19 APRILE - UFFICIO STAMPA - Provincia Regionale di Ragusa

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UFFICIO STAMPA

19 APRILE
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Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA   19 APRILE 2019

                               LA SICILIA

                                 SEGUE
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                                 G.D.S.
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La Sicilia ostaggio dell’inadeguatezza politica. Una riforma monca e la mancata riorganizzazione
burocratica di Enti fondamentali che pendono sulla testa dei cittadini. Ad aggravare il quadro, i tagli
lineari alla spesa, che in sei anni – dal 2012 al 2018 – hanno sottratto circa 1 miliardo e 700 milioni di
euro alle ex Province regionali.

Ecco perché oggi Città Metropolitane e Liberi Consorzi di Comuni siciliani sono sull’orlo del default
(qualcuno ha già dichiarato il dissesto), a seguito “dell’interruzione del processo riformatore che –
secondo quanto riportato dalla Corte dei Conti – ha cristallizzato uno stato di grave precarietà
istituzionale e finanziaria”.

La legge Delrio avrebbe dovuto riorganizzare gli Enti di area vasta, ma la riforma è rimasta incompleta.
L’impianto generale della legge (56/2014), pur resistendo alla “tempesta” del Referendum costituzionale
del 4 dicembre 2016 e ricevendo il placet da parte della Corte costituzionale, non è riuscita a
raggiungere l’obiettivo di dare un nuovo e funzionale assetto alle Province.

In Sicilia, il processo di riordino istituzionale degli Enti di area vasta ha trovato una prima e compiuta
disciplina con La legge regionale 15/2015, recante “Disposizioni in materia di liberi Consorzi comunali
e Città metropolitane”. In luogo delle soppresse Province regionali, sono così stati istituiti sei Liberi
Consorzi comunali (Agrigento, Caltanissetta, Enna, Ragusa, Siracusa e Trapani), nonché tre Città
metropolitane (Palermo, Catania e Messina). Cosa è rimasto da allora, dopo anni di commissariamento,
e numerosi tentativi della Regione di organizzare tali Enti? Quello che l’Associazione nazionale dei
Comuni siciliani ha più volte definito “Uno stato di calamità istituzionale”.

Si, perché oltre alle questioni istituzionali occorre tener conto anche di quelle economiche. Un taglio
della spesa lineare e non mirato ha infatti dilaniato gli Enti di area vasta. In sei anni, dal 2012 al 2018,
l’Isola ha subito tagli per circa un miliardo e settecento milioni attraverso l’emanazione di tre
provvedimenti nazionali: il dl 95/2012 (convertito in legge 135/2012) e il dl 66/2014 (legge 89/2014);
articolo 1 comma 418 della legge 190/2014, che ha previsto il concorso alla spesa pubblica del comparto
“Enti di Area vasta” attraverso la riduzione della spesa corrente pari a un miliardo di euro per l’anno
2015, 2 miliardi per l’anno 2016 e 3 miliardi a decorrere dal 2017.

La legge ha anche previsto un sistema di recupero coattivo: in caso di mancato versamento, infatti,
l’Agenzia delle entrate provvede al recupero delle somme dovute attraverso la riscossione dei
versamenti effettuati a titolo di imposta Rc Auto, ovvero, in caso di incapienza, a opera dell’Aci e a
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valere sui versamenti dell’Ipt (Imposta provinciale di trascrizione). Un “prelievo forzoso” che senza gli
interventi compensativi di ristoro previsti si è di fatto trasformato in “omicidio forzoso”.

“Questo meccanismo – spiega il consigliere della Corte dei Conti Rinieri Ferone, interpellato dal QdS –
non ha funzionato perché lo Stato ha tolto prima i soldi e poi ha operato con grave ritardo
l’alleggerimento della spesa. Mentre per le Regioni a statuto ordinario sono stati attivati interventi
compensativi, per la Regione siciliana i ristori non sono stati mai effettuati, determinando un grave
deficit nei bilanci degli Enti di area vasta”.

Secondo il consigliere, estensore della relazione presentata dalla Corte dei Conti al Parlamento
nell’ambito dell’esame al Ddl Germanà (“Disposizioni per il recupero di mancati trasferimenti erariali
agli Enti locali della Regione siciliana”), i tagli hanno generato forti ripercussioni sugli equilibri
finanziari, in particolare per gli Enti strutturalmente più deboli. “Se i ristori fossero stati effettuati –
prosegue – la crisi finanziaria sarebbe stata attenuata. Il problema è che è stato tolto più di quanto poi è
stato rimborsato, determinando uno squilibrio rispetto ai bilanci degli Enti di area vasta delle Regioni a
statuto ordinario e un grave deficit tra entrate e spese degli Enti di area vasta siciliani”.

