Il caso Stock e la nostra libertà

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Il caso Stock e la nostra
libertà
written by Luca Ricolfi | 21 Novembre 2021
In Italia se ne è parlato poco, ma il caso Stock merita una
riflessione. Kathleen Stock è (anzi era) una docente di
filosofia dell’Università del Sussex, femminista e lesbica,
recentemente insignita del titolo di Ufficiale dell’ordine
dell’impero britannico per i suoi meriti accademici.

Qualche mese fa è stata costretta ad abbandonare la sua
cattedra e l’insegnamento a causa delle minacce,
intimidazioni, persecuzioni cui studenti e colleghi la avevano
sottoposta per le sue idee, etichettate come “transfobiche”,
in materia di sesso biologico e identità di genere. Non si
pensi, però, alle solite campagne denigratorie, basate su
tweet e cancelletti, di cui ci dilettiamo in un paese
comparativamente mite e tutto sommato ancora bonaccione come
l’Italia: le cronache raccontano che le intimidazioni verso la
professoressa Stock erano giunte a un punto tale da indurre la
polizia a farle   ingaggiare una guardia del corpo, installare
camere di videosorveglianza davanti a casa, nonché ricorrere a
un numero di emergenza in caso di pericolo.

Il caso della Stock è solo l’ultimo di una serie impressionate
di episodi di censura e di intimidazione che, specie nel mondo
anglosassone e con crescente frequenza negli ultimi anni,
hanno colpito la libertà di espressione nelle università,
nelle scuole, nei giornali, nell’editoria, nella televisione,
nel cinema, nello spettacolo.

Ma la libertà di espressione di chi?

Un po’ di tutti, a quel che si apprende dalle cronache. Ma in
misura assolutamente preponderante la libertà delle donne,
specie se femministe e impegnate in lavori intellettuali, come
scrittrice, giornalista, professoressa universitaria. La
ragione di tale accanimento è semplice: i più radicali tra gli
attivisti LGBT+, che legittimamente propagandano le proprie
idee e rivendicazioni in materia di sesso e di genere, non
tollerano che le donne si facciano portatrici di idee diverse,
o opposte, rispetto a quelle prevalenti nei segmenti più
estremi del loro mondo. Materia del contendere, soprattutto,
la richiesta degli uomini che si sentono donne di accedere
agli spazi tradizionalmente riservati alle donne, come bagni,
spogliatoi rifugi/centri anti-violenza, reparti femminili
nelle carceri, competizioni sportive fra donne. Chiunque osi
difendere tali spazi, è bollata come TERF (Trans-Exclusionary
Radical Feminist), un acronimo usato quasi sempre in chiave
denigratoria e dispregiativa.

Di qui tutta una serie di insulti, minacce, aggressioni,
cancellazioni di conferenze, richieste di dimissioni o di
licenziamento che hanno colpito, in particolare, tre
categorie: scrittrici celebri, come Margareth Atwood e Joanne
Rowling, l’inventrice di Harry Potter; giornaliste come
Suzanne Moore, Julie Bindel, Marina Terragni; ma soprattutto
una schiera di professoresse universitarie, specialmente
britanniche: Rosa Freedman, Germaine Greer, Kate Newey, Jo
Phoenix, Janice Raymond, Selina Todd, solo per citare i casi
più noti.

Questa vicenda presenta, a mio parere, due aspetti
sociologicamente interessanti. Il primo è che l’attacco alla
libertà di espressione, pur minacciando tutti (se non altro
come pressione all’autocensura), oggi colpisce soprattutto le
donne, specie se   femministe e/o impegnate in una professione
intellettuale. Ed è paradossale che questo attacco alla
libertà delle donne, tradizionalmente descritte come
discriminate, avvenga proprio in nome dei diritti di una
minoranza a sua volta discriminata.

Il secondo aspetto interessante è il fatto che l’accusa di
transfobia, fuori luogo quando viene rivolta a donne che
esprimono la loro opinione in materia di identità di genere,
finisca per funzionare come una profezia che si auto-avvera.
Etimologicamente, transfobia non significa odio per i trans,
ma paura (dal greco phobos) nei loro confronti, ed è
quantomeno curioso che sia invalso l’uso di dire ‘paura’ e
intendere ‘odio’. Ma nel momento in cui una donna viene
minacciata, fisicamente e moralmente, in nome dei diritti di
una comunità (in questo caso quella trans), è normale che la
medesima donna cominci davvero, quali che fossero i suoi
sentimenti precedenti, a provare paura dei membri di quella
comunità. Una paura che prima non provava, e che è stata
suscitata dalle intimidazioni cui è stata sottoposta. La
professoressa Stock ha lasciato l’università precisamente
perché aveva paura degli studenti, dei colleghi e degli
attivisti che la minacciavano per le sue idee. Con un
singolare contrappasso: la lotta al fantasma della transfobia
finisce per secernere transfobia vera e letterale, pura e
semplice paura fisica dei membri di una comunità.

