Curzio Malaparte alle isole eolie - Vita al confino, amori e opere Giuseppe La Greca

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Giuseppe La Greca

                         Curzio Malaparte
                          alle isole Eolie
                         Vita al confino, amori e opere

                            Prefazione di Gian Antonio Stella

                            Edizioni del Centro Studi Eoliano
                                 www.centrostudieolie.it

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Curzio Malaparte
              alle isole Eolie
              Vita al confino, amori e opere
              di Giuseppe La Greca

              © 2012 Edizioni del Centro Studi Eoliano
              Centro Studi e Ricerche di Storia e Problemi Eoliani
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              Design: LE TRE ARANCE, Milano

              Prima edizione: maggio 2012

              Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi
              forma elettronica, meccanica o fotocopie senza autorizzazione scritta da parte dei detentori del copyright.

              Printed in Italy

              ISBN: 978 88 97088 011

              Questa pubblicazione è stata realizzata in collaborazione con:
              - Ministero per i beni e le attività culturali
              - Regione Siciliana, Assessorato dei beni culturali e dell’identità siciliana
                e Assessorato Regionale Turismo, Sport e Spettacolo
              - Provincia Regionale di Messina
              - Comune di Lipari

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Indice
               Prefazione                                                  11
               di Gian Antonio Stella

               NOTA INTRODUTTIVA                                           15
               di Lina Paola Costa

               Introduzione                                                19

               Capitolo I                                                  25
               L’arresto

               In viaggio verso Lipari
                                                                           38
               Capitolo II
               Le Eolie negli anni di Malaparte                            41
               1933 - 1934

               Capitolo III
               Lipari                                                      51

               Le visite Mediche
               Caro Esilio                                                 64
               Senza titolo                                                69
               Fedra                                                       71
               Il lebbroso di Lipari                                       72
               La capra prigioniera                                        76
               Sesta Sinfonia                                              81
               L’otre di Ulisse - Epistola a Vincenzo Cardarelli           83
               L’inglese in Paradiso Ovvero L’arte di diventare inglese    86
                                                                           88
               Capitolo IV
               Flaminia                                                    95

               Brano                                                      101
               Donnamare                                                  103
               Donna sul prato                                            103
               Nulla più mi resta di te                                   104

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Capitolo V
              In giro per l’isola              105
              Quattropani                      107
              Canneto                          110

              Capitolo VI                      113
              Vulcano                          114
              Omertà                           116
              Madre che cerca il suo bambino   119
              Caneluna

              Capitolo VII                     121
              Vita a Marina Corta              123
              Emigrazione                      126
              Mattino a marina corta           127
              Alba Marina                      128
              Il Mare Ferito                   132
              Cani in riva al mare             136
              Elegia dell’Alba

              Capitolo VIII                    139
              Candido                          143
              Ulisse in Piazza                 147
              Scirocco                         152
              La Murena                        156
              L’isola di pietra galleggiante   160
              Il pianto del mare

                                               165
              Capitolo IX
              Febo                             168
              Cane come me                     171
              Febo Cane Metafisico             179
              “La Pelle”

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Capitolo X                                   185
               Addio Lipari
               L’Albero Vivo                                193
               Poesia                                       196
               Idillio, I                                   198
               Idillio, II                                  200
               Sparse nel Vento                             201
               Idillio sesto                                205
               Ex-voto                                      207
               Le Conchiglie                                209
               I Cani                                       210
               Disteso fra i sepolcri                       211
               Non m’accontento più                         212
               Un tempo era l’orgoglio                      213
               Idilli e Inni Sacri                          214

               Capitolo XI                                  217
               Appendice
               Un Uomo a Lipari                             218
               L’isola dei Cani                             224
               Alba Marina                                  229
               Febo Cane Metafisico                         230

               Capitolo XII                                 239
               Una Breve Biografia
               La morte di Curzio Malaparte dopo lunghe
               e gravi sofferenze - di Carlo Bo
               Malaparte (1959) - di Indro Montanelli
               Amare l’Italia significa saperne dire male

               Conclusione                                  245
               Una proposta

               Bibliografia                                 247

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PREFAZIONE
                                              di Gian Antonio Stella