Nel 2018, il deficit di bilancio dell’intero comparto sfiora complessivamente i 118 milioni di euro. Tra
gli Enti con più alti livelli di deficit ci sono la Città Metropolitana di Catania il cui disavanzo ammonta a
più di 22 milioni, e il Libero consorzio di Siracusa (già in dissesto), dove le spese superano le entrate di
20 milioni di euro. Tutti, comunque, sono sull’orlo del baratro, come sottolinea lo stesso Ferone quando
ricorda che “il deficit è l’anticamera del dissesto”.

Per cercare di mettere una pezza alla precarietà finanziaria degli Enti di area vasta, la Regione ha avviato
un dialogo con lo Stato a seguito del quale si è giunti alla stipulazione di due accordi, siglati
rispettivamente il 12 luglio 2017 e il 19 dicembre 2018: con il primo è stato previsto il concorso
finanziario da parte della Regione in favore degli Enti di area vasta per un importo pari a 70 milioni di
euro, aggiuntivi al rendiconto 2016; con il secondo accordo, siglato dal ministro dell’Economia e delle
Finanze, Giovanni Tria, e dal presidente della Regione Sicilia Nello Musumeci, si prevede un contributo
a carico dello Stato e in favore della Regione pari complessivamente a 540 milioni di euro da destinare
ai Liberi consorzi e alle Città metropolitane per le spese di manutenzione di strade e scuole, da erogare
in quote di 20 milioni per ciascuno degli anni 2019 e 2020 e di 100 milioni annui a decorrere dal 2021
fino al 2025.

Intervista al segretario generale dell’Associazione dei Comuni, Alvano

Un voto ritenuto inutile: “Che senso ha mettere in moto una macchina che non funziona?”
A giugno le elezioni di secondo livello ma l’AnciSicilia è pronta a ribellarsi

PALERMO – La mancata definizione di una riforma generale degli Enti di area vasta siciliani ha
comportato uno slittamento dell’insediamento degli organi istituzionali e soprattutto, per i Liberi
Consorzi comunali, una proroga delle gestioni dei commissari straordinari (al contrario, i sindaci
metropolitani di Catania, Palermo e Messina, gli stessi delle città capoluogo, si sono insediati il 31
maggio 2016). Ora, le elezioni di secondo livello sono alle porte. Sempre che, prima di giugno, non si
verifichi l’ennesimo stravolgimento.
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Intanto, l’Associazione nazionale dei Comuni siciliani (AnciSicilia) ha chiesto che la questione venga
fatta propria anche dall’Anci nazionale, per cercare una soluzione che, allo stato attuale, sembra
peggiorare di mese in mese. Abbiamo chiesto al segretario generale dell’associazione siciliana, Mario
Emanuele Alvano, maggiori chiarimenti.

Qual è la posizione di AnciSicilia in merito alla situazione di “calamità istituzionale” in cui
versano i Liberi Consorzi e le Città metropolitane dell’Isola?
“Il quadro è molto chiaro: le elezioni non si tengono da cinque anni e gli Enti di area vasta versano in
una situazione di difficoltà finanziaria. Serve una soluzione definitiva per poter approvare i bilanci
biennali e predisporre una programmazione delle risorse triennali. Ma se non c’è la certezza di entrate,
procedere a elezioni diventa poco agevole perché si tratta di andare ad amministrare Enti con criticità
profonde. Inoltre, servirebbe indicare risorse significative per la spesa in investimenti: per strade, scuole
e riqualificazione urbana”.

Le risorse, quindi, sono insufficienti. Perché?
“Le risorse ci sarebbero pure. Ma il problema è che non si possono spendere perché non c’è la
possibilità di chiudere i bilanci. Non c’è certezza di entrate”.

Quanto hanno influito i tagli operati dal Governo nella crisi finanziaria degli Enti di area vasta?
“Su questo punto condividiamo pienamente la relazione della Corte dei Conti. In maniera precisa
ribadisce una questione già emersa: c’è un rapporto diretto tra la crisi finanziaria e i tagli operati dal
Governo nazionale”.

