Gli 8 minuti e 46 secondi che potrebbero cambiare l'America - di Giovanna Pancheri
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
ISSN 1826-3534 EDITORIALE – 10 GIUGNO 2020 Gli 8 minuti e 46 secondi che potrebbero cambiare l’America di Giovanna Pancheri Corrispondente dagli Stati Uniti per Sky Tg 24
Gli 8 minuti e 46 secondi che potrebbero cambiare l’America di Giovanna Pancheri Corrispondente dagli Stati Uniti per Sky Tg 24 8 minuti e 46 secondi, tanto è bastato al ginocchio dell’agente di polizia Derek Chauvin per togliere la vita a George Floyd; 8 minuti e 46 secondi che hanno ucciso un uomo disarmato e hanno risvegliato un movimento che fonda le sue radici in una Storia di ingiustizie e discriminazioni, mai risolte. Era il 1862 quando Abramo Lincoln firmò il Proclama di Emancipazione che decretava la liberazione degli schiavi in tutti gli Stati dell’Unione. L’abolizione della schiavitù divenne ufficialmente l’obiettivo della guerra civile iniziata l’anno prima con la secessione degli Stati confederati del sud dove lavorava più della metà degli schiavi d’America, tra questi c’era Hillary Thomas Stewart, il trisnonno di George Floyd. I nordisti vinsero la guerra e lui ottenne la sua libertà ad 8 anni e si stabilì in Carolina del Nord dove, lavorando duramente, riuscì ad accumulare un appezzamento di terra di circa 200 ettari. Sposò Larcenia che gli diede 22 figli. Intanto, nel 1870, il XIV emendamento della costituzione gli aveva riconosciuto i diritti costituzionali e il XV emendamento quello al voto. Il Civil Rights Act (1875) stabiliva che doveva essere trattato come i bianchi nei luoghi pubblici, ma a Hillary e a Larcenia nessuno aveva insegnato a leggere e a scrivere e quando i Repubblicani del Nord smisero di occuparsi di quello che accadeva al Sud fu facile per un gruppo di contadini bianchi sottrarre a Hillary la sua terra. Il Civil Rights Act intanto era stato dichiarato incostituzionale dalla Corte Suprema perché sanzionava il comportamento degli individui e non di uno Stato1 e in tutto il Sud iniziavano ad apparire le leggi Jim Crow (il nome è quello di fantasia di un ragazzino nero che in una canzone popolare di fine ’800 arriva al Nord e chiede dove sono le giostre per lui diverse da quelle dei bianchi) che, sulla base del principio “separati, ma uguali”, riconosciuto anche dalla Corte Suprema2, hanno costituito l’impalcatura di più di 70 anni di segregazione razziale. A pagarne 1 Nella sentenza del Civil Rights Case del 1883 la Corte stabilì anzitutto che il Congresso non aveva il potere di regolare la condotta degli individui. Inoltre, chiarì che l’interdizione del servizio o dell’ingresso degli afro americani negli esercizi privati non era contrario né al XIII emendamento né al XIV emendamento della Costituzione, dato che la schiavitù restava abolita e rimaneva l’obbligo per gli Stati di garantire comunque determinati diritti ai neri. 8 giudici su 9 votarono a favore della sentenza. A votare contro solo il Giudice John Marshall Harlan che nella sua opinione dissenziente scrisse: «Non posso esimermi dalla conclusione che la sostanza e lo spirito dei recenti emendamenti della Costituzione siano stati sacrificati sulla base di una sottile e ingegnosa questione di terminologia». 2 Nel Caso Plessy vs Fergusson del 1896, la Corte Suprema che lo Stato della Louisiana non aveva violato la Costituzione impedendo ad Homar Plessy di sedersi sul treno nella carrozza dedicata ai bianchi. Plessy era un cosidetto octoroon: era bianco, ma aveva uno degli otto bisnonni nero. 7 giudici su 9, inoltre, respinsero l’accusa che le leggi della Louisiana in realtà implicassero un’inferiorità dei neri sancendo così il principio “separate, but equal”, “separati, ma uguali”. iv federalismi.it - ISSN 1826-3534 |n. 18/2020