              «Al libro, alla falce ed al martello / la borghesia tiranna ci strappò. / I ferri ai polsi, a
              bordo di un battello / sull’isola lontan ci relegò...»
              Curzio Malaparte non avrebbe mai potuto riconoscersi, in quel «Canto dei confinati»
              che spicca tra le più belle canzoni clandestine nate sotto il tallone fascista.
              Un po’ perché si riferiva in particolare ad Ustica, dove Antonio Gramsci avrebbe scritto
              per i suoi figlioletti quella meravigliosa favola ecologica che ruota intorno a un topolino
              che, per farsi perdonare da un bimbo malato cui ha rubato il latte, convince la montagna
              a dare le pietre al muratore e il muratore a riparare la fontana e la fontana a dare acqua
              e l’acqua a bagnare il prato e il prato a sfamare la capra col risultato che «il bambino
              ha tanto latte che si lava anche con il latte». Un po’ perché l’autore de «La pelle» finì a
              Lipari non perché comunista ma semmai perché, come spiega Giuseppe La Greca nel
              primo capitolo di questo libro, si considerava un fascista così perfettamente fascista da
              bacchettare i fascisti «ingrassati» dal potere come Italo Balbo.
              In una delle strofe di quella meravigliosa canzone, però, avrebbe sì potuto ritrovarsi.
              Quella in cui i confinati rivendicano, nel loro esilio solitario, la fierezza di non essersi
              piegati: «Ed or sereni siam sulla scogliera / saldi nell’almo, con la fronte altera».
              L’aveva già scritto, del resto, nella cella di Regina Coeli dove, dopo il primo sconforto
              («Le idee mi si spappolano in testa… E se la prigione annullasse in me anche lo
              scrittore?») aveva confidato nero su bianco: «Non mi sono mai sentito libero come da
              quando sono entrato in prigione».
              C’è da credergli: nel momento in cui tutti erano diventati fascisti e osannavano il Duce,
              quella condanna per «attività antifascista all’estero», se non avesse avuto in allegato un
              mucchio di problemi a partire dall’impossibilità di scrivere, non doveva poi dispiacergli
              troppo. In fondo era come se il regime gli avesse confermato la patente del cane sciolto.
              Patente alla quale teneva più che a qualunque altra cosa.
              Come avrebbe raccontato anni dopo il comunista e amico fraterno Davide Lajolo a
              Massimo Fini in uno splendido ritratto su l’«Europeo», Malaparte «non seguiva mai
              una moda: ci arrivava prima. Poi, quando si accorgeva che arrivavano anche gli altri, si
              metteva a predicare l’opposto perché era un bastian contrario».
              Nell’Italia indecisa sull’entrata in guerra non poteva essere che interventista (fino ad
              arruolarsi sedicenne nella Legione Garibaldina, inquadrata nella Legione straniera
              francese), nell’Italia liberale ammaccata di Giovanni Giolitti e di Luigi Facta non poteva
              che diventar fascista (anche se Piero Gobetti lo stimava tanto da pubblicargli «Italia
              Barbara»: «Pubblico il libro di un avversario ma riconosco in Curzio Suckert la migliore
              penna del fascismo»), nell’Italia fascistizzata non poteva che convertirsi antifascista,
              nell’Italia democristiana non poteva che essere comunista. Fino a convertirsi all’ultimo
              istante al cattolicesimo riponendo la sua anima nelle mani di padre Virginio Rotondi, un
              gesuita diventato famoso anni prima per una violenta invettiva in un cinegiornale della
              Incom contro l’ipotesi che il divorzio fosse inserito nella Costituzione: «Dichiariamo
              che il divorzio è un attentato contro Dio e contro la nazione!».
              Se la conversione meravigliò il mondo intero, sbalordì su tutti Enrico Falqui: «Malaparte
              era un ribelle autentico. Non si faceva mettere il basto da nessuno, diavoli o santi che
              fossero». Un giorno andò a trovarlo alla Sanatrix dov’era ricoverato: «Di fianco, sotto la
              finestra, su una lunga e stretta mensola di marmo, erano allineati tutti gli idoli religiosi
              del mondo, da Budda a Cristo. Lo guardai meravigliato. “Curzio, che vuoi dire?”. “Eh,

                                                           11

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eh, chi m’aiuta m’aiuta”, ghignò lui. E io: “Senti, Malaparte, lo dico per scaramanzia,
              ma se ti trovassi veramente di fronte a Lui, chiunque egli fosse, cosa faresti, come te la
              caveresti?” E Malaparte: “Farei quello che ho sempre fatto: protesterei».
              Certo, avrebbe confermato Lajolo infischiandosene dell’incoerenza, «l’uomo non è
              un robot. Malaparte in fondo ti fa capire che l’incasellamento, l’adagiarsi su schemi
              retorici, qualsiasi essi siano, è sempre sbagliato e che la vita va vissuta, ognuno
              ovviamente nei propri limiti, da primattore». Probabilmente, quel giorno in cui gli
              dissero che la sua destinazione era Lipari, tirò un sospiro di sollievo ricordando un
              reportage del grande Mino Maccari. Era stato lui stesso, quando era al timone della
              Stampa di Torino, dove era diventato direttore giovanissimo a 31 anni (persino Stalin a
              Mosca, avrebbe raccontato, l’aveva squadrato pensando «così giovane e direttore della
              Stampa!»), a mandare nel 1930 quel formidabile inviato speciale a farsi un giro tra i
              confinati. E dopo avere visitato Ponza, Maccari era appunto sbarcato con il piroscafo
              «Adele» nel porto di Lipari.
              «L’Adele ha costeggiato il singolarissimo isolotto di Vulcano, sui cui dorsi scabrosi
              s’arrampicano, come enormi ramarri, vegetazioni selvagge», aveva scritto il giornalista
              con rara finezza letteraria, «Dai crateri colate lente di zolfo si stendono come sbavature
              di lumache, dal bagliori di verde smeraldo e dalle trasparenze d’oro pallido; intorno,
              quasi a formare una sempre rinnovantesi corona, le spirali del fumo alimentano piccole
              panciute nuvolette che mi fanno ricordare quelle degli shrapnells del tempo di guerra:
              ma tutto è silenzio, una pace sonnolenta sovrasta».
              «Poi, verso Lipari, come un fanciullo che invochi l’aiuto del padre. Vulcano stende
              un moncherino bruciato, dalle piaghe ancora aperte, dove alcune chiazze più chiare
              sembrano davvero carne nuova di ferita che si rimargini. (…) L’isola è (…) grande, con
              molte campagne e contrade, con varie industrie, con vari approdi; e il paese è una vera
              cittadina che raccoglie, essa sola, molte migliaia d’abitanti, e si stende comodamente
              fra la Marina Lunga e la spiaggia di Portinente. Entro le antiche mura, il castello e gli
              avanzi di bellissime chiese, che contengono opere d’arte, vegliano grigi e severi sul
              gregge ordinato di quartieri settecenteschi e ottocenteschi, le cui case sono ornate,
              quasi ad ogni finestra, di graziosi balconi colmi di piante e di fiori».
              A suggestionare il grande giornalista, erano state in particolare le strade che («salvo
              quelle più grandi, dedicate come di consueto agli eroi del Risorgimento») erano
              «intitolate quasi tutte alle deità pagane; e ho potuto leggere, un po’ sorpreso “Vico
              Giove”, “Vico Venere”, “Via Marte”, “Vico Proserpina”, “Vico Fortuna”, “Vico
              Minotauro”, “Vico Urano”, “Vico Apollo”.
              Mi sembrava d’essere capitato in pieno Olimpo».
              C’erano in quel reportage annotazioni struggenti: «Nelle straducole appartate
              gironzolavano uomini montati su minuscoli asinelli, e li usano cavalcare proprio sopra
              la coda, in modo che questa sembra penzolare piuttosto dall’uomo che dalla bestia…
              » Va da sé che a un amante appassionato del gentil sesso qual era Malaparte dovettero
              essere di consolazione, tuttavia, altre annotazioni: «Ho visto donne piacentissime,
              e giovinette sufficientemente al corrente in fatto di moda e di portamento». Di più:
              «Nelle vie centrali c’è un certo sfoggio di eleganze maschili e femminili, il passeggio
              si prolunga fino a tarda ora». Dettaglio interessante, per uno come lui che amava alzarsi
              a metà mattinata preferendo tirare tardi la sera.
              Il confino, a differenza di quanto avrebbe detto molti anni dopo Silvio Berlusconi in
              una sventurata dichiarazione a Boris Johnson e Nicholas Farrell, del settimanale «The
              Spectator», non era affatto una «villeggiatura». E se anche si trattava di una cosa ben

