DOCUMENTO PER IL CONGRESSO DEL GRUPPO DI LAVORO ECONOMIA, LAVORO, DIRITTI
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XIX CONGRESSO DI MAGISTRATURA DEMOCRATICA QUALE GIUSTIZIA AL TEMPO DELLA CRISI Come cambiano diritti, poteri e giurisdizione Roma, 31 gennaio/3 febbraio 2013 DOCUMENTO PER IL CONGRESSO DEL GRUPPO DI LAVORO ECONOMIA, LAVORO, DIRITTI Coordinatore: Renato Rordorf Componenti del gruppo di lavoro: Giacinto Bisogni; Antonietta Carestia; Juanito Patrone; Stefano Pesci; Valeria Piccone; Nello Rossi; Luigi Rovelli gennaio 2013, appunti per una tavola rotonda ECONOMIA, DIRITTO E GIURISDIZIONE ENTRO ED OLTRE I CONFINI NAZIONALI A.-Uno sguardo d’insieme Già più di mezzo secolo fa Massimo Severo Giannini, nel vergare la voce Economia (disciplina della) dell’Enciclopedia del diritto, dopo aver premesso che a molti la cosa poteva apparire ovvia, ricordava che “gli istituti giuridici e la relativa regolazione normatrice (nei quali va precisato ciò che non propriamente si usa denominare il diritto) costituiscono sempre una disciplina di fatti economici”; ed aggiungeva che i codici e le leggi sono sempre “conseguenze di ben chiari obiettivi di disciplina di fatti economici, ai quali i legislatori addivengono mossi da precise concezioni sociologiche, politiche ed economiche”. Ovvia o meno che fosse, quest’affermazione sottintendeva un rapporto tra la legge ed i fatti economici – l’una regolatrice degli altri – mirante a realizzare, nell’atto stesso della “regolazione normatrice”, il necessario momento di sintesi tra l’utile ed il giusto, secondo la concezione che il legislatore ne avesse. La dialettica tra vicende economiche e regole giuridiche, in effetti, ha trovato per secoli la propria sintesi politica nella costruzione dei moderni stati nazionali: detentori del potere sovrano di dettare le leggi e frutto essi stessi delle leggi che ne sono a fondamento. Ed è appunto nel quadro dei diritti nazionali, promananti da ciascuno stato, che la tutela dei diritti si è soprattutto finora sviluppata, con alterne vicende, sino alle più recenti acquisizioni che, almeno nella parte del mondo in cui viviamo, ricollegano la sovranità alla nozione stessa di “Stato di diritto”. Molti fattori – storico-politici, ideologico-culturali e tecnologici – più o meno a partire dagli ultimi decenni del novecento, hanno però concorso progressivamente a ridurre il peso degli stati nazionali, in concomitanza con un’evoluzione sempre più sovranazionale dei fenomeni economici e con l’affermarsi di una dimensione sempre più finanziaria (e dunque mobile) dell’economia. E’ divenuto quindi sempre più indispensabile interrogarsi sui riflessi giuridici di tale evoluzione, su come essa si è tradotta nella (pur complessa e sempre assai faticosa) creazione di organismi istituzionali e giurisdizionali sovranazionali (in particolare nell’area europea), sul conseguente più serrato contatto tra culture giuridiche d’impianto diverso (common law e civil law), nonché sulla 1
maggiore reciproca contaminazione dei rispettivi ordinamenti nazionali e del modus operandi delle relative giurisdizioni, che da tutto questo è derivato. Nell’accingersi a farlo non può però sfuggire come, in un contesto ormai assai meno condizionato dalle tradizionali barriere nazionali, si sia andata viepiù affermando un’ideologia libero-mercatista che – almeno in certi momenti e pur non senza oscillazioni e contraddizioni – è parsa voler spostare l’asse d’equilibrio tra la dinamica propria delle vicende economiche e le regole giuridiche ed esse inerenti, propugnando un significativo ridimensionamento di queste ultime in favore di una supposta più efficiente capacità di autoregolamentazione dei mercati. Si è andata diffondendo l’idea che, grazie soprattutto alla libera circolazione transfrontaliera dei capitali d’investimento, gli ordinamenti giuridici nazionali, quasi in concorrenza l’un con l’altro, debbano attrezzarsi per essere più attraenti agli occhi degli investitori. Ma ciò ha generato anche il rischio – messo bene in luce dai recenti fallimenti del mercato – d’innescare meccanismi di concorrenza al ribasso, che possono minare l’effettività delle regole e ridurre pericolosamente il tasso di legalità complessivo del sistema. Nel medesimo contesto un fenomeno di grande rilievo è venuto a caratterizzare la cultura giuridica dell’ultimo mezzo secolo: il progressivo imporsi del metodo della cosiddetta analisi economica del diritto, sviluppatasi originariamente nell’ambiente giuridico