Come se ne esce?

Dipende da dove si vive. Nel Regno Unito è il Governo stesso,
anche sotto la pressione del caso Stock, che si sta
interrogando su come garantire i diritti delle donne e la
libertà di espressione nelle università esistenti, proteggendo
professori e studenti dalla prepotenza degli attivisti.

Negli Stati Uniti molti professori ormai pensano che la
battaglia per ripristinare la libertà di espressione nelle
loro università sia perduta, e che per cambiare le cose
occorrerebbe troppo tempo. Quando un’istituzione come un
grande e prestigioso ateneo comincia a credere che la sua
missione sia la “giustizia sociale”, anziché la ricerca
disinteressata della verità, della conoscenza, della cultura,
è inutile sperare che sia in grado di proteggere la libertà di
pensiero. Di qui l’idea di fondare università libere, in cui
professori e studenti possano esprimere senza timore le loro
idee, anche se radicali, eterodosse, controcorrente, abrasive.
Sta succedendo a Austin, in Texas, e forse la professoressa
Stock troverà rifugio proprio lì.

E nell’Unione europea? E in Italia?

Vedremo. L’importante è che non si metta la testa sotto la
sabbia, e si affronti il problema. Senza paura.

                 Pubblicato su Repubblica del 20 novembre 2021

Quant’è difficile parlare di
vaccini     con     libertà.
Intervista a Luca Ricolfi
written by Luca Ricolfi | 21 Novembre 2021
Professore, perché stampa e talk show sul Covid sembrano
prigionieri di una logica da «curva»? Inscenando lo scontro
tra opposti estremismi – vaccino «sola salus» contro no vax
per principio – non ci si preclude la possibilità di una
discussione seria e informata?
La possibilità di una “discussione seria” non interessa
granché neppure i cosiddetti scienziati, troppo spesso prede
di faziosità (e di conflitti di interesse), figuriamoci la
grande stampa e i talk show. La realtà è che tutta la
comunicazione pubblica risente del clima di guerra che si è
instaurato dopo l’arrivo del vaccino. E in guerra chi solleva
dubbi è trattato come un disertore.

Lo scontro, comunque, non è simmetrico: c’è una posizione,
quella di totale adesione alle scelte del governo, che ha
dalla sua una sorta di «bollinatura». È per questo che,
dall’altro lato, si sovrarappresentano le voci più grottesche,
dai negazionisti ai complottisti del vaccino? Insomma, si dà
l’impressione che l’unica alternativa all’agenda governativa
sia un coacervo di tesi deliranti…
E’ una precisa strategia, specie nei talk show. I paladini
della campagna vaccinale vengono selezionati fra gli studiosi
autorevoli, o comunque insediati in posizioni apicale del
sistema sanitario, e per ciò stesso guardati con rispetto. Per
quanto riguarda gli “infedeli” si alternano tre tecniche
principali: non dar loro la parola; invitare solo i personaggi
da operetta; farli parlare, ma affiancati da personaggi che li
interrompono continuamente, insultando e screditando.

Al contrario, gli elementi che potrebbero incrinare la
narrativa dominante e che provengono da fonti qualificate sono
prontamente minimizzati. Il caso più recente mi sembra il
tentativo di liquidare l’inchiesta del British medical journal
sulle gravi lacune in uno dei trial di Pfizer. Questo
atteggiamento non rischia     di   privarci   di   elementi   di
riflessione importanti?
Certo, questo atteggiamento priva il pubblico di informazioni
cui avrebbe diritto ad accedere. Con la complicazione che il
pubblico rischia di trovarle lo stesso (su internet), senza
però essere in grado di soppesarle. Però…
Forse la deluderò, ma voglio provare a fare l’avvocato del
diavolo dei grandi media, giusto per mettere a fuoco un
meccanismo (e un problema). Supponiamo che la stampa e le tv
non stendessero il velo pietoso che sono solite stendere sulle
numerose controindicazioni della campagna vaccinale, a partire
da quelle sulla vaccinazione di massa dei bambini: lei pensa
che avremmo la medesima copertura? Crede davvero che il
generale Figliuolo sarebbe riuscito a superare l’80% di
vaccinati?
Se lei fosse convinto (come molti) che senza un’altissima
copertura vaccinale avremmo decine di migliaia di morti in
più, non sentirebbe la pressione a censurare le informazioni
che disincentivano la vaccinazione? Forse è anche questa
convinzione che induce una parte dei media a rinunciare alla
completezza e imparzialità dell’informazione, che pure
dovrebbero essere imperativi categorici della professione di
giornalista.

