece del tutto artificiali, ma uno in particolare interessa all’autore, e di conseguenza incuriosisce pure noi. Vediamolo da vicino. L’idea è quella della cattura diretta della CO2 dall’atmosfera tramite macchinari che dopo aver aspirato l’aria ne estrarrebbero chimicamente l’anidride carbonica per poi iniettarla nel sottosuolo, con l’obiettivo di stoccarla in via definitiva a profondità piuttosto elevate. Al momento, un simile macchinario (peraltro di potenza ridottissima) esiste solo in Islanda, ma quel che conta è l’idea. Conniff riferisce quindi alcuni dati basati sulle stime di chi studia questa possibilità. Secondo questi “esperti” si potrebbero eliminare in questo modo da 10 a 40 miliardi di tonnellate di CO2 dall’atmosfera all’anno. Poiché il costo di questa cattura andrebbe da 100 a 300 dollari a tonnellata, avremmo un business annuo compreso tra i mille ed i dodicimila miliardi! Ma non sbellicatevi dalle risate, che il meglio ha da venire. Queste simpatiche macchine consumano ovviamente energia, ma quanta esattamente? Secondo l’articolista per eliminare un milione (milione, non miliardo) di tonnellate di CO2 servirebbe la quisquilia di una potenza elettrica da 300 a 500 megawatt. Dunque, calcoliamo noi, per smaltire da 10 a 40 miliardi di tonnellate servirebbe da un minimo di 3 milioni (300×10.000=3.000.000) ad un massimo di 20 milioni di megawatt (500×40.000=20.000.000). Giusto per avere un’idea la potenza
elettrica complessiva installata in Italia è pari a 117mila megawatt, dunque per soddisfare i folli progetti di costoro ci vorrebbe da un minimo di 25 ad un massimo di 170 Italie. Devo aggiungere altro? Ora, dopo aver mostrato l’assurdità di certe riviste tutte protese a salvare il pianeta, dunque affidabilissime più di ogni altra fonte, resta però un fatto assai inquietante. L’idea del controllo del clima è un progetto al quale si sta effettivamente lavorando. Al momento non possiamo sapere con quale esito, ma si sta lavorando al disegno di un pianeta ridotto alla stregua di un appartamento climatizzato. Ma chi avrà le chiavi di questo mega-termostato del futuro? Ma naturalmente un bel governo mondiale democratico di un pianeta finalmente senza confini, diranno subito i globalisti di ogni risma… Come no, ma certo che è a questa prospettiva che stanno lavorando, mica sarete diventati complottisti pure voi? La paura come strumento di controllo sociale Ho parlato già abbastanza della funzione del moderno catastrofismo (non solo quello climatico) nel sesto articolo. Viviamo in effetti un’epoca strana, dove all’ottimismo esagerato del periodo precedente – l’idea piuttosto ingenua di un infinito progresso lineare per quanto diseguale – che tuttavia alimentava la sinistra, si è sostituito un pessimismo antropologico senza precedenti. Questo pessimismo è il nemico giurato di ogni speranza di cambiamento. Proprio per questo piace tanto alle èlite, oggi evidentemente non più in grado (a differenza del passato) di offrire una positiva narrazione a lieto fine dell’umana vicenda. Sta di fatto che la paura è diventata il principale ingrediente di ogni discorso sul futuro. E’ così al bar come nei media. Nei discorsi dei politici come in quelli degli
intellettuali. Infine sono arrivati gli scienziati con il loro carico da 90 del “global warming”. Attraverso la paura si possono controllare le menti, istillando fra l’altro un diffuso senso di colpa, ad esempio quello verso le nuove generazioni, da cui è difficile liberarsi. A questo punto, però, la narrazione sistemica mostra una curiosa contraddizione. Da un lato la cultura dominante consiglia vivamente agli uomini di ridursi allo stato di meri consumatori in competizione tra loro – guai ad avere altri “grilli” nella testa, di cambiare il mondo poi non se ne deve proprio più parlare. Dall’altro, questo uomo- consumatore viene invece criminalizzato in quanto inquinatore. Il cerchio magico consumi-paura-nuovi consumi Parrebbe questa una contraddizione insanabile, ma l’apparenza non deve ingannare. Anche la criminalizzazione contribuisce infatti a ridurre l’uomo alla sola dimensione del consumo. Ma mentre questo schema è perfettamente interclassista, dato che inquina la Ferrari ma pure la Panda, esso sembrerebbe però senza soluzione, visto che un consumo (per quanto minimo) vi sarà sempre e comunque. Come venirne fuori allora? Sulla paura indotta dalla narrazione dominante sul clima sicuramente qualche psicologo non troppo indottrinato potrebbe dirci cose molto più profonde ed interessanti delle mie. Io mi limito quindi a riprendere e concludere il discorso sui