GRUPPO ARCHEOLOGICO VELITERNO - AD SPONSAS DOMENICA 14 LUGLIO 2019

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GRUPPO ARCHEOLOGICO VELITERNO - AD SPONSAS DOMENICA 14 LUGLIO 2019
GRUPPO ARCHEOLOGICO VELITERNO
       DOMENICA 14 LUGLIO 2019

              AD SPONSAS

                  Donna con Vassoio, I a.C.,
        particolare affresco, Villa San Marco – Stabia
GRUPPO ARCHEOLOGICO VELITERNO - AD SPONSAS DOMENICA 14 LUGLIO 2019
CHI SIAMO

Il Gruppo Archeologico Veliterno, nato nel 1998 con l’acronimo di G.A.V., ha sede a
Velletri e aderisce ai Gruppi Archeologici d’Italia.

Collabora con le principali istituzioni comunali (Museo Civico, Fondo Antico), statali
(Università La Sapienza, Istituti Comprensivi Scolastici), e con la Soprintendenza
Archeologica del Lazio, soprattutto per quanto riguarda la sorveglianza dei beni
archeologici, la loro tutela e valorizzazione.

Tra le attività che svolgiamo:
   - Convenzione con il Comune di Velletri per le aperture Straordinarie del sito
       Area Archeologica delle SS. Stimmate.
   - Collaborazioni con varie Associazioni presenti sul territorio e con le
       Istituzioni comunali.
   - Collaborazione con Soprintendenza e Università La Sapienza per lo scavo
       dell’Area Archeologica delle SS. Stimmate (ripulitura e catalogazione dei
       reperti).
   - Convenzioni con Istituti Scolastici Superiori per progetti nell’ambito
       dell’Alternanza Scuola Lavoro.
   - Progetti annuali con le scuole di primo grado: “Il G.A.V. incontra le Scuole”.
   - Riqualificazione e valorizzazione di tratti dell’Appia Antica e di altri siti
       abbandonati.
   - Gruppi di studio per conoscere il nostro territorio (archeologia, arte, storia,
       natura, fotografia ecc…)
   - Organizzazione conferenze, convegni e celebrazioni di ricorrenze storiche.
   - Visite e viaggi organizzati in importanti siti culturali ed aree archeologiche nel
       Lazio e sul territorio Italiano.
   - Rubriche periodiche sulla stampa (cartacea e on line).
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AD SPONSAS
Là dove l’Appia, al XXV miliare, nel territorio di Velitrae, incrociò l’antichissima via Mactorina c’era un
tempio dedicato ad Apollo e a Diana.. Ne furono trovati il basamento (blocchi di grandi dimensioni in opus
quadratum), e nella proprietà Crespi (la stessa da dove emerse la stele di Onesimus) moltissimi frammenti di
terracotta e una statua acefala di figura femminile seduta 1. La testa era probabilmente quella «con un
cerchio in fronte» di cui parla il Teoli 2, con l’informazione che «la conserva in casa Teodoro Monticelli», la
quale dea «dal cerchio in fronte» potrebbe essere «Maja», o «Dia», l’innominabile «Bona Dea» laziale
(secondo le versioni: la moglie o la sorella di Fauno e protettrice della fecondità femminile e della salute,
profetessa del futuro alle donne) poi divenuta la Diana veneratissima in tutto il territorio, ma qui venerata
insieme al fratello Apollo, cui rimanda il frammento di testa maschile in calcare con diadema rinvenuto sul
posto: ecco dunque la spiegazione di «Sole e Luna».
La Mactorina partiva dal santuario oracolare della Fortuna Primigenia di Praeneste (l’attuale Palestrina)
legata alla fertilità e raggiungeva il tempio della Mater Matuta a Satricum. legata al mattino e alla maternità:
in mezzo, il santuario agreste di Velitrae consacrato al rito della deposizione della verginità ai piedi di Diana.