Lunedì scorso era in programma un incontro tra Stato e Regione per giungere a un ulteriore
accordo per favorire la risoluzione della questione giuridica e finanziaria. È stato raggiunto?
“Non abbiamo notizie a riguardo. Da parte nostra, abbiamo partecipato a due incontri al ministero Affari
regionali, ma riguardavano la condizione finanziaria e le modifiche normative che consentissero agli
Enti di approvare i bilanci. Al momento nessuno ha approvato il Bilancio di previsione, forse solo due
enti. Diciamo che c’è un problema operativo. Il tema è quante risorse deve mettere lo Stato e quante la
Regione. Perché le Province non hanno risorse proprie o, se ne hanno, sono insufficienti e irrisorie”.

Il prossimo 30 giugno si terranno le elezioni di secondo livello. Se la situazione non cambia, quali
sono le iniziative che AnciSicilia vuole mettere in campo?
“Inviteremo gli amministratori siciliani a disertare la competizione elettorale. Inoltre, abbiamo chiesto
300 milioni di euro e una decretazione d’urgenza entro il prossimo 30 aprile affinché già a partire dai
prossimi mesi le Province possano godere di piena operatività. Non si può parametrare il fabbisogno
delle Province alla spesa degli ultimi anni. Questa è legata alla mancanza di risorse. La nostra posizione
sulle elezioni, molto critica, dipende proprio da questo. Bisogna capire se vogliamo Enti che tirino a
campare o che possano svolgere un ruolo concreto. Non c’è un quadro di certezza. Che senso ha mettere
in moto una macchina che non funziona?”.

Avete novità dalla Regione in merito alle vostre proposte?
“Al momento non abbiamo alcuna novità, ma speriamo in un ulteriore incontro con il Governo regionale
con cui ci confronteremo anche su questo”.
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Il dossier
Il business del vento

Una torta da dieci miliardi porte aperte a furbi e
boss
CLAUDIO REALE

Un giro d’affari di almeno 10 miliardi. Uno scontro fra gli uffici della stessa Regione. E un settore nel quale per anni si sono
lasciate le porte agli avventurieri, oltre che a interessi esplicitamente criminali. Basta un dato su tutti, che qualche giorno fa
l’assessorato ha esplicitato presentando il nuovo piano energetico: fra il 15 e il 20 per cento degli impianti di tutta Italia in
procedura concorsuale — cioè a ridosso del fallimento — si trova in Sicilia.
Contributi generosi
Effetto di un settore nel quale per anni le maglie dei contributi pubblici sono state troppo larghe: se adesso gli incentivi
vengono riconosciuti in modo proporzionale all’energia effettivamente prodotta sia dal fotovoltaico che dall’eolico, fino al
2003 gli impianti che sfruttano l’energia del vento potevano accedere ai contributi in base alla potenza installata, cioè in base
all’investimento iniziale. Così, in molti casi, le pale nascevano in giro per la Sicilia, ma in poco tempo si fermavano: costruire
era più remunerativo che far funzionare gli impianti.
Ovviamente, però, non sempre si è trattato di raggiri: «A volte — dice Mario Pagliaro, consulente dell’assessore Alberto
Pierobon — le aziende che hanno installato impianti eolici si sono ritrovate con un investimento poco remunerativo, e quindi
hanno chiuso naturalmente».
Il mercato delle licenze
A questi elementi si aggiunge un fattore più legato alle speculazioni. «Il valore di una società che ha un’autorizzazione per
l’eolico o per il fotovoltaico — ragionano all’assessorato — aumenta considerevolmente.
Così, nel tempo, c’è chi ha pensato di creare un mercato parallelo delle licenze». Ai tempi della presidenza di Raffaele
Lombardo, così, fu inserito un vincolo: stop al mercato delle autorizzazioni, con la possibilità di cedere semmai l’impianto una
volta pronto. Il paletto, però, può essere aggirato vendendo l’intera società, che a quel punto può essere una scatola vuota con la
sola licenza all’interno. «Negli anni — osserva un tecnico che alla Regione segue il settore da tempo — una buona parte della
autorizzazioni è stata concessa a società che non erano materialmente in grado di costruire l’impianto».
Un settore da 50mila impianti
Proprio su questi due fronti lavora l’assessorato. Che la settimana scorsa ha presentato il nuovo Piano energetico, annunciando
per bocca dell’assessore Alberto Pierobon investimenti per oltre 15 miliardi da far piovere in Sicilia nei prossimi anni. Uno dei
punti è proprio la rinascita degli impianti fermi: stop alle nuove pale eoliche, paletti fittissimi sul fotovoltaico. Anche perché il
settore straripa già di strutture: gli impianti che sfruttano l’energia del vento, anche micro, sono 863, per una potenza di 2,8
miliardi di kilowattora che fa della Sicilia la seconda regione d’Italia nel settore, mentre sul fotovoltaico le strutture sono
addirittura 49.796 (in molti casi piccolissimi) per una potenza di 1,9 miliardi di kilowattora (quinto posto in Italia).
Scontro sulle autorizzazioni

