GRUPPO ARCHEOLOGICO VELITERNO - AD SPONSAS DOMENICA 14 LUGLIO 2019
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GRUPPO ARCHEOLOGICO VELITERNO DOMENICA 14 LUGLIO 2019 AD SPONSAS Donna con Vassoio, I a.C., particolare affresco, Villa San Marco – Stabia
CHI SIAMO Il Gruppo Archeologico Veliterno, nato nel 1998 con l’acronimo di G.A.V., ha sede a Velletri e aderisce ai Gruppi Archeologici d’Italia. Collabora con le principali istituzioni comunali (Museo Civico, Fondo Antico), statali (Università La Sapienza, Istituti Comprensivi Scolastici), e con la Soprintendenza Archeologica del Lazio, soprattutto per quanto riguarda la sorveglianza dei beni archeologici, la loro tutela e valorizzazione. Tra le attività che svolgiamo: - Convenzione con il Comune di Velletri per le aperture Straordinarie del sito Area Archeologica delle SS. Stimmate. - Collaborazioni con varie Associazioni presenti sul territorio e con le Istituzioni comunali. - Collaborazione con Soprintendenza e Università La Sapienza per lo scavo dell’Area Archeologica delle SS. Stimmate (ripulitura e catalogazione dei reperti). - Convenzioni con Istituti Scolastici Superiori per progetti nell’ambito dell’Alternanza Scuola Lavoro. - Progetti annuali con le scuole di primo grado: “Il G.A.V. incontra le Scuole”. - Riqualificazione e valorizzazione di tratti dell’Appia Antica e di altri siti abbandonati. - Gruppi di studio per conoscere il nostro territorio (archeologia, arte, storia, natura, fotografia ecc…) - Organizzazione conferenze, convegni e celebrazioni di ricorrenze storiche. - Visite e viaggi organizzati in importanti siti culturali ed aree archeologiche nel Lazio e sul territorio Italiano. - Rubriche periodiche sulla stampa (cartacea e on line).
AD SPONSAS Là dove l’Appia, al XXV miliare, nel territorio di Velitrae, incrociò l’antichissima via Mactorina c’era un tempio dedicato ad Apollo e a Diana.. Ne furono trovati il basamento (blocchi di grandi dimensioni in opus quadratum), e nella proprietà Crespi (la stessa da dove emerse la stele di Onesimus) moltissimi frammenti di terracotta e una statua acefala di figura femminile seduta 1. La testa era probabilmente quella «con un cerchio in fronte» di cui parla il Teoli 2, con l’informazione che «la conserva in casa Teodoro Monticelli», la quale dea «dal cerchio in fronte» potrebbe essere «Maja», o «Dia», l’innominabile «Bona Dea» laziale (secondo le versioni: la moglie o la sorella di Fauno e protettrice della fecondità femminile e della salute, profetessa del futuro alle donne) poi divenuta la Diana veneratissima in tutto il territorio, ma qui venerata insieme al fratello Apollo, cui rimanda il frammento di testa maschile in calcare con diadema rinvenuto sul posto: ecco dunque la spiegazione di «Sole e Luna». La Mactorina partiva dal santuario oracolare della Fortuna Primigenia di Praeneste (l’attuale Palestrina) legata alla fertilità e raggiungeva il tempio della Mater Matuta a Satricum. legata al mattino e alla maternità: in mezzo, il santuario agreste di Velitrae consacrato al rito della deposizione della verginità ai piedi di Diana. Labruzzi, 1789: Il “Mausoleo di Soleluna” (quanto era rimasto dell’antico tempio alla fine del 700) In quel punto i Romani installarono una mutatio (stazione di posta) - che riportano sia l’Itinerarium Antonini sia l’Itinerarium Burdigalense sia ancora l’Itinerarium Hierosolymitanum sia infine la Tabula Peutingeriana - chiamata “ad Sponsas” perché, evidentemente, in quel tempietto le promesse spose si recavano per una cerimonia particolare il giorno prima delle nozze. I termini “sponsus” e “sponsa”, rispettivamente maschile e femminile, non sono altro linguisticamente che il participio passato del verbo latino “spondeo”, che significa “promettere”, e antropologicamente era il risultato