Da Versailles a Torre Maura: il pane e la critica - Fondazione ...
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Da Versailles a Torre Maura: il pane e la critica Abbiamo amato la decostruzione, la differenza, la resistenza. Abbiamo coltivato la contaminazione, l’i- bridazione, la moltitudine. Oggi queste parole, con le quali abbiamo per anni scritto di filosofia, scomposto tradizioni e composto teorie, da carismatiche astra- zioni diventano prosaiche concrezioni, e non sono OLIVIA GUARALDO come le avevamo immaginate. A forza di decostruire, Professoressa associata di di de-naturalizzare, di de-familiarizzare siamo arrivati filosofia politica presso il ad un punto in cui ogni retorica emancipativa che po- Dipartimento teva guidare l’intento originario è svanita. Prevale un di Scienze Umane dell’Università relativismo incattivito e paradossalmente identitario. di Verona, dove dirige il Centro Le differenze e i loro diritti hanno moltiplicato le pre- Studi Politici Hannah Arendt. tese di riconoscimento mettendo minoranze contro minoranze, in una balcanizzazione delle identità politi- camente sterile. Non c’è più un noi, o se c’è è il noi del consumo ‘on demand’, nell’era del prodotto ‘customi- zed’, confezionato in serie ma su misura, secondo la preferenza individuale. La resistenza, poi, c’è, è vero, ed è quella di gruppi o movimenti antagonisti, con larghi progetti emancipativi ma piccoli seguiti. La resi- Pubblicato su stenza di massa è invece quella di crescenti populismi http://www. che mal sopportano le istituzioni democratiche, i loro leparoleelecose. pesi e contrappesi (lungaggini), i loro orizzonti valoriali it/?p=38219 (ipocriti, corrotti). Le moltitudini non sono per la libertà e l’uguaglianza ma per la casa popolare agli italiani: la rivolta del pane non ha più le fattezze gloriose della marcia delle donne su Versailles, ma quelle odiose di Torre Maura, con tanto di calpestio ostinato sui panini per i bambini Rom. La contaminazione e l’ibridazione prendono ora le concrete forme di una paura collet- tiva a cui nessuna e nessuno si sottrae: una fottuta paura di morire per un virus cinese ci avvolge come un incantesimo. Non funzionano più i buoni propositi emancipati- vi che presupponevano la critica. Una critica che ci istruiva su cosa non andava, su come le cose fos- sero diverse da come apparivano, su quali rapporti 1
di forza (visibili e invisibili) determinavano il presen- te dell’oppressione, dello sfruttamento, dell’ingiusti- zia. La critica ha continuato a predicare le sue verità nascoste – purtroppo ad essa non ha fatto seguito nessuna presa del Palazzo d’Inverno né tantomeno la coscienza di classe diffusa, l’autonomia operaia, la sovversione, o, come diceva Marx, “l’abolizione dello stato di cose presente”. Le cose sono senz’altro più complesse e articolate di quanto questo pezzo possa argomentare (che poi dev’essere breve ed efficace, altrimenti non verrà letto. Altro problema della critica: il suo linguaggio da iniziati, la sovradeterminazione di ogni termine usato, in codice per chi sa, e capisce l’ammiccamento, gli altri non meritano.) Certo è che alla radicalità (linguistica, politica, culturale) di quella critica – che è sempre anche critica sociale[1] – ha fatto seguito una sua sconcertante irrilevanza. Più è radicale meno è efficace. Più è radicale, però, più è contenta di sé. Gli effetti di questa irrilevanza sono, almeno per chi ci tiene agli intenti emancipativi di ogni sapere (come chi scrive), duplici: da una parte un arrocca- mento sdegnoso e sdegnato, pessimista sul presen- te e nostalgicamente attaccato alle identità politiche di un tempo, a quel Novecento che non c’è più, ma che viene pietrificato, ossificato, trasformato in fossile (orientalizzato, direbbe Edward Said, ma qui sto ca- dendo nel tranello dell’intellettualismo che vorrei cri- ticare), ossia escluso dalla storia, rivendicato come il tempo delle vere contrapposizioni, delle vere identità politiche, delle vere lotte per l’uguaglianza, dei veri movimenti antagonisti. Come se ci fosse un passato che non muta al mutare del presente che lo segue. Il Novecento come preistoria. Dall’altra, una incapacità di provare entusiasmo, fe- licità, speranza per ciò che si mostra, ciò che continua ad accadere nella realtà (perché le cose accadono, la storia si muove) e che ha dell’emancipativo, del posi- tivo, del nuovo. Insomma, una sorta di atteggiamento dogmaticamente sospettoso verso tutto, perché die- tro ogni manifestazione del nuovo si può nascondere il Satana multiforme del neoliberismo: Greta Thunberg 2