statunitense (a partire dalla scuola di Chicago), forse anche strutturalmente ad essa più congeniale, ma dilagata poi nell’intera area occidentale, influenzando fortemente sia i legislatori sia – benché lo si percepisca talvolta meno chiaramente – gli interpreti e, quindi, gli stessi giudici. Non può certo prescinderne chi voglia oggi riflettere sui temi del diritto e dell’economia, considerando che, se da un lato l’analisi economica del diritto ha positivamente concorso ad accrescere l’attenzione per gli effetti pratici dell’operare giuridico sul piano economico (quasi una postuma rivincita della “giurisprudenza degli interessi” sulla “giurisprudenza dei concetti”), dall’altro lato un suo uso forse un po’ troppo spicciolo e disinvolto ha finito, non di rado, per incentivare l’utilizzo della norma giuridica come strumento per perseguire finalità di breve respiro, a scapito di una pur sempre indispensabile visione sistematica dell’ordinamento. Né, d’altronde, nel bilanciare costi e benefici di una determinata regolazione giuridica, pensata in funzione di un obiettivo economico sperato, è sempre ben chiaro quale sia l’orizzonte temporale entro cui se ne debbano valutare gli effetti e quali siano i metodi più attendibili di verifica econometrica dei risultati attesi dal legislatore. Allargando un po’ il discorso, non sarebbe poi forse fuor di luogo fermarsi a valutare quanto un esasperato individualismo – caratterizzato in campo economico dall’ideologia iperliberista e, sul piano sociologico, da quel che taluno ha definito un vero e proprio narcisismo di massa – stia oggi rischiando di depotenziare i legami sociali sui quali anche qualsiasi costruzione giuridica necessariamente riposa. B.- Il quadro italiano Volgendo lo sguardo all’evoluzione del diritto dell’economia in ambito nazionale, balza subito agli occhi come dal quasi immobilismo del legislatore nel primo cinquantennio postbellico si sia passati, negli ultimi decenni, ad un vero e proprio ipercinetismo. Basta porre mente alle continue modifiche apportate alla disciplina dei mercati finanziari dopo la faticosa sistematizzazione tentata con il testo unico della finanza del 1998, a quelle intervenute nel diritto societario dopo la cosiddetta riforma organica del 2003 ed ai ritocchi che tuttora vengono incessantemente arrecati al diritto concorsuale appena riformato nel 2006. I fenomeni economici sono certo dinamici e non viviamo più in tempi nei quali le leggi venivano scritte nel bronzo, ma c’è da domandarsi se questa irrequietezza del legislatore non abbia superato i limiti fisiologici anche in un assetto normativo moderno, e se sia compatibile col raggiungimento di quell’obiettivo di sistematicità che dovrebbe essere pur sempre naturalmente sotteso alle riforme organiche di interi settori del diritto; e ci si può chiedere se non occorrerebbe 2
porre maggiore attenzione alle negative conseguenze che ne derivano in termini di certezza del diritto, di celerità della giustizia e di effettività della tutela dei diritti: valori tutti i quali presuppongono lo sviluppo di una riflessione dottrinale e di orientamenti consolidati di giurisprudenza che possono formarsi solo a condizione che si realizzi nel tempo un minimo di stabilità del quadro giuridico. A ciò si aggiungono le negative conseguenze di una tecnica legislativa sempre più approssimativa: sia perché intrisa spesso di formulazioni tecnico-economiche (talora anche di provenienza straniera), estranee al lessico giuridico e di difficile interpretazione in ambito giudiziario, sia – e forse soprattutto – per la mai ben risolta alternativa tra una normativa di principio, che lasci all’interprete un più ampio spazio applicativo nel giudicare sui singoli casi concreti e favorisca lo sviluppo di un diritto vivente meglio in grado di adattarsi all’infinita mutevolezza delle situazioni, ed una normativa di dettaglio che impedisca i possibili eccessi di soggettivismo nell’interpretazione. Ma, nonostante tali incertezze, sembra ben possibile cogliere – in particolare nelle suaccennate riforme del diritto societario e di quello concorsuale – una linea di fondo del legislatore italiano, volta a ridurre la dimensione pubblicistica del diritto dell’economia, in favore di un approccio più marcatamente privatistico, con una conseguente rimodulazione del ruolo del giudice: non più controllore ad ampio raggio della correttezza giuridica di determinate operazioni, ma (quasi) solo risolutore dei conflitti intersoggettivi che da quelle