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diversa dalle prigionie nei lager nazisti o nei Gulag comunisti, come ha fatto notare
              Mario Cervi, si trattava comunque di una prigione. Con la consolazione del cielo
              meraviglioso, delle spiagge bagnate da acque blu cobalto, dei profumi intensi del mare,
              della menta, del mirto, del rosmarino, di una cucina dai mille sapori. Ma una prigione.
              Dove i confinati, pur potendo contare su una «varietà di passeggiate alcune delle quali
              veramente deliziose», non solo non potevano uscire prima che il sole sorgesse o fosse
              tramontato, ma avevano il divieto di discutere di politica, di conservare somme di denaro
              in eccesso ai bisogni ordinari, di spedire o ricevere lettere e pacchi se non attraverso
              la censura della direzione della colonia o di andare in barca per diporto. Insomma, per
              quanto bella fosse Lipari si trattava di una colorata, bellissima, affascinante gabbia.
              Che lo stesso Maccari, da vecchia volpe qual era, riuscì a raccontare ai lettori (dopo
              aver incontrato uno ad uno tutti i prigionieri senza la premurosa sorveglianza della
              polizia) servendosi di una sottile ironia: «Per entrare nell’ambiente del confino di
              Lipari ho dovuto, ancora, come a Ponza, pur dolente di mostrarmi un poco sgarbato,
              sfuggire ad una fitta rete di gentilezze e di continue attenzioni, dovute questa volta
              soprattutto all’energico dinamico e volitivo Direttore della Colonia, il Cavalier Grasso,
              Commissario di P.S., siciliano, il quale voleva, con cortese pensiero, risparmiarmi
              perfino la noia di avvicinare direttamente i confinati, e aveva cominciato con il
              presentarmeli egli stesso, chiamandomeli nel suo ufficio».
              Senza dubbio, ammiccava il giornalista facendosi beffe della censura, «la cosa sarebbe
              stata molto comoda e spiccia, ma ormai io avevo dato alla mia visita un carattere diverso,
              e ho dovuto far intendere al commissario come non mi convenisse cambiar sistema».
              Fino all’ultima stilettata, di velenosa leggerezza: «D’altra parte, in sua presenza, poteva
              darsi anche il caso che qualche confinato alterasse la verità, esagerando i lati meno
              piacevoli e gli inconvenienti del confino, o tacendo per non far la figura del piaggiatore
              e dell’adulatore, le benemerenze dello stesso direttore». Sic…
              Come potevano, i custodi del regime, farsi prendere per i fondelli in quel modo? E forse
              fu anche per quel reportage che avevano descritto tanti confinati senza demonizzarli e
              anzi con qualche cenno di simpatia come verso Fortunato La Camera («“Lei può esser
              sicuro che il suo nome è tra quelli di coloro che noi comunisti manderemo al confino!”.
              Ci rechiamo, così cordialmente parlottando, verso il centro del paese...») che lo stesso
              Maccari sarebbe stato poi espulso dal partito e Malaparte mandato al confino. Troppo
              ironici, entrambi. Troppo insofferenti alla mordacchia.
              Il licenziamento dalla Stampa, come avrebbe raccontato quello che forse fu il suo
              migliore amico, il giornalista Augusto Mazzetti, fu motivato con una scusa: «La Stampa
              aveva pubblicato fra i nomi degli intervenuti al tradizionale omaggio di Capodanno al
              sovrano anche quello del conte della Trinità, morto da vari mesi. Un banale errore.
              Agnelli colse la palla al balzo e chiese la testa del redattore-capo, che era Maccari.
              Malaparte difese Maccari e fu cacciato. Ricordo che allora la questura gli fece pesanti
              pressioni perché lasciasse Torino dove era considerato un indesiderato».
              In realtà, ricordava Mazzetti che Massimo Fini incontrò quando, anziano, trascorreva
              «le sue giornate scrivendo poesie scaramantiche sulla morte», Malaparte «s’era
              messo a dirigere la Stampa a modo suo, infischiandosene delle direttive di Agnelli
              e indirettamente, di quelle di Mussolini. Andò in Unione Sovietica, pubblicò articoli
              duramente critici sul confino, si oppose all’introduzione del sistema Bedaux (un sistema
              che consentiva un intensivo e disumano sfruttamento degli operai) alla Fiat. Insomma
              non rinunciò mai, come era suo costume, alla libertà e alla indipendenza di giudizio».
              Per questo, nei primi anni del dopoguerra, si era sentito offeso dall’ostilità di certi