                                           Labruzzi, 1789: Il “Mausoleo di Soleluna”
                                     (quanto era rimasto dell’antico tempio alla fine del 700)

In quel punto i Romani installarono una mutatio (stazione di posta) - che riportano sia l’Itinerarium Antonini
sia l’Itinerarium Burdigalense sia ancora l’Itinerarium Hierosolymitanum sia infine la Tabula Peutingeriana -
chiamata “ad Sponsas” perché, evidentemente, in quel tempietto le promesse spose si recavano per una
cerimonia particolare il giorno prima delle nozze.

I termini “sponsus” e “sponsa”, rispettivamente maschile e femminile, non sono altro linguisticamente che il
participio passato del verbo latino “spondeo”, che significa “promettere”, e antropologicamente era il
risultato di uno scambio di battute tra il futuro genero e il futuro suocero. Il primo chiedeva all’altro:
“Spondesne?” (ossia: “Prometti?”) e l’altro rispondeva: “Spondeo” (“Prometto”). A questo punto lo sponsus
donava alla sponsa un anello (“anulus pronubus”) che la sponsa infilava all’anulare della mano sinistra (da
cui si riteneva che partisse un nervo che andava fino al cuore), e i due si scambiavano un bacio casto detto
“osculum religionis” (bacio di legame). Cominciava il fidanzamento (“sponsalia”) che si si sarebbe concluso
con la cerimonia nuziale. Il giorno prima delle nozze la “sponsa” ancora promessa si recava presso il
tempietto dei Lari a casa sua o in qualche altro tempio e vi offriva gli oggetti della sua infanzia chiedendo
alla divinità un matrimonio prospero e felice.

1
  Nardini, Scoperte varie di antichità nel territorio, in ‘Notizie scavi’, Velletri 1939, p. 88
2 «Theatro historico della città di Velletri insigne città e Capo de’ Volsci», Velletri, 1644
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Ai ragazzi e alle ragazze in ogni civiltà si usa donare giocattoli di ogni tipo (palle, cerchi, carrettini, trottole,
astragali, rocchetti-yoyo, sonagli, fischietti, specchietti, girandole, ventagli, bambole) non solo per
trastullarsi, ma anche per educarli, e in genere ai giocattoli e al gioco era associato nell’antichità un intimo
significato religioso.
Per le civiltà classiche sappiamo di certo che quando entravano in una nuova età della vita (l’adolescenza, il
matrimonio) fanciulle e fanciulli consacravano i loro balocchi ai protettori della loro infanzia (i Lari, Diana,
Apollo, Venere, Mercurio…): sia i testi letterari (poemi epici, commedie, tragedie, trattati, epigrammi) che i
dati archeologici (opere plastiche, pitture parietali o vascolari, mosaici, migliaia di giocattoli rinvenuti pressi
i templi o nelle tombe) abbondano di queste testimonianze.
Nella seconda satira Persio, a un certo punto dice: “Come le bambole che le vergini donano a Venere …”
Nell’Antologia Palatina (VI, 59) ci imbattiamo in un epigramma che dice:

                                       A Cipride corone, i ricci a Pallade,
                                             la cintura ad Artemide
                                               ha offerto Calliroe.
                                       Lo sposo che voleva ella ha trovato
                                        e, dopo un’avveduta giovinezza,
                                        una prole di maschi ha generato

più oltre (VI, 280), leggiamo:

                             Timarete, prima delle nozze, consacra a Diana Limnete
                    il suo tamburo, il suo bel palloncino, la rete che le circondava i capelli
                               Vergine e, come è giusto, consacra alla vergine dea
                                 le sue bambole vergini anch’esse e i loro vestiti

ancora più oltre (VI,309) un altro epigramma attribuito a Leonida di Taranto (320-260 a.C.) dice:

                                    Filocle consacra la sua palla rimbalzante
                                       A Hermes, la sua nacchera di bosso,
                                  i suoi astragali che tanto amò, la sua veloce
                                    trottola, i balocchi della sua fanciullezza.