In suo articolo sul sito della Fondazione Hume, lei ha
deplorato il modo in cui è stata frettolosamente accantonata
un’ipotesi, discussa in seno alla comunità scientifica, sulla
possibilità che la vaccinazione di massa favorisca la
selezione di varianti più resistenti del virus. Un altro tabù
pericoloso?
Più che deplorarlo, ho messo in evidenza questa ed altre
omissioni, alcune innocue (frutto di pura sciatteria), altre
influenti e presumibilmente intenzionali. Quello che mi dà
fastidio è il paternalismo di questo modo di fare
informazione: si assume che noi popolo-bue non capiremmo, ci
spaventeremmo, e agiremmo in modo sconsiderato. A me invece
piace credere che le persone vadano aiutate a vagliare le
informazioni, e a prendere decisioni difficili. Qualche volta
tragiche.

Tragiche?
La decisione di una madre che vaccina un bambino di 6 anni è
tragica, come quella di Antigone: proteggere il figlio, o
proteggere la città?

È apparentemente impossibile, a livello mediatico, separare il
giudizio sul vaccino e quello sul green pass.
Indipendentemente da come la si pensi sulla tessera verde,
perché non si possono avanzare obiezioni al passaporto Covid
senza essere accusati, se non di essere dei no vax, di servire
assist alle tesi di questi ultimi?
Per il solito motivo: si ritiene che se si critica il green
pass si finisce per indebolire la campagna vaccinale. Ma
potrebbe esserci anche un altro motivo…

Quale?
Che il governo abbia il problema di trovare un capro
espiatorio in caso di fallimento della campagna vaccinale: e i
critici del green pass sono “un colpevole quasi perfetto”,
come l’uomo bianco nel bel libro di Pascal Bruckner.

Lei non crede che i no-pass siano la causa dell’attuale
esplosione dei contagi?
Sono una concausa. E forse nemmeno la più importante. Lei lo
sa che l’epidemia galoppa, con un Rt preoccupante, anche nei
paesi che hanno vaccinato quasi tutti, come ad esempio il
Portogallo, che ha una copertura del 98%?

E allora qual è la causa principale?
Il “generale inverno”, e la scelta del governo di non
contrastarlo con la messa in sicurezza degli ambienti chiusi,
a partire da aule scolastiche e metropolitane. Avessero dato
retta ai sostenitori della ventilazione meccanica controllata
nelle scuole (studiosi, medici, ingegneri e, fra i partiti,
ahimè solo Fratelli d’Italia) forse non saremmo a questo
punto. Dico “forse” perché l’impatto protettivo dei filtri
Hepa e della Vmc (ventilazione meccanica controllata) nessuno
lo conosce ancora con esattezza.

Anche sulla vaccinazione dei bambini si è determinata una
curiosa coincidenza: ora che si vuole spingere su questo
fronte, dei piccoli, finora descritti come sostanzialmente al
riparo dalla malattia grave, si è iniziato a dire che
finiscono in terapia intensiva, che sviluppano il long Covid e
che sono «untori» per i nonni, peraltro già vaccinati. È
ancora legittimo esprimere dubbi sul programma di iniezioni
sui bambini?
Lo sarà ancora per qualche giorno, approfittando del fatto che
gli esperti sono divisi, poi non più. La libertà di parola
finisce quando, nel mondo della cosiddetta scienza, la
politica riesce a far emergere una posizione nettamente
dominante, che mette fuori gioco tutte le altre.

La comunicazione scientifica è stata caratterizzata da una
quantità spropositata di giravolte. Più si va indietro, più si
trovano casi clamorosi: ad esempio, gli esperti che snobbavano
la mascherina sono gli stessi che dopo l’hanno santificata.
Cambiare idea può essere il risultato di un avanzamento nelle
conoscenze, ma allora perché ogni affermazione dei tecnici ci
viene presentata in modo apodittico? Con questo metodo, alla
fine, i progressi appaiono, invece, come delle contraddizioni.
E’ esattamente così. La scienza dice di coltivare il dubbio e
la discussione critica, ma questo avviene solo finché il
dubbio e la discussione critica non urtano contro interessi
economici o politici soverchianti. Quando questo accade, il
dubbio si può esprimere solo a condizione che gli utenti che
possono accedervi siano pochi, come nei giornali a bassa
tiratura e nelle riviste. E’ una delle cose che mi ha
insegnato Piero Ostellino, il padre spirituale della
Fondazione Hume.

