Emergenza Covid-19 in Italia: i "prigionieri del virus" - OCSM

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007/2020

                              Emergenza Covid-19 in Italia: i “prigionieri del virus”
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Premessa
Esattamente ventitré giorni fa, si è diffuso all’interno della nostra penisola un nuovo virus, definito Coronavirus
o Covid-19.
Così, il nostro Paese si svegliava registrando il primo caso di un italiano risultato positivo al test ed aveva inizio
un radicale cambiamento nella quotidianità dei cittadini italiani, stravolta da un’epidemia che, ben presto, si
sarebbe trasformata in una pericolosa pandemia.
Se i cittadini sono stati “relegati” in una ragionevole permanenza “forzata” presso le proprie abitazioni, da
considerarsi “sicure”, per metterli al riparo da un eventuale contagio, al contrario, esiste un luogo, il carcere,
all’interno del quale, altri individui sono analogamente “relegati” ad una permanenza “forzata”, che invece li
espone al rischio del contagio.
Ma il virus è già entrato all’interno delle celle e nei corridoi delle case di reclusione (dove gli agenti patogeni si
propagano già molto facilmente), per il semplice motivo che le case circondariali non possono considerarsi parti
di un “mondo” isolato dall’esterno.
È indubbio allora come l’emergenza Covid-19 stia influendo pesantemente sulla condizione detentiva di migliaia
di individui, considerato che, all’interno degli ambienti carcerari, il contenimento di un virus (indipendentemente
dalla sua denominazione ed origine), risulta essere un obiettivo (sempre) complesso da raggiungere, ancor più
che nel mondo esterno.
Conseguentemente, ancora una volta, ciò che avviene tra le mura delle case di reclusione ha (sicuramente) delle
ripercussioni sulla società nel suo insieme.

1. Il problema del sovraffollamento nelle carceri
In un momento delicato come quello attuale, gli istituti penitenziari presenti sul territorio italiano, sembrano
essere (sempre più) tra loro “collegati” ed uniti da un comune fermento.
Basti pensare come, a partire da sabato 7 marzo, numerose sono state le proteste, diffusesi, in pochissimo tempo,
nelle case circondariali di Salerno, Frosinone, Pescara, Modena, Foggia, Pavia, Poggioreale e Milano2.
Il “merito” (se così si può dire) di questo virus è stato quello di aver infranto il muro di silenzio sull’annoso
problema delle condizioni in cui vivono, non soltanto i detenuti (sempre più vittime di situazioni di deprecabile
sovraffollamento), ma anche tutti coloro i quali lavorano in tali ambienti (come ad esempio, gli agenti della
polizia penitenziaria), in numero esiguo rispetto alle esigenze reali. Infatti, a fronte di una capienza regolamentare
di 50.39 detenuti, sono invece, 61.230 quelli presenti nei 189 istituti, sparsi sul territorio nazionale3. Se i posti

1         Laurea Magistrale in Politiche, Istituzioni e Territorio, Dipartimento di Scienze Politiche e della Comunicazione – Università degli Studi di
Salerno. Collaboratrice junior OCSM.
2          Sul punto si rinvia agli articoli di cronaca del 9 marzo 2020 pubblicati in Il Messaggero (autore anonimo), consultabili sul sito www.
ilmessaggero.it
3            Dati recuperati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, consultabili sul sito del Ministero della Giustizia www.giustizia.it,