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Il punto è che però i nuovi investimenti promessi da Pierobon non sono un’utopia.
Negli ultimi mesi, infatti, in Sicilia sono scesi in campo i big del settore: il colosso cinese Canadian, quinta potenza del
fotovoltaico al mondo, fra pochi mesi inaugurerà cinque impianti in provincia di Agrigento, mentre Erg Renewables ed Enel
Green Power stanno investendo sul potenziamento delle proprie strutture nell’Isola. In questo scenario è maturato uno scontro
su chi debba dare le autorizzazioni, che al momento transitano sia dal dipartimento Energia che dal Territorio: la giunta, alla
fine del mese scorso, ha deciso di far passare gli incartamenti al secondo dipartimento, ma il primo si oppone sostenendo che il
doppio passaggio garantisca trasparenza. Così, al momento, al Cga giace una richiesta di parere sulla questione, con un
fascicolo che negli ultimi giorni si è arricchito delle due memorie contrapposte dell’Avvocatura e del dipartimento Energia.
Intanto, però, tutto è bloccato: dalla Re Wind che vuole investire a Ribera alla Idroelettrica Fiume Sangro che vuole farlo a
Mazara del Vallo, fino alla E-on climate (Alcamo) o alla Idea Immobiliare (Naro). Una guerra che si muove sotto traccia, in un
settore che vale oro. E che negli anni non è riuscito a chiudere le porte agli affaristi.
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Quartier generale
Il palazzo di viale Campania dove ha sede l’assessorato regionale all’Energia

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Il retroscena
Le tangenti alla Regione

Affari e sospetti la questione morale assedia
Musumeci
Assessori indagati, burocrati sotto accusa Imbarazzi e silenzi del "fascista perbene"

EMANUELE LAURIA

Si era presentato con l’etichetta antica di "fascista per bene" e con l’esperienza di presidente della commissione Antimafia
regionale sintetizzata in migliaia di manifesti: per tutti, poco meno di due anni fa, Nello Musumeci aveva semplicemente
«l’unico pizzo che piace ai siciliani». Ma il presidente della Regione, completato un terzo del suo cammino a Palazzo
d’Orleans, rischia di venire travolto — rimanendo in silenzio — dalla questione morale.
continua a pagina IV
? segue dalla prima di cronaca
Inchieste su inchieste delineano il quadro di un malaffare che si è insinuato anche nell’amministrazione della Regione: l’ultima
quella sull’eolico, che ripropone un tema non nuovo, la corruzione nella struttura burocratica degli assessorati cui compete il
rilascio delle autorizzazioni nel settore caldo dell’energia alternativa. L’indagine su presunte mazzette per velocizzare le
pratiche, al dipartimento Energia, riguarda non un periodo antico — come altre che hanno provocato arresti — ma la fase
recente del governo Musumeci. E nello stesso periodo si sarebbero verificate pressioni su due assessori — Cordaro e Pierobon
— ritenute indebite dagli investigatori. Pierobon ieri si è difeso con veemenza: «Non ho mai avuto alcun favore da questo
signore (l’ex deputato forzista Francesco Paolo Arata, ndr), non ho mai garantito alcuna utilità, non sono mai stato a pranzo,
non l’ho mai frequentato neanche per un caffè. Tra l’altro non avrei neanche il potere di farlo, le procedure sono in capo a uffici
di un altro assessorato».
L’assessore veneto, fra l’altro, dice che Arata si è dichiarato «vittima della burocrazia-lumaca» e avrebbe minacciato di
denunciare le lentezze della Regione sulla stampa. Un ricatto velato, quello cui accenna Pierobon, che si produce anche in un
elegante scaricabarile nei confronti del collega del Territorio, Toto Cordaro. Il quale, a sua volta, risponde semplicemente così:
«Arata? Me lo mandò Pierobon».
Questo il siparietto.
Ma la questione morale, come detto, è rilevante. Perché i blitz che si sono ripetuti con frequenza dall’inizio dell’anno hanno
riproposto, ad esempio, il ritorno di un legame forte fra mafia e politica. I magistrati parlano di un condizionamento delle
campagne elettorali (compresa quella delle Regionali del 2017) e non mancano gravi episodi di truffa come quelli di cui è
accusato il presidente della commissione Bilancio, Riccardo Savona. Musumeci ha quattro assessori indagati nella sua giunta, e
all’Ars ci sono sedici deputati sotto inchiesta. Sono i numeri di un’emergenza alla quale non si può rispondere semplicemente
con l’iniziativa parlamentare — peraltro ancora non fissata — di una seduta d’aula sulle indagini che investono il Palazzo della
politica siciliana.