Altri riferimenti si trovano in Lattanzio, Girolamo, nello scoliasta di Orazio, eccetera.
                                                 Ritorniamo al nostro tempio di Soleluna. La cerimonia si
                                                 svolgeva con ogni verosimiglianza così:
                                                 Il giorno prima del matrimonio la «sponsa» si recava dalla
                                                 suscettibile vergine Diana ad offrirle simbolicamente ed
                                                 apotropaicamente la sua verginità. Indossava probabilmente
                                                 l’abito e l’acconciatura degli ultimi momenti di verginità alla
                                                 celebrazione del matrimonio: la bianca «tunica recta» (senza
                                                 orli né maniche e lunga fino ai piedi), il «cingulum
                                                 herculeum» (cintura di lana a doppio nodo), la «palla»
                                                 (mantellina) color zafferano, l’acconciatura delle Vestali: i
                                                 «seni crines» (i sei cercini di capelli), e il «flammeum» (il velo
                                                 color arancio) sul viso, in testa una corona di fiori di campo o
                                                 fiori d’arancio, ai piedi i «lutei socci» (sandali gialli).
                                                 La «sponsa» consacrava alla divinità la sua veste da ragazza e
                                                 tutti i balocchi della sua infanzia, in specie la «pupa» (la
                                                 bambola), il cerchio, i piccoli monili e parte del miele che
                                                 avrebbe poi consumato con il marito per tutta la lunagione
                                                 successiva al matrimonio (la luna di miele).

                                                  Donna con vassoio, I a.C.; particolare affresco Villa San Marco – Stabia
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LA “TUNICA RECTA”

Con il termine “tunica” si intendevano tre varietà dello stesso indumento.

La prima era la “tunica interior” o “subucula” (ossia “intima”) che si indossava direttamente sul corpo ed
era formata da due pezzi (di lana o di stoffa in rapporto alle stagioni) cuciti in modo che la parte davanti
arrivasse fino alle ginocchia e quella di dietro fino ai polpacci. Non aveva maniche (che furono introdotte
solo nel tardo impero, larghe alle spalle e strette ai polsi, e da allora si parlò di “intusium”).

Quella che si indossava per la cerimonia pre-nuziale era la “tunica recta”, bianca, senza maniche, attillata
alla vita e scampanata ai piedi.

La tunica comune non era altro che una sorta di sottana che andava dalle spalle alle ginocchia.

Quale che fosse il tipo, si trattava sempre di un rettangolo (di stoffa o di lana) cucito ai lati ma non alle
spalle, dove veniva fissato con spille o fibbie (“fibulae”). Poteva avere uno scollo tondo o a V.

                               Statua, I a.C.; bronzo, dalla Villa dei Papiri di Ercolano
                                            (Museo Archeologico di Napoli)
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IL “CINGULUM HERCULEUM”

Qualsiasi donna onesta portava alla vita una cintura (“cingulum”): non la portavano solo le prostitute
(“discintae”) e chi era “incinta” (cioè “senza cinta”).

Era di stoffa oppure di pelle oppure era una cordicella e poteva essere arricchita con ornamenti vari.

Quella che la sposa indossava sulla tunica recta era di lana di pecora: più esattamente, erano due cordicelle di
lana assai abilmente intrecciate, come nelle figure qui sotto, che solo il marito l’indomani, ossia il giorno
delle nozze doveva essere in grado e aveva il diritto di sciogliere:

          “La sposa era cinta col cingulum che solo lo sposo scioglieva sul letto. Era fatto di lana di pecora e
significava che come questa lana era unita a se stessa, allo stesso modo il marito era legato come una cintura
e un legame stretto alla sua donna.
         Il marito scioglie questa cintura, annodata col nodo di Ercole, come presagio che egli sarà così felice
per il numero dei figli quanto lo fu Ercole che ne lasciò settanta”.
         (Festo, De verborum significatu)

                                               LA “PALLA”

                                           La “palla” era una mantellina, per lo più drappeggiata.