di uno scambio di battute tra il futuro genero e il futuro suocero. Il primo chiedeva all’altro: “Spondesne?” (ossia: “Prometti?”) e l’altro rispondeva: “Spondeo” (“Prometto”). A questo punto lo sponsus donava alla sponsa un anello (“anulus pronubus”) che la sponsa infilava all’anulare della mano sinistra (da cui si riteneva che partisse un nervo che andava fino al cuore), e i due si scambiavano un bacio casto detto “osculum religionis” (bacio di legame). Cominciava il fidanzamento (“sponsalia”) che si si sarebbe concluso con la cerimonia nuziale. Il giorno prima delle nozze la “sponsa” ancora promessa si recava presso il tempietto dei Lari a casa sua o in qualche altro tempio e vi offriva gli oggetti della sua infanzia chiedendo alla divinità un matrimonio prospero e felice. 1 Nardini, Scoperte varie di antichità nel territorio, in ‘Notizie scavi’, Velletri 1939, p. 88 2 «Theatro historico della città di Velletri insigne città e Capo de’ Volsci», Velletri, 1644
Ai ragazzi e alle ragazze in ogni civiltà si usa donare giocattoli di ogni tipo (palle, cerchi, carrettini, trottole, astragali, rocchetti-yoyo, sonagli, fischietti, specchietti, girandole, ventagli, bambole) non solo per trastullarsi, ma anche per educarli, e in genere ai giocattoli e al gioco era associato nell’antichità un intimo significato religioso. Per le civiltà classiche sappiamo di certo che quando entravano in una nuova età della vita (l’adolescenza, il matrimonio) fanciulle e fanciulli consacravano i loro balocchi ai protettori della loro infanzia (i Lari, Diana, Apollo, Venere, Mercurio…): sia i testi letterari (poemi epici, commedie, tragedie, trattati, epigrammi) che i dati archeologici (opere plastiche, pitture parietali o vascolari, mosaici, migliaia di giocattoli rinvenuti pressi i templi o nelle tombe) abbondano di queste testimonianze. Nella seconda satira Persio, a un certo punto dice: “Come le bambole che le vergini donano a Venere …” Nell’Antologia Palatina (VI, 59) ci imbattiamo in un epigramma che dice: A Cipride corone, i ricci a Pallade, la cintura ad Artemide ha offerto Calliroe. Lo sposo che voleva ella ha trovato e, dopo un’avveduta giovinezza, una prole di maschi ha generato più oltre (VI, 280), leggiamo: Timarete, prima delle nozze, consacra a Diana Limnete il suo tamburo, il suo bel palloncino, la rete che le circondava i capelli Vergine e, come è giusto, consacra alla vergine dea le sue bambole vergini anch’esse e i loro vestiti ancora più oltre (VI,309) un altro epigramma attribuito a Leonida di Taranto (320-260 a.C.) dice: Filocle consacra la sua palla rimbalzante A Hermes, la sua nacchera di bosso, i suoi astragali che tanto amò, la sua veloce trottola, i balocchi della sua fanciullezza. Altri riferimenti si trovano in Lattanzio, Girolamo, nello scoliasta di Orazio, eccetera. Ritorniamo al nostro tempio di Soleluna. La cerimonia si svolgeva con ogni verosimiglianza così: Il giorno prima del matrimonio la «sponsa» si recava dalla suscettibile vergine Diana ad offrirle simbolicamente ed apotropaicamente la sua verginità. Indossava probabilmente l’abito e l’acconciatura degli ultimi momenti di verginità alla celebrazione del matrimonio: la bianca «tunica recta» (senza orli né maniche e lunga fino ai piedi), il «cingulum herculeum» (cintura di lana a doppio nodo), la «palla» (mantellina) color zafferano, l’acconciatura delle Vestali: i «seni crines» (i sei cercini di capelli), e il «flammeum» (il velo color arancio) sul viso, in testa una corona di fiori di campo o fiori d’arancio, ai piedi i «lutei socci» (sandali gialli). La «sponsa» consacrava alla divinità la sua veste da ragazza e tutti i balocchi della sua infanzia, in specie la «pupa» (la bambola), il cerchio, i piccoli monili e parte del miele che avrebbe poi consumato con il marito per tutta la lunagione successiva al matrimonio (la luna di miele). Donna con vassoio, I a.C.; particolare affresco Villa San Marco – Stabia