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antifascisti militanti che di lui ricordavano solo gli iniziali entusiasmi fascisti
              dimenticando il suo licenziamento dalla «Stampa», la sua condanna al confino o ancora
              il divieto del Duce a pubblicare in Italia il libro «Technique du coup d’état» che già nel
              1931, come avrebbe ricordato Maria Antonietta Mazzocchi che a dispetto delle proteste
              l’aveva voluto come collaboratore a «Vie Nuove», descriveva un Hitler simile a quello
              che sarebbe stato preso in giro nel film «Il grande dittatore» da Charlie Chaplin: «un
              austriaco paffutello, con il baffo poggiato come un nodo a farfalla sotto il naso. Il suo
              eroe è Giulio Cesare in costume tirolese».
              Un’ostilità esagerata, perfino per tantissimi comunisti (dagli amici Pietro Secchia e
              David Lajolo allo stesso Palmiro Togliatti che dopo averlo incontrato lo definì «uno
              degli uomini più intelligenti mai conosciuti») e a maggior ragione per i critici riottosi
              agli schemini, come Giuseppe Scaraffia che nel suo «Gli ultimi dandies» ha scritto che
              Malaparte «sgusciò fra i totalitarismi del XX secolo facendosi scudo di una sfacciata,
              eccessiva eleganza».
              A tanta animosità reagì battagliando da par suo: «Chi può scagliare la prima pietra, in
              Italia? Nessuno, neppure Croce. E perché dovrei sentirmi più colpevole di tanti altri?»
              Dio sa quanto avesse ragione. E quanto avesse ragione Lajolo a dire che in realtà ciò
              che veniva rinfacciato a Malaparte era di avere «rifiutato con troppa arroganza certo
              comodo conformismo o certo conformismo dell’anticonformismo». O, se volete, prima
              il conformismo fascista poi quello antifascista.
              Ci sono, nella sua biografia, due scene in qualche modo parallele. La prima è lo sbarco
              a Lipari: «Quando la barca si accostò al molo, venti braccia si protesero, agguantarono
              i remi che Valastro e i suoi rematori sollevavano in alto, e ad uno ad uno i passeggeri
              furono issati sul molo. Ultima, che sedeva a poppa, fu mia madre». La seconda è il
              suo ritorno in Italia dalla Cina dove aveva voluto a tutti i costi andare e dove aveva
              intervistato Mao. Ormai spossato da un cancro («lo stramaledetto», lo chiamava) aveva
              la bocca coperta da una mascherina e doveva farsi aiutare in tutto. Avrebbe scritto:
              «L’altra mattina, all’aeroporto di Pekino, quando ho cominciato a salire la ripida scaletta
              del turboreattore sovietico, messo a mia disposizione dal governo cinese per ricondurmi
              in Italia, la piccola folla di autorità, di giornalisti, di medici, di infermieri, di funzionari
              dell’aeroporto, di scrittori, di diplomatici, che era venuta a salutarmi (…) è ammutolita
              all’improvviso. Io non riuscivo a salire quei ripidi gradini e mi ero accasciato mezzo
              svenuto. Il comandante del turboreattore sovietico, un biondo russo dalle mani enormi,
              è sceso di corsa e mi ha sollevato quasi di peso, issandomi, gradino per gradino, verso
              la cabina dell’aereo. La folla, colpita dallo spettacolo penoso, taceva».
              «Giunto in cima alla scaletta con il fiato rotto (da più di tre mesi respiro con un solo
              polmone), mi sono fermato per riprendere forza. Ed è allora che mi sono accorto del
              silenzio della folla. Volevo dire qualcosa per salutare i miei amici, per ringraziare, e mi
              sono venute spontanee alle labbra tre parole cinesi, che ho pronunciato lentamente, con
              grande fatica: “Uò ai zungkojen”, che vuoi dire: “Io voglio bene ai cinesi”. E la folla si
              è messa a piangere». Lacrime che troppo pochi versarono, in Italia, quando se ne andò
              a soli 59 anni lasciando un vuoto enorme tra le persone che amavano il suo spiritaccio
              anarchico e ribelle, libero fino alla strafottenza.
              Ma qui, al di là dei torti e delle ragioni, lo ricordiamo per il suo rapporto con quella
              «gabbia» meravigliosa che furono per lui le isole Eolie: «Dalla mia finestra vedo,
              azzurre in lontananza, l’alta rupe di Scilla e la gobba di Cariddi. Il sole nasce dietro
              Scilla. Ecco uno spunto di cui terrò nota: questo mio sole ironico che ogni mattina mi
              guarda stringendo l’occhio, di dietro la rupe di Scilla...»