E poi ci sono i toni trionfalistici, seguiti da altrettante
inversioni a U nella narrativa. Gli stessi vaccini, fino a
pochi mesi fa, ci venivano presentati come l’unica via
d’uscita dalla pandemia (con un’aperta sottovalutazione del
ruolo delle terapie), come la sola salvezza che ci avrebbe
riconsegnato la libertà. Adesso, il vento è cambiato: la
protezione cala, serve un’altra dose, ma poi vi promettiamo
che basterà così, tornerà veramente la libertà. Ecco, questo
approccio alla comunicazione non è controproducente? È proprio
questo il modo di fornire un assist ai no vax – e poi ci si
ritrova a dover «convincere» gli indecisi con un obbligo
vaccinale surrettizio…
E’ la conseguenza della sfiducia nella gente. Pensano che noi
non capiremmo, se ci dicessero tutto.

Franco Locatelli, alcuni giorni fa, in conferenza stampa ha
affermato che non ci sono under 59 vaccinati in terapia
intensiva. Sono gli stessi dati Iss a smentirlo. È lecito, o
almeno utile, rimaneggiare un po’ i numeri a scopi persuasivi?
Non è sempre meglio essere precisi e dire la verità? Anche
perché bastano i numeri reali a dimostrare l’efficacia dei
vaccini…
Sì, ma è anche colpa della stampa e dei media, che sulle bugie
dei potenti raramente hanno il coraggio di chiedere dimissioni
che in altri paesi sarebbero scontate.

È indubbio che le vaccinazioni – e, auspicabilmente, questo
effetto sarà consolidato dai richiami sulle fasce di
popolazione più a rischio – abbiano mitigato enormemente
l’impatto del Covid su ricoveri e decessi. Ma in questo
contesto, ha senso tenere in piedi lo stato d’emergenza? Se i
vaccini funzionano, perché ogni «ondata» viene accompagnata da
una massiccia offensiva «terroristica» sui canali
d’informazione, e si tiene in piedi anche sul piano giuridico
una sorta di regime speciale? Non sarebbero opportuni un
approccio più sobrio e un’uscita anche de iure dalla logica
emergenziale?
Su questo sono completamente d’accordo con lei (e con
Cacciari!). Non possono continuare a dirci che dovremo
convivere con il virus, che i vaccini ci consentiranno di
farlo, e poi mantenere ad oltranza lo stato di emergenza. O
meglio: possono anche farlo, ma allora ci dicano quali sono le
soglie di morti-ricoverati-infetti-Rt al di sotto delle quali
“lorsignori” si degneranno di rinunciare ai poteri speciali.

Intervista rilasciata a La Verità, del 14 novembre
                                              2021

Una stima realistica degli
effetti avversi dei vaccini
anti-Covid e del rapporto
rischi-benefici
written by Mario Menichella | 21 Novembre 2021
In questo articolo vengono analizzate e confrontate fra loro –
che io sappia per la prima volta in modo così ampio – le
informazioni sugli effetti avversi post-vaccino (in gergo,
AEFI) contro il Covid provenienti da una quantità di fonti
diverse, fra cui: i database sugli effetti avversi di vari
paesi (Stati Uniti, Regno Unito, Italia, etc.), che
rappresentano una forma di farmacosorveglianza passiva; alcuni
studi di sorveglianza attiva presenti nella letteratura
scientifica; gli studi clinici controllati randomizzati pre- e
post-autorizzazione al commercio dei vaccini a mRNA; i primi
studi epidemiologici relativi ad alcune singole patologie
legate ai vaccini; le prime analisi sulla variazione della
mortalità della popolazione più giovane nel periodo della sua
vaccinazione; i dati storici e recenti sull’eccesso di
mortalità nei Paesi d’Europa nelle varie classi di età; i
risultati di alcune autopsie, etc.

Leggi l’articolo completo

Allegato: Database MHRA

L’illusione vaccinale
written by Luca Ricolfi | 21 Novembre 2021
Chi ha meno di 50 anni non può ricordarselo, ma c’è stato un
tempo in cui molto si discuteva, in Italia e non solo, di
“illusione monetaria”.

Di che cosa si tratta?
L’illusione monetaria è la credenza che il nostro reddito
cresca, mentre in realtà sta diminuendo a causa
dell’inflazione, che si mangia gli aumenti e ci lascia con
meno potere di acquisto di prima. Succedeva negli anni ’70 e
nei primi anni ’80, sotto la spinta delle dissennatezze
politiche e sindacali, che facevano lievitare i salari
nominali e i rendimenti dei titoli di Stato ma non abbastanza
da pareggiare un’inflazione galoppante e fuori controllo.