                                           Normalmente le donne, se sposate, la indossavano sulla tunica
                                           quando uscivano di casa, avvolgendola sulle spalle e tirandone un
                                           lembo sul capo in segno di riservatezza.

                                           Quella della “sponsa” era di color zafferano.

                                           Dextrarum junctio - sarcofago - II sec. d.C
                                           Mantova, Palazzo Ducale
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I “SENI CRINES”

Sotto al lembo della “palla” che le copriva il capo, la “sponsa” portava una specialissima acconciatura dei
capelli (quella propria delle Vestali), che prendeva il nome di “seni crines” e per la quale era indispensabile
l’opera di una esperta pettinatrice (“ornatix”) professionista, la quale si serviva di tutti i suoi strumenti
(pettine, forbici, spille, specchio, calamistrum) tra cui spiccava l’ “hasta caelibaris”, uno spillone dalla punta
aguzza e dalla corta impugnatura. “Si pettinava – apprendiamo da Festo (p. 55 L) – la chioma della fanciulla
che si sposava con l’hasta caelibaris che fosse stata nel corpo di un gladiatore abbattuto ed ucciso, perché
come l’asta era stata congiunta col corpo del gladiatore, così la sposa lo sia con il marito; oppure perché le
matrone sono sotto la tutela di Giunone Curitis, che traeva il nome dall’asta che portava, che in lingua sabina
si dice curis; oppure perché fosse di buon augurio per la procreazione di uomini vigorosi; oppure perché,
secondo il diritto nuziale, la sposa è sottomessa al potere del marito, dal momento che l’asta è il simbolo
delle armi e del potere”.

I lunghi capelli venivano prima divisi in sei trecce con l’hasta: poi le prime due trecce sulla fronte erano
avvolte in una “vitta” (una benda arrotolata), mentre le altre quattro erano ripiegate incrociate e avvolte a
crocchia (‘tutulus”) sulla sommità del capo.

                                                            Hasta caelibaris

 Ornatrix – La Marsa (Tunisia) –
             I-II sec.
      Museo di Cartagine

                 Le sei trecce                         La vitta                         Il tutulus
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IL “FLAMMEUM”

Il “flammeum” era il velo vero e proprio. Si chiamava così
perché era color fiamma (rosso o arancione), o anche perché lo
indossava la “Flaminica Dialis”, che era la moglie del “Flamen
Dialis” (il sacerdote di Giove) alla quale era assolutamente
vietato divorziare (e quindi era un buon auspicio per la sposa).

Sul capo, infine, troneggiava una corona di fiori, che potevano
essere, secondo la stagione, fiori di campo, o gigli, o rose, o fiori
d’arancio, escluso il mirto.

Particolare della Sposa con il flammeum, affresco, I a.C.; Villa dei Misteri –
Pompei

                     Particolare dell’affresco Donna con vassoio, I a.C.;
                                 Villa San Marco – Stabia
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LA “LUNULA”

Al collo portava la “lunula”, un amuleto a forma di luna crescente che si dava alle bambine al nono giorno
dalla nascita e che esse indossavano fino al giorno del matrimonio.
Era di diversi tipi e materiale, secondo il gusto e le possibilità economiche della famiglia.

                                   Lunula, I sec. d. C.; ritrovata nel 2008 a Verona
                                     nella tomba di una bambina di circa 6 mesi
                                                       I sec. d.C.

                                              I “LUTEI SOCCI”

I “socci” erano, in pratica, delle ciabattine leggere ed eleganti, che possiamo immaginare del tipo delle
scarpette autentiche (della fine del I secolo d.C.), rinvenute sul limes di Saalburg in Germania.

                          Scarpa da donna, I d.C.; rinvenuta nel sito di Saalburg, in Germania.

Il colore giallo (“luteus”) li associava a quello della “palla” in un abbinamento molto suggestivo ed elegante.