operazioni possano scaturire. Si avverte, in queste riforme, l’influenza che ha avuto la già sottolineata prospettiva della concorrenza tra gli ordinamenti di paesi diversi, vista anche come concorrenza tra sistemi giudiziari: in funzione della quale, se da un lato si è inteso sottolineare i valori della rapidità e della prevedibilità dei giudizi, dall’altro si è anche manifestata una spinta verso la “degiurisdizionalizzazione” delle vicende economiche, dubitando della capacità del giudice di svolgere, rispetto ad esse, un ruolo efficace e davvero positivo. Né a ciò è estraneo il ruolo crescente attribuito in diversi e rilevanti settori del diritto dell’economia alle sempre più numerose Autorità amministrative indipendenti. Comunque si voglia valutare una siffatta tendenza, v’è da chiedersi se per un’efficace tutela dei diritti non sia indispensabile anche una più effettiva capacità d’intervento degli strumenti cosiddetti di private enforcement, a cominciare da quelli attraverso i quali chi abbia subito danni dall’altrui comportamento illegittimo possa ottenerne un pronto e completo risarcimento (per non dire delle sanzioni reputazionali, che in paesi di cultura diversa dalla nostra contribuiscono non poco a garantire il rispetto delle regole). Se, in taluni settori dell’economia, può ben riconoscersi talvolta l’opportunità di ampliare lo spazio di libertà garantito agli operatori (consentendo, ad esempio, una maggiore esplicazione dell’autonomia privata nell’individuazione dei modi di risoluzione delle crisi d’impresa), sembra difficile evitare che ciò si traduca in un elemento di grave disequilibrio del sistema ove a tale accresciuto potere non si accompagni una parimenti accresciuta responsabilità, o se facciano difetto gli strumenti per rendere questa responsabilità effettiva. Un discorso per molti versi analogo potrebbe esser fatto anche per la responsabilità penale in campo economico: un settore nel quale l’intervento della magistratura, pur con i caratteri dell’episodicità che gli sono inevitabilmente propri, ha assunto negli ultimi decenni un’importanza assolutamente primaria, sino talvolta ad apparire quasi come l’unica vera barriera contro il dilagare del malaffare. Ed è degno di nota – ma per certi versi financo singolare – che sia stata in questi anni la magistratura penale, prima e maggiormente di quella civile, a doversi confrontare con i profili tecnici più complessi e sofisticati dell’economia e della finanza (quali, ad esempio, quelli connessi alle manipolazioni del mercato di borsa ed alla diffusione dei derivati finanziari nel settore della pubblica amministrazione). Sarebbe forse auspicabile che un miglior funzionamento della giustizia civile conducesse a ripristinare il rapporto di sussidiarietà che, almeno in astratto, dovrebbe esistere tra rimedi civilistici e sanzioni penali, queste ultime essendo da concepire in chiave il più possibile residuale, come extrema ratio. Nel quadro attuale sta comunque di fatto che il diritto penale dell’economia ha conosciuto da ultimo un rilevante sviluppo principalmente in termini di tutela penale mercato, cui ha fatto 3
riscontro un’assai più debole protezione offerta alle vittime dei tradizionali reati economici (quali truffa, appropriazione indebita e simili). Ed, infatti, le più incisive iniziative giudiziarie hanno avuto di mira la tutela del regolare funzionamento e dell’integrità del “sistema mercato”, in particolare del mercato finanziario. Ne è risultato meglio garantito il controllo dell’accesso al mercato – che si vuole riservato solo a soggetti dotati di determinati requisiti di solidità finanziaria e di professionalità – e più frequentemente sono state applicate le norme incriminatici in tema di abusivismo bancario e finanziario e quelle vigenti nel settore dei fondi pensione, ed è stato dato maggiore spazio che in passato alla tutela penale che accompagna l’attività delle autorità pubbliche di vigilanza (prime tra tutte la Consob e la Banca d’Italia). La più incisiva protezione del risparmiatore/investitore è stata quindi realizzata prevalentemente proprio grazie alle norme ed alle sanzioni amministrative e penali previste per assicurare il buon funzionamento e l’integrità del mercato, mentre la tutela dei singoli ha finito con l’assumere i caratteri di una sorta di tutela indiretta. Conseguenza, questa, anche dell’immutata modestia delle norme poste direttamente a tutela delle vittime dei reati economici tradizionali (ivi compreso, da ultimo, il reato