Oggi qualcosa di simile si sta ripetendo, ma in ambito
sanitario. Da mesi scrutiamo con ansia la curva della
percentuale di vaccinati, dandoci obiettivi ogni volta più
ambiziosi, nella più o meno segreta speranza che, raggiunta
una data copertura vaccinale (80%? 90%?), si arrivi a una
situazione di equilibrio, in cui l’epidemia, pur non
spegnendosi, rimanga sotto controllo e ci permetta un ritorno
alla normalità, o a una quasi-normalità. Ma questo approccio è
fuorviante, come lo era, negli anni ’70, guardare ai nostri
redditi nominali anziché a quelli reali, depurati
dall’inflazione. Per capire come stano andando le cose sul
piano sanitario, non dobbiamo guardare alla copertura
vaccinale nominale, ma a quella effettiva, che tiene conto
dell’anzianità di vaccinazione, ossia del grado di protezione
che ogni vaccinato conserva in funzione del tempo trascorso
dall’ultima vaccinazione.

In termini un po’ tecnici: come il reddito nominale va
corretto con il livello dei prezzi, così la copertura
vaccinale effettiva andrebbe corretta con la durata della
protezione.

Se si prova a farlo, si scopre che la curva della copertura
vaccinale effettiva non sta più crescendo e anzi,
verosimilmente, da un mese a questa parte sta diminuendo (vedi
grafico). Noi ci illudiamo di star percorrendo l’ultimo
miglio, ma in realtà stiamo retrocedendo, come il gambero. E
questo per una ragione molto semplice: i nuovi vaccinati
aumentano molto lentamente, perché stiamo raschiando il fondo
del barile, mentre i vecchi vaccinati che stanno perdendo la
protezione sono sempre di più, perché la campagna per la terza
dose è partita in ritardo, e sta procedendo a passo di lumaca.

E’ questa la ragione per cui, in Europa, l’epidemia sta
rialzando la testa?

Sì e no. Una copertura vaccinale effettiva elevata, con terza
dose a chi si è vaccinato all’inizio dell’anno, è sicuramente
– in questo momento – una condizione necessaria di
stabilizzazione dell’epidemia. Non a caso l’epidemia è
completamente fuori controllo, con tassi di mortalità
quotidiana altissimi, nella maggior parte dei paesi dell’est,
che sono indietrissimo nelle vaccinazioni.

Ma è anche sufficiente?

Non è detto. L’attuale aumento dei casi in tutta Europa non è
solo dovuto all’attenuazione della copertura vaccinale
effettiva, ma anche, molto più banalmente, all’arrivo della
stagione fredda e all’incremento del tempo passato al chiuso.
Era un effetto prevedibile, anche nella sua entità: grazie
all’analisi statistica dell’andamento dell’epidemia in tutti i
paesi del mondo, oggi sappiamo che il mero passaggio dalle
condizioni di vita di settembre a quelle di gennaio-febbraio
può moltiplicare i casi di un fattore compreso fra 2 e 4.
Dunque, nessuno stupore che, con il ritorno a scuola e al
lavoro, il numero di focolai abbia preso ad aumentare.

Ecco perché puntare tutte le carte sul rilancio in grande
stile della campagna di vaccinazione e rivaccinazione potrebbe
essere imprudente. Molto più saggio sarebbe stato, e ancora
sarebbe, affrontare di petto il problema – fin qui
sostanzialmente rimosso – di frenare la circolazione del virus
almeno in alcuni degli ambienti chiusi più pericolosi: scuole,
mezzi di trasporto, uffici.

Gli scienziati che si occupano di trasmissione aerea del virus
(mediante aerosol, e non solo mediante goccioline), hanno
impiegato circa un anno a convincere l’OMS che quel tipo di
trasmissione è non solo possibile, ma è la modalità
fondamentale negli ambienti chiusi. Ma nessuno è ancora
riuscito a convincere le autorità politiche a varare un piano
serio di messa in sicurezza degli ambienti chiusi, a partire
dalle scuole.

Eppure si può fare, e in alcune realtà locali (nelle Marche,
ad esempio) si sta cominciando a fare su piccola scala. Gli
ingegneri e gli scienziati hanno indicato con precisione
alcune soluzioni tecnologiche (filtri Hepa; Vmc, ossia
ventilazione meccanica controllata). Dotare tutte le scuole di
dispositivi di controllo e ricambio della qualità dell’aria
abbatterebbe i rischi di trasmissione del virus. E renderebbe
pure meno drammatica la scelta, che presto si porrà, se
vaccinare o non vaccinare pure i bambini.

Sotto questo profilo, non si può non osservare con
preoccupazione la decisione, annunciata in questi giorni dalle
autorità politico-sanitarie, di rendere molto più blande le
regole che fanno scattare l’obbligo di quarantena per tutta la
classe. Evidentemente l’obiettivo politico di limitare il
ricorso alla Dad (didattica a distanza) sta prevalendo
sull’obiettivo di contenere la diffusione del virus nelle
scuole. Ma è una scelta miope, e assai pericolosa: perché
aspettare che si arrivi a 3 casi per classe prima di correre
ai ripari con la quarantena significa lasciar campo libero
all’epidemia, per di più nella stagione più favorevole al
virus.