Così abbigliata e accompagnata dai suoi familiari ed amici festanti, la nostra “sponsa” esce di casa e si reca
al santuario di Soleluna.
Si forma così un corteo pre-nuziale che si ripeterà più in grande e con maggiore solennità l’indomani, al
tramonto, quando la sposa uscirà definitivamente da casa sua per recarsi a quella dello sposo. È una
tradizione così antica che la troviamo già in Omero (Iliade, XVIII, 491-496):
                                     (…) si celebravano nozze e banchetti:
                     alla luce di fiaccole splendenti portavano le spose dalle loro stanze
                       su alla rocca cittadina e dappertutto si alzava il canto imeneo;
                              giovani danzatori volteggiavano e in mezzo a loro
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flauti e lire diffondevano il loro suono; le donne,
                   ciascuna in piedi davanti alla porta di casa, ammiravano lo spettacolo

Può darsi che la “sponsa” sia seduta su un carro trainato da buoi o da cavalli.

                                           Sarcofago di Crepereia Tryphaena

                                                   L’antichissima “Dia” laziale, l’innominabile “Bona Dea”
                                                   predittrice del futuro, ora venerata Diana, dea della luna,
                                                   irascibile vergine signora dei boschi e degli animali
                                                   selvatici, protettrice delle donne ai cui parti presiede, la
                                                   attende nel suo santuario, seduta e con il suo diadema sul
                                                   capo (il “cerchio in fronte” di Teoli).

                                                   La Bona Dea in trono, marmo bianco, metà del III secolo d.C.;
                                                   rinvenuta ad Albano Laziale nel XVIII secolo.

Che età può avere la nostra sposina?

A Roma, l’età legale per il matrimonio era stabilita in 12 anni per le femmine e 14 per i maschi. Sappiamo
che i maschi attendevano di solito di avere almeno raggiunto i 20 anni prima di sposarsi, per cui le donne
andavano spose per lo più tra i 15 e i 17-18 anni.
La speranza di vita era molto più bassa (27 anni in media) rispetto a noi: si calcola che solo l’1% della
popolazione raggiungeva gli 80 anni (la media era di 49 anni); molto elevata era anche la mortalità infantile
(il 30-40 % dei bambini morivano entro i primi dodici mesi di vita, mentre quelli scomparsi entro il decimo
anno d'età ammontavano a quasi un terzo della popolazione), e morivano di parto il 25 per mille delle donne.
Quindi, si tendeva naturalmente ad andar spose e sposi appena possibile.
                                                          Il maschilismo imperante permetteva di dichiarare
                                                          alto e forte (come sappiamo da Aulo Gellio che
                                                          riferisce l’opinione diffusa, espressa già da Quinto
                                                          Cecilio Metello Macedonico nel 131 a.C. e
                                                          addirittura letta da Augusto in Senato): «Se
                                                          potessimo vivere senza donne faremmo volentieri
                                                          a meno di questa seccatura, ma dato che la natura
                                                          ha voluto che non potessimo vivere in pace con
                                                          loro né vivere senza di loro, bisogna guardare alla
                                                          conservazione della specie piuttosto che ricercare
                                                          piaceri effimeri».
                                                             Sarcofago di Crepereia Typhaena, 150-160 d. C.,
                                                             marmo, Musei Capitolini – Centrale Montemartini