le spese anche Sophell Suggs, la bisnonna di George Floyd, che puliva le case dei bianchi agli inizi del ‘900 e doveva indossare i guanti bianchi anche per lavare la biancheria sporca dei suoi datori di lavoro, preoccupati che le sue mani nere potessero altrimenti “infettare” le loro mutande. La nonna di George, invece, Laura Stewart Jones, lavorava in una piantagione di tabacco a 2,50$ al giorno, ebbe il primo di 14 figli ad appena tredici anni, ma imparò da sola a leggere, scrivere e suonare il piano e si impose affinché tutti i suoi figli, comprese le 10 ragazze, andassero a scuola e finissero il liceo. Larcenia, la madre di George scomparsa un paio di anni fa, crebbe ancora in un’America dove esistevano i bagni, le fontanelle, i vagoni dei treni, i sedili degli autobus Whites Only. Discriminazioni che neanche le sentenze della Corte Suprema degli anni ’50, le lotte per i diritti civili, l’avvento di Kennedy e del Civil Rights Act del 1964, sono riuscite a sradicare rapidamente dalla società e dalla cultura americana. La zia di George, Angela, quando si trasferì a Minneapolis come infermiera e riservista dell’aeronautica alla fine degli anni ’90, dovette inscenare un sit-in dal parrucchiere per ottenere la piega in un negozio abituato a servire solo le donne bianche. George è nato nel 1973 in Carolina del Nord i suoi genitori si lasciarono quando lui e i suoi due fratelli erano ancora piccoli. La madre poi incontrò un nuovo compagno e si trasferì con lui e i ragazzi ad Houston in Texas in un complesso di case popolari a sud della città: Cuney Homes. Qui il reddito medio è di 20 mila dollari l’anno, ci abitano quasi esclusivamente famiglie afroamericane: un esempio di quella segregazione abitativa ed urbanistica che è sopravvissuta fino ad oggi in quasi tutte le città d’America e che è corredata da delitti architettonici deliberati come le gallerie basse costruite da Robert Moses a Long Island per impedire agli autobus che arrivavano dalle zone povere e multi razziali di New York di raggiungere le spiagge, perché il razzismo negli Stati Uniti non è fatto solo di leggi e azioni, ma anche di opportunità e mattoni. Difficile riuscire ad emergere quando si cresce in un luogo dove i tuoi compagni di scuola muoiono tra droghe e sparatorie anche se sei premiato da indubbi talenti come George che spiccava nel football e nel basket tanto da guadagnarsi la possibilità di andare al College in Florida. È di questi anni il soprannome di Big George, ma quel ragazzone sorridente non riuscì a finire gli studi, il richiamo della strada era troppo forte e sua madre aveva bisogno di lui anche se tornare a Houston voleva dire allontanarsi da qualsiasi possibilità di riscatto. Iniziò ad entrare ed uscire di prigione prima per piccoli crimini legati alla droga poi nel 2007 per rapina a mano armata, intanto ebbe tre figli, la più piccola Gianna di appena sei anni. È per provare a garantire un futuro a lei che tre anni fa decise di traslocare a Minneapolis per stare più vicino a sua zia Angela e provare a rimettersi in piedi. Lavorò come autotrasportatore e buttafuori in un locale costretto a chiudere con la pandemia. Da più di due mesi George non aveva introiti, non lo sapeva, ma anche lui era malato. Aveva contratto il Covid19 in forma asintomatica come si è scoperto con l’autopsia, eppure il coronavirus non c’entra con la sua morte. La sua vita è finita quando quei quattro poliziotti lo hanno trovato in mano con un biglietto da 20$ v federalismi.it - ISSN 1826-3534 |n. 18/2020
probabilmente falso, ma in realtà la sua è sempre stata una vita a rischio in quanto nero, nato e cresciuto in dei quartieri disagiati, negli Stati Uniti. Secondo il Washington Post in media negli Usa ogni anno tra il 2013 e il 2019 la polizia ha ucciso circa 1100 persone, 0,34 ogni 100mila abitanti3, nel Regno Unito la media è di 2 persone all’anno4. I neri rappresentano solo il 14% della popolazione, ma hanno 3 volte più possibilità di un bianco di essere uccisi quando vengono fermati dalle forze dell’ordine, 1,4 possibilità in più se sono disarmati5. George Floyd era nero disarmato come tanti prima di lui che hanno trovato la morte sotto i colpi della brutalità di una polizia che negli Stati Uniti è militarizzata come in nessun’altro paese occidentale al mondo. Neanche gli 8 anni di Barack Obama, il primo Presidente nero, con le conseguenti riforme (poi smantellate da Trump già nel 2017) per togliere ai dipartimenti di polizia i fondi federali per acquisire armi direttamente dalla difesa o per responsabilizzare le autorità locali sulle violazioni dei diritti civili nell’uso della forza sono riusciti a porre un argine concreto a questa lunga scia di sangue. Ma allora che cosa ha di diverso George Floyd da Trevor Martin, Phillando Castle, Michael Brown, Eric Garner, Rodney King o le migliaia di neri d’America uccisi o picchiati ingiustamente? In fondo, anche negli altri casi abbiamo assistito a giorni di manifestazioni, proteste e rivolte: dai disordini di Los Angeles del 1992 alla nascita del movimento Black Lives Matter (BLM) nel 2013. In fondo, non è certo da oggi che i genitori afroamericani insegnano ai loro figli: «se vedi un poliziotto muoviti lentamente perché un bambino bianco che corre gioca, un bambino nero che corre scappa…». La domanda deve essere dunque se veramente quegli 8 minuti e 46 secondi riusciranno a cambiare una Storia che finora è stata solo in grado di ripetersi. Per rispondere a questo quesito bisogna partire da un altro numero: 99%. Tanti sono i poliziotti che non vengono incriminati dopo aver ucciso una persona di colore. Derek Chauvin e gli altri tre agenti implicati nell’omicidio di Floyd fanno, invece, parte dell’1%. Tutti e quattro sono stati immediatamente licenziati dal Dipartimento di Polizia di Minneapolis e dopo pochi giorni arrestati. Chauvin, che non era nuovo ad episodi di violenza e uso sproporzionato della forza, è accusato di omicidio di secondo grado e rischia fino a 40 anni di prigione. Già nella rapidità di queste reazioni da parte delle istituzioni locali c’è la chiave di una dinamica inedita che potrebbe far aprire le porte di un cambiamento duraturo. Inoltre, ci sono altri due fattori che rendono il caso di George Floyd unico nel suo genere: la campagna elettorale e la pandemia. Siamo a cinque mesi dal 3 di novembre, data delle prossime elezioni presidenziali che, stando ai sondaggi, saranno 3https://www.washingtonpost.com/graphics/2019/national/police-shootings-2019/ 4https://mappingpoliceviolence.org/ 5 https://www.vox.com/2020/5/31/21276004/anger-police-killing-george-floyd-protests. Interessanti anche i dati dell’FBI annuali sugli arresti e relativi crimini da cui si evince che ad esempio nel 2018 degli oltre 7 milioni di americani arrestati, il 69% erano bianchi e il 27,4% neri: https://ucr.fbi.gov/crime-in-the-u.s/2018/crime-in-the-u.s.-2018/topic- pages/tables/table-43. Anche in questo caso i numeri sono sproporzionati, nonostante appaia evidente che i crimini violenti non sono una prerogativa esclusiva degli afroamericani. vi federalismi.it - ISSN 1826-3534 |n. 18/2020
decise da pochi voti in alcuni Stati chiave. Nel 2016, per la prima volta in vent’anni, l’affluenza degli afro americani è scesa drasticamente dal 66,6% del 2012 al 59,6% di quattro anni dopo 6. Donald Trump in uno dei suoi comizi post elettorali, non a caso, ringraziò gli afro americani per non essere andati a votare 7 e questo non perché tutti i neri d’America siano democratici, ma perché Trump sa bene che il suo elettorato non è più quello dei tempi di Abramo Lincoln. Dagli anni ’60 in poi, passando per John F. Kennedy, Lindon Johnson, Jimmy Carter, Bill Clinton e Barack Obama, solo i democratici sono stati capaci di ascoltare un disagio che cresceva nella comunità provando a dare delle risposte che andavano al di là del credo politico. Un disagio che Hillary Clinton quattro anni fa non fu, invece, in grado di leggere, nonostante il movimento BLM fosse al suo culmine e la risposta alle urne per lei è stata impietosa. Questa volta invece Joe Biden, guidato da Barack Obama, ha mostrato immediata solidarietà ed empatia con i manifestanti e ha voluto incontrare a Houston i familiari di Floyd alla vigilia dei funerali per cui ha preparato un video messaggio in cui ha sottolineato che è arrivato il tempo di «una giustizia razziale in America». In realtà, tutto il partito ha capito la necessità di agire sfruttando anche l’assordante silenzio della Casa Bianca, tanto che i democratici si sono affrettati a presentare al Congresso una proposta di Riforma della Polizia che ne limita i poteri, punta a diminuirne l’arsenale militare e a rimuovere alcune storture giuridiche che troppo a lungo hanno protetto gli agenti responsabili di crimini a sfondo razziale. Smuovere l’elettorato afroamericano potrebbe voler dire assicurarsi la vittoria in stati chiave e anche in fortini del sud fino a pochi anni fa ritenuti inespugnabili. L’altro fattore che potrebbe trasformare questa in una stagione di rivolta destinata a cambiare radicalmente il Paese è la pandemia. L’America che scende in piazza in questi giorni è un’America con 40 milioni di disoccupati e con oltre 100mila morti di Covid19. Guardando alle statistiche, i numeri sono impietosi: secondo i dati dell’APM Research Lab, un nero negli Stati Uniti se si ammala di coronavirus ha 3 volte più possibilità di morire di un bianco8. Questo perché gli afro americani hanno due condizioni preesistenti che li rendono