LA “TUNICA RECTA” Con il termine “tunica” si intendevano tre varietà dello stesso indumento. La prima era la “tunica interior” o “subucula” (ossia “intima”) che si indossava direttamente sul corpo ed era formata da due pezzi (di lana o di stoffa in rapporto alle stagioni) cuciti in modo che la parte davanti arrivasse fino alle ginocchia e quella di dietro fino ai polpacci. Non aveva maniche (che furono introdotte solo nel tardo impero, larghe alle spalle e strette ai polsi, e da allora si parlò di “intusium”). Quella che si indossava per la cerimonia pre-nuziale era la “tunica recta”, bianca, senza maniche, attillata alla vita e scampanata ai piedi. La tunica comune non era altro che una sorta di sottana che andava dalle spalle alle ginocchia. Quale che fosse il tipo, si trattava sempre di un rettangolo (di stoffa o di lana) cucito ai lati ma non alle spalle, dove veniva fissato con spille o fibbie (“fibulae”). Poteva avere uno scollo tondo o a V. Statua, I a.C.; bronzo, dalla Villa dei Papiri di Ercolano (Museo Archeologico di Napoli)
IL “CINGULUM HERCULEUM” Qualsiasi donna onesta portava alla vita una cintura (“cingulum”): non la portavano solo le prostitute (“discintae”) e chi era “incinta” (cioè “senza cinta”). Era di stoffa oppure di pelle oppure era una cordicella e poteva essere arricchita con ornamenti vari. Quella che la sposa indossava sulla tunica recta era di lana di pecora: più esattamente, erano due cordicelle di lana assai abilmente intrecciate, come nelle figure qui sotto, che solo il marito l’indomani, ossia il giorno delle nozze doveva essere in grado e aveva il diritto di sciogliere: “La sposa era cinta col cingulum che solo lo sposo scioglieva sul letto. Era fatto di lana di pecora e significava che come questa lana era unita a se stessa, allo stesso modo il marito era legato come una cintura e un legame stretto alla sua donna. Il marito scioglie questa cintura, annodata col nodo di Ercole, come presagio che egli sarà così felice per il numero dei figli quanto lo fu Ercole che ne lasciò settanta”. (Festo, De verborum significatu) LA “PALLA” La “palla” era una mantellina, per lo più drappeggiata. Normalmente le donne, se sposate, la indossavano sulla tunica quando uscivano di casa, avvolgendola sulle spalle e tirandone un lembo sul capo in segno di riservatezza. Quella della “sponsa” era di color zafferano. Dextrarum junctio - sarcofago - II sec. d.C Mantova, Palazzo Ducale
I “SENI CRINES” Sotto al lembo della “palla” che le copriva il capo, la “sponsa” portava una specialissima acconciatura dei capelli (quella propria delle Vestali), che prendeva il nome di “seni crines” e per la quale era indispensabile l’opera di una esperta pettinatrice (“ornatix”) professionista, la quale si serviva di tutti i suoi strumenti (pettine, forbici, spille, specchio, calamistrum) tra cui spiccava l’ “hasta caelibaris”, uno spillone dalla punta aguzza e dalla corta impugnatura. “Si pettinava – apprendiamo da Festo (p. 55 L) – la chioma della fanciulla che si sposava con l’hasta caelibaris che fosse stata nel corpo di un gladiatore abbattuto ed ucciso, perché come l’asta era stata congiunta col corpo del gladiatore, così la sposa lo sia con il marito; oppure perché le matrone sono sotto la tutela di Giunone Curitis, che traeva il nome dall’asta che portava, che in lingua sabina si dice curis; oppure perché fosse di buon augurio per la procreazione di uomini vigorosi; oppure perché, secondo il diritto nuziale, la sposa è sottomessa al potere del marito, dal momento che l’asta è il simbolo delle armi e del potere”. I lunghi capelli venivano prima divisi in sei trecce con l’hasta: poi le prime due trecce sulla fronte erano avvolte in una “vitta” (una benda arrotolata), mentre le altre quattro erano ripiegate incrociate e avvolte a crocchia (‘tutulus”) sulla sommità del capo. Hasta caelibaris Ornatrix – La Marsa (Tunisia) – I-II sec. Museo di Cartagine Le sei trecce La vitta Il tutulus
IL “FLAMMEUM” Il “flammeum” era il velo vero e proprio. Si chiamava così perché era color fiamma (rosso o arancione), o anche perché lo indossava la “Flaminica Dialis”, che era la moglie del “Flamen Dialis” (il sacerdote di Giove) alla quale era assolutamente vietato divorziare (e quindi era un buon auspicio per la sposa). Sul capo, infine, troneggiava una corona di fiori, che potevano essere, secondo la stagione, fiori di campo, o gigli, o rose, o fiori d’arancio, escluso il mirto. Particolare della Sposa con il flammeum, affresco, I a.C.; Villa dei Misteri – Pompei Particolare dell’affresco Donna con vassoio, I a.C.; Villa San Marco – Stabia
LA “LUNULA” Al collo portava la “lunula”, un amuleto a forma di luna crescente che si dava alle bambine al nono giorno dalla nascita e che esse indossavano fino al giorno del matrimonio. Era di diversi tipi e materiale, secondo il gusto e le possibilità economiche della famiglia. Lunula, I sec. d. C.; ritrovata nel 2008 a Verona nella tomba di una bambina di circa 6 mesi I sec. d.C. I “LUTEI SOCCI” I “socci” erano, in pratica, delle ciabattine leggere ed eleganti, che possiamo immaginare del tipo delle scarpette autentiche (della fine del I secolo d.C.), rinvenute sul limes di Saalburg in Germania. Scarpa da donna, I d.C.; rinvenuta nel sito di Saalburg, in Germania. Il colore giallo (“luteus”) li associava a quello della “palla” in un abbinamento molto suggestivo ed elegante. Così abbigliata e accompagnata dai suoi familiari ed amici festanti, la nostra “sponsa” esce di casa e si reca al santuario di Soleluna. Si forma così un corteo pre-nuziale che si ripeterà più in grande e con maggiore solennità l’indomani, al tramonto, quando la sposa uscirà definitivamente da casa sua per recarsi a quella dello sposo. È una tradizione così antica che la troviamo già in Omero (Iliade, XVIII, 491-496): (…) si celebravano nozze e banchetti: alla luce di fiaccole splendenti portavano le spose dalle loro stanze su alla rocca cittadina e dappertutto si alzava il canto imeneo; giovani danzatori volteggiavano e in mezzo a loro
flauti e lire diffondevano il loro suono; le donne, ciascuna in piedi davanti alla porta di casa, ammiravano lo spettacolo Può darsi che la “sponsa” sia seduta su un carro trainato da buoi o da cavalli. Sarcofago di Crepereia Tryphaena L’antichissima “Dia” laziale, l’innominabile “Bona Dea” predittrice del futuro, ora venerata Diana, dea della luna, irascibile vergine signora dei boschi e degli animali selvatici, protettrice delle donne ai cui parti presiede, la attende nel suo santuario, seduta e con il suo diadema sul capo (il “cerchio in fronte” di Teoli). La Bona Dea in trono, marmo bianco, metà del III secolo d.C.; rinvenuta ad Albano Laziale nel XVIII secolo. Che età può avere la nostra sposina? A Roma, l’età legale per il matrimonio era stabilita in 12 anni per le femmine e 14 per i maschi. Sappiamo che i maschi attendevano di solito di avere almeno raggiunto i 20 anni prima di sposarsi, per cui le donne andavano spose per lo più tra i 15 e i 17-18 anni. La speranza di vita era molto più bassa (27 anni in media) rispetto a noi: si calcola che solo l’1% della popolazione raggiungeva gli 80 anni (la media era di 49 anni); molto elevata era anche la mortalità infantile (il 30-40 % dei bambini morivano entro i primi dodici mesi di vita, mentre quelli scomparsi entro il decimo anno d'età ammontavano a quasi un terzo della popolazione), e morivano di parto il 25 per mille delle donne.
Quindi, si tendeva naturalmente ad andar spose e sposi appena possibile. Il maschilismo imperante permetteva di dichiarare alto e forte (come sappiamo da Aulo Gellio che riferisce l’opinione diffusa, espressa già da Quinto Cecilio Metello Macedonico nel 131 a.C. e addirittura letta da Augusto in Senato): «Se potessimo vivere senza donne faremmo volentieri a meno di questa seccatura, ma dato che la natura ha voluto che non potessimo vivere in pace con loro né vivere senza di loro, bisogna guardare alla conservazione della specie piuttosto che ricercare piaceri effimeri». Sarcofago di Crepereia Typhaena, 150-160 d. C., marmo, Musei Capitolini – Centrale Montemartini Lo stesso Augusto, del resto, all’età di 20 anni aveva preso – o, invero, era stato costretto dalle circostanze politiche a prendere –come prima moglie la figlia che la moglie di Marco Antonio aveva avuta da Clodio: la ragazzina era in boccio, e doveva anche essere molto graziosa, se la soprannominarono “Pulchra”, ossia “Bella” (di nome si chiamava Claudia), ma la sua giovanissima età (“vixdum nubilem”, assicura Svetonio), se da una parte rendeva legittimo il matrimonio, dall’altra ne faceva una vera e propria finzione giuridica. Così Augusto si guardò bene dal consumare con lei e la rimandò a casa ancora vergine appena poté. Volendo dare un volto e un nome alla Virgo della IV egloga, se Virgilio la scrisse prima di questo avvenimento, la Vergine potrebbe essere proprio la Claudia; se invece dopo, potrebbe trattarsi di Ottavia (la sorella di Augusto). Come seconda moglie prese poi una donna, Scribonia, che aveva 11 anni più di lui, ma la scaricò il giorno stesso in cui questa le partorì una figlia (Giulia) perché si era nel frattempo portato in casa una giovane di 19 anni, sposata, che era incinta di cinque mesi (Livia). Il nascituro sarà Tiberio. Decisamente, le probabilità che una giovane, per graziosa e protetta che fosse, avesse un buono ed unico marito, erano piuttosto basse: circondare quindi il matrimonio (che era in definitiva un atto privato) di riti religiosi e di un’aura giuridica il più possibile definita, era essenziale per una donna. Supponiamo pertanto che la nostra sposina veliterna avesse intorno ai 17-18 anni. Conscia della sacralità del momento e del significato della cerimonia di cui si accinge ad essere protagonista, procede assorta e silenziosa verso la statua e, aiutata dalla “pronuba” (la matrona univira che funge da madrina) che le consegna gli oggetti tirandoli uno dopo l’altro dalla “capsa”, li offre alla dea cui consegna in tal modo tutta la sua fanciullezza in cambio della protezione sulla sua imminente nuova vita di moglie insieme all’uomo quasi sconosciuto che il padre (con l’autorità indiscussa di pater familias) aveva scelto per lei. Per prima le consegna il più bel vestitino che portava da bambina e che era stato religiosamente conservato per questa occasione. L’aveva di certo ricevuto all’età di 7 anni quando si abbandonava l’infanzia e si entrava nell’età della ragione, e l’aveva indossato quando aveva partecipato da paggetta al matrimonio di una sua cugina più grande. Ora la nostra sposa lo dispiega e lo depone delicatamente in grembo alla dea.
Lo consegna alla dea insieme ai piccoli monili che indossò in quella circostanza: la cugina sposa che glieli aveva prestati, glieli aveva poi lasciati in regalo: gli orecchini, la collanina, l’anellino, il braccialetto e le cavigliere. Erano tutti di ottone dorato, e lei li portò fiera e felice per tutto quel giorno e l’altro ancora e poi di tanto in tanto, via via che cresceva, nelle occasioni importanti e nelle feste: gli orecchini (inaures) ad amo con due pendaglietti tintinnanti (crotalia), la collanina a cordoncino con tante perline di vetro ed una perlina più grande che luccicava sul petto, il braccialetto (armilla) anch’esso con delle perline tintinnanti, l’anellino (anulus) al dito mignolo, le cavigliere (periscelides) che la facevano sentire una persona grande e matura. Prende dalla pronuba tutti questi oggettini uno per uno, li accarezza, li bacia e li depone ai piedi della dea. È quindi la volta degli altri strumenti sonori: il tintinnabulum, composto da due anelli di bronzo più piccoli e da un altro più grande che i genitori le avevano appeso in alto sulla cuna (la culla) a protezione e portafortuna; il fischietto: un galletto di ceramica dipinta con la cresta, i bargigli, le piume e la coda policrome, gli alti speroni, che emetteva un sibilo acuto soffiandovi per il becco; il tympanum (tamburello) rotondo, dalla cornice di legno e la pelle di agnello, con tanti cimbaletti di stagno e nastrini colorati: con esso aveva mosso sull’aia i primi passi di saltarello con le amichette e allietato i parenti durante le feste: lo teneva in alto agitandolo con la mano sinistra e lo percuoteva con la destra: battendo verso il centro, il suono era più cupo, battendo verso i bordi, il suono era più acuto, e i cimbaletti facevano un allegro accompagnamento. Depone tutti questi oggetti ai piedi della dea e le appende al braccio il tamburello.
I GIOCATTOLI Ed è ora la volta dei giocattoli. Prende dapprima la trottola (turbo): suo fratello, che ne aveva una di legno che richiedeva l’abilità di tirarla srotolando d’un sol colpo lo spago arrotolato all’intorno e poi facendola continuare a girare ricolpendola con lo stesso spago, le aveva costruito una apposta per lei, più semplice, che bisognava mettere in movimento con un toco forte e veloce dell’indice e del pollice. Lo spago invece lei era abilissima ad usarlo per giocare con i rocchetti (lo yo-yo): glielo aveva comprato tanto tempo fa la mamma a una bancarella di giocattoli nel foro di Velletri, alla festa degli Equirria, la corsa dei cavalli in onore di Marte, alla fine di febbraio. Infine la palla di pezza multicolore (pila paganica) con cui aveva svolto con le amiche interi campionati di trigon: ci si disponeva in tre a triangolo e si tirava la palla dall’una all’altra evitando di farla cadere per terra: un punto per ognuna che metteva l’altra in condizione di non afferrarla. Le partite erano interminabili nei caldi pomeriggi d’estate all’ombra dell’alberone. Trottola romana di legno Museo di Saintes (Francia) Kylix attica, particolare, del 440 a.C. Particolare del mosaico di Piazza Armerina, 320-370 d.C. Antikensammlung Berlin
GLI ASTRAGALI L’astragalo è un ossicino di forma cubica del piede che si articola con altri ossi. Gli Antichi usavano quello della capra o del montone o del maiale o di altri bovini – o ne costruivano con materiali diversi (argilla, vetro, metallo, avorio) - come dei dadi con cui facevano dei giochi. Poiché ha una forma cubica irregolare e le sue due facce piccole non gli permettono di reggersi, venivano valutate solo le quattro facce più grandi alle quali erano assegnati valori distinti: il lato piano (planum) valeva 1, il lato concavo (supinum) valeva 3, il lato convesso (pronum) valeva 4 e quello sinuoso (tortuosum) valeva 6. La somma delle superfici opposte era sempre uguale a 7: 6+1 oppure 4+3. Era un gioco prevalentemente infantile (gli adulti preferivano di gran lunga i dadi veri e propri). Alle bambine venivano regalati in una borsetta di cuoio in speciali occasioni (il compleanno oppure alla prima mestruazione). Si poteva giocare da soli o in coppia o in gruppo, e c’erano vari modi per farlo: Pari e dispari (par et impar): si tiravano alla cieca due astragali dalla borsetta e si indovinava, prima di gettarli, se il totale sarebbe stato pari o dispari, oppure uno tirava dalla borsetta uno o più astragali e l’altro doveva indovinare se erano di numero pari o dispari. Il cerchio (circulus): ogni giocatore lanciava i suoi astragali all’interno di un cerchio cercando di farne uscire quelli degli altri. La fossetta (tropa): gettare gli astragali cercando di farli cadere in un piccolo buco nel terreno. Ma i modi più comuni erano due: Uno era quello di gettarli in terra (almeno quattro) e calcolare quindi i punti ottenuti: fra le 35 combinazioni possibili (ma il totale generale delle combinazioni era 256) il lancio più fortunato (se tutte le facce erano diverse) era detto “colpo di Venere” (ictus Veneris), quello più sfortunato (se tutti gli astragali davano il valore più basso) era detto “del cane” (ictus canis). Prima di gettarli, li si agitava fra le mani cantando una cantilena. La Historia Augusta a proposito di Aureliano (VI, 5) cita alcune di queste cantilene che recitavano, oltre ai soldati, anche i bambini, ed erano cantilene non più quantitative ma già accentuative (il primo verso pentasillabo, i successivi due esasillabi e gli ultimi due quadrisillabi, tutti con la caduta dell’accento enfatico sulla sillaba finale). 3 Ma più 3 Mille mille mille decollavimus, / unus homo mille decollavimus. / Mille bibat quisquis mille occidit. / Tantum vini nemo habet / quantum fudit sanguinis.