di corruzione tra privati), i brevi termini di prescrizione cui essi sono soggetti, la quasi impossibilità di effettuare intercettazioni e richiedere la custodia cautelare in carcere, salvo che nel caso in cui sia possibile configurare la più grave fattispecie dell’associazione a delinquere. Indipendentemente da ciò, comunque, resta la necessità che, per garantire un soddisfacente tasso di legalità del mercato e del sistema economico nel suo insieme le sanzioni siano tali da esercitare una reale funzione deterrente: tanto più quando si voglia ridurre il peso di controlli preventivi, visti come un impaccio ed una causa d’inefficienza economica per le imprese. Funzione deterrente che appare ancora oggi invece gravemente indebolita dall’assai blando e spesso incoerente regime punitivo previsto per alcuni reati societari, a cominciare da quello di falso in bilancio, del quale – sgomberato il campo da improprie previsioni di punibilità a querela di parte e da mal definite soglie di rilevanza quantitativa – sembra davvero imprescindibile ripristinare la funzione di tutela della corretta informazione di mercato, intesa come bene pubblico essenziale al corretto funzionamento del mercato stesso e dell’insieme degli interessi che vi si radicano. In un quadro così variegato a coloro cui è affidato l’esercizio della giurisdizione tocca impegnarsi fortemente per trovare il giusto punto di equilibrio tra le esigenze del mercato e delle imprese, da un lato, e l’imprescindibile tutela dei diritti individuali e collettivi dall’altro. Ma non si può trascurare che un simile obiettivo rischia di rivelarsi difficilmente conseguibile se non ci si sforza di assicurare un elevato livello di specializzazione ai magistrati operanti nel diritto dell’economia, al cui proposito la recente istituzione dei tribunali dell’impresa sembra essere più un segnale che un’effettiva realizzazione. C.- La crisi economica mondiale e le prospettive europee La drammatica crisi economico-finanziaria che già da alcuni anni stiamo attraversando ha reso ormai evidente a tutti quanto già alcuni avevano da tempo intuito: che la dimensione sempre più marcatamente transnazionale dei fenomeni economici (specialmente sul versante finanziario) rischia di mettere fuori scala gli strumenti giuridici tradizionalmente radicati su base nazionale, sia quanto alla produzione normativa, che quei fenomeni economici vorrebbe regolare, sia quanto alla funzione giurisdizionale, che delle regole così poste dovrebbe garantire il rispetto. Risulta chiaro, soprattutto nel settore della tutela del risparmio e del diritto dell’intermediazione finanziaria, lo squilibrio che si è venuto a determinare tra la materia da regolare e gli strumenti di regolazione. Donde una situazione di oggettiva debolezza del diritto, che stenta ad assicurare ai soggetti meno protetti un’adeguata tutela di fronte ai rischi derivanti da dinamiche economiche che si sviluppano ormai quasi interamente su base mondiale. Da gran tempo a da più parti s’invoca, per poter regolare gli eccessi del capitalismo finanziario, la creazione di autorità di vigilanza sovranazionali dotate di strumenti giuridici 4
effettivamente in grado di realizzare il loro scopo; ma sono fin troppo evidenti le enormi difficoltà di dare ad una simile costruzione un radicamento giuridico internazionale sufficientemente solido, al punto che ancora una decina di anni fa Guido Rossi manifestava il timore che simili prospettive avessero “più o meno le stesse possibilità di realizzazione del progetto kantiano per una pace perpetua”. Se però, proiettata su scala mondiale, la prospettiva di recuperare un equilibrio più corretto tra esigenze economiche e tutele giuridiche appare ancora poco più che un’utopia, essa assume connotati di maggiore concretezza quando la si circoscriva all’ambito europeo, pur con la consapevolezza che le attuali dinamiche economiche tendono a scavalcare non solo i confini nazionali ma anche quelli continentali. Nonostante le incertezze ed i fallimenti che ne hanno disseminato il cammino, l’Europa già dispone di istituzioni e strumenti giuridici comuni. D’altronde, gran parte della nostra attuale legislazione economica è già, direttamente o indirettamente, frutto di elaborazione di regole di origine comunitaria. Non è il caso di ripercorrere qui, neppure per sommi capi, il processo di sviluppo delle istituzioni dell’Unione europea, con l’alternanza dei momenti di euforia e di depressione che l’hanno accompagnato, e neppure le diverse