Purtroppo è un film già visto: si sa perfettamente che si
dovrà chiudere, si ritarda per salvare momentaneamente qualche
attività, poi – quando la situazione precipita – si finisce
per pagare un conto molto più salato di prima. Non solo in
termini di morti, ma anche in termini di nuove chiusure.

                  Pubblicato su Repubblica del 6 novembre 2021

Le due democrazie
written by Dino Cofrancesco | 21 Novembre 2021
Fa riflettere l’articolo di Marco Damilano, Clima sovrano,
pubblicato da ‘L’Espresso’ il 31 ottobre u.s. Al di là della
legittima polemica contro le destre, infatti, esso si richiama
a una idea di democrazia liberale molto diversa da quella
teorizzata e praticata dai paesi euroatlantici che sulla
sovranità del demos hanno fondato le istituzioni della
libertà. Cito il lungo incipit “Con un voto segreto,
autorizzato dalla presidente Maria Elisabetta Alberti
Casellati, alle ore 13,30 di mercoledì 27 ottobre, l’aula del
Senato ha affossato il disegno di legge sull’omofobia firmato
dal deputato del Pd Alessandro Zan. La stessa aula che quattro
anni fa al termine della precedente legislatura, con altri
rapporti di forza tra i partiti, non era riuscita ad approvare
la legge sullo ius culturae. In comune tra le due sconfitte
c’è l’indifferenza verso le persone, con le loro storie, i
loro drammi, i loro volti, il loro desiderio di vivere. La
società va da una parte, il Parlamento dall’altra. I
sovranisti scelgono i diritti come terreno di scontro, i
democratici non riescono ad avere la forza politica delle loro
buone ragioni, oltre che quella numerica. Si offrono nuove,
ottime ragioni alla sfiducia, alla mancanza di credibilità,
alla delegittimazione delle nostre istituzioni democratiche.
La democrazia è più fragile quando i cittadini si sentono
traditi dalle aule rappresentative. Ad avvantaggiarsi, è il
fronte della negazione. Negano l’esistenza dei diritti delle
persone Lgbtq+, degli immigrati, negano la pandemia e gli
effetti del cambiamento climatico”. La retorica politica ha le
sue regole (non esaltanti) e la squalifica morale
dell’avversario è una di esse. Ci si chiede, però, fino a che
punto la critica durissima di chi dissente da noi non si
traduca in una delegittimazione degli avversari che segna la
morte della democrazia come regime in cui partiti diversi si
alternano al governo e all’opposizione. Per Damilano, un
apprezzato giornalista che si è formato negli ambienti della
sinistra cattolica, la bocciatura del ddl Zan attesta sic et
simpliciter “l’indifferenza verso le persone, con le loro
storie, i loro drammi, i loro volti, il loro desiderio di
vivere”. Insomma, da una parte stanno i Valori, dall’altra
biechi interessi, inconfessabili pregiudizi, cinismo etico. E
quanti non negano affatto” l’esistenza dei diritti delle
persone Lgbtq+, degli immigrati, la pandemia e gli effetti del
cambiamento climatico” ma ad esempio sarebbero stati anche
d’accordo con lo spirito della legge respinta dal Senato
purché se ne fossero depennati gli articoli 1 e 7, non hanno
alcun diritto di venir presi in considerazione. Anche se
difendono (e ammettiamo pure con deboli ragioni) valori da
tutti condivisi come la libertà di opinione e il diritto di
richiamarsi a una teoria antropologica sui sessi diversa dalla
filosofia Zan. In un magistrale articolo su ’Repubblica’, I
diritti negati dall’ideologia’ del 29 u.s., Carlo Galli ha
rilevato che “Il ddl apre anche la porta, sia pure in via
indiretta, all’ideologia gender, la cui essenza è politica.
Infatti, il nucleo più radicale delle sue formulazioni è che
la civiltà occidentale è socialmente e culturalmente
strutturata e istituzionalizzata in senso duale, binario, cioè
intorno a due soli generi (maschile e femminile), che sono
anche identità esistenziali e comportamentali. A tale
struttura binaria si oppone il diritto di libera scelta
individuale del genere (e in alcuni casi anche del sesso, e
sempre della sessualità e dell’affettività): si afferma così
una fluidità indefinita delle identità, che dovrebbe
frammentare la struttura binaria vigente. Al di là del fatto
che una parte del femminismo è ostile alle teorie gender
perché, proiettate verso il superamento della logica binaria,
rischiano di trascurare la presente disuguaglianza economica e
sociale fra uomini e donne, alla (legittima) ideologia del ddl
se ne è opposta un’altra – del centro-destra nella sua
versione laica e moderata (distinta quindi dalle posizioni
reazionarie e intolleranti, che sottotraccia sono pure
rilevabili) -. Qui si considerano i problemi di genere come
questioni individuali, come casi eccezionali rispetto alla
normalità, e le persone coinvolte come soggetti da tutelare
nei loro diritti, ma da non considerare come leva per mettere
in discussione l’assetto della società. Sullo sfondo–discreta
ma ferma, affidata alla Congregazione per la dottrina della
fede – c’è poi la posizione ufficiale della Chiesa fondata
sulla Bibbia (“maschio e femmina li creò”, dice la Genesi):
l’essere umano naturale, nei due sessi e nei due generi, è
immagine di Dio, e quindi portatore di una essenza e di una
dignità immodificabili. A questa posizione la Chiesa ha
richiamato i politici cattolici. Insomma, uno scontro
ideologico, e non da poco”.