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Né può essere esaustiva, seppur lodevole, l’inchiesta sulle infiltrazioni di Cosa nostra nel sistema dei partiti e nell’agone
elettorale annunciata dal presidente della commissione Antimafia Claudio Fava. Servono atti concreti, e finora non se ne ne
vedono: Savona, alle prese con gravi accuse, rimane al suo posto. Da parte di Musumeci non un commento né un
provvedimento nei confronti dei burocrati infedeli dell’Energia, come degli esponenti della sua maggioranza o del suo
esecutivo coinvolti a vario titolo in altre inchieste. «Parlerò in aula», fa sapere in serata il governatore.
E chissà se si soffermerà su un argomento che non ha mai amato: quello degli "impresentabili" della sua coalizione. Ieri l’altro
il presidente ha raccontato con comprensibile disappunto le affermazioni di un’insegnante che alla sua nipotina ha ricordato a
scuola che il nonno (Nello Musumeci, appunto) «ha preso i voti dei mafiosi». Però non ha spinto, il capo della giunta, per far sì
che il decreto salva-corrotti, che prevede la pubblicità sul web dei certificati penali dei candidati, fosse recepito nell’Isola.
Anche quello sarebbe stato un bel segnale, uno dei tanti che la politica siciliana (di maggioranza o di governo) si è guardata
bene dal fornire in questa cupa stagione.
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POLITICA                                                                                                            19/4/2019

Verso le Europee

Forza Italia, Pogliese guida il gruppo degli
scissionisti Voti contesi da Fdi e Lega
claudio reale

Amministratori della provincia etnea seguono il sindaco uscito dal partito. L’approdo però è ancora incerto
Mentre lo smottamento continua, i "lealisti" tentano di rinsaldare le fila. E i "ribelli" cercano apertamente una sponda alla quale
approdare. Il giorno dopo la presentazione della lista e lo strappo di Salvo Pogliese, in Forza Italia è il giorno della conta dei
danni: dopo il sindaco di Catania e il vicecoordinatore regionale Basilio Catanoso, lasciano il partito alcuni altri esponenti della
provincia etnea (fra gli altri i consiglieri comunali del capoluogo Luca Sangiorgio e Carmelo Nicotra e i sindaci di Biancavilla e
Gravina Antonio Bonanno e Massimiliano Giammusso) e la fronda cerca contatti con la Lega e con Fratelli d’Italia, ma il
presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè tenta di minimizzare lo scontro. «La candidatura di Giuseppe Milazzo – dice il leader
dei berlusconiani in Sicilia – era inevitabile. La chiedevano tutti i deputati. Punto. Non potevo chiedere ai miei deputati di
votare per un candidato che fino allo scorso anno si era candidato alle Regionali con il centrosinistra contro di noi. I malumori
ci sono forse per altro ».
Contatti con la Lega
Certo è che indietro non si torna. E già nel giorno dell’addio Pogliese – che incassa intanto la solidarietà di Maurizio Gasparri,
suo referente nazionale nel partito – ha parlato con il sottosegretario Stefano Candiani, plenipotenziario leghista in Sicilia,
mentre ieri si è visto con il responsabile Enti locali del partito di Salvini, il suo assessore Fabio Cantarella, che però all’ultimo
istante è stato escluso dalla lista "lumbard" e dunque non può fare da calamita per i voti dei transfughi forzisti. Al momento,
però, non c’è niente di concreto, per un accordo che comunque non può arrivare molto dopo Pasqua.
Le trattative con Fratelli d’Italia
Resta calda così la trattativa con Fratelli d’Italia. Che deve superare uno scoglio su tutti: l’ex sindaco di Catania Raffaele
Stancanelli, sul quale potrebbero convergere i voti del gruppo " scissionista", storicamente non gode di buoni rapporti con
Catanoso. In compenso l’accordo con Fratelli d’Italia – che potrebbe passare pure da una convergenza sul sindaco di Avola
Luca Cannata – garantirebbe a Pogliese e agli altri una maggiore visibilità rispetto a quella ottenuta in un partito in forte
crescita come la Lega, tanto più se si considera che un dialogo fra pezzi del partito di Giorgia Meloni ed esponenti di Forza
Italia si registrano anche in altre province, Messina in testa.
L’ala Cicu ridimensionata
In questo scenario esce ