IL NOSTRO DONBASS di Willi Langthaler - sollevazione

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IL NOSTRO DONBASS di Willi Langthaler - sollevazione
IL NOSTRO DONBASS di Willi
Langthaler

[ martedì 21 maggio 2019 ]

Giorni addietro davamo conto della partecipazione di Fabio
Frati, del Cc di Programma 101, alle celebrazioni per il
quinto anniversario della fondazione delle repubbliche
popolari di Donetsk e Lugansk. Con Fabio c’erano altri
compagni europei: francesi, tedeschi, austriaci, serbi,
polacchi, ecc.

Di seguito le considerazioni di viaggio di Willi Langthaler,
della sinistra patriottica austriaca e portavoce del Campo
Antimperialista.
* * *
In occasione delle celebrazioni della liberazione
dall’occupazione nazista (9 maggio) e del quinto anniversario
della fondazione delle Repubbliche del Donbass (11-12 maggio),
una delegazione di 9 membri del movimento austriaco per la
pace e la neutralità si è recata nei giorni scorsi nelle zone
ribelli dell’Ucraina orientale.

Malgrado una visita di pochi giorni, ogni osservatore ha
potuto rendersi conto che alcune narrazioni, diffuse dai media
occidentali sui cosiddetti territori separatisti, sono
smentite in modo sfacciato. Almeno nelle capitali, Donetsk e
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Lugansk, prevale la normale vita di tutti i giorni. Non si può
dunque parlare di situazione di guerra o stato di emergenza.
Le tracce della guerra le si deve andare a vedere. Si pensi a
Parigi, davvero militarizzata. D’altra parte, si vedono in
Donbass le difficoltà economiche, le conseguenze sociali della
situazione incerta e la mancanza di investimenti.

Politicamente e culturalmente, si potrebbe parlare di una
sorta di Risovietizzazione politica, anche se le basi e le
cause sociali sono completamente diverse. Due momenti stanno
creando l’identità per le repubbliche popolari: da un lato, la
centralità della classe operaia nell’industria del carbone e
dell’acciaio, che da centralità ad un “proletariato”
inimmaginabile nel nostro paese. Non c’è mai stata un’élite
borghese e gli oligarchi che sono emersi negli ultimi decenni,
sono scappati con la guerra civile. I protostati nacquero da
una rivolta popolare vera che ha partorito una nuova
leadership. Soprattutto a Lugansk, dove il carbone e l’acciaio
sono ancora dominanti, qui i sindacati la fanno da padrone. Si
potrebbe quindi parlare di una repubblica sindacale. Donetsk
aveva più industria meccanica e una realtà metropolitana più
importante.

D’altra parte, c’è la vittoria sul nazismo tedesco, che è
stato vinto soprattutto in questa regione con un bilancio
particolarmente elevato. Ecco perché la connessione del
nazionalismo ucraino alla tradizione nazista con Bandera & Co
causa controreazioni particolarmente violente. Non per niente
i numerosi monumenti sovietici sono intatti e continueranno ad
essere onorati. Lenin lo si vede dappertutto.
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Il 9 maggio è certamente un’alta priorità anche nella
Federazione Russa, ma nel Donbass abbiamo a che fare con
un’enorme mobilitazione dal basso, ancor più del 1° maggio, di
cui molti degli altri partecipanti ci avevano parlato, oltre
che i giorni fondatori delle repubbliche popolari. Tre volte
in meno di due settimane, le masse scendono in piazza.
Sebbene, ovviamente, le autorità sovrintendono
all’organizzazione della partecipazione, un elemento di
volontarietà spontanea è molto evidente. A questo proposito,
il termine rivolta popolare è ancora valido, anche per quanto
riguarda il 2014 militare e gli anni successivi. Se la Russia
può aver sostenuto la rivolta, il punto di forza è stata la
resistenza popolare.

Un elemento nazionalista grande russo, che noi davamo per
scontato, non è in alcun modo apprezzabile. La Chiesa
ortodossa non giocò praticamente alcun ruolo, a differenza
della stessa Russia, dove invece ha un grande peso. Persino i
cosacchi, che si presentano nella regione come un momento di
identità potenzialmente conservatrice nel senso di una
meccanica culturale di stato, appaiono poco più che folklore,
tranne che in un senso antifascista, non è un caso che, ad
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esempio, il monumento di Shevchenko — il poeta nazionale
ucraino usato dai nazionalisti — non è stato rimosso. Si
tratta del segnale consapevole che si è avuta una rivolta
democratica e antifascista, non nazionalista. Senza
dimenticare che il Donbass era un crogiolo sovietico, a
differenza della Crimea russo-imperiale.
Le questioni della situazione economica e le prospettive di
sviluppo non possono essere messe a fuoco con la necessaria
profondità in una visita di pochi giorni. Tuttavia, il ruolo
schiacciante dello Stato è chiaro. Gli oligarchi sono
scomparsi. Sebbene la loro proprietà sia stata formalmente
preservata, la maggior parte dei governi ha dovuto intervenire
e organizzarsi, senza dimenticare che non esiste un regolare
sistema bancario e quindi nessun credito commerciale.

Formalmente, tutte le relazioni economiche con l’Ucraina di
Kiev sembrano interrotte. Tuttavia senti dire che un qualche
scambio commerciale c’è ancora. Il carbone del Donbass trova
ancora la strada per raggiungere le sue vecchie aree di
vendita. Il fatto che i nazionalisti ucraini e i radicali di
destra abbiano accusato i propri oligarchi di continuare le
relazioni economiche nel corso dell’imposizione del blocco
della Donbass indica che ciò è avvenuto.

L’opportunità annunciata da Putin di rilasciare passaporti
russi è stata accolta con entusiasmo. Grazie a questo è
finalmente tornato disponibile per i cittadini del Donbass un
documento di viaggio utilizzabile a livello internazionale,
visto che non è possibile rinnovare i passaporti ucraini nelle
Repubbliche popolari.

Anche se Mosca stessa non ne vuole sapere, e per questo motivo
anche i vertici delle repubbliche popolari stanno frenando,
praticamente tutti vogliono la connessione con la Russia —
anche per ragioni piuttosto pragmatiche. Sia che si tratti
dell’enorme differenza sociale: un minatore del Donbass
guadagna 25.000 Rubli (circa 350 €), nel Kuzbass russo due o
tre volte più — sia in vista della normalizzazione della
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situazione economica che dell’integrazione dell’industria
pesante e metallurgica.
Nessuno crede davvero alla “pace di Minsk” e all’autonomia in
seno all’Ucraina in essa prevista, Kiev ha dimostrato di
essere militarista ed estremista. La guerra fratricida imposta
dagli estremisti di destra della regione perpetrata dal regime
di Maidan appare fratricida e priva di senso. Tuttavia,
l’ipotesi dell’autonomia resta sul tappeto come ipotesi
politica, almeno finché non è esclusa una rivoluzione
democratica vittoriosa a Kiev.

Da notare le differenze tra Donetsk e Lugansk: Donetsk è più
vicina alla Russia putiniana, mentre Lugansk affianca
l’emblema nazionale ai simboli sovietici. A Donetsk le
celebrazioni sono state organizzate dal ministero, a Lugansk
dei sindacati.

Per quanto riguarda certe destre dell’Europa occidentale, non
si può incolpare le repubbliche isolate di accettare il loro
sostegno simbolico. Inoltre, le porte per la sinistra sono
aperte, e lo saranno di più in futuro. Quando Werner Murgg,
membro del parlamento della Stiria, ha presentato la grande
delegazione austriaca con un totale di quattro comunisti
stiriani al ministero degli esteri di Donetsk, tutti erano
contenti. Lugansk ha già fatto diversi inviti per il futuro.

In vista del 9 maggio 2020, un’altra delegazione austriaca per
la pace è stata concordata dai sindacati di Lugansk. Alcuni
articoli sono già stati discussi. Visite nelle fabbriche per
capire meglio la situazione sociale ed economica. La lotta
antifascista continua.

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LA SINISTRA PATRIOTTICA
                  [ martedì 21 maggio 2019 ]

In molti leggete SOLLEVAZIONE e condividete le idee, le
analisi e le proposte di Programma 101.

La maggior parte di voi, pur approvando, chi con il cuore chi
anche con la testa le nostre battaglie, resta alla finestra,
non si decide a darci fattivamente una mano, raggiungendo le
nostre file. Prevale, anche tra i nostri tanti simpatizzanti,
il disincanto, la sensazione d’impotenza, l’idea che fare
militanza politica rappresenti, oltre che un enorme
sacrificio, una lotta impari, destinata allo scacco.

Il fardello dell’impegno resta dunque sulle spalle di alcune
decine di militanti che resistono facendosi in quattro
affinché la nostra voce non scompaia.

Ci vorrebbero più militanti, più attivisti, più sedi, più
iniziative pubbliche, un giornale stampato da diffondere,
potenziare la nostra presenza sul Web. Per tutto questo
occorrono più mezzi. Tra questi mezzi il più importante sono i
soldi, e di soldi non ne abbiamo. Non abbiamo santi in
paradiso, le sole risorse finanziarie di cui disponiamo
vengono dai contributi volontari dei nostri aderenti. E sono
risorse scarse che non ci permettono di fare di più e meglio.

Per questo lanciamo una campagna di sottoscrizione per
sostenere SOLLEVAZIONE e Programma 101.
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Cosa ci faremmo con i soldi che arriveranno dalla campagna di
finanziamento è presto detto: vorremmo aprire un ufficio
centrale e pubblicare un giornale mensile.

Ce la faremo? Dipende anche da voi, dalla vostra generosità.

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CLIMA 7: PERCHÉ LO FANNO? di
Leonardo Mazzei

[ martedì 21 maggio 2019 ]

Questo articolo — l’ultimo della serie dedicata ai
“cambiamenti climatici” — non ha certo la pretesa di dare
risposte definitive alla domanda contenuta nel titolo. Esso ha
invece uno scopo più limitato, ma ugualmente importante:
quello di esaminare i tanti motivi ed interessi che sembrano
convergere nell’attuale narrazione dominante.

Tuttavia, nella formulazione della domanda c’è già un giudizio
ben preciso. Ci chiediamo infatti “perché lo fanno”, solo
perché diamo per assodato il fatto che sul clima non ce la
stanno raccontando giusta. Una convinzione, questa, che credo
di aver motivato a sufficienza nei sei articoli già
pubblicati.

I precedenti interventi sul cosiddetto “riscaldamento globale”
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— Clima 1 – E se fosse la lobby nucleare? (18 marzo
2019). Clima 2 – Quelli che non se la bevono (25 marzo
2019). Clima 3 – Nessuna catastrofe in vista (1 aprile
2019). Clima 4 – La bufala dell’aumento degli “eventi
estremi” (11 aprile 2019). Clima 5 – Tutta colpa della CO2?
(26 aprile) – Clima 6 – Catastrofismo e socialismo (6 maggio)

                           *   *   *

Una necessaria premessa (a proposito delle critiche
ricevute)
Come i precedenti, anche l’ultimo articolo ha suscitato
commenti di segno diverso. Ed agli apprezzamenti fanno
riscontro diverse critiche. E’ normale che sia così.
Purtroppo, però, nessuno dei critici entra minimamente nel
merito degli argomenti trattati. Eppure su temperature e
livello dei mari, sugli eventi estremi come sul ruolo della
CO2, i temi caldi non sono certo mancati. Perché, allora,
questo silenzio? Forse mi sbaglierò, ma la sensazione è che
tra i critici prevalga un atteggiamento religioso nei
confronti della teoria dell’AGW (Anthropogenic Global
Warming).
Quella del “riscaldamento globale” è in fondo una religione
assai degna del nostro tempo. Essa è infatti cangiante e
personalizzabile, una merce ideale nel supermarket di un
capitalismo che punta a colpevolizzare l’uomo per assolvere se
stesso. Questa religione acchiappa tutto va bene, infatti, sia
per chi crede alla neutralità ed alla sacralità della scienza,
sia per chi immagina un bucolico ritorno ad un imprecisato
“stato di natura”. Nulla di nuovo in tutto questo:
turbocapitalismo e figli dei fiori son sempre state due facce
di un’identica medaglia.

Qualche riga in più la devo dedicare a Mauro Pasquinelli, il
quale si è nuovamente scagliato contro i miei articoli sul
clima con una foga degna di miglior causa. Come già in
precedenza, Mauro mi attribuisce cose che non ho detto e
convinzioni che non ho. E fin qui passi, che nel mondo ci vuol
tanta pazienza. Poi, siccome a lui non va giù che mi sia
dedicato alla questione del clima seriamente, entrando cioè
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nel merito delle incongruenze della teoria dell’AGW — tema sul
quale in tutta evidenza non sa cosa dire —, mi attacca perché
avrei trattato la questione separandola dalle altre catastrofi
prodotte dal capitalismo. Ragion per cui, egli ne consegue,
sarei affetto da “idiotismo specialistico”.

E’ questo un modo per non prendere atto di quella che è la mia
tesi centrale, che ripeto per la centesima volta, e cioè che
bisogna distinguere tra la sacrosanta lotta per l’ambiente e
la salute (da promuovere e sostenere con ogni forza) e
l’ingannevole narrazione dominante sul clima. Il perché l’ho
già spiegato diverse volte e non ci torno sopra. Dico solo che
si tratta di lottare, qui e ora, contro la catastrofe reale
prodotta dal capitalismo reale, senza farsi avvolgere nelle
spire di una narrazione basata su una teoria non dimostrata,
che ha lo scopo di condannare indistintamente gli essere umani
proprio per meglio assolvere il sistema. Questa mia tesi può
essere ovviamente disapprovata (ci mancherebbe!), ma non si
può dire che non l’abbia esposta in maniera chiara. Dunque non
si può fingere di non averla intesa.

Che dice invece Mauro? Semplice, poiché io respingo il
catastrofismo sul clima sarei sostanzialmente diventato un
“agente” del capitalismo. A questo punto, dopo essermi fatto
quattro risate, che fan sempre bene alla salute, la chiudo
qui. Su queste basi, al momento ogni discussione è palesemente
impossibile. Più avanti vedremo, che il tempo è galantuomo. So
bene che nella lotta contro il capitalismo la razionalità non
basta, ma questo significa forse che le sciocchezze
catastrofiste siano più efficaci? Ai lettori la ben poco ardua
sentenza.

In questo articolo
Passiamo al tema che qui ci interessa trattare. In primo luogo
vedremo cos’è l’IPCC, com’è nato, come funziona, qual è la sua
credibilità. In secondo luogo – e questo è ovviamente il cuore
dell’articolo – affronteremo i diversi interessi (economici,
politici, di controllo sociale) che ben si intravvedono dietro
la narrazione ufficiale. In terzo luogo, cercheremo di
arrivare ad alcune conclusioni.
Cos’è l’IPCC
Partiamo dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change)
perché in fondo è quella la decisiva fonte che alimenta
incessantemente la teoria dell’AGW. La qual cosa è del tutto
naturale, dato che l’IPCC non è sorto per studiare il clima,
ma per avallare la tesi dei “cambiamenti climatici”, che se
per caso dovesse arrivare alla conclusione che i cambiamenti
in corso sono del tutto compatibili con la ciclicità climatica
storicamente conosciuta, l’IPCC dovrebbe semplicemente
chiudere i battenti con tutte le spiacevoli conseguenze del
                                          caso.

Il nome, del resto, dice già tutto. L’IPCC non è
un’istituzione scientifica in senso proprio, bensì un “gruppo
intergovernativo”, cioè di fatto una struttura sostanzialmente
politica. A chi risponde questa struttura? Lasciamo la parola
a due scienziati, Sonja Boehmer-Christiansen e Aynsley John
Kellow:
  «Il Dipartimento di Stato USA voleva che le conclusioni
  scientifiche fossero nelle mani del governo e non di
  accademici senza controllo. Così usò la sua influenza sulla
  Commissione Esecutiva dell’Organizzazione Meteorologica
  Mondiale (WMO) per dare il via alla creazione dell’IPCC sotto
  l’egida del WMO e dell’UNEP (il Programma ONU per
  l’Ambiente), nel 1988… L’IPCC fu disegnato come
  un’organizzazione intergovernativa formata da scienziati ma
  con il coinvolgimento dei governi nel processo di
  approvazione delle conclusioni: in pratica i governi tengono
il controllo dei processi di formazione dei documenti
 finali».

Siamo dunque alla scienza di Stato, ci dicono i due autori al
pari di altre migliaia di scienziati in tutto il mondo. Già,
ma quale Stato in particolare? Evidentemente gli Stati Uniti
d’America. Comprendo che questa affermazione possa prestarsi a
critiche. Non è forse proprio negli USA che si manifestano a
livello politico i maggiori contrasti (vedi Trump) sulla
teoria dei “cambiamenti climatici”? E’ indubbiamente così, ma
è così perché essendo tuttora gli USA il centro del sistema, è
lì che si addensano maggiormente i conflitti tra i diversi
interessi in gioco. Quel che è certo, però, è che con la
svolta degli anni ottanta gli Stati Uniti, assodata la sua
rilevanza strategica (ed anche militare), abbiano deciso di
prendere in mano la questione del clima. E lo strumento
principale di questo controllo è proprio l’IPCC.

Come funziona l’IPCC?
I media amano presentarci l’IPCC come un consesso di
scienziati intenti a studiare tutti gli aspetti dell’andamento
climatico. Si tratta però di una falsa rappresentazione. In
realtà l’IPCC è un ibrido senza precedenti. Esso include sia
uomini di scienza che rappresentanti politici, ma alla fine le
decisioni che contano spettano sempre a questi ultimi.

I report finali, cioè i famosi documenti che dovrebbero
orientare i decisori politici, vengono infatti definiti in un
processo a tre stadi. Il primo è di competenza dei soli
esperti, i quali però non sono per lo più climatologi, ma
specialisti delle varie discipline che confluiscono nei
report. In pratica ogni gruppo di lavoro – composto con
criteri geografici e coordinato dal panel vero e proprio, in
cui siedono i rappresentanti nominati dai governi – opera in
maniera separata dagli altri. Nonostante questi limiti è
questa la fase propriamente scientifica. Nel secondo stadio,
di revisione dei lavori scientifici, un numero più ristretto
di esperti lavora insieme ai rappresentanti governativi. Alla
terza e decisiva fase, quella che porta alla stesura dei
documenti finali, tra i quali i Summaries for Policy Makers,
partecipano soltanto i rappresentanti dei governi.