più vulnerabili al virus: sono impiegati principalmente nei servizi definiti essenziali, hanno in media un basso reddito e non possono permettersi adeguata assistenza sanitaria. Secondo il Dipartimento del Lavoro gli afroamericani costituiscono solo circa il 12% della forza lavoro, ma sono il 25% dei fattorini che si occupano delle consegne dei ristoranti e dei supermercati, il 27% dei dipendenti degli uffici postali, il 31% dei lavoratori del comparto dei trasporti pubblici, il 17% del 6 https://www.pewresearch.org/fact-tank/2017/05/12/black-voter-turnout-fell-in-2016-even-as-a-record-number-of- americans-cast-ballots/ 7 https://www.washingtonpost.com/news/the-fix/wp/2016/12/16/after-quietly-trying-to-suppress-voting-trump- and-his-fans-applaud-lower-black-turnout/ 8 https://www.apmresearchlab.org/covid/deaths-by-race vii federalismi.it - ISSN 1826-3534 |n. 18/2020
personale ospedaliero e il 31% degli operatori delle case di cura9. Tutti lavori essenziali che non possono essere fatti in smart working. Da qui i numeri sproporzionati dei contagi tra gli afroamericani, ma la quantità dei morti ha anche altre ragioni. Prima dell’introduzione nel 2010 da parte dell’amministrazione Obama dell’Affordable Care Act il 20% degli afroamericani non aveva una copertura sanitaria, un numero che è sceso costantemente fino al 2017 quando il Presidente Trump ha iniziato a smantellare alcune misure dell’ACA. Oggi a non essere assicurati sono l’11,5%, rispetto al 7,5% dei bianchi10. Tuttavia, questa maggiore difficoltà di accesso alle cure e alle strutture sanitarie, unita a redditi più bassi che non garantiscono accesso ad un’adeguata alimentazione, hanno reso in generale la popolazione afroamericana più soggetta a patologie che in mano al coronavirus diventano un’arma letale come il diabete, l’obesità, problemi cardiovascolari e respiratori come confermato dal Prof. Anthony Fauci, Direttore del NIAID (National Institute of Allergy and Infectious Diseases) e membro della task force della Casa Bianca pe il coronavirus11. Dunque, non è scorretto dire che in un sistema come quello statunitense dove la sanità pubblica è sotto finanziata e non efficiente, quando il nemico è il Covid19 più si è poveri più si muore, più si è neri più si muore. Il reddito medio tra gli afroamericani è di $41.360 l’anno, tra i bianchi $70.642, una disparità non molto diversa da quella del ’68 nel paese che secondo il “Rapporto delle Nazioni Unite sull’estrema povertà negli USA” è già quello al mondo con il gap più importante tra ricchi e poveri12. Disparità che sono destinate ad acuirsi con la pandemia. Come emerso in una recente inchiesta del Washington Post, a causa dei lockdown e del fermo di tutte le attività, nelle ultime settimane una famiglia afroamericana su cinque non è riuscita sempre ad avere abbastanza cibo in tavola per tutti, tra i bianchi la proporzione è una su quindici. Inoltre, le famiglie afroamericane durante la crisi hanno avuto quattro volte più difficoltà di quelle bianche a pagare le rate dei mutui13. Non solo, mentre nel mese di maggio a sorpresa l’economia americana ha creato 2 milioni e mezzo di posti di lavoro, la disoccupazione è invece aumentata di un ulteriore punto tra i neri dopo le già preoccupanti vette toccate ad aprile (16,7%). Se esiste un limite alla diseguaglianza probabilmente gli Stati Uniti lo stanno toccando sotto i colpi della pandemia. L’America che si inginocchia per onorare George Floyd è anche un’America in ginocchio economicamente che mai come in questo frangente storico ha voglia di rialzarsi più forte, ma anche più egualitaria, perché se è vero come diceva Martin Luther King che «il tempo è sempre quello giusto per fare ciò che giusto», ci sono tempi straordinari come questo in 9 https://www.bls.gov/careeroutlook/2018/article/blacks-in-the-labor-force.htm?view_full 10 https://www.kff.org/disparities-policy/issue-brief/changes-in-health-coverage-by-race-and-ethnicity-since-the-aca- 2010-2018/ 11 https://video.sky.it/news/mondo/video/fauci-a-sky-tg24-no-prove-che-virus-abbia-perso-forza-595575 12 https://undocs.org/A/HRC/38/33/ADD.1 13 https://www.washingtonpost.com/business/2020/06/04/economic-divide-black-households/ viii federalismi.it - ISSN 1826-3534 |n. 18/2020
cui fare ciò che è giusto può avere eccezionalmente conseguenze profonde capaci di forgiare un reale cambiamento. ix federalismi.it - ISSN 1826-3534 |n. 18/2020
Puoi anche leggere