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NOTA INTRODUTTIVA

              AAAAA leggere le bozze di questo bel lavoro, si viene di sicuro presi da stupore
              per tanta messe di notizie e carteggi, foto e proposte, raccolta attorno ad un
              episodio di vita che dura sette mesi.

              Una raccolta certosina, da parte di Pino La Greca, che conferma la curiosità
              per la storia e tradisce la tenerezza per la propria terra, con la sua gente e le sue
              atmosfere.

              Pagina dopo pagina, l’autore dichiara inconsapevolmente la volontà di scoprire –
              tra le righe dell’esperienza di un protagonista della storia e delle letteratura qual
              è stato Malaparte – la possibilità di riconoscere alle isole Eolie quegli aspetti
              positivi di luoghi belli dalla buona gente, che le rinfrancassero dal temporaneo
              bieco ruolo di terra di confino.

              AAAAMolti lettori avranno poi modo di riconoscere scorci e ricordare personaggi
              della vita di paese, perché non si perda la memoria di un piccolo luogo.
              AAAASette mesi nodali e negletti vengono dunque raccontati attraverso vari
              registri documentali.

              Sette mesi, vissuti da Curzio Malaparte con tutte le sfumature dell’angoscia, della
              noia, dell’avvilimento, di chi per ragion di stato si trova catapultato dal carosello
              di una vita spericolata e mondana verso una dimensione assolutamente isolata.

              AAAAUna dimensione di noia ed estraneità quasi disperata, per chiunque
              giungesse in un luogo di confino, dove la frequentazione con la letteratura e lo
              sguardo poetico divengono l’arma del riscatto per conquistare un occhio bonario,
              persino divertito, verso le più piccole cose.
              Perché nella scrittura - che era il suo mestiere - Curzio Malaparte trova rifugio e
              consolazione per la condizione di confinato; nelle reminiscenze culturali trova la
              cifra espressiva per canalizzare lo sconcerto e poi la composizione idillica, più
              volte esercitata e riprovata, volta a intrattenere se stesso prima che a destinarla
              ad altrui lettura.
              E così il verso, la strofe, la pagina divengono la strada di quella che oggi diremmo
              resilienza, il percorso per resistere in una condizione che non si sarebbe voluta
              sperimentare, altrimenti insopportabile.
              La padronanza metrica intrattiene la tristezza dell’esilio, …e il ciel s’imbianca e
              freme oscuro in mare…
              Il luogo di confino all’inizio percepito con fastidio e desolato sconforto, riserva
              persino l’occasione di avvertire come “care” le isole, quasi inconscio ermo colle,
              con le sponde e le rupi a fare da orizzonte leopardiano, una volta che Malaparte

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aveva iniziato a familiarizzare con isolani, cani e panorami, senza smettere di
              sperare di cambiare il proprio destino. M’è caro ormai l’esilio, mi son care/
              ormai quest’alte rupi e queste rive/ gialle di zolfo e di ginestre…
              L’addio a Lipari sarà dunque modulato dallo scrittore attraverso uno struggente
              ossimoro: Ma in te sola ritrovo la felice/ tristezza dell’esilio…

              A Pino La Greca vada il nostro ringraziamento di lettori curiosi, che nel terzo
              millennio scopriamo altre pagine di cronaca del nostro tempo da frequentare con
              diletto.

                                                                AAAA        Lina Paola Costa

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“Su questa poca terra
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                                                                                        Smisurati orizzonti
                                                                               al mio cuor fanno guerra.”1

               1 Poesia Isola (1934) di C. Malaparte, in “L’Arcitaliano e tutte le altre poesie”; ed. Vallecchi 1993
               anche in “Malaparte”, vol. III di E. Ronchi Suckert, ed. Ponte alle Grazie 1992

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INTRODUZIONE

              Curzio Malaparte è stato una delle personalità culturali italiane più interessanti e
              discusse del secolo appena scorsoi.
              Scrittore, giornalista, fondatore di periodici politico-letterari, come La conquista
              dello Stato, Prospettive, condirettore della Fiera, Italia letteraria, direttore
              de La Stampa di Torino dal 1929 al 1931, collaboratore e corrispondente del
              Corriere della Sera, redattore dal 1953 per il settimanale Tempo con la rubrica
              “Battibecco”, Malaparte fu sempre al centro dell’itinerario culturale e letterario
              del nostro Paese, anche negli anni calamitosi del ventennio e nel difficile periodo
              del dopoguerra.
              Dotato di straordinario fiuto di giornalista fu vivace organizzatore di cultura,
              spesso precorrendo i tempi e spesso seminando nel suo percorso sconfitte o
              delusioni.1

              Malaparte risulta essere lo scrittore italiano più famoso d’Europa. Dovunque si
              trovano i suoi libri, nelle Università, nelle accademie, nelle scuole, in edizioni
              tascabili. Poirot-Delpech, il critico più autorevole dell’Accademia di Francia,
              scrive su Le Monde: “Nel grande suicidio degli anni Quaranta, ben pochi sono
              stati gli artisti europei che hanno saputo insultare l’avvenire per ciò che esso
              aveva di tragico. Occorreva sentirsi depositari di valori superiori a quelli in nome
              dei quali gli eserciti venivano scaraventati gli uni contro gli altri. Occorreva
              sfidare l’accusa di tradimento, rischiare l’apparente disonore della prigione”.