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disponibili (sulla carta) sono poco più di 50 mila, nella realtà, la situazione è ben diversa, poiché il numero
indicato, non tiene conto né delle numerose sezioni in parte chiuse (Alba, Nuoro, Camerino, Como, Brescia,
Taranto), né tanto meno del rispetto del parametro minimo dei tre metri quadrati di spazio per detenuto, da
garantire nelle celle degli istituti penitenziari presenti sul nostro territorio4.
 Ne consegue, che risulta impossibile, dunque, considerare i locali degli istituti penitenziari, quali ambienti salubri
ed idonei a contenere un numero così elevato di detenuti.
Sarebbero, allora, necessari ed improcrastinabili degli interventi strutturali per assicurare servizi minimi essenziali
come la luce, l’acqua calda, la protezione dal freddo e dal caldo eccessivo, nonché spazi adeguati riservati a
soggetti con particolari necessità (es. rispettare metratura consona per il passaggio di ausili per la deambulazione).
Al contrario, a mancare, ancora una volta, è la responsabilizzazione dei soggetti preposti al controllo e delle
amministrazioni5.
Il trend del sovraffollamento carcerario è dunque in continua crescita. Ad oggi, infatti, è stata superata la soglia
dei 60 mila detenuti, mai più sforata dal 2013, anno della nota sentenza Torreggiani e altri c. Italia (8 gennaio
2013), emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (da ora Corte Edu), con la quale l’Italia è stata condannata
per trattamenti inumani e degradanti, causati dal sovraffollamento carcerario.
La sentenza Torreggiani, ha trovato origine da una serie di sette ricorsi, presentati da altrettanti detenuti presso
le case circondariali di Piacenza e Busto Arsizio, i quali lamentavano la violazione dell’art. 3 della Convenzione
(Divieto di trattamenti inumani e degradanti), in quanto collocati in celle di 9 metri quadrati, insieme ad altri
reclusi, e quindi con uno spazio a disposizione per ciascuno di essi inferiore ai 3 metri quadrati prescritti6.
 La Corte Edu, concentrandosi sul merito della questione, optò per il c.d. “pilot judgment”7, mediante il quale,
dopo aver riconosciuto che quello del sovraffollamento carcerario per l’Italia era da considerarsi come un vero e
proprio problema strutturale e che le soluzioni maggiormente adeguate dovevano essere individuate dalle autorità
nazionali, attribuì a queste ultime un termine (nella fattispecie un anno dal momento in cui la sentenza sarebbe
divenuta esecutiva) entro il quale avrebbero dovuto porre rimedio alle violazioni accertate e fornire indicazioni
generali sulle misure che lo Stato avrebbe dovuto adottare, lasciando a questo ultimo un margine di discrezionalità.
L’Italia avrebbe dovuto provvedere ad ottemperare agli obblighi imposti dalla Corte entro il 28 maggio 2014, ma
ad oggi nulla è ancora cambiato.
Per cui, sebbene la Corte abbia esortato le autorità nazionali ad individuare misure volte a diminuire in modo
permanente e definitivo la popolazione carceraria (non limitandosi a predisporre piani d’intervento d’urgenza
con effetti temporanei) e, malgrado siano trascorsi circa sei anni dalla sua pronuncia, il tema del sovraffollamento
delle carceri risulta sempre più attuale ed irrisolto.

consultati il 14.03.2020.
4            Ibidem.
5            Sul punto si rinvia all’art 6 della legge n. 354 del 26 luglio 1975 sull’ordinamento penitenziario, dove si stabilisce invece che: «I locali nei quali
si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro
e la lettura; aerati, riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale. I locali destinati al
pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti».
6           L. UCCELLO BARRETTA, Il sovraffollamento carcerario tra protezione dei diritti fondamentali e discrezionalità legislativa, in AIC (Associazione
Italiana dei Costituzionalisti), Rivista telematica (www.aic.it), marzo 2014.
7            Il pilot judgment è una procedura attraverso cui è possibile identificare i problemi strutturali alla base dei rispettivi casi che
interessano diversi paesi e prevede l’imposizione di obblighi per questi ultimi in vista di una risoluzione dei problemi. Sul punto v. P.
GORI, Art. 3 CEDU e risarcimento da inumana detenzione, in Questione giustizia (www.questionegiustizia.it), 2 ottobre 2014. In generale,
V. ZAGREBELSKY, R. CHENAL, L. TOMASI, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, il Mulino, Bologna, 2016, pp. 159-170.