Ma se questo è vero, indipendentemente dalle convinzioni che
ciascuno di noi nutre in cuor suo, un linguaggio come quello
di Damilano non è la negazione stessa di quel liberalismo
pluralistico, teorizzato da Isaiah Berlin, che vede valori,
interessi e idealità da una parte e dall’altra e che, in caso
di conflitti tra Weltanschuungen irriducibili, cerca la via
del compromesso e della tutela di diritti sui quali si trovano
tutti d’accordo? “Chi non è con me è contro di me, e chi non
raccoglie con me, disperde” (Matteo 12,30). In virtù di questa
logica, discorsi equilibrati come quelli fatti da Luca Ricolfi
o da Mattia Feltri (non certo esponenti di FdI) e da altri
politici e studiosi moderati diventano qualcosa di equivoco,
che porta acqua (involontariamente?) al mulino della reazione
e dell’oscurantismo.

Se ci si chiede, però, cosa ci sia dietro l’intolleranza di
Damilano, si scopre che “Though this be madness, yet there is
method in it” e che la madness è un prodotto di una concezione
della democrazia che viene da lontano, dal momento giacobino
della Rivoluzione francese. Nell’articolo si legge che la
democrazia “è lo strumento inventato per riequilibrare le
disuguaglianze, per garantire le libertà, per consentire a
tutti di partecipare alla costruzione del bene comune”. Ne
deriva che quando questi obiettivi non vengono raggiunti il
Transatlantico di Montecitorio, diventa “sempre più simile
alla sua sinistra fama di corridoio dei passi perduti”: “fuori
dal Parlamento c’è il popolo dei referendum e della democrazia
diretta”. Bisogna pensare pertanto a una “mobilitazione della
società” a una “battaglia politica e culturale. Tutto il resto
è una scorciatoia che produce una reazione ancora più
minaccio-sa”. Insomma non uno ma cento, mille cortei per
esprimere l’indignazione del ‘paese reale’ contro il paese
legale– il Parlamento–che ne ha tradito le aspettative, non
volendo rendere la filosofia Zan pedagogia di Stato.

A leggere certe parole vengono i brividi e il pensiero corre
all’aula “sorda e grigia” che ‘quello lì’ avrebbe potuto
trasformare in un bivacco di manipoli o all’esaltazione che
Giovanni Gentile faceva   degli artefici dell’unità nazionale
“che quando si trattò di agire e di farla, questa Italia,
sdegnarono il chiacchierio fazioso delle assemblee”; ma corre
anche alla intramontabile ideologia italiana che vede nelle
forze vive della società civile, nei movimenti per i diritti,
nelle rivendicazioni delle minoranze reiette la rousseauiana
volontà generale contrapposta alla effimera ‘volontà di tutti’
che si esprime nelle urne. In base a questa filosofia
politica, ci sono Valori e Diritti universali di cui le classi
dirigenti debbono farsi carico ovvero tradurre in leggi e in
istituti, sotto pena di perdere ogni diritto al governo della
società. Va da sé che tali diritti e valori siano quelli
dell’Illuminismo, depositario della Scienza e della Felicità
dei popoli e che tutto ciò che ad essi si oppone va, tutt’al
più tollerato, e qualora rispecchi il sentire della
maggioranza va neutralizzato con una efficace politica di
rieducazione collettiva, fatta anche di dimostrazioni di
piazza, proteste, sit in (Una nota columnist, coerentemente,
aveva proposto, nel caso di approvazione del ddl Zan, di non
dare più sussidi statale alle scuole private gestite da
religiosi che, contrari alla giornata contro l’omofobia, si
fossero rifiutati di insegnare che i sessi non sono due come
pretende la ‘Bibbia’!).

Sennonché, c’è un’altra visione della democrazia che non la
vede come una freccia rossa che non deve mai arrestarsi
giacché “chi si ferma è perduto” – come ripeteva uno degli
alfieri della ‘democrazia sostanziale” nella sua versione
“organizzata, centralizzata, autoritaria”, certo diversa da
quella libertaria, dannunziana e sessantottesca ma come questa
antiformalista e antiproceduralista. Ed è la visione che si
potrebbe definire della ‘democrazia come registrazione’:
registrazione dei desideri, delle aspettative, delle esigenze
dei cittadini dettate da valori non necessariamente
‘progressisti’ ma egualmente rispettabili giacché sono quelli
di cittadini, di persone, che su di essi hanno costruito la
loro identità etico-sociale. E’ questo il ‘pluralismo preso
sul serio’ e che non ha nulla a che vedere con la retorica
pluralistica che apprezza solo la pluralità dei valori
(ritenuti) buoni”. Per il primo, non c’è democrazia liberale
senza un polo conservatore, che guarda al passato e vuole
andare avanti preservandone, nella misura del possibile, le
eredità e un polo innovatore che guarda all’avvenire e vuole
sgomberare la strada, che da esso conduce, da tutte le catene
lasciate dal ‘mondo di ieri’.

Per una parte rilevante dell’opinione pubblica, essere buoni
democratici significa elaborare un progetto riformatore,
battersi per una estensione indefinita dei diritti individuali
e collettivi, in ogni campo. Nulla da eccepire purché si sia
disposti poi a rispettare il verdetto della       maggioranza
degli elettori   in disaccordo con gli innovatori. (Ovviamente
non si parla qui di un governo reazionario deciso a violare le
libertà politiche e civili giacché ci si troverebbe allora in
una situazione rivoluzionaria dove solo il ricorso alla
violenza potrebbe ristabilire le ‘regole del gioco’).

In non pochi ambienti accademici – e già nell’Ottocento – la
democrazia procedurale evoca qualcosa di algido, la dittatura
del numero, le regole che infiammano i cuori e illuminano le
menti quanto un orario ferroviario o un manuale di istruzioni.
E non meraviglia giacché, nel nostro paese, è difficile
accettare l’idea che la fabbrica di valori sia nella società
civile considerata in tutte le sue componenti; la fabbrica dei
valori si trova, sì, nella società civile ma in quelle frange
politicizzate che fanno da pendant alle masse amorfe, estranee
ai grandi ideali della politica, zavorra a disposizione in
ogni svolta autoritaria. Sono le minoranze consapevoli che
fecero l’Italia nel Risorgimento, che invasero le piazze per
chiedere l’intervento dell’Italia nella Grande Guerra, che
parteciparono alla marcia su Roma e nel Sessantotto operarono
una vera e propria ‘rivoluzione culturale’ (di cui risentiamo
ancora gli effetti). Per questo stile di pensiero, della
legittimità politica non è depositario il popolo sovrano, né
il Parlamento ma le ‘avanguardie’ che mediano tra il primo e
il secondo.

Eppure continuiamo a dirci tutti liberali e tra i liberali,
che leggono i classici del pensiero politico, non se ne trova
uno che non esprima la sua grande ammirazione per Alexis de
Tocqueville Ma quanti poi hanno meditato davvero sulla
Democrazia in America (1835) di cui riporto un brano
inequivocabile? “I repubblicani negli Stati Uniti apprezzano
i costumi, rispettano le credenze religiose, riconoscono ì
diritti. Essi professano l’opinione       che un popolo deve
essere morale, religioso e moderato in proporzione alla sua
libertà. Ciò che si chiama repubblica negli Stati Uniti   è il
regno tranquillo della maggioranza. La maggioranza, dopo che
ha avuto il tempo di riconoscersi e di constatare la propria
esistenza, diviene la fonte comune dei poteri. |…| Ma, in
Europa, noi abbiamo fatto strane scoperte. La repubblica,
secondo alcuni di noi, non è il governo della maggioranza,
come si è creduto fino ad ora, è il governo di coloro che   si
fanno garanti e interpreti della maggioranza. ||sottolineatura
mia || Non è il popolo che dirige in questa specie di governi,
ma coloro che conoscono quale sia il vero bene del popolo
felice distinzione che permette di agire in nome delle nazioni
senza consultarle e di reclamare la loro riconoscenza
calpestandole. Il governo repubblicano del resto è il solo,
al   quale si debba riconoscere il diritto di fare tutto, e
che possa disprezzare ciò che gli uomini hanno fino ad ora
rispettato, dalle più alte     leggi della morale fino alle
elementari re-gole del senso comune. Si era pensato, fino ad
ora, che il dispotismo fosse odioso, qualunque fosse-ro le sue
forme. Ma si è scoperto ai giorni nostri che vi. erano nel
mondo tirannidi legittime e sante ingiustizie, purché fossero
esercitate in nome del popolo “. E’ proprio il caso di
parafrasare; de nobis fabula narratur!

                   Pubblicato su HuffPost del 1° novembre 2021
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