              L’interesse per l’uomo e l’artista, per Malaparte testimone del suo tempo, non
              è morto certo con lui. Escono infatti postume molte raccolte di suoi scritti: “Io
              in Russia e in Cina” nel 1958, “Mamma marcia” nel 1959, “Benedetti italiani”
              nel 1961, “Diario di uno straniero a Parigi” nel 1966, “Battibecco, 1953-1957”
              nel 1967, ed ancora oggi resta un personaggio ed uno scrittore da scoprire e
              riscoprire.ii

              Curzio Malaparte peraltro ha sempre suscitato giudizi discordi, fra i quali
              scegliamo alcuni esempi.
              Il padre Erwin: “Io non capisco perché tutta questa gente stia a imitare Curtino.
              é un imbecille”. Pietro Gobetti: “Pubblico il libro di un avversario (“Italia
              barbara”), ma riconosco in Curzio Suckert la migliore penna del fascismo”.
              Benito Mussolini (nel ‘39, quando Malaparte andò in Etiopia per il Corriere):
              “È capace di mettersi a capo di qualche banda ribelle e di voler conquistare
              l’Italia”. Antonio Gramsci: “È un camaleonte capace di ogni scellerataggine”.
              Palmiro Togliatti: “Un esponente tipico del dilettantismo della cultura borghese.
              Un pezzo d’Italia con cui il Pci deve fare i conti”. Leo Longanesi: “A un
              1 Curzio Malaparte, il narratore, il politologo, il cittadino di Prato e dell’Europa, a cura
              di Renato Barilli e Vittoria Baroncelli.

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matrimonio vuole essere la sposa, a un funerale il morto”. Alberto Moravia: “La
              sua qualità principale era un’ingenuità quasi animalesca ”. Eugenio Montale:
              “Rimescolatore di idee, non possedette le virtù del distacco e dell’obbiettività
              che trasformano il giornalista in un moralista, in uno scrittore di idee”.

              Curzio Malaparte trascorre al confino di Lipari circa sette mesi: dal 30 novembre
              1933 alla fine di giugno del 1934; in suo soccorso verrà Galeazzo Ciano, suo
              ammiratore e nemico di Balbo e i prescritti cinque anni di confino si ridurranno
              di molto. Malaparte sarà trasferito prima ad Ischia e, nell’ottobre del 1934, a
              Forte dei Marmiiii, dove tutto si può dire, tranne che egli sia costretto a fare vita
              di confinato. Il suo totale proscioglimento arriverà nel giugno 1935.

              Il periodo di confino, dunque, dura sette mesi, benché Malaparte per tutta la vita
              abbia parlato di cinque anni come se fossero davvero trascorsi a Lipari.2

              Malaparte non scrive un diario del suo soggiorno a Lipari; i ricordi sono distribuiti
              nei suoi lavori: Fughe in prigione; Sangue; Donna come me (Fantasie), Mamma
              marcia. Si tratta di scritti nei quali la personalità dell’autore si identifica con
              molteplici forme diverse, comunque legate da una profonda e inquieta vena lirica.
              Affiorano memorie delle proprie origini, episodi vissuti e luoghi reali, frammisti
              a visioni fantastiche; sentimenti che insieme a semplici spunti quotidiani riescono
              a comporre un quadro di straordinaria freschezza espressiva.

              Con la data del 1934, infine, è stato ritrovato nel suo archivio un “Quaderno di
              appunti” con poesie e prose (poi riversate nei racconti), del periodo di Lipari.
              Nell’isola, la costrizione obbligata si trasforma lentamente in una visione di serena
              e composta libertà, poeticamente espressa nell’osservazione della natura e della
              classicità greca dell’isola. Per lui, che della libertà di vita e di pensiero aveva
              sempre fatto una bandiera, l’idea stessa di prigione era inconcepibile, e infliggeva
              una ferita profonda all’orgoglio dello scrittore, tanto sicuro della sua fama da
              potersi spesso permettere irrequietezze anche nei confronti del fascismo.

              L’isolamento inizialmente gli appare intollerabile, “Venite all’ombra degli
              antichi olivi, Ionie Muse, e qui con me sedete, in quest’isola errante dove sola
              compagna al prigioniero è la noia infinita, azzurra, eguale. Che vale tanto cielo

              2 «30 giugno 1947. Ritorno finalmente a Parigi dopo quattordici anni di esilio in Italia.
              Questi quattordici anno sono stati i più tristi, i più pericolosi della mia vita. Nel 1933 lasciai
              Parigi, rientrai in Italia, vi fui arrestato, chiuso per lunghi mesi nel carcere romani di Regina
              Coeli, poi condannato a cinque anni di deportazione nell’isola di Lipari. Durante questo
              triste periodo, fra i numerosi amici che contavo all’estero, in Inghilterra, in America, in
              Svizzera, soltanto i miei amici di Parigi, perlomeno qualcuno, non mi hanno dimenticato, mi
              sono sempre stati vicini, mi hanno difeso nei giornali, nelle riviste…»
              “Diario di uno straniero a Parigi”, Curzio Malaparte [a cura di Enrico Falqui].