è una ragazzina eterodiretta, l’esempio lampante di un essere umano trasformato in marchio dal capitale. I Fridays for future sono solo l’espressione giovanile di una cultura mediatica completamente inconsapevole delle vere dinamiche di sfruttamento della natura fat- ta dalle grandi corporation. Le Sardine un fenomeno nato sui social, effimero, buonista, moderato, incon- sistente e privo di qualsiasi agenda politica. Manca a queste istanze, secondo il sopracciglio aggrottato del critico o della critica, la serietà, la cattiveria, la prepa- razione, la consapevolezza. Non ci può essere politica seria senza un sapere critico serio. Sarà per questi motivi (ma altri potrebbero essere elencati) che, come afferma Mariano Croce, anziché farsi portatrice di una spinta trasformativa, la critica sarebbe paradossalmente connivente con un man- tenimento ambiguo dello status quo: “la critica per un verso oscura e travisa i fenomeni che osserva e per l’altro accentua (o persino determina) le storture sociali che denuncia”[2]. Detto altrimenti, l’apparente immobilità dell’oggi se da una parte ha avuto i suoi gloriosi rappresentanti nei teorici della fine della Storia e nei celebratori dell’eterno presente della prosperità occidentale, dall’altra essa sembra essere appunto sostenuta da coloro che attraverso l’esercizio costan- te e pervasivo di un atteggiamento critico e sospetto- so, cinico e distaccato, inibiscono atteggiamenti af- fettivi differenti, positivi e propositivi, riconducendoli tutti, sempre e comunque, alla cornice di un regime di potere/sapere neoliberale che mira a investire, per sfruttarli, gli aspetti più intimi, emotivi, relazionali della soggettività. Certo il neoliberismo esiste, così come esiste un “realismo capitalista”[3] che predica ormai da un tren- tennio che “there is no alternative” a questo mondo del consumo, della competizione come modello rela- zionale, dell’economia estrattiva, della medicalizzazio- ne del disagio e della psicologizzazione della devianza (ecco che ricado nel gergo, ma detto semplicemente ciò significa: “se sei sfigato è per colpa tua, se sei povero è perché non hai voglia di lavorare, se sei un ‘loser’ è perché non hai rischiato abbastanza”), della 3
diffusa solitudine che si trasforma in estraniazione e necessariamente in infelicità. Noi che aderiamo all’ipotesi – ma più che un’ipotesi è una sfida – della postcritica siamo convinte e con- vinti che non si combatte il neoliberismo con le vec- chie armi della critica. Essa rischia, pericolosamente, di confermare l’ipotesi thatcheriana del “there is no alternative”. Ci chiediamo, dunque, se sia possibile abbandonare il piglio scettico, sospettoso, incattivi- to e nostalgico, proprio di un certo discorso critico prevalente nella teoria sociale e politica, senza rinun- ciare ad una tensione trasformativa. Anzi, siamo con- vinte (e convinti, perché ad una differenza teniamo, quella sessuale) che proprio abbandonando il mood scettico-sospettoso e contrarista della critica possia- mo recuperare tensione trasformativa, abbracciando un’erotica del cambiamento. Proprio perché il discor- so critico ha bandito dal suo registro discorsivo mo- dalità affettive diverse da quelle del sospetto, del “le cose non sono così come sembrano”, si è condannata all’irrilevanza. E proprio perché non vogliamo essere irrilevanti, aderiamo alla postcritica. Che pure non è una scuola, un progetto, un partito, un movimento, ma un atteggiamento. Forse anche un ritmo. Una bossa nova, che, come la musica brasiliana ideata da Jobim, è un innesto vivificante del nuovo sul vecchio, una sua raffinata e molto sensuale rivisitazione. Dunque è un mood affettivo quello che guida la po- stcritica: uno dei suoi intenti è far riaffiorare gli affetti, che da