Domanda leggermente retorica: possiamo definire “scienza” una
roba del genere? Ovvio che no. A proposito delle “opportune
modifiche” abitualmente apportate nella fase finale di cui
sopra, già nel lontano 1996 così scriveva l’ex presidente
dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti, Frederick
Seitz:
«Non ho mai visto una insopportabile corruzione del processo
di revisione come questa che ha portato al secondo rapporto
dell’IPCC. Quasi tutte le modifiche hanno rimosso ogni accenno
di possibile scetticismo con cui molti scienziati guardano
alle affermazioni sul riscaldamento globale». (da Che tempo
farà – R. Cascioli e A. Gaspari)

Ma non c’è solo l’IPCC. Giusto 10 anni fa, nel 2009, scoppiò
il cosiddetto Climategate. La diffusione di 5mila e-mail
dell’unità di ricerca climatica della University of East
Anglia (Gran Bretagna) portò a galla la disonestà
intellettuale di certi “scienziati”. «Il fatto è che non
riusciamo a dar conto del mancato riscaldamento al momento.
Non riuscirci è una farsa», scriveva ad esempio uno di loro.
Insomma: se i dati non danno ragione alla nostra teoria
bisognerà pure inventarsi qualcosa…

Segui i soldi e… troverai l’AGW
«Segui i soldi e troverai la mafia», diceva Giovanni Falcone.
Bene, seguire la scia dei soldi è un buon metodo per capire
come funziona oggi la scienza. A dirlo non sono io. Sono gli
scienziati, quelli seri.

Nel campo della climatologia, inteso qui in senso lato, i
soldi vanno in una sola direzione, quella che incoraggia
l’allarmismo climatico. Università, agenzie ed istituzioni
varie che lavorano sul clima sanno perciò come devono
comportarsi in proposito: mai ridurre l’allarme, piuttosto
incrementarlo ad ogni passo.

 «I flussi di denaro sono diventati la raison d’être di molta
 della ricerca fisica, il sostentamento vitale di una sua
 porzione ancor maggiore, e forniscono il sostentamento ad un
 indicibile numero di occupazioni professionali».

Queste le parole del fisico Harold Lewis – ne abbiamo già
parlato nel secondo articolo – nella sua lettera di dimissioni
dall’American Physical Society, dove denuncia la «frode del
riscaldamento globale»… «che ha corrotto così tanti scienziati

Gli interessi in gioco
I sostenitori della teoria dell’AGW amano denunciare gli
interessi delle grandi multinazionali che operano nel settore
delle fonti fossili. Interessi indubbiamente giganteschi, ma
non più grandi di quelli di altri settori dell’economia che
dalla narrazione catastrofista sul clima hanno tutto da
guadagnare. E’ il capitalismo, bellezza! Un sistema centrato
sul profitto, non importa se ottenuto con la produzione di
alimenti per bambini oppure con quella di mine antiuomo.

Ma dietro alla teoria dell’AGW non ci sono soltanto interessi
economici. Ci sono pure interessi politici e di classe, dato
che quella teoria mentre da un lato si sposa alla perfezione
con il disegno globalista, dall’altro funge anche da
formidabile ingrediente di un più sofisticato meccanismo di
controllo sociale. Andiamo dunque a vedere meglio tutti questi
aspetti.
Gli interessi economici
Parlando degli interessi economici, la cosa fondamentale da
capire è solo una: che mentre quelli di chi difende le fonti
fossili tradizionali sono puramente “conservativi” – si mira
cioè a conservare ciò che già esiste -, quelli legati alla
transizione energetica sono sistemici e “rivoluzionari” al
tempo stesso – si mira cioè ad innescare un nuovo salto
tecnologico ed industriale, e soprattutto un nuovo ciclo di
accumulazione capitalistica. Se si comprende questa cosa non
sarà difficile capire quali dei due interessi è, specie in
tendenza, il più forte.

Avere ben presente questa realtà non significa affatto sposare
gli “interessi conservativi” contro quelli innovativi e
sistemici. Significa invece un’altra cosa: porre la necessità
di un punto di vista autonomo ed alternativo alle dinamiche
del capitalismo, un punto di vista socialista su questa
gigantesca questione.

Partiamo allora da un punto fermo. Il sottoscritto è per
realizzare, nel più breve tempo possibile, il passaggio alle
energie rinnovabili. Ho scritto della necessità e della
ragionevole realizzabilità di questo passaggio certo assai più
di tutti i miei critici messi insieme. E, nel mio piccolo, ho
sostenuto questa posizione fin dalla fine degli anni settanta.
La transizione energetica va dunque realizzata, ma non perché
il disastro climatico sia alle porte – cosa che abbiamo
visto ad abundantiam non essere vera – bensì perché è
necessario combattere l’inquinamento e preservare materie
prime (si pensi al petrolio ed alla petrolchimica) utili anche
in futuro.

Ma c’è modo e modo di realizzare questa transizione. E per
elaborare un punto di vista socialista occorre anzitutto
averne chiara l’immane portata.

Non sto qui a citare le stime sul business della transizione
energetica. Per comprenderne le dimensioni basti pensare alla
dismissione di tutte le centrali termoelettriche, alla loro
sostituzione con nuovi impianti, dunque (senza considerare per
ora il nucleare) alla gigantesca produzione di pannelli
fotovoltaici e turbine eoliche, alla sostituzione integrale
dell’attuale parco automobilistico con quello nuovo con motori
elettrici, ai nuovi sistemi di rifornimento. Ma non basta.
Mentre dovranno scomparire pozzi petroliferi e gasiferi,
miniere di carbone, oleodotti, gasdotti e raffinerie (con i
relativi problemi di bonifica), nasceranno inevitabilmente
nuove e più potenti linee per il trasporto dell’energia
elettrica, dunque nuove stazioni di trasformazione, eccetera,
eccetera.