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e tanto mare a così breve scoglio, a questo cuor che vale?”3.
              Malaparte tenterà ogni mezzo per ridurre la condanna, rivolgendosi ai molti amici
              influenti, ma lentamente proprio la costrizione, la forzata, continua osservazione
              di quanto lo circonda, lo iniziano all’apprezzamento di quella natura e di quella
              gente isolana: “L’isola entra nella notte come una nave in porto... i pescatori con
              i lunghi remi sulle spalle scendono alla marina uscendo dai vicoli intorno alla
              mia casa, e passando davanti alla mia porta alzano il capo salutando. I piedi
              nudi sull’acciottolato fan un lieve fruscio, come se camminassero tra l’erba. Il
              mare è fermo, piatto, teso, lucido come un’immensa lastra di marmo rosso che
              i riflessi d’acciaio della notte percorrono guizzando. Seduto presso la finestra,
              nella mia grande stanza fredda e nuda, con un libro aperto sulle ginocchia, io
              seguo Achille tra i canneti dello Scamandro...”

              (…) “..un lungo mormorio corre lungo il mare fremente, parole segrete corrono
              di riva in riva, le chiglie delle barche suonano come percosse da lievi mani. Un
              mormorio che dura tutta la notte, finché l’alba spunta dai monti greci e rompe il
              mare. Io quelle voci udendo esco sull’alto tetto della mia casa, e ascolto il dolce
              parlottare sommesso...”

              “Sbarcai anch’io, come l’eroe dell’Odissea, sulla nera riva di Marina Corta,
              quasi sugli scalini della chiesa del Purgatorio, costruita su uno scoglio alla
              estremità del piccolo molo, ai piedi dell’alta rupe a picco della rocca d’Eolo.”

              Quelli che ne ‘La Pelle’ diventeranno “..i miei deserti anni d’esilio in quella triste
              isola, così cara al mio cuore...” sono in realtà mesi durante i quali Malaparte si
              immerge nell’atmosfera liparota, rileggendo anche i classici in greco e dedicandosi
              alla poesia. È progressivamente conquistato, e vinto, dalle suggestioni di Lipari e
              dal mito della classicità; nell’animo del poeta dunque la prigione diviene la vera
              libertà, così come aveva sentito già nella cella di Regina Coeli.
              “La cella era stretta, buia, sorda, ma io mi ci sentivo come in uno sconfinato,
              immenso, immisurato spazio. La finestra era chiusa da grosse sbarre... ma io mi
              ci sentivo come davanti a un cielo aperto, a un orizzonte immenso...”4
              “Gli parve che fosse passato un secolo dal giorno del suo arresto, soltanto
              allora si rese conto che durante quei due mesi di prigione era trascorso un tempo
              enorme. Sentiva che la cella n.461 del IV braccio di Regina Coeli era dentro di
              lui, era rimasta dentro di lui: era divenuta la forma segreta del suo spirito. Pensò
              ad un uccello che avesse ingoiato la propria gabbia. Si portava la sua cella con
              sé, dentro di sé, in quel viaggio verso Lipari, come una donna incinta porta il
              suo bambino nel ventre...”5

              3     “Che vale tanto cielo?”- in E.R.S., “Malaparte”, vol. III.
              4     da “Il lebbroso di Lipari”, in E.R.S., vol. III.
              5     da “La passeggiata”.

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Nella corrispondenza privata lo scrittore continua a dolersi della sua condizione
              di costrizione,“...La mia vita qui continua tranquilla, fin troppo tranquilla, in
              una monotonia esasperante. Sempre le stesse cose, lo stesso orario, lo stesso
              incerto clima morale, gli stessi pensieri. Il vivere, il vivere obbligato in un’isola,
              è quanto di più deprimente si possa inventare per un uomo attivo e pieno di
              cervello. Saper che non si può uscire di qui, e vedere ogni giorno l’arrivo e la
              partenza del piroscafo, e la gente che scende e sale, e il traffico delle merci e
              dei passeggeri, e le barche dei pescatori che tutte le sere prendono il largo e se
              ne vanno, passando proprio sotto le mie finestre...6” ma contemporaneamente
              assimila le immagini, i colori, le asprezze e le grazie di quella natura di cui a
              lungo scriverà in seguito, anche inconsciamente, in molti brani composti durante
              i soggiorni a Capri.iv

              Vulcano e Lipari, “l’isola di pietra galleggiante”, sono per lui simbolo del contatto
              con un ambiente selvaggio e al contempo pieno di fascinazioni mitologiche
              misteriose, che nel corso della sua vita saranno spesso rimpiante.

                          Questa è la memoria di Lipari che rimane in lui, incancellabile.

              Abbiamo raccolto i suoi scritti, le sue poesie dedicate alle Lipari, alla sua gente,
              al suo mare, per offrirli agli amanti delle Isole Eolie.