sempre muovono l’agire. Non si tratta però di dire in che cosa consistano gli affetti, se sono veri e autentici oppure se sono eterodiretti, sfruttati dal ‘si- stema’ per fare profitto. Si tratta piuttosto, per chi fa un lavoro intellettuale, di situarsi, su un piano di oriz- zontalità, insieme agli attori sociali, per capirne le mo- tivazioni senza pretendere di spiegare a loro il senso del loro stesso agire. Nessuna avanguardia, nessuna direttiva teorica. Situandosi affettivamente nell’intrec- cio delle relazioni umane, ci si immerge nel tessuto del reale e, al massimo, si cerca di stabilire connessioni, di fare da ‘leganti’ . Ogni presa di posizione è un si- tuarsi entro un fascio di energie: tale energia, “si può 4
utilizzare per un arroccamento distante, sospettoso, presago di mali a venire per noi e per tutti. Essere critici nel senso più deleterio”, oppure ci si pone nel- la “linea delle connessioni in modo tale che l’energia eserciti la forza incrementale della moltiplicazione.”[4] Certo è che gli affetti da incrementare e moltiplicare sono gli affetti aggregativi, erotici, generativi e non quelli già troppo moltiplicati virtualmente e realmen- te dell’odio, del risentimento, della paura, dei panini calpestati. La novità della postcritica risiede quindi anche (e soprattutto) in un atteggiamento, che, come dice Rita Felski, si congeda dal cinismo, dal disincantamento, dalla pretesa che il lavoro intellettuale debba coinci- dere con il “dire no” piuttosto che con il “dire sì”. A questo congedo corrisponde invece una attenzione e una considerazione per affetti positivi e riparativi, propri di ambiti semantici di parole come “ispirazio- ne, invenzione, riconoscimento, conforto, riparazione, passione”[5]. La forma di energia proposta dalla postcritica – nel cui fascio il teorico, la teorica si può situare, cercan- do di stabilire connessioni – permette agli affetti ge- nerativi e propositivi che la filosofia da tempo fatica a cogliere, di guadagnare la superficie, di affiorare. Perché essi insistentemente si affacciano sul teatro dell’accadere, in forme carsiche, sconnesse, prive di scopi grandiosi eppure reali, concretamente attive, dinamiche, produttrici di senso per chi le agisce, indi- pendentemente dagli scopi che possono raggiungere. I Fridays for future, le Sardine, ma anche le piccole comunità di associazionismo, sia sociale sia culturale, che popolano i nostri territori di provincia ma rara- mente guadagnano visibilità. Vale la pena, mi pare, di cogliere, “a partire dalla posizione nella quale sto” (che poi è una nobile postura femminista, il “partire da sè”), le linee di energia dentro cui posso inserirmi, per tessere legami, avviare connessioni, potenziando quell’erotica del legame che il nostro tempo ha dimen- ticato trasformando ogni erotica in consumo osceno di corpi. Uno dei principali elementi generativi della postcri- 5
tica è proprio questa apertura all’accadere, senza so- spetto, estranea ad ogni postura ‘preventiva’ che rifiu- ta la realtà. Penso che ‘accadere’ sia proprio una pa- rola postcritica – sono felice che esista questa parola, interrompe l’autoreferenzialità della filosofia come cri- tica, la silenzia. Permettetemi di fare una connessione, forse forzata: accadere si dice in inglese “to happen”, ed è proprio la happiness del to happen che dovrem- mo essere in grado di saper cogliere, senza sospetti di infiltrazioni delle spie neoliberiste, quando le per- sone si ritrovano insieme – in piazza, in una stanza, in un corteo, un’assemblea, una riunione. La felicità pubblica dello stare insieme viene prima di ogni riven- dicazione, di ogni progetto, di ogni agenda politica, di ogni conflitto. C’è un elemento sorgivo, direbbe Adria- na Cavarero, nel ritrovarsi insieme in una piazza, che testimonia di una origine non utilitaristica della politi- ca, bensì innanzitutto affettiva[6]. Gli scopi dell’agire politico (comune, collettivo, plurale) sono sempre se- condari rispetto al piacere, alla gioia, alla felicità dello stare insieme. Come dice Hannah Arendt, chi fa la rivoluzione scopre la libertà nell’atto stesso della libe- razione[7]. Non è la liberazione (e la violenza che la ac- compagna) il momento decisivo della rivoluzione, ma la libertà, l’accadere miracoloso dell’iniziare qualcosa di nuovo insieme ad altri, l’accadere partecipativo che abbiamo ormai scordato di chiamare politica. Se non prestiamo occhi ed orecchi a questa erotica che sta al fondamento della democrazia, faremo vincere altri affetti, assistendo inermi alla polarizzazione fra un af- fetto dell’incattivimento incrementale e un affetto del cinismo compulsivo, del disincantamento come unico accesso alla verità.