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Per la Corte europea, una prima soluzione al problema, poteva essere individuata nella predisposizione di un
sistema di pene alternative e/o nella depenalizzazione degli illeciti (per i quali solitamente è prevista la reclusione
nelle case circondariali), attraverso un uso moderato della custodia cautelare in carcere, nell’ ottica dell’abbandono
di una visione che vede ancora la struttura carceraria al centro del sistema punitivo. Muovendosi in tale direzione,
sarebbe stato possibile anche limitare il ricorso alla costruzione di nuove carceri o procedere ad un possibile
ampliamento di quelle preesistenti, qualora non si fosse registrato un miglioramento delle condizioni di vita dei
detenuti.
La seconda soluzione, a parere dell’organo di giustizia europea, avrebbe dovuto tradursi nell’obbligo per le
autorità nazionali di introdurre dei rimedi di natura preventiva, volti ad ottenere una cessazione di situazioni
carcerarie non rispettose della dignità umana.
Occorre sottolineare come, sempre a giudizio della Corte di Strasburgo, le due soluzioni, avrebbero dovuto
coesistere in maniera complementare, essendo entrambe fondamentali ai fini dell’attuazione di quelle misure
strutturali necessarie, i cui effetti si sarebbero riscontrati in tempi molto lunghi8.
Va anche evidenziato che, pur essendoci per gli Stati membri dell’Unione Europea, l’obbligo di garantire
un’assistenza quantitativamente e qualitativamente adeguata alle esigenze dei soggetti detenuti, l’Italia ancora
oggi si conferma come uno degli Stati membri (insieme alla Polonia, Germania e alla Spagna) all’interno del
quale la condizione dei reclusi peggiora di anno in anno, con la conseguenza inevitabile di far registrare svariati
episodi di liti, abusi e violenze.
 Il nostro Paese, dunque, non è ancora riuscito in alcun modo ad intervenire in maniera incisiva sul problema
del sovraffollamento carcerario e numerosi sono i margini che potrebbero indurre, ancora una volta, la Corte di
Strasburgo ad emettere nuove e “pesanti” condanne contro l’Italia.
 Alla luce di quanto considerato, risulta perciò di fondamentale importanza, che venga ristabilito in concreto il
diritto dei detenuti a vivere in un ambiente, se non confortevole, per lo meno rispettoso della dignità umana.
Le condizioni carcerarie, infatti, non possono essere lesive del diritto alla tutela della salute, riconosciuto dall’art.
32 della Costituzione italiana, quale fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività.

2. Il diritto alla salute in carcere: un “diritto a metà”
Impone una profonda riflessione il tema della tutela della salute negli istituti penitenziari, poiché in queste
strutture i principi giuridici fondamentali del nostro ordinamento sono esposti (molto spesso) ad una negazione o
quantomeno ad un affievolimento, per effetto di prassi che non si conformano ad essi.
I detenuti sono sottoposti ad elevati livelli di stress, ansia e privazione di sonno, che influiscono sulla salute fisica
e psichica, a cui si aggiungono comportamenti poco salutari, che associati alla malnutrizione e alla mancanza di
attività fisica, possono aggravare le patologie da cui alcuni individui sono affetti9.
All’interno delle case circondariali, vi è una concentrazione di soggetti, quali ad esempio consumatori di droghe
o alcool e individui che hanno malattie trasmissibili.
La popolazione detenuta, com’è facile intuire, è poi maggiormente esposta al contagio di malattie infettive. In

8          F. URBAN, Il diritto del detenuto a un trattamento penitenziario umano a quattro anni dalla sentenza Torreggiani c. Italia, in
Rivista di diritti comparati, Rivista telematica (www.diritticomparati.it), 3/2017, p. 40.
9          M. CAREDDA, La salute e il carcere. Alcune riflessioni sulle risposte ai bisogni di salute della popolazione detenuta, in
Costituzionalismo.it, Rivista telematica (www.costituzionalismo.it), 2/2015.