consumi, che un suo interesse comunque ce l’ha. Colpevolizzato e ridotto nella sua gabbia, all’uomo- consumatore-colpevole non sembrerebbe concessa altra via se non quella di… nuovi consumi. Vuoi superare i tuoi sensi di colpa e sentirti migliore degli altri? Cambia la tua vecchia auto diesel e passa all’elettrico, lascia la tua vecchia casa e costruiscine una nuova “ambientalmente sostenibile”, cambia la caldaia a metano che quella di ultima generazione emette meno CO2, sostituisci quanto prima il tuo frigorifero, la lavatrice e la lavastoviglie, che gli elettrodomestici che hai consumano troppo… E potremmo continuare a lungo, visto che abbiamo già la moda “ecosostenibile”, l’alimentazione
“ecosostenibile”, il turismo “ecosostenibile”. Insomma, alla fine il cerchio magico consumi-paura-nuovi consumi si chiude alla grande, e l’anti-consumismo alimentato a CO2 si rovescia nel suo contrario, un’ultra-consumismo a trazione ecologica. Non c’è che dire: per il capitalismo in crisi una bella boccata d’ossigeno. Conclusioni Siamo così arrivati alla conclusione di questa serie di articoli sui “cambiamenti climatici”. Chi ha avuto la pazienza di leggere avrà capito il senso di queste riflessioni. Le conclusioni a cui siamo giunti sono disseminate nei tanti punti che abbiamo toccato. Si tratta naturalmente di conclusioni provvisorie, dato che una discussione vera sulla teoria dominante è ben lungi dall’aprirsi. Questo fatto non deve scandalizzare: il martellamento mediatico è troppo potente e le forze che dovrebbero esercitare la critica troppo deboli. Tuttavia, un maggiore sforzo teso a superare tanto la pigrizia mentale, quanto questo penoso stato di subalternità, male non farebbe. Per quanto mi riguarda chiudo sintetizzando in sei punti le conclusioni del lungo ragionamento svolto: 1. La narrazione dominante sul clima, incentrata su un interessato catastrofismo, va respinta. 2. La teoria dell’AGW fa infatti acqua da tutte le parti, ed i fatti la smentiscono alla grande. 3. Dietro alla narrazione del punto 1 ed alla teoria del punto 2 si celano gli enormi interessi economici, politici e di controllo sociale che abbiamo esaminato in questo articolo. 4. La necessaria lotta per l’ambiente e per la salute non va perciò confusa con la questione climatica; occorre anzi sviluppare una critica ambientalista della teoria dell’AGW. 5. La ricerca sul clima mantiene ovviamente tutta la sua importanza e deve essere sviluppata, ma essa sarà credibile solo quando verrà tolta di mano ad istituzioni controllate dalle èlite come l’IPCC. 6. La scelta di ridurre l’utilizzo dei combustibili fossili (fino al loro totale superamento) va perseguita fino in fondo, ma secondo criteri politici e sociali opposti al disegno dei dominanti, ed in base a criteri ambientali che impediscano il
passaggio dalla padella delle fonti fossili alla brace del nucleare. Queste conclusioni sono decisamente controcorrente. A dispetto delle sue incongruenze, il “pensiero unico climatico” appare ancora oggi inattaccabile. Del resto, la tipica forma mutevole in cui esso si presenta – passando sempre più spesso dal “riscaldamento globale” agli inafferrabili e non meglio definiti “cambiamenti climatici” – non è certo quella di una teoria scientifica, perlomeno non nel senso di Popper, bensì quella di una moderna religione che nessuno può discutere. Fra l’altro una religione che “battezza” i bambini già in tenera età, come si è visto col loro disinvolto utilizzo (magari in buona fede, ma poco cambia) nelle manifestazioni del 15 marzo. Significativamente, in tempi in cui si parla di fascismo anche quando si discute di sport, a nessuna anima candida di sinistra è venuto in mente che, al di là dei diversissimi scopi e della diversissima situazione, quell’utilizzo delle scolaresche delle elementari, in sfilate per lo più organizzate e benedette dalle autorità politiche, poteva ricordare certe manifestazioni del ventennio. Certo, i giovani “Balilla” portavano un moschetto giocattolo a tracolla, quelli di oggi cartelli apparentemente innocui a “difesa del pianeta”, ma questo giustifica forse l’attuale strumentalizzazione dei buoni sentimenti di ragazzi e bambini? Detto questo, avrò certamente scandalizzato qualcuno. Ben venga lo scandalo, se potrà servire a far ragionare sulla natura totalitaria della narrazione dominante sul clima. Ad ogni modo, quel che avevo da dire l’ho detto e qui mi fermo. Solitamente il tempo (talvolta anche quello meteorologico) è galantuomo. Chissà che non lo sia anche stavolta. 7 – fine
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