[8] Postcritica è un venire dopo la critica, perché di necessità, come dice ancora Felski, “è una questione di modi di pensare che non ci sorprendono più, e allo stesso tempo bloccano altri percorsi in quanto ‘insuf- ficientemente critici’. Ad un certo punto la critica non ci porta più da nessuna parte”[9]. Farò, in conclusione, un esempio di come possa funzionare la postcritica come prospettiva analitica e affettiva ad un tempo, facendo riferimento ad una 6
ricerca di stampo sociologico ed etnografico che ho di recente supervisionato. La ricerca si occupa delle procedure per la richiesta del diritto d’asilo a migran- ti LGBTQ, condotta anche sul campo, con operatori del settore e richiedenti, e mette in evidenza come il dispositivo di accoglienza umanitaria sia – come tut- ti i dispositivi giuridici – spesso duro e violento nel suo funzionamento. I metodi dell’intervista fatta dalle commissioni territoriali al fine di capire se il richieden- te dice la verità e ‘merita’ la protezione internaziona- le sono spesso approssimativi, mettono in atto una violenza simbolica nei confronti dei richiedenti asilo che porta a rendere ancora più vulnerabili i richiedenti stessi. Il ricercatore, la ricercatrice può, in una pro- spettiva critica, elencare tutti i luoghi in cui la violenza simbolica si attua, analizzare con precisione il fun- zionamento dei dispositivi giuridico-istituzionali che rendono il processo di richiesta d’asilo un percorso sofferente, ingiusto, violento appunto. Ma se la ricerca si limita a questo approccio critico che ne sarà di quei soggetti che proprio al dispositivo di asilo fanno rife- rimento per riappropriarsi di una vita vivibile? Che ne sarà degli investimenti affettivi dei richiedenti stessi, delle loro speranze, delle loro aspirazioni future? La prospettiva postcritica cerca invece di tessere lega- mi, di mettere in connessione i soggetti e i processi che li determinano. La postcritica, in altre parole, non considera i dispositivi di potere, le istituzioni, come oggetti alieni calati dall’alto, verità rivelate, ma pro- dotto umano, dentro il quale gli umani agiscono, si muovono, modificano quelle stesse istituzioni. Al fine di non feticizzare i dispositivi di governo come enti- tà sovrannaturali contro le quali si può solo agire la critica e resistere, e proprio perché soggetti e poteri stanno assieme in una dimensione relazionale, è indi- spensabile prendere atto delle potenzialità creative e propositive che tale relazionalità ci consegna. Posso- no esserci storie di accoglienza e di rifiuto, e la ricer- catrice, il ricercatore che si trova davanti a tali storie può in maniera postcritica, far emergere non solo al violenza e la discriminazione, ma anche le potenzialità creative che emergono quando sono in gioco i corpi, 7
i loro affetti, i loro desideri. Ci sono storie di connes- sioni possibili, appunto fra corpi e desideri, che anche un processo violento e ingiusto come quello dell’in- tervista e della richiesta d’asilo fanno accadere.[10] Abbiamo il dovere – perdonatemi, questo è ancora un moralismo che risente molto della critica – di farci moltiplicatrici e moltiplicatori di tali connessioni. Post-scriptum: concludevo questo testo il 27 feb- braio 2020. Reputo necessaria una postilla a quanto detto. Il dilagare della pandemia da Covid-19 ci ha messo di fronte in maniera inaudita alla concretezza del nostro essere connessi, interrelati, reciprocamente dipendenti (nel bene e nel male). Abbiamo visto incar- narsi, al di là di ogni immaginazione, concetti che la critica ha, negli anni passati, usato prepotentemente, ma sempre e solo in senso metaforico (contaminazio- ne, contagio, ibridazione, immunità). Una riflessione postcritica si chiede appunto se i nomi esauriscano le cose, se le metafore dicano, possano dire, tutta la verità sui processi, o se invece siano dispositivi che a volte anziché svelare occultano, selezionando porzioni di realtà a loro piacimento. Cosa intendeva- no dire quei concetti, prima della pandemia? Erano trasfigurazioni, eleganti e apparentemente efficaci, di processi biologici in processi politici. Erano concet- ti ‘critici’ che speravano di svelare verità nascoste. Forse lo hanno fatto, sono stati efficaci strumenti di comprensione della società, del potere (il paradigma immunitario, la nuda vita, la biopolitica, e di converso la contaminazione, l’ibridazione come auspicabili oriz- zonti trasformativi dell’eurocentrismo di certa teoria). Oggi la pandemia esaurisce del tutto la pretesa non tanto che quei concetti possano funzionare, quanto che possano essere usati metaforicamente. E il loro essere oggi “nome vero della cosa” – nel senso in cui Guido Calogero definiva il “pensiero arcaico” parlando dei presocratici – ribalta, capovolge del tutto la loro funzione critica. Oggi dicono cose diverse, quelle pa- role. Qualsiasi cosa la parola autorevole del filosofo sen- tenzi, c’è una realtà molecolare che pretende ascolto: ci sono – realmente – alveoli polmonari colpiti dal virus 8
che devono essere ossigenati lentamente e costan- temente al fine di rendere ancora possibile il respi- ro. Questi alveoli sono parti essenziali di corpi che occupano letti di terapia intensiva, i quali non sono sufficienti per tutti. Si decide quindi l’isolamento per evitare il sovraffollamento dei reparti di emergenza, per scongiurare l’impossibilità di permettere ai polmo- ni di tutti i malati di venire ossigenati. Si decide quindi la restrizione di libertà per poter curare delle vite, per non dover scegliere tra vite degne di essere vissute e vite sacrificabili. Chi può stabilire quali vite siano de- gne e quali no? Una – forse inevitabile, in assenza di lockdown – distinzione tra chi è sacrificabile e chi no ci avrebbe avviato sulla pericolosa strada, quella sì, della selezione biologica, della nuda vita. La materialità corporea – quel corpo che noi tutte e tutti siamo – sembra ora rifiutare le metafore che lo trasfigurano. Alveoli polmonari, questi sconosciuti – la loro fame d’aria è l’orizzonte di senso nel quale dobbiamo per ora muoverci, senza trasfigurare. Così come immunità è ora condizione auspicabile, realtà anticorpale a cui tutti vorremmo avere accesso. E ibridazione o contaminazione sono invece condizio- ni da rifuggere, perché estremamente pericolose per l’organismo. Ma l’orecchio critico non è disposto ad ascoltare il richiamo dell’organico, e per questo falli- sce nel cogliere il nuovo della pandemia, lo riporta a schemi noti, orizzonti rassicuranti (stato di eccezione, biopolitica, nuda vita). La prospettiva postcritica suggerisce altresì che nella risposta umana – quindi culturale, sociale, poli- tica – a questa pandemia limitarsi alla critica signifi- chi abdicare a una responsabilità verso il mondo, per amore, fedeltà, attaccamento verso le proprie gri- glie interpretative. Singifica, come direbbe Heinrich Blücher, mantenersi codardamente solo nell’orizzonte del pessimismo. Certo è implicita nell’attuale situazio- ne la potenziale risposta autoritaria, il rigurgito fascista sempre latente nelle società spoliticizzate della tarda modernità: società indifferenti alla partecipazione po- litica, fatte di persone per la maggior parte politica- mente disinteressate, che sono il prodotto, direbbe 9