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particolare, allarmante risulta quello per l’epatite C.10
In tale contesto, non pare trovare piena attuazione il diritto fondamentale alla salute della persona umana,
sancito dalla Carta costituzionale, prevedendo che: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti» (art. 32 Cost.).
Il diritto alla salute, inoltre, è espressamente riconosciuto anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea, che all’art. 35 così recita: «Ogni persona umana ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria
e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali. Nella definizione e
nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute
umana». Senza dimenticare che, in via interpretativa, è possibile rintracciare il riconoscimento del diritto in
questione anche negli articoli 2 (il diritto alla vita) 3 (proibizione della tortura) e 8 (diritto al rispetto della vita
privata e familiare) della CEDU.
Ed è proprio il livello giuridico sovranazionale a conferire al diritto in questione una maggiore espansione dal
punto di visto della sua messa in sicurezza e giustiziabilità.
Si pensi a quanto previsto nella Risoluzione del Parlamento europeo 2011/2897 sulle condizioni detentive11 e nelle
Regole penitenziarie del Consiglio d’Europa del 2006, le quali dedicano la Parte III alla salute ed indicano quale
obbligo, per le Autorità penitenziare, quello di «salvaguardare la salute dei detenuti affidati alla loro custodia.»
(art. 39)12. A ciò si aggiunge anche la già citata sentenza del 2013 della Corte Edu (Torreggiani e altri c. Italia),
che ha imposto di dare una soluzione al problema del sovraffollamento carcerario. Questione, riconducibile alla
necessità di garantire che la pena detentiva si sconti in un ambiente salubre e degno per l’individuo.
 Appare evidente, allora, come compito degli Stati membri sia quello di garantire un’assistenza sanitaria,
qualitativamente e quantitativamente, adeguata alle esigenze dei soggetti detenuti.
Quanto ai riverberi di questa normativa sugli assetti nazionali, è chiaro che l’impegno da parte dello Stato si
inserisce nel dovere di assicurare all’individuo la libertà-dignità, valore supremo e principio cardine dell’azione
statale (artt. 2-3 Cost.).
In particolar modo, per quanto riguarda la tutela dell’integrità psico-fisica dei soggetti privati e della libertà
personale, importante risulta essere quanto disposto dal comma quarto dell’art. 13 e dall’art. 27 comma terzo
della Costituzione, che bandiscono ogni forma di violenza fisica o morale nei confronti di un individuo detenuto,
escludendo che la pena possa consistere in un trattamento contrario al senso di umanità.
Scendendo sul piano della legislazione ordinaria che disciplina la vita carceraria, le norme che regolano i profili
del servizio sanitario erogato negli istituti penitenziari sono contenute nell’art. 11 della legge n. 354 del 1975
(Ordinamento Penitenziario), mentre negli artt. 5 ss., si rinvengono quelle riguardanti la salubrità degli ambienti,
l’igiene personale, l’alimentazione ed i tempi di permanenza all’aperto; l’art. 80 invece, prevede che per
l’erogazione del servizio sanitario, l’amministrazione possa rivolgersi anche a personale esterno facente funzioni
di medico, psicologo o assistente sociale all’interno delle case circondariali ( i cc.dd. Esperti)13.
Se da un lato le disposizioni di legge sull’assistenza sanitaria in carcere sono rimaste invariate, la titolarità
delle funzioni e le responsabilità nell’erogazione delle prestazioni, sono state trasferite dall’Amministrazione

10        Ibidem.
11       Sul punto si rinvia alla Risoluzione del Parlamento europeo del 15 dicembre 2011 sulle condizioni detentive nell'UE (2011/2897),
consultabile in (www.europarl.europa.eu).
12        Sul punto si rinvia alla Raccomandazione R (2006) 2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle Regole penitenziarie
europee, consultabile in (http://www.rassegnapenitenziaria.it/).
13       Sul punto si rinvia Legge 26 luglio 1975, n. 354 ordinamento penitenziario (aggiornata al 2017) consultabile in (www.procurageneraletrento.it).