Lo stesso Augusto, del resto, all’età di 20 anni aveva preso – o, invero, era stato costretto dalle circostanze
politiche a prendere –come prima moglie la figlia che la moglie di Marco Antonio aveva avuta da Clodio: la
ragazzina era in boccio, e doveva anche essere molto graziosa, se la soprannominarono “Pulchra”, ossia
“Bella” (di nome si chiamava Claudia), ma la sua giovanissima età (“vixdum nubilem”, assicura Svetonio),
se da una parte rendeva legittimo il matrimonio, dall’altra ne faceva una vera e propria finzione giuridica.
Così Augusto si guardò bene dal consumare con lei e la rimandò a casa ancora vergine appena poté. Volendo
dare un volto e un nome alla Virgo della IV egloga, se Virgilio la scrisse prima di questo avvenimento, la
Vergine potrebbe essere proprio la Claudia; se invece dopo, potrebbe trattarsi di Ottavia (la sorella di
Augusto). Come seconda moglie prese poi una donna, Scribonia, che aveva 11 anni più di lui, ma la scaricò
il giorno stesso in cui questa le partorì una figlia (Giulia) perché si era nel frattempo portato in casa una
giovane di 19 anni, sposata, che era incinta di cinque mesi (Livia). Il nascituro sarà Tiberio.
Decisamente, le probabilità che una giovane, per graziosa e protetta che fosse, avesse un buono ed unico
marito, erano piuttosto basse: circondare quindi il matrimonio (che era in definitiva un atto privato) di riti
religiosi e di un’aura giuridica il più possibile definita, era essenziale per una donna.
Supponiamo pertanto che la nostra sposina veliterna avesse intorno ai 17-18 anni.
                                                  Conscia della sacralità del momento e del significato della
                                                  cerimonia di cui si accinge ad essere protagonista, procede
                                                  assorta e silenziosa verso la statua e, aiutata dalla
                                                  “pronuba” (la matrona univira che funge da madrina) che
                                                  le consegna gli oggetti tirandoli uno
                                                  dopo l’altro dalla “capsa”, li offre alla
                                                  dea cui consegna in tal modo tutta la
                                                  sua fanciullezza in cambio della
                                                  protezione sulla sua imminente nuova
                                                  vita di moglie insieme all’uomo quasi
                                                  sconosciuto che il padre (con l’autorità
                                                  indiscussa di pater familias) aveva
                                                  scelto per lei.

Per prima le consegna il più bel vestitino che portava da bambina e che era stato
religiosamente conservato per questa occasione. L’aveva di certo ricevuto all’età di 7
anni quando si abbandonava l’infanzia e si entrava nell’età della ragione, e l’aveva
indossato quando aveva partecipato da paggetta al matrimonio di una sua cugina più
grande.
Ora la nostra sposa lo dispiega e lo depone delicatamente in grembo alla dea.
Lo consegna alla dea insieme ai piccoli monili che indossò in quella circostanza: la cugina sposa che glieli
aveva prestati, glieli aveva poi lasciati in regalo: gli orecchini, la collanina, l’anellino, il braccialetto e le
cavigliere. Erano tutti di ottone dorato, e lei li portò fiera e felice per tutto quel giorno e l’altro ancora e poi
di tanto in tanto, via via che cresceva, nelle occasioni importanti e nelle feste: gli orecchini (inaures) ad amo
con due pendaglietti tintinnanti (crotalia), la collanina a cordoncino con tante perline di vetro ed una perlina
più grande che luccicava sul petto, il braccialetto (armilla) anch’esso con delle perline tintinnanti, l’anellino
(anulus) al dito mignolo, le cavigliere (periscelides) che la facevano sentire una persona grande e matura.

Prende dalla pronuba tutti questi oggettini uno per uno, li accarezza, li bacia e li depone ai piedi della dea.

È quindi la volta degli altri strumenti sonori: il tintinnabulum, composto da due anelli di bronzo più piccoli e
da un altro più grande che i genitori le avevano appeso in alto sulla cuna (la culla) a protezione e
portafortuna; il fischietto: un galletto di ceramica dipinta con la cresta, i bargigli, le piume e la coda
policrome, gli alti speroni, che emetteva un sibilo acuto soffiandovi per il becco; il tympanum (tamburello)
rotondo, dalla cornice di legno e la pelle di agnello, con tanti cimbaletti di stagno e nastrini colorati: con esso
aveva mosso sull’aia i primi passi di saltarello con le amichette e allietato i parenti durante le feste: lo teneva
in alto agitandolo con la mano sinistra e lo percuoteva con la destra: battendo verso il centro, il suono era più
cupo, battendo verso i bordi, il suono era più acuto, e i cimbaletti facevano un allegro accompagnamento.
Depone tutti questi oggetti ai piedi della dea e le appende al braccio il tamburello.
I GIOCATTOLI

Ed è ora la volta dei giocattoli.