ancora Hannah Arendt, di un modello di pensiero che già dalle sue origini, in Platone, presuppone una di- stinzione necessaria tra governanti e governati, tra chi comanda e chi obbedisce, con conseguente adora- zione consapevole e inconsapevole per il conducator. Tuttavia, nell’attuale situazione è implicita anche un’altra tendenza – chi la definisce sdolcinata, chi patetica, chi retoricamente patriottica, allontanando criticamente da sè come una “peste” qualsiasi pos- sibile adesione a sentimentalismi popolari – un’altra risposta. È la risposta di solidarietà, di comunanza, di vicinanza fisicamente sospesa ma emotivamente prossima delle molte istanze di aiuto, di cura, di canto e di poesia che in questi giorni di lockdown abbiamo visto fiorire. Si potrebbe dire, parafrasando Benjamin, che l’umano diventa significativo nelle “stazioni del suo decadere”, come la storia del mondo nel Trauer- spiel tedesco (qui sto sprofondando nella citazione di maniera, ma non resisto alla pulsione). E le stazioni del suo decadere sono i momenti del fallimento, della sofferenza, della percezione di una vulnerabilità indif- feribile. Purtroppo – e questo è un segno altrettanto chiaro della nostra abitudine critica – tale somiglian- za siamo disposti a riconoscerla in tutta la sua nuda incontrovertibilità solo nel “caso serio” della morte, nella sua ravvicinata possibilità. Oggi più che mai que- sta categoria – la vulnerabilità – si è materializzata, si è fatta carne, come il Cristo. Oggi più che mai tale categoria è una condizione comune (perché tutte e tutti abbiamo alveoli polmonari). Ma proprio perché la morte non rimanga l’unico orizzonte in cui ci percepia- mo uguali (“‘a livella”) auspico che questo momento faccia emergere l’occasione per trasformare, come la riflessione femminista dice da anni, tale vulnerbaili- tà in risorsa, azzardando una torsione positiva della comunanza, e magari provando a considerare altre cornici per dire l’uguaglianza e la libertà (la nascita, la felicità pubblica, la democrazia sorgiva). Le connes- sioni possibili oggi sono molte, e la postcritica ci aiuta a immaginarle, a dare loro voce e dignità teorica. Le canzoni dai balconi non sono una dolciastra e pateti- ca espressione dell’italiano medio, ma, come ha detto 10
Bonnie Honig, una “serenata per la democrazia”[11]. E se ogni serenata è un canto all’amata che non c’è, così anche il nostro cantare, insieme ma lontani, dai balconi come dalle bacheche di Facebook, esprime il desiderio di relazione, il desiderio di toccarci e di parlarci, il desiderio democratico di stare insieme pro- prio nel momento in cui la relazione è impossibile. Chi avrebbe mai detto che le nostre società spoliticizzate e individualiste, comsumiste e neoliberiste, avrebbero scoperto, proprio nel divieto della relazione e della socialità, l’insostituibile “pleasure in the company of others”? In ogni avvenimento collettivo la dimensione erotica della socialità fa la sua comparsa, balugina, ma la forma che prenderà non è mai scontata: essa può diventare generatività democratica ma può anche de-generare nella pusione totalitaria. Sta ovviamente a noi, a tutte e tutti noi, trovare le parole che dicano questo desiderio, per immaginare forme nuove in cui esso possa diventare per tutte e tutti – non solo per alcuni, in genere coloro che si autconvocano nella posizione di comando – piacere. OLIVIA GUARALDO NOTE [1] Cfr. Natascia Tosel, “La vita bassa. Per una postcritica molecolare”, prossimamente in questa indagine. [2] Mariano Croce, “Etnografia della contingenza: postcritica come ricerca delle connessioni”, Politica e società, 1, 2017: 81-104, p. 82. [3] Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma, 2018. [4] Mariano Croce, Postcritica. Asignificanza, materia, affetti, Quodlibet, Macerata, 2019, p. 82. [5] Rita Felski, The Limits of Critique, The University of Chicago Press, Chicago 2017, p. 17. [6] Adriana Cavarero, Democrazia sorgiva, Cortina, Milano, 2019. [7] Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino, 2009. [8] Ho trattato di questo argomento in “Illusione e realtà nell’epoca della post-verità”, in Giulia Bistagnino, Carlo Fumagalli (a cura di) Fake news, post-verità e politica, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2019, pp. 33-52. [9] Felski, The Limits of Critique, cit., p. 9. [10] Olivia Guaraldo, “Fra corpi e storie: ambiguità e potenzialità del disposi- tivo SOGI”, in Massimo Prearo, Noemi Martorano (a cura di), Migranti LGBT. Pratiche, politiche e contesti di accoglienza, ETS, Pisa, 2020. [11] Bonnie Honig, In the Streets a Serenade, 14/03/2020 http://politicssla- shletters.org/uncategorized/in-the-streets-a-serenade/ 11
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