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Penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale (S.S.N.) in conformità alle indicazioni internazionali, con una
riforma avviata dalla legge delega n. 419 del 1998, cui è seguito il d.lgs. n. 230 del 1999 (Riordino della medicina
penitenziaria), che ha visto il passaggio definitivo di funzioni, personale e risorse relativi alla sanità penitenziaria
al S.S.N., mediante l’approvazione del D.P.C.M. del 1 aprile 200814.
L’impegno posto dalla Costituzione a carico dello Stato circa la tutela della salute umana, impone di dare
attuazione alle norme che regolano la sanità penitenziaria con la stessa accortezza con cui si affrontano i bisogni
di salute della popolazione in generale.
La protezione della salute è un obbligo la cui intensità non può essere in alcun modo graduata, a seconda del
luogo in cui l’assistenza viene erogata. E la popolazione carceraria rappresenta un segmento della società a
rischio molto più alto rispetto alla popolazione in generale, sia per l’incuria nella gestione delle malattie pregresse
rispetto all’ingresso in carcere, sia per la diffusione di pratiche a rischio, che possono aggravare il quadro clinico
dei detenuti, a causa di stili di vita e della condizione mentale propri dell’ambiente carcerario.
Dunque, tutelare la salute dei detenuti al pari di quella della popolazione generale, è evidente come costituisca
oggetto di un obbligo, che discende dai principi costituzionali.
A partire dall’applicazione del principio di eguaglianza sostanziale, orientato verso una reale «rimozione di
ostacoli» (art. 3, co. 2 Cost.) derivanti da svantaggi esistenti (quali ad esempio le caratteristiche del luogo in cui
l’assistenza viene erogata, gli stili di vita prima e dopo la detenzione, i soggetti beneficiari di tutela esposti ai
rischi, il rapporto tra numero di medici e pazienti a rischio) che determina la necessità inderogabile di profondere
un grande impegno nella realizzazione di tale tutela.
Tra i profili problematici si riscontra, come già detto, una carenza nell’offerta delle prestazioni da parte del
personale sanitario, riconducibile, in primo luogo, ad un utilizzo di strumenti e procedure che richiedono un
necessario ammodernamento, ma anche ad una carenza di personale medico ed infermieristico rispetto al
numero di detenuti presenti nelle case circondariali, nonché anche a problemi di natura organizzativa relativi allo
spostamento dei detenuti dalla struttura circondariale per essere sottoposti a trattamenti sanitari15.
 Considerato il quadro in esame, è necessario ribadire che la salute è un bene che non può essere soggetto ad alcuna
forma di restrizione, perché nessuna delle esigenze legate all’esecuzione della pena detentiva può comportare una
“compressione” del diritto alla salute, in quanto quest’ultima non è in alcun modo bilanciabile con qualsivoglia
motivo di sicurezza o esigenza processuale.
In conclusione, è d’obbligo che venga riconosciuto a più livelli il diritto dei detenuti a beneficiare di un’assistenza
sanitaria adeguata alle loro esigenze, al pari degli uomini liberi.
 Un’eventuale negligenza nella ricerca dei mezzi necessari alla realizzazione di tali garanzie, si traduce in
un’ulteriore afflizione nei confronti del detenuto, il quale vede i suoi diritti comprimersi a fronte delle esigenze
di esecuzione della pena.
Lo Stato deve impegnarsi in modo efficiente al fine di consentire che, l’eventuale mancanza di risorse e tutele,
non costituisca una scusante né possa tradursi in una violazione dei diritti umani.
Se così non fosse, persisterebbe una grave ingiustizia, ossia quella che il diritto alla tutela della salute,
costituzionalmente garantito, assumerebbe veramente, per i detenuti, le caratteristiche di un “diritto a metà”.

14          Sul punto si rinvia all’art. 40 delle Regole Penitenziarie Europee relativo all’Organizzazione del sistema sanitario secondo cui: «1. Si devono
organizzare in istituto dei servizi medici in stretta relazione con l’amministrazione sanitaria generale della comunità locale o della Nazione. 2. La politica
sanitaria negli istituti penitenziari deve essere integrata con la politica sanitaria nazionale, e compatibile con essa. 3. I detenuti devono avere accesso al servizio
sanitario disponibile nel Paese senza discriminazione basata sulla loro posizione giuridica». Consultabile sul sito (www.rassegnapenitenziaria.it).
15          M. CAREDDA, La salute e il carcere, op. cit.

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3. Gli effetti del COVID-19: tensioni e disordini nelle carceri italiane da Nord a Sud
Il sopraggiungere del virus ha interessato le carceri italiane e ha fatto crescere le tensioni all’interno di queste
ultime, come conseguenza delle misure adottate per il contenimento dell’epidemia. Con l’emergenza COVID-19,
le misure normalmente adottate all’interno degli istituti penitenziari sono state riviste.
Il sistema carcerario italiano non aveva più conosciuto questo livello di tensione da quando, negli anni Ottanta (c.d.
“anni di piombo”), coalizioni di attivisti politici, detenuti ed appartenenti alla criminalità organizzata, scelsero di
reagire contro un regime detentivo, percepito come punitivo e disumano.16 A seguito del Decreto del Presidente
del Consiglio dei ministri dell’8 marzo 2020, si è reso necessario evitare l’uscita e il rientro dalle carceri, oltre
che per i detenuti stessi, anche per i rispettivi parenti e, quindi, anche i colloqui con i familiari sono stati ridotti.
Viste tali restrizioni, si è deciso così di ricorrere all’ utilizzo di Skype e garantendo anche una maggiore flessibilità
anche sulle telefonate. La sospensione dei colloqui con i familiari, però, comporta un grave sacrificio per i
detenuti e per le loro famiglie ed in un luogo dove si è (già) privati di ogni forma di libertà, ciò assume un “peso”
considerevole.
La diffusione del Coronavirus nella nostra penisola ha, così, generato disordini e scontri da Nord a Sud, con circa
27 istituti penitenziari all’interno dei quali si sono svolte proteste da parte dei reclusi.17
Gravi disordini si sono registrati a Modena, dove nove detenuti sono morti nel carcere, in seguito agli scontri
scoppiati l’8 marzo 2020 a causa delle misure restrittive previste dal D.P.C.M citato. Si contano altre tre vittime nel
carcere di Rieti ed in entrambi i casi, i detenuti sono deceduti per overdose di farmaci, probabilmente metadone,
che avevano sottratto all’infermeria durante gli scontri. A Foggia, numerosi sono i detenuti riusciti ad evadere dal
carcere, ma in seguito bloccati dagli agenti18. A Roma, nel carcere di Rebibbia, sono stati incendiati materassi e
prese d’assalto le infermerie; al Regina Coeli, invece, sono state chiuse le strade, per fronteggiare le numerose
manifestazioni di protesta dei familiari dei detenuti. A San Vittore a Milano, circa quindici detenuti sono saliti sul
tetto per protesta, mentre sono stati attaccati alle finestre carta e stracci a cui è stato dato fuoco; scontri, anche a
Pavia, dove si è registrata una “rivolta” dei detenuti, che hanno preso in ostaggio due agenti di polizia, poi liberati.
I detenuti hanno anche rubato le chiavi delle celle agli agenti e hanno liberato decine di carcerati. Si sono, così,
vissuti attimi di forte tensione anche nel carcere di Salerno, a causa di uno scontro scatenato da oltre cento detenuti
che sono saliti sul tetto della struttura, dopo aver danneggiato ambienti interni dell’istituto penitenziario19.
Dopo le proteste ed il primo caso di Covid-19 registrato nell’Istituto penitenziario di Voghera,20 è stato istituito
un gruppo di lavoro (composto dal Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, dal Capo del Dipartimento
Amministrazione Penitenziaria (DAP), Francesco Basentini, dal Capo del Dipartimento di Giustizia Minorile e di
Comunità del Ministero di Giustizia Gemma Tuccillo e dal Garante Nazionale delle Persone Private delle Libertà
Personali, Mauro Palma), che ha partecipato alla “costruzione” del decreto legge n. 18 del 17 marzo 2020, nella
parte relativa alla regolamentazione del sistema penitenziario, in questa situazione di emergenza.

16        D. BILOTTI, Pena, virus e religioni. Un tentativo interculturale per trovare soluzioni eque a beneficio dei detenuti, in DIRESOM-
Papers, Rivista telematica, consultabile in www.diresom.net, 2020, p. 3.
17       L. MASTRODONATO, Prigionieri del virus, in Internazionale, Rivista telematica (www.internazionale.it), 3 marzo 2020.
18      C.VERDELLI, Coronavirus, carceri, ancora proteste. Tre detenuti morti a Rieti, le vittime salgono a dodici, La Repubblica, Rivista telematica
(www.repubblica.it), 10 marzo 2020
19      Sul punto si rinvia agli articoli di cronaca del 9 marzo 2020 pubblicati in Open (autore anonimo), consultabili sul sito (www.open.online.it)
20      M.RIZZO, Carceri, braccialetto elettronico e detenzione domiciliare: "Aspettiamo che il decreto "Cura Italia" dia i primi risultati,
in La Repubblica on-line (www.repubblica.it), del 20 marzo 2020.

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  Le disposizioni contenute nel decreto legge “Cura Italia”, mirano a far sì che dall’entrata in vigore dello stesso e
fino al 30 giugno 2020, sarà possibile disporre, per i detenuti che dovranno scontare un residuo di pena fino a 18
mesi, la detenzione domiciliare, in deroga a quanto previsto dal comma 1 dell’art.1 della legge 26 novembre 2010,
n. 199, in materia di disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori ad
un anno21.
Dunque, il decreto di recente emanazione, in primo luogo, ha ampliato la durata della pena residua per la quale è
ammesso inoltrare istanza per la detenzione domiciliare.
 Poi, al terzo comma dell’art. 123 del decreto legge, si dispone che coloro i quali abbiano da scontare una pena
non superiore ai sei mesi o in caso di condannati minorenni, sarà possibile ricorrere alla procedura di controllo,
mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici.
Al quarto comma del medesimo articolo, si prevede inoltre che tale procedura, per la cui applicazione è richiesta
la prestazione del consenso da parte del condannato, sia disattivata quando la pena residua da espiare scenda sotto
la soglia dei sei mesi.
Punto cruciale, la previsione del comma cinque, secondo cui il numero dei mezzi elettronici o altri strumenti tecnici
per l’attuazione della disposizione in esame, è individuato: «[..]nei limiti delle risorse finanziarie disponibili a
legislazione vigente, che possono essere utilizzati per l’esecuzione della pena con le modalità stabilite dal presente
articolo, tenuto conto anche delle emergenze sanitarie rappresentate dalle autorità competenti. L’esecuzione
del provvedimento nei confronti dei condannati con pena residua da eseguire superiore ai sei mesi avviene
progressivamente a partire dai detenuti che devono scontare la pena residua inferiore.»22
Dunque, come si evince dal nucleo essenziale della norma in esame, in assenza di una concreta disponibilità
di braccialetti elettronici (e di altri strumenti) da parte degli istituti penitenziari italiani a causa di limitate
risorse finanziarie, non sarà possibile accedere alla detenzione domiciliare e non essendovi alcun obbligo circa
l’immediata messa a disposizione degli strumenti in questione, tale misura di controllo non potrà essere applicata,
se non in un numero esiguo di casi.
Vale la pena di sottolineare che, il raggiungimento dell’obiettivo della detenzione domiciliare incontrerà, nella fase
di concreta attuazione, un ostacolo dato dall’ eventuale mancanza di risorse finanziarie disponibili “a legislazione
vigente, che possono essere utilizzati per l’esecuzione della pena con le modalità stabilite dal presente articolo,
tenuto conto anche delle emergenze sanitarie rappresentate dalle autorità competenti.,” come testualmente
previsto dalla disposizione normativa (art. 123 comma cinque D.L. n. 18/2020)
Non si può non osservare che, considerata la particolare situazione di emergenza sanitaria, il Governo avrebbe
potuto spingersi oltre prevedendo un obbligo di fornitura dei mezzi elettronici in questione agli istituti penitenziari,
piuttosto che limitarsi a subordinarne l’utilizzo alle disponibilità finanziarie a normativa vigente.
Concludendo, la previsione del decreto sembra contenere più una manifestazione di auspicio, che un impegno
concreto da parte dello Stato a favorire l’adozione della misura della detenzione domiciliare.
Considerando poi il decreto legge nel suo complesso, per valutarne la portata sul problema della regolamentazione
del sistema carcerario rispetto all’ epidemia di Covid-19, non si può tralasciare di porre l’accento sul fatto che, se
da un lato i limiti posti in essere dal Governo hanno giustamente quale fine quello di evitare che, in una situazione
di emergenza come quella attuale, si possa determinare il “ritorno a casa” di detenuti “pericolosi”, d’altro canto