Non solo, se alcune materie prime perderanno quasi del tutto
la loro importanza, con conseguenze devastanti per interi
stati, altre diventeranno ancora più preziose: si pensi al
rame per l’elettrificazione integrale del sistema energetico,
al litio ed al cobalto per le potenti batterie delle auto (e
più avanti dei camion, degli autobus, e già si pensa agli
aerei).

Da questa sommaria descrizione emergono in tutta evidenza sia
problemi di ordine geopolitico, che di natura ambientale e
sociale. Su quelli ambientali voglio ricordare tre cose. La
prima è che anche le centrali rinnovabili hanno il loro
impatto sull’ambiente, si pensi ad esempio alle pale eoliche
che sarà sempre più necessario posizionare in mare. La seconda
è che il consumo di materie prime continuerà, anche se in
termini generali in misura assai ridotta rispetto ad oggi.
Cosa che però non varrà per i già citati litio e cobalto, che
vedranno invece impennare i consumi. Giusto per dare un’idea,
se nelle batterie degli smartphone troviamo 20 grammi di
cobalto, in quelle delle auto elettriche si arriva a 15 kg.
Detto in altri termini, una macchina elettrica vale in cobalto
750 smartphone. E visto che parliamo di batterie, ecco il
terzo problema da segnalare: quello del loro smaltimento.

Detto questo, giusto per ricordarci che non esistono soluzioni
miracolistiche ad impatto zero, la mia opinione resta
assolutamente favorevole alla transizione energetica inclusa
l’auto elettrica, purché ci si ricordi che quest’ultima è
davvero più ecologica solo a condizione che il sistema di
produzione dell’elettricità sia stato nel frattempo
interamente decarbonizzato.

Ma le nostre ragioni, ambientalmente e socialmente motivate,
non sono le stesse delle gigantesche forze sistemiche che
spingono alla transizione energetica, in primo luogo con
l’ingannevole narrazione dei “cambiamenti climatici”. Ma cos’è
allora che muove i dominanti?

Un interessante articolo di Alessandro Visalli
Poco dopo il famoso 15 marzo, Alessandro Visalli ha scritto
un interessante articolo che può aiutarci nel nostro
ragionamento. Visalli non entra nel merito della teoria
dell’AGW, dunque non la mette in discussione ed anzi sembra
avallarla. Lo fa però con una certa prudenza, perché avverte
anch’egli l’insostenibilità della narrazione dominante. Ma
questa è la parte meno interessante dello scritto.
Tralasciando qui le conclusioni (sulle quali ci sarebbe da
discutere), la questione centrale che Visalli pone è un’altra,
ed è esattamente la stessa del titolo del nostro articolo:
perché lo fanno?

L’autore, partendo dallo schema interpretativo di Giovanni
Arrighi sui cicli di accumulazione del sistema capitalista,
giunge ad inquadrare l’attuale campagna sul clima nella spinta
verso una nuova fase di «espansione del sistema-mondo allo
scopo di trovare “terre vergini” nelle quali siano presenti
opportunità più convenienti».
Si tratterebbe, in altri termini, di risolvere la crisi
superando l’attuale fase terminale finanziaria del precedente
ciclo espansivo, creando le condizioni per un nuovo ciclo che
per avviarsi ha bisogno di investimenti produttivi in qualche
modo forzati dall’esterno, attraverso una dialettica tra gli
interessi degli agenti economici (i capitalisti) e la logica
di potenza del soggetto che si impone in quel ciclo
come centro del sistema.

In questa dinamica c’è dunque un elemento economico (l’uscita
dalla crisi), ma anche uno politico (la definizione del
nuovo centro), laddove il determinarsi del secondo elemento è
condizione per la piena realizzazione del primo. Ma affinché
questo processo possa andare a buon fine, dice Visalli,
occorre che gli “spiriti animali” del capitalismo – sempre
portati a guardare solo i guadagni del giorno dopo – vengano
indeboliti da un’emergenza che li metta momentaneamente a
tacere. Detto in altro modo, quel che occorre al capitalismo è
che – almeno per un periodo – gli interessi generali del
sistema (dunque gli stessi interessi di classe dei dominanti
visti nel loro insieme) prevalgano sugli interessi immediati
dei singoli capitalisti.

Quale potrà essere allora l’emergenza da utilizzare a tale
scopo? Questa è la sua ipotesi:
  «La quadra, come fu negli anni cinquanta la guerra fredda,
  può venire dalla ‘distruzione del pianeta’. In questo modo i
  capitali possono forzatamente essere impiegati in
  investimenti guidati dallo Stato, ma salvaguardanti
  l’iniziativa privata. In conseguenza nella parte diffusa
  della ‘manutenzione territoriale’ e della ‘economia
circolare’ si impiegano i ‘superflui’, combattendo il
 sottoconsumo occidentale, e la capacità produttiva si
 riconverte riducendo la sovracapacità e la sovrapproduzione.
 Una quadra perfetta per quello che Minsky chiamava
 “Keynesismo privatizzato”». Quindi: «La riconversione
 ecologica e slogan come “Non c’è più tempo”, svolgerebbe
 questa funzione strutturale vista dal punto di vista delle
 élite».

Ma c’è un altro passaggio di Visalli che mi pare utile
segnalare. Poiché la lotta per conquistare il centro del
sistema è anche lotta per l’egemonia, ecco che entra in gioco
un potere addizionale di cui dobbiamo tenere conto:
  «La questione è che l’egemonia mondiale si ottiene quando
 alla capacità di governance delle forze sistemiche si
 aggiunge la leadership, che come dicono Arrighi e Silver in
 “Caos e governo del mondo”: “si fonda sulla capacità del
 gruppo dominante di presentarsi, ed essere percepito, come
 portatore di interessi generali” (p.30), questa capacità
 porta un potere “addizionale”. Gruppo dominante e gruppi
 subordinati in qualche modo concordano che la direzione nella
 quale il primo dirige le forze è a vantaggio comune. Il
 sistema è gestibile, dunque, senza ricorrere alla pura e
 semplice forza».

Bene, in queste righe c’è esattamente l’ipotesi che stiamo
sostenendo, individuando nella questione climatica (ed
ovviamente nella sua gestione) uno snodo di portata strategica
per l’intero sistema capitalista. Questo significa che si
debba allora esser contro alla transizione energetica?
Ovviamente no, e questo vale (al di là delle diverse
valutazioni della teoria dell’AGW) tanto per Visalli (il cui
pensiero spero e credo di aver riportato correttamente) quanto
per il sottoscritto.

Chi guiderà la transizione energetica?
Per un punto di vista socialista sulla questione
Si pone adesso un piccolo problema: chi guiderà questa
transizione? Certo, chi la sta guidando ad oggi è fin troppo
evidente. E poiché le forze socialiste sono non deboli, ma
debolissime ai quattro punti cardinali, poco c’è da illudersi
sulla capacità di incidere sul tema. Ma come affermare almeno
un diverso punto di vista socialista sulla questione?

Il tema è talmente vasto che conviene qui limitarsi a
segnalare le questioni principali. In primo luogo si tratta di
sostenere una transizione energetica che non solo non includa
un rilancio del nucleare, ma che ne determini invece la
definitiva chiusura (ma su questo torneremo più avanti). In
secondo luogo le fonti rinnovabili vanno sostenute ed
incentivate, ma con grande attenzione sia al loro impatto (che
comunque c’è) sia alle speculazioni di ogni tipo che un
passaggio fatto all’insegna del “non c’è più tempo” porterebbe
inevitabilmente con se. In terzo luogo – e qui si va oltre il
settore energetico in senso stretto – bisogna dire di no ad
ogni intervento artificiale sul clima (no dunque alla
geoingegneria, ma anche di questo parleremo più avanti). In
quarto luogo, i costi di questa gigantesca transizione
dovranno essere fatti ricadere sui ceti più abbienti,
tutelando invece in pieno le classi popolari. In quinto luogo,
contro il “Keynesismo privatizzato“, bisogna affermare il
controllo e la proprietà pubblica (dunque dello Stato)
dell’intero sistema energetico.

Attenzione, però, questo punto di vista socialista potrà
emergere solo ad una imprescindibile condizione: che si
contesti con decisione la narrazione dominante sul clima e
dunque la teoria dell’AGW. E’ questo un punto ostico quanto
decisivo, dato che se invece si accetta la narrazione del “non
c’è più tempo“, i dominanti avranno gioco facile a far passare
ogni porcheria, a scaricare sui più deboli i costi dell’intera
operazione, a favorire gli interessi delle
grandi corporation del settore energetico e non solo. Di più,
avranno buon gioco pure nel prevedibile rilancio del nucleare.

Di nuovo sul nucleare
Ne abbiamo già parlato nel primo articolo di questa serie:
attualmente il nucleare è in naftalina, ma potrebbe venire
facilmente riesumato qualora si accettasse davvero il folle
“non c’è più tempo” della propaganda sul clima

Il perché è presto detto. Il passaggio alle rinnovabili è
possibile, oltre che desiderabile, ma richiederà un certo
numero di decenni. Viceversa, qualora accettassimo la
narrazione dominante sul clima, tutto quel tempo non ci
sarebbe. L’unica cosa da fare sarebbe la rapida
elettrificazione integrale del sistema energetico (per la
gioia delle grandi multinazionali dell’auto), contestualmente
ad un’altrettanto rapida nuclearizzazione del sistema
elettrico (per la felicità dei signori dell’atomo), un
processo nel quale le rinnovabili potrebbero aspirare solo ad
un ruolo complementare, ma non sostitutivo come è invece
necessario.

Alla fine di questo processo avremmo sì meno CO2 (la cui
effettiva incidenza sul clima è tutta da accertarsi), ma un
ben più alto rischio nucleare (la cui pericolosità milioni di
essere umani hanno invece già accertato nella realtà). E’
davvero il caso di rischiare di finire dalla padella alla
brace? La risposta mi pare fin troppo scontata.

Gli interessi politici della narrazione dominante
Già parlando degli interessi economici abbiamo visto come
questi si intreccino con importanti interessi politici. Tra
questi ultimi bisogna distinguere tra i grandi interessi
(sistemici) ed i “piccoli interessi” dei vari governi
nazionali e locali.

Liquidiamo subito questi ultimi, perché meno importanti dei
primi, anche se talvolta pure questi “piccoli interessi” sono
davvero irritanti. Tutti avranno notato come ormai al più
piccolo stormir di foglie si grida all’uragano, e se per caso
una zona si allaga è certo che lì ha colpito il male assoluto:
quel “cambiamento climatico” tanto sfuggente quanto
terrorizzante. In questo modo i “bravi” governanti possono
sempre autoassolversi. Una zona si è allagata? Nessuno parlerà
più della cattiva politica del territorio, della sua
progressiva cementificazione, tanto a spiegar tutto basterà
l’immaginifica “bomba d’acqua” subito invocata dai media. In
città una pianta è caduta (ma oggi nel linguaggio mediatico si
dice “crollata”, quasi fosse un edificio!) colpendo a morte un
passante? La colpa non è della cattiva manutenzione alle aree
verdi, magari dovuta pure ai tagli imposti dall’Europa (non
sia mai!), ma del fatto che i colpi di vento son diventati
quasi tutti dei tornado. E si potrebbe continuare con gli
esempi.

Ma veniamo ora ai ben più importanti interessi sistemici. Cosa
c’è di meglio dell’allarme climatico per rilanciare una
globalizzazione in crisi? Cos’è in fondo il modello di
funzionamento dell’IPCC di cui ci siamo occupati, se non una
prova tecnica di governo mondiale? D’altronde, qualora
accettassimo la teoria dominante, è chiaro che nuove e
rilevanti cessioni di sovranità statuale si renderebbero
necessarie. Questo modello è utile alle classi dominanti
perché serve anche a tecnicizzare la politica, a “depurarla”
da ogni residuo di democrazia. Non vedere questo aspetto,
tanto più da parte di chi vorrebbe porsi in alternativa
all’attuale sistema, è semplicemente intollerabile. Un modo di
essere ciechi anche se si hanno dieci decimi dall’oculista.

Ma c’è di più. L’attuale narrazione climatica potrebbe
portarci non solo verso un sistema nei migliore dei casi
ademocratico. Essa potrebbe condurci addirittura verso forme
dispotiche del tutto nuove, basate sul controllo del clima
attraverso qualche applicazione della geoingegneria.