              6     lettera alla sorella Edda del 6 aprile 1934

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Note

              i    Fu idealista o opportunista, ribelle o camaleonte, protagonista o millantatore? Quando
              si parla di Kurt Erich Suckert, divenuto dopo il 1925 Curzio Malaparte, simili domande
              sono inevitabili. I suoi biografi sono stati finora impegnati a sciogliere l’alternativa.
              Compito tutt’altro che facile nel caso di uno scrittore che fu interventista combattente nella
              Grande Guerra, poi apologeta dei vinti di Caporetto, e poi ancora fautore di un fascismo
              rivoluzionario totalitario. Che fu amico di Piero Gobetti e testimone in favore degli assassini
              di Matteotti; che fu cantore di Mussolini, di Farinacci, di Balbo, di Ciano finché furono
              potenti, per denigrarli quando il loro potere declinò o cadde in rovina.
              Vedi: Le metamorfosi di Malaparte di Emilio Gentile – Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2011.

              ii Vedi Curzio Malaparte quella vita da Cagliostro raccontata ai Francesi, di Bernardo
              Valli – Repubblica, 01 giugno 2011.

              iii (…) Tutte le mattine un uomo camminava lungo la spiaggia. Dicevano che era uno
              scrittore che viveva a Forte dei Marmi “al confino”. Doveva presentarsi tutti i giorni alla
              polizia e non poteva andare via. Aveva, al guinzaglio, uno strano cane bianco, magro, esile,
              simile a una pecora, che veniva dall’Isola di Lipari dove tenevano gli uomini politicamente
              indesiderabili. Princess Jane ha detto al bagnino di andare a dire a quell’uomo che voleva
              parlargli.
              (…) Così l’uomo si è avvicinato, camminando sulla sabbia asciutta, che sotto il sole diventava
              bollente; stringeva gli occhi per ripararsi dalla luce. Aren’t you Malaparte? Vieni qui gli ha
              detto Princess Jane.
              Voglio che tu mi parli.
              You are very good looking.
              Lo era, bello, in una strana maniera esotica. Aveva i capelli neri, liscissimi, lucidi come
              velluto, tirati all’indietro su una testa molto rotonda. Le ciglia, che erano una cornice spessa
              intorno agli occhi scuri e brillanti, facevano parte del suo sguardo. Quando sorrideva le sue
              labbra si incurvavano e scomparivano; i suoi denti erano bianchi e animaleschi, dalla testa
              ai piedi era coperto di un olio luccicante; aveva le ascelle rasate. Si è messo a ridere, un riso
              triste e crudele. Si è seduto al sole e ha incominciato a intrattenere Princess Jane che stava
              seduta all’ombra. Era un maratoneta affascinante.
              Poi è tornata mia madre. Era bella, fragile, aveva trentacinque anni: era la madre,
              praticamente squattrinata, di sette figli che avrebbero un giorno ereditato un’immensa
              fortuna. Amava la vita e l’allegria, era del tutto ineducata, scriveva l’italiano con incredibili
              errori di ortografia, era follemente generosa sia con gli amici che con gli estranei. Sempre,
              e fondamentalmente, era una ragazza. Pensavo a lei come se fosse mia figlia. Volevo
              proteggerla, volevo che fosse felice. Quando partiva vivevo nel terrore agghiacciante, che,
              anche lei, potesse morire. Adorava il mare.
              Malaparte tornava a intrattenere Princess Jane, sulla spiaggia. Guardava mia madre con
              intensità. Si sedeva e parlava di sé, della guerra, della sua fuga, a quindici anni, dal Liceo
              Cicognini: delle decine di duelli in cui si era battuto; dei suoi incontri con Mussolini;
              della prigione; dell’isola di Lipari. Quando parlava, le cose che raccontava diventavano
              storie meravigliose. Lo avrei ascoltato per sempre e lui non avrebbe mai smesso di parlare.
              Malaparte viveva in una casa di pietra, protetta verso la strada da una spessa siepe di
              oleandri, verde e umida.

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Qualche volta mamma ci portava a casa di Malaparte. Ci sedevamo nella stanza quasi
              vuota e Malaparte ci dava da bere la Malvasia di Lipari, dolce e dorata. (Susanna Agnelli,
              “Vestivamo alla Marinara”).

              iv “...un’aria densa di odori violenti dove il sentore acuto del vento si mescolava a quello
              dei licheni, degli aranci, dell’uva... L’odore caldo del mare si alzava davanti a me, come un
              alto muro... Lì enormi rupi piombavano a picco sul mare. È come una conca, un arco che
              per lungo tratto abbraccia un profondissimo specchio d’acqua, dove le barche dei pescatori
              trovan rifugio nei giorni di tempesta..” (da “Calagrande all’Argentario”, Corriere della Sera,
              19 ottobre 1937)

              “..Ed era in quelle ore..che Stefano assaporava la severa purezza della natura e quel senso
              mortale.. della bellezza dell’isola...la nuda, aspra, dura, severa nudità di Capri, quella
              precisa, immediata, definitiva presenza di acque, di scogli, di alte pareti di rocce precipiti,
              quelle rupi a picco, quelle macchie di verde nei crepacci del monte, quell’improvviso
              trascolorar argenteo di olivi contro la rossa e dura roccia, quell’argenteo verde trascolorar
              dei rosmarini, quei bianchi cieli stellati delle selve di asfodeli lungo il sentiero di Matromania
              e, a ponente, l’architettura guerriera, mitica dei faraglioni..” [da “Un delitto cristiano - VI”,
              in E. Ronchi Suckert - cit. vol. VI (1942-1945), 1993, pagg. 535-536].

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