21         Sul punto si rinvia alla Legge 26 novembre 2010, n. 199. In materia di disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene
detentive non superiori ad un anno.
22         Ibidem

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il decreto in questione è stato emanato anche nell’ottica di contribuire alla soluzione dell’annoso problema di
alleggerire le carceri italiane dal sovraffollamento, soprattutto con riguardo a quei detenuti che non abbiano una
lunga pena da scontare.

Conclusioni
C’è un filo rosso che lega gli istituti di pena all’interno dei quali i detenuti protestano per le nuove limitazioni previste e chiedono garanzie contro il
contagio da Coronavirus ed interventi per ridurre il sovraffollamento.
 Quello che è accaduto nelle carceri italiane, sebbene non sia in alcun modo giustificabile, era in qualche modo
prevedibile, poiché, in luoghi dove la convivenza è forzata – in cui la tutela della salute molto spesso non è
garantita, in cui decine di persone coabitano in luoghi angusti – il terrore del contagio si moltiplica e le forme di
sicurezza si trasformano in forme di vero e proprio “isolamento”.
 In tale contesto, il blocco delle visite parentali, sostituite con colloqui telefonici, per cui bisogna (necessariamente)
affrontare lunghe attese, unite alla garanzia di pochi servizi (assicurati da personale esterno), non può far altro
che generare una forte disperazione. Disperazione, che può sfociare poi in violenza contro soggetti (in gran parte)
incolpevoli. Purtroppo, soltanto grazie al dispiegamento di forze militari è stato possibile sedare gli scontri nei
vari istituti penitenziari.
Nessuno può ignorare che i detenuti hanno paura e vivono con angoscia questi momenti di solitudine e di sconforto
durante la giornata e sono sicuramente diversi gli attimi difficili che possono portare a brutte ed imprevedibili
conseguenze.
Il contenimento di un virus in carcere è estremamente complesso e può portare all’erosione “sproporzionata” dei
diritti dei detenuti anche con conseguenti situazioni di profondo scoramento nei soggetti coinvolti.
Come non sforzarsi di immaginare cosa significhi temere la paura del contagio e provare una profonda insofferenza
per essere costretti a convivere con altri individui in pochi metri quadrati, quando ciascuno di noi prova i medesimi
sentimenti, le stesse paure, pur potendo vivere, sì da” relegato”, ma nella comodità della propria casa e con il
calore dei propri affetti familiari.
 Come non comprendere che, in una tale situazione, anche telefonare ad un proprio familiare, sentire la voce di
un figlio, può fare la differenza.
Ecco che, in un momento come quello che stiamo vivendo, è necessario che non prevalgano interpretazioni ed
azioni estremamente restrittive, come potrebbe avvenire fissando divieti (che poco hanno a che vedere con le
giuste esigenze di prevenzione), che potrebbero sacrificare in maniera eccessiva i diritti dei detenuti.
Per concludere, la speranza è che, dall’emergenza che stiamo vivendo in questi giorni, possa scaturire una
esperienza diretta a garantire la salvaguardia dei diritti fondamentali delle persone in generale e anche (soprattutto)
di quelle che risiedono all’interno degli istituti penitenziari.
Questi luoghi – dove la fragilità, la disperazione, la speranza si mescolano ad altri fattori strettamente connessi
con la messa in sicurezza dell’integrità personale – hanno bisogno, oggi, più che mai, di un monitoraggio attento
e, si spera, di una vera politica all’altezza delle sfide del futuro.
Forse, le restrizioni che l’epidemia ha imposto a tutti, potrebbero guidare nella realizzazione di un’azione concreta
ed incisiva per tentare di risolvere il problema del sovraffollamento carcerario.
Forse, ciascuno di noi, oggi, ha capito veramente cosa significa vivere una vita da detenuto.

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BIBLIOGRAFIA

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