Attenzione alla geoingegneria!
Sono forse diventato un complottista? No, se ne scrivo non è
per una lettura notturna di qualche misterioso sito dedito
alla dietrologia, bensì per un articolo apparso
sull’autorevole rivista (si fa per dire) le Scienze. «Clima:
ultima chiamata», questo il titolo di copertina del numero di
aprile di questa rivista. Bene, ho subito pensato, forse ci
sarà qualche novità. Oppure, nella peggiore delle ipotesi, ci
verrà solo riproposta la solita solfa degli ultimi tempi.
Invece no. Né l’una né l’altra, le Scienze ha infatti deciso
di andare oltre. Ce lo spiega subito il sottotitolo: «Ridurre
le emissioni non basta più. Per limitare l’aumento della
temperatura dovremo anche eliminare dall’atmosfera la CO2
accumulata finora».

Siamo cioè alla tesi della urgente necessità delle cosiddette
“emissioni negative”. Una cosa assurda, dato che ove si
ponesse davvero fine alle emissioni industriali (e
prescindendo qui dalla variabilità di quelle naturali, di cui
abbiamo parlato nel quinto articolo, ma che i sostenitori
dell’AGW nemmeno prendono in considerazione), il problema
della CO2 si risolverebbe progressivamente da solo, dato che
la sua permanenza in atmosfera è comunque limitato nel tempo.

Ma di cosa si tratta esattamente? L’articolo a pag. 46 ha un
titolo sobrio, roba da scienziati attenti a non impressionare:
«L’ultima speranza». Avete capito bene: l’ultima speranza.
Insomma, la rivista si è portata avanti col lavoro. Anche in
questo caso è interessante il sottotitolo: «Riusciremo a
eliminare dall’atmosfera abbastanza CO2 da rallentare o
addirittura invertire il cambiamento climatico?». Invertire?
Si proprio “invertire”, come se qualcuno sapesse che la
temperatura giusta per il pianeta è quella, che ne so, del
1860 piuttosto che quella del 1917 (effettivamente a me più
simpatica). Avete capito dove si vuole arrivare?

L’autore, Richard Conniff, riferisce di alcuni studi sul tema
ed elenca 7 possibili metodi per la cattura della CO2. Di
questi solo uno è naturale: la riforestazione delle foreste
abbattute e l’afforestazione, ciò la trasformazione in foreste
di terreni oggi non alberati. Troppo facile, troppo naturale,
ma soprattutto troppo poco redditizio per i moderni stregoni
della CO2. Gli altri 6 metodi sono invece del tutto
artificiali, ma uno in particolare interessa all’autore, e di
conseguenza incuriosisce pure noi.

Vediamolo da vicino. L’idea è quella della cattura diretta
della CO2 dall’atmosfera tramite macchinari che dopo aver
aspirato l’aria ne estrarrebbero chimicamente l’anidride
carbonica per poi iniettarla nel sottosuolo, con l’obiettivo
di stoccarla in via definitiva a profondità piuttosto elevate.
Al momento, un simile macchinario (peraltro di potenza
ridottissima) esiste solo in Islanda, ma quel che conta è
l’idea.

Conniff riferisce quindi alcuni dati basati sulle stime di chi
studia questa possibilità. Secondo questi “esperti” si
potrebbero eliminare in questo modo da 10 a 40 miliardi di
tonnellate di CO2 dall’atmosfera all’anno. Poiché il costo di
questa cattura andrebbe da 100 a 300 dollari a tonnellata,
avremmo un business annuo compreso tra i mille ed i dodicimila
miliardi! Ma non sbellicatevi dalle risate, che il meglio ha
da venire. Queste simpatiche macchine consumano ovviamente
energia, ma quanta esattamente? Secondo l’articolista per
eliminare un milione (milione, non miliardo) di tonnellate di
CO2 servirebbe la quisquilia di una potenza elettrica da 300 a
500 megawatt. Dunque, calcoliamo noi, per smaltire da 10 a 40
miliardi di tonnellate servirebbe da un minimo di 3 milioni
(300×10.000=3.000.000) ad un massimo di 20 milioni di megawatt
(500×40.000=20.000.000). Giusto per avere un’idea la potenza
elettrica complessiva installata in Italia è pari a 117mila
megawatt, dunque per soddisfare i folli progetti di costoro ci
vorrebbe da un minimo di 25 ad un massimo di 170 Italie. Devo
aggiungere altro?

Ora, dopo aver mostrato l’assurdità di certe riviste tutte
protese a salvare il pianeta, dunque affidabilissime più di
ogni altra fonte, resta però un fatto assai inquietante.
L’idea del controllo del clima è un progetto al quale si sta
effettivamente lavorando. Al momento non possiamo sapere con
quale esito, ma si sta lavorando al disegno di un pianeta
ridotto alla stregua di un appartamento climatizzato. Ma chi
avrà le chiavi di questo mega-termostato del futuro? Ma
naturalmente un bel governo mondiale democratico di un pianeta
finalmente senza confini, diranno subito i globalisti di ogni
risma… Come no, ma certo che è a questa prospettiva che stanno
lavorando, mica sarete diventati complottisti pure voi?

La paura come strumento di controllo sociale
Ho parlato già abbastanza della funzione del moderno
catastrofismo (non solo quello climatico) nel sesto articolo.
Viviamo in effetti un’epoca strana, dove all’ottimismo
esagerato del periodo precedente – l’idea piuttosto ingenua di
un infinito progresso lineare per quanto diseguale – che
tuttavia alimentava la sinistra, si è sostituito un pessimismo
antropologico senza precedenti. Questo pessimismo è il nemico
giurato di ogni speranza di cambiamento. Proprio per questo
piace tanto alle èlite, oggi evidentemente non più in grado (a
differenza del passato) di offrire una positiva narrazione a
lieto fine dell’umana vicenda.

Sta di fatto che la paura è diventata il principale
ingrediente di ogni discorso sul futuro. E’ così al bar come
nei media. Nei discorsi dei politici come in quelli degli
intellettuali. Infine sono arrivati gli scienziati con il loro
carico da 90 del “global warming”.

Attraverso la paura si possono controllare le menti,
istillando fra l’altro un diffuso senso di colpa, ad esempio
quello verso le nuove generazioni, da cui è difficile
liberarsi. A questo punto, però, la narrazione sistemica
mostra una curiosa contraddizione. Da un lato la cultura
dominante consiglia vivamente agli uomini di ridursi allo
stato di meri consumatori in competizione tra loro – guai ad
avere altri “grilli” nella testa, di cambiare il mondo poi non
se ne deve proprio più parlare. Dall’altro, questo uomo-
consumatore viene invece criminalizzato in quanto
inquinatore.

Il cerchio magico consumi-paura-nuovi consumi
Parrebbe questa una contraddizione insanabile, ma l’apparenza
non deve ingannare. Anche la criminalizzazione contribuisce
infatti a ridurre l’uomo alla sola dimensione del consumo. Ma
mentre questo schema è perfettamente interclassista, dato che
inquina la Ferrari ma pure la Panda, esso sembrerebbe però
senza soluzione, visto che un consumo (per quanto minimo) vi
sarà sempre e comunque. Come venirne fuori allora?

Sulla paura indotta dalla narrazione dominante sul clima
sicuramente qualche psicologo non troppo indottrinato potrebbe
dirci cose molto più profonde ed interessanti delle mie. Io mi
limito quindi a riprendere e concludere il discorso sui
consumi, che un suo interesse comunque ce l’ha.

Colpevolizzato e ridotto nella sua gabbia, all’uomo-
consumatore-colpevole non sembrerebbe concessa altra via se
non quella di… nuovi consumi. Vuoi superare i tuoi sensi di
colpa e sentirti migliore degli altri? Cambia la tua vecchia
auto diesel e passa all’elettrico, lascia la tua vecchia casa
e costruiscine una nuova “ambientalmente sostenibile”, cambia
la caldaia a metano che quella di ultima generazione emette
meno CO2, sostituisci quanto prima il tuo frigorifero, la
lavatrice e la lavastoviglie, che gli elettrodomestici che hai
consumano troppo… E potremmo continuare a lungo, visto che
abbiamo già la moda “ecosostenibile”, l’alimentazione
“ecosostenibile”, il turismo “ecosostenibile”. Insomma, alla
fine il cerchio magico consumi-paura-nuovi consumi si chiude
alla grande, e l’anti-consumismo alimentato a CO2 si rovescia
nel suo contrario, un’ultra-consumismo a trazione ecologica.
Non c’è che dire: per il capitalismo in crisi una bella
boccata d’ossigeno.

Conclusioni
Siamo così arrivati alla conclusione di questa serie di
articoli sui “cambiamenti climatici”. Chi ha avuto la pazienza
di leggere avrà capito il senso di queste riflessioni. Le
conclusioni a cui siamo giunti sono disseminate nei tanti
punti che abbiamo toccato. Si tratta naturalmente di
conclusioni provvisorie, dato che una discussione vera sulla
teoria dominante è ben lungi dall’aprirsi. Questo fatto non
deve scandalizzare: il martellamento mediatico è troppo
potente e le forze che dovrebbero esercitare la critica troppo
deboli. Tuttavia, un maggiore sforzo teso a superare tanto la
pigrizia mentale, quanto questo penoso stato di subalternità,
male non farebbe.

Per quanto mi riguarda chiudo sintetizzando in sei punti le
conclusioni del lungo ragionamento svolto:
1. La narrazione dominante sul clima, incentrata su un
interessato catastrofismo, va respinta.
2. La teoria dell’AGW fa infatti acqua da tutte le parti, ed i
fatti la smentiscono alla grande.
3. Dietro alla narrazione del punto 1 ed alla teoria del punto
2 si celano gli enormi interessi economici, politici e di
controllo sociale che abbiamo esaminato in questo articolo.
4. La necessaria lotta per l’ambiente e per la salute non va
perciò confusa con la questione climatica; occorre anzi
sviluppare una critica ambientalista della teoria dell’AGW.
5. La ricerca sul clima mantiene ovviamente tutta la sua
importanza e deve essere sviluppata, ma essa sarà credibile
solo quando verrà tolta di mano ad istituzioni controllate
dalle èlite come l’IPCC.
6. La scelta di ridurre l’utilizzo dei combustibili fossili
(fino al loro totale superamento) va perseguita fino in fondo,
ma secondo criteri politici e sociali opposti al disegno dei
dominanti, ed in base a criteri ambientali che impediscano il
passaggio dalla padella delle fonti fossili alla brace del
nucleare.
Queste conclusioni sono decisamente controcorrente. A dispetto
delle sue incongruenze, il “pensiero unico climatico” appare
ancora oggi inattaccabile. Del resto, la tipica forma mutevole
in cui esso si presenta – passando sempre più spesso dal
“riscaldamento globale” agli inafferrabili e non meglio
definiti “cambiamenti climatici” – non è certo quella di una
teoria scientifica, perlomeno non nel senso di Popper, bensì
quella di una moderna religione che nessuno può discutere. Fra
l’altro una religione che “battezza” i bambini già in tenera
età, come si è visto col loro disinvolto utilizzo (magari in
buona fede, ma poco cambia) nelle manifestazioni del 15
marzo.

Significativamente, in tempi in cui si parla di fascismo anche
quando si discute di sport, a nessuna anima candida di
sinistra è venuto in mente che, al di là dei diversissimi
scopi e della diversissima situazione, quell’utilizzo delle
scolaresche delle elementari, in sfilate per lo più
organizzate e benedette dalle autorità politiche, poteva
ricordare certe manifestazioni del ventennio. Certo, i giovani
“Balilla” portavano un moschetto giocattolo a tracolla, quelli
di oggi cartelli apparentemente innocui a “difesa del
pianeta”, ma questo giustifica forse l’attuale
strumentalizzazione dei buoni sentimenti di ragazzi e bambini?

Detto questo, avrò certamente scandalizzato qualcuno. Ben
venga lo scandalo, se potrà servire a far ragionare sulla
natura totalitaria della narrazione dominante sul clima.

Ad ogni modo, quel che avevo da dire l’ho detto e qui mi
fermo. Solitamente il tempo (talvolta anche quello
meteorologico) è galantuomo. Chissà che non lo sia anche
stavolta.
7 – fine
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