Prende dapprima la trottola (turbo): suo fratello, che ne aveva una di legno che richiedeva l’abilità di tirarla
srotolando d’un sol colpo lo spago arrotolato all’intorno e poi facendola continuare a girare ricolpendola con
lo stesso spago, le aveva costruito una apposta per lei, più semplice, che bisognava mettere in movimento
con un toco forte e veloce dell’indice e del pollice.

Lo spago invece lei era abilissima ad usarlo per giocare con i rocchetti (lo yo-yo): glielo aveva comprato
tanto tempo fa la mamma a una bancarella di giocattoli nel foro di Velletri, alla festa degli Equirria, la corsa
dei cavalli in onore di Marte, alla fine di febbraio.

Infine la palla di pezza multicolore (pila paganica) con cui aveva svolto con le amiche interi campionati di
trigon: ci si disponeva in tre a triangolo e si tirava la palla dall’una all’altra evitando di farla cadere per terra:
un punto per ognuna che metteva l’altra in condizione di non afferrarla. Le partite erano interminabili nei
caldi pomeriggi d’estate all’ombra dell’alberone.

                                                  Trottola romana di legno
                                                  Museo di Saintes (Francia)

        Kylix attica, particolare, del 440 a.C.              Particolare del mosaico di Piazza Armerina, 320-370 d.C.
              Antikensammlung Berlin
GLI ASTRAGALI

L’astragalo è un ossicino di forma cubica del piede che si articola con altri ossi.

Gli Antichi usavano quello della capra o del montone o del maiale o di altri bovini – o ne costruivano con
materiali diversi (argilla, vetro, metallo, avorio) - come dei dadi con cui facevano dei giochi.
Poiché ha una forma cubica irregolare e le sue due facce piccole non gli permettono di reggersi, venivano
valutate solo le quattro facce più grandi alle quali erano assegnati valori distinti: il lato piano (planum)
valeva 1, il lato concavo (supinum) valeva 3, il lato convesso (pronum) valeva 4 e quello sinuoso (tortuosum)
valeva 6. La somma delle superfici opposte era sempre uguale a 7: 6+1 oppure 4+3.

Era un gioco prevalentemente infantile (gli adulti preferivano di gran lunga i dadi veri e propri). Alle
bambine venivano regalati in una borsetta di cuoio in speciali occasioni (il compleanno oppure alla prima
mestruazione).

Si poteva giocare da soli o in coppia o in gruppo, e c’erano vari modi per farlo:
Pari e dispari (par et impar): si tiravano alla cieca due astragali dalla borsetta e si indovinava, prima di
gettarli, se il totale sarebbe stato pari o dispari, oppure uno tirava dalla borsetta uno o più astragali e l’altro
doveva indovinare se erano di numero pari o dispari.
Il cerchio (circulus): ogni giocatore lanciava i suoi astragali all’interno di un cerchio cercando di farne
uscire quelli degli altri.
La fossetta (tropa): gettare gli astragali cercando di farli cadere in un piccolo buco nel terreno.

Ma i modi più comuni erano due:

Uno era quello di gettarli in terra (almeno quattro) e calcolare quindi i punti ottenuti: fra le 35 combinazioni
possibili (ma il totale generale delle combinazioni era 256) il lancio più fortunato (se tutte le facce erano
diverse) era detto “colpo di Venere” (ictus Veneris), quello più sfortunato (se tutti gli astragali davano il
valore più basso) era detto “del cane” (ictus canis).
Prima di gettarli, li si agitava fra le mani cantando una cantilena. La Historia Augusta a proposito di
Aureliano (VI, 5) cita alcune di queste cantilene che recitavano, oltre ai soldati, anche i bambini, ed erano
cantilene non più quantitative ma già accentuative (il primo verso pentasillabo, i successivi due esasillabi e
gli ultimi due quadrisillabi, tutti con la caduta dell’accento enfatico sulla sillaba finale). 3 Ma più

3
 Mille mille mille decollavimus, / unus homo mille decollavimus. / Mille bibat quisquis mille occidit. / Tantum vini nemo habet /
quantum fudit sanguinis.
verosimilmente erano filastrocche magiche (carmina, indigitamenta) del tipo di quelle che ci riporta Catone
nel De agricultura (cap. 160):
 MOTAS VAETA DARIES – DARDARIES ASTATARIES - DISSUNAPITER, oppure: HUAT HAUAT
              HUAT - ISTA PISTA SISTA - DAMNABO DAMNAUSTRA.