verosimilmente erano filastrocche magiche (carmina, indigitamenta) del tipo di quelle che ci riporta Catone nel De agricultura (cap. 160): MOTAS VAETA DARIES – DARDARIES ASTATARIES - DISSUNAPITER, oppure: HUAT HAUAT HUAT - ISTA PISTA SISTA - DAMNABO DAMNAUSTRA. Statua romana, 150-130 a.C. Terracotta da Capua (340-330 a.C.) Berlino Londra, British Museum Un altro modo era di gettarli in aria e cercare di raccoglierne il più possibile sul dorso della mano. Comprendeva molte figure: l’uno, il due, il tre, il quattro, il sotto l’arco, le scuderie, il rospo nel buco, il salta-fosso, il coperto. Giocatrici di astragali, su marmo, da Ercolano Napoli, Museo Nazionale Il gioco era profondamente legato alla Fortuna (la Τύχη) dei Greci, padrona dei destini umani.
LA BAMBOLA Infine, l’ultimo sacrificio, il più grande, fu quello di consegnare alla dea la sua amatissima pupa (la bambola), disfacendone definitivamente, ma col pensiero di averne presto un’altra, magari anche più bella da regalare ad una figlia futura per giocarci assieme. Era stata per anni la sua amica più discreta e più fedele. Per anni l’aveva pettinata, lavata, vestita, calzata, agghindata, inanellata, le aveva cucito e stirato un intero guardaroba, le aveva parlato, sussurrato, cantato nenie e filastrocche. L’aveva dondolata, addormentata, messa a letto delicatamente come una mamma la propria figlia… Ed ora la consegnava ad un’altra persona, la Dea, così come lei domani era consegnata ad un altro: il proprio marito, da cui avrebbe avuto una figlia cui donare un’altra bambola, e il mondo si sarebbe rimesso a girare come aveva fatto lei con la trottola, con il rocchetto e con la palla. Gliela aveva portata in dono il papà da Capua dove l’aveva comprata da un abile artigiano greco di Cuma. E lei l’aveva chiamata Velia perché ormai era diventata Veliterna. Il corpo di Velia era snodabile: gambe, piedi, testa, mani potevano muoversi in tutte le posizioni di una persona vivente, e i capelli erano tante parrucche adattate ai diversi abiti: capelli ricci o lisci e lunghi, corti, a treccioline sottili legate con tanti nastrini, capelli biondi, rossi, neri. Ogni volta … sembrava un’altra, ma era sempre la stessa, sorella di giochi e sempre disponibile. Aveva le pupille verdi nel fondo bianco degli occhi, le dita paffutelle, i piedini sottili ed agili di una ballerina. Addio, Velia. Non dimenticarmi. Io non ti dimenticherô e parlerô di te alla mia bambina … ! La bambola di Crepereia Tryphaena, metà II d.C.; avorio, Musei Capitolini – Centrale MOntemartini.
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Opuscolo redatto a cura del GRUPPO ARCHEOLOGICO VELITERNO nell’ambito del Progetto istituzionale (Regione Lazio e Comune di Velletri) “Passeggiate spettacolari sull’Appia Antica” con la collaborazione di: Associazione Culturale Artè, Palestra Body 2000; Gruppo Folcloristico Equestre Città di Velletri il Gruppo Archeologico Veliterno organizza e ripropone la cerimonia che si svolgeva in epoca romana al Tempio di Soleluna dove le spose, il giorno prima delle nozze, si recavano e offrivano alla dea tutti i segni della loro infanzia. Sede Legale Via Castello, 31 -00049 Velletri (RM) C.F. 95015260581; info.gav17@gmail.com pec: gruppoarcheologicoveliterno@pec.it www.gruppoarcheologicoveliterno.it
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