e talora affannose iniziative intraprese per fronteggiare l’improvvisa (e per certi versi imprevista) crisi dell’euro. Varrà solo la pena di mettere in evidenza come questa crisi abbia aggravato i fattori di divisione tra gli stati membri dell’Unione (non solo a seconda che essi abbiano o meno adottato la moneta unica, ma anche in relazione alla maggiore o minore solidità della struttura economica interna di ciascuno stato e del più o meno elevato livello di tutele sociali) e come la risposta a tale divario sia stata ricercata selettivamente nelle politiche di austerity e di risanamento, poco o nulla affiancate da strumenti idonei ad aiutare la crescita economica, lo sviluppo e la tenuta dei livelli occupazionali. Il ricorso a strumenti di diritto internazionale, anche al di fuori della cornice del diritto dell’Unione, ha portato ad una sostanziale sterilizzazione delle prerogative del Parlamento europeo su materie nevralgiche, assegnando – soprattutto per i paesi dell’eurozona – poteri penetranti di controllo sui bilanci nazionali e sulle connesse politiche economiche interne in primis al Consiglio ed alla Commissione. D’altro canto, il già previsto potere di coordinamento, prima con il varo del cosiddetto “semestre europeo” e poi con il Fiscal compact, è stato fortemente irrobustito, nel quadro delle politiche di salvaguardia dell’euro e di aiuti ai paesi in difficoltà, attribuendo carattere sempre più perentorio alle esigenze di rigore di bilancio e di rispetto delle indicazioni sovranazionali. Si è insomma verificata una netta battuta d’arresto nel processo – un processo certamente incompiuto, che sconta l’errore di aver concepito una moneta unica europea senza la garanzia di una comune politica economica e fiscale – mirante a fornire all’Unione, con il Progetto di una Costituzione per l’Europa, un più solido quadro istituzionale. Come ha scritto Jürgen Habermas, a proposito del Fiscal compact, per la prima volta rilevanti cessioni di sovranità da parte degli stati nazionali all’Unione non sono state accompagnate da un incremento del potere di partecipazione e controllo dei cittadini europei, giacché l’organo a mandato universale deputato ad esprimere tale potere è stato in sostanza esautorato dai nuovi meccanismi di governance dell’eurozona. Eppure, nell’emergenza, l’Europa si è comunque mossa, scegliendo strade inedite, creando nuovi organi e nuovi meccanismi (benché legati da vincoli forse troppo deboli col diritto comunitario) e riuscendo infine ad evitare il rischio catastrofico di regredire ad un semplice spazio di libero mercato; sicché non sembra irrealistico che – come ha scritto Barbara Spinelli – la crisi possa offrire l’occasione per una presa di coscienza autocritica del sistema Europa. A condizione però che ci si ponga una serie di interrogativi: sul ruolo del Parlamento europeo, sulla possibilità di un governo economico in grado di estendersi dal piano fiscale e bancario anche a quello delle politiche economico-sociali, sulla capacità d’ideare e sostenere con mezzi finanziari facenti capo all’Unione interventi in grado di grado di produrre sviluppo economico nell’intera area europea, sul corretto punto di equilibrio da trovare tra esigenze di risanamento di bilancio e di tutela sociale delle categorie di cittadini più deboli, assicurando effettività ai diritti socio-economici contemplati dalla Carta di Nizza. 5
Più in generale, si tratta di recuperare anche sul piano europeo un più corretto rapporto tra esigenze economiche e tutele giuridiche. Obiettivo che, peraltro, appare di difficile realizzazione senza un rinnovato sforzo d’ingegneria costituzionale, tenendo conto di quanto ancor di recente è stato sottolineato da Luigi Ferraioli: cioè che in una moderna concezione della separazione dei poteri, più ancora che alla tradizionale tripartizione montesquieviana, occorrere oggi riferirsi alla distinzione tra poteri di governo e poteri di garanzia, il primo ma non l’unico dei quali è quello giudiziario. La necessità di far luogo a cessioni di sovranità da parte degli stati dell’Unione europea deve accompagnarsi al rilievo che la sovranità non è solo quella che si esprime attraverso gli strumenti legislativi e gli interventi delle autorità di vigilanza, ma involve necessariamente anche il controllo giurisdizionale sull’esercizio di quei poteri, essenziale per la salvaguardia dei principi sui quali è stato a suo tempo costruito lo stato di diritto. Ovviamente non si parte da zero: basti pensare, in ambito penale, alla possibilità oggi prevista dall’art. 86 del Trattato di creare un ufficio di Procuratore europeo antifrode, primo esempio di un ufficio giudiziario penale veramente europeo. Ed è persino superfluo ricordare l’esistenza della vera e propria rete giurisdizionale, formata dalla diverse Corti europee, e del dialogo che costantemente s’intreccia tra esse ed i singoli giudici nazionali, né si vogliono in alcun modo negare i meriti storicamente acquisiti dalle anzidette Corti europee nel campo dell’affermazione dei diritti. Ma è opinione di molti che il dialogo tra le corti resti affidato ad un sistema troppo macchinoso, che andrebbe perfezionato, ed appare lecito domandarsi se l’attuale assetto giurisdizionale europeo non debba essere rinforzato in misura corrispondente all’auspicata accentuazione di poteri sovrani in capo agli organi dell’Unione. Ed allora, ad esempio, ci si può chiedere se l’opportuna attribuzione alla Banca Centrale Europea di poteri di vigilanza sugli istituti di credito dell’eurozona (almeno su una parte di essi) e l’auspicabile trasformazione dell’Esma in una vera autorità di vigilanza sui mercati finanziari europei, con poteri comparabili a quelli dei quali dispone la Consob in ambito italiano (il che è ancora di là da venire), non postuli la parallela costruzione di un sistema di garanzie giurisdizionali di pari livello, pensato su scala europea e ben più articolato e meglio definito di quanto attualmente non sia. Donde la necessità che non si rinunci a riflettere sulla prospettiva di una futura revisione costituzionale europea, che valga non soltanto di assicurare una più solida base rappresentativa a chi è chiamato a dettare le regole dell’Unione ed un più equilibrato rapporto tra Parlamento, Consiglio e Commissione, ma anche un efficiente esercizio dei poteri di garanzia, a cominciare dagli organi giurisdizionali operanti su base europea. D’altronde, se è vero che – come ebbe a sottolineare già molti anni addietro Paolo Grossi – prima ancora di poggiare su un ordinamento positivo, il diritto ha il suo più forte radicamento nel costume sociale, quale “conseguenza inevitabile di non essere dimensione del potere e dello Stato, ma della società nella sua globalità”, è lecito immaginare che anche i fondamenti costituzionali del diritto europeo cui aspiriamo siano frutto di un’elaborazione proveniente anche dal basso, cui concorra quell’area di ricerca giuridica europea nella quale – secondo un auspicio di recente formulato da Armin von Bogdany – debbono essere coinvolti non solo gli studiosi teorici ma anche gli operatori giuridici (giudici, funzionari, avvocati) nel loro lavoro quotidiano: giacché le stesse nozioni giuridiche elaborate dalla dogmatica nazionale sono ormai destinate ad entrare in questo contesto sistematico più ampio ed in funzione di esso richiedono di essere rielaborate. Problemi urgenti, dunque, ai quali i giuristi non possono non essere sensibili. Non può non esserlo, in particolare, il giudice che voglia avere consapevolezza del proprio ruolo nella società, giacché è lui l’anello ultimo della catena che porta all’applicazione del diritto interno alla luce di quello comunitario: donde il ruolo primario che gli compete nella dialettica tra i diversi sistemi giuridici che si confrontano. L’interprete nazionale, organo di base dello spazio giudiziario europeo, ha il diritto ed il dovere istituzionale di utilizzare la propria funzione per realizzare, nel momento ermeneutico, la sintesi ed il connubio ottimale in un sistema delle fonti sempre più etero-integrato. L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e l’ingresso della Carta dei Diritti Fondamentali fra gli atti normativi 6
di diritto primario dell’Unione hanno rafforzato in misura un tempo inimmaginabile il dialogo fra le Corti e, perciò stesso, anche il ruolo del giudice. Sia sul versante più strettamente comunitario sia su quello internazionale di matrice CEDU, l’obbligo d’interpretazione conforme che grava sull’interprete è divenuto uno strumento fondamentale di salvaguardia dell’unità del sistema, perché l’asse che collega le fonti all’interpretazione si è arricchito di nuovi strumenti e ciò richiede oggi al giudice una formazione professionale di respiro europeo, che lo ponga in grado di garantire, in questo più ampio quadro di riferimento, la tenuta delle strutture giurisdizionali e, soprattutto, l’effettività della tutela dei diritti ad esse sottesi. 7
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