              Statua romana, 150-130 a.C.                                 Terracotta da Capua (340-330 a.C.)
                        Berlino                                                Londra, British Museum

Un altro modo era di gettarli in aria e cercare di raccoglierne il più possibile sul dorso della mano.
Comprendeva molte figure: l’uno, il due, il tre, il quattro, il sotto l’arco, le scuderie, il rospo nel buco, il
salta-fosso, il coperto.

                         Giocatrici di astragali, su marmo, da Ercolano Napoli, Museo Nazionale

       Il gioco era profondamente legato alla Fortuna (la Τύχη) dei Greci, padrona dei destini umani.
LA BAMBOLA

Infine, l’ultimo sacrificio, il più grande, fu quello di consegnare alla dea la sua amatissima pupa (la
bambola), disfacendone definitivamente, ma col pensiero di averne presto un’altra, magari anche più bella da
regalare ad una figlia futura per giocarci assieme.

Era stata per anni la sua amica più discreta e più fedele. Per anni l’aveva pettinata, lavata, vestita, calzata,
agghindata, inanellata, le aveva cucito e stirato un intero guardaroba, le aveva parlato, sussurrato, cantato
nenie e filastrocche. L’aveva dondolata, addormentata, messa a letto delicatamente come una mamma la
propria figlia…

Ed ora la consegnava ad un’altra persona, la Dea, così come lei domani era consegnata ad un altro: il proprio
marito, da cui avrebbe avuto una figlia cui donare un’altra bambola, e il mondo si sarebbe rimesso a girare
come aveva fatto lei con la trottola, con il rocchetto e con la palla.

Gliela aveva portata in dono il papà da Capua dove
l’aveva comprata da un abile artigiano greco di Cuma. E
lei l’aveva chiamata Velia perché ormai era diventata
Veliterna.

Il corpo di Velia era snodabile: gambe, piedi, testa, mani
potevano muoversi in tutte le posizioni di una persona
vivente, e i capelli erano tante parrucche adattate ai
diversi abiti: capelli ricci o lisci e lunghi, corti, a
treccioline sottili legate con tanti nastrini, capelli biondi,
rossi, neri. Ogni volta … sembrava un’altra, ma era
sempre la stessa, sorella di giochi e sempre disponibile.
Aveva le pupille verdi nel fondo bianco degli occhi, le
dita paffutelle, i piedini sottili ed agili di una ballerina.

Addio, Velia. Non dimenticarmi. Io non ti dimenticherô e
parlerô di te alla mia bambina … !

                            La bambola di Crepereia Tryphaena,
                                              metà II d.C.; avorio,
                        Musei Capitolini – Centrale MOntemartini.
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Opuscolo redatto a cura del
                 GRUPPO ARCHEOLOGICO VELITERNO
                      nell’ambito del Progetto istituzionale
                      (Regione Lazio e Comune di Velletri)

       “Passeggiate spettacolari sull’Appia Antica”
                              con la collaborazione di:
                           Associazione Culturale Artè,
                                Palestra Body 2000;
                 Gruppo Folcloristico Equestre Città di Velletri

il Gruppo Archeologico Veliterno organizza e ripropone la cerimonia
che si svolgeva in epoca romana al Tempio di Soleluna dove le spose, il
giorno prima delle nozze, si recavano e offrivano alla dea tutti i segni della
loro infanzia.

 Sede Legale Via Castello, 31 -00049 Velletri (RM) C.F. 95015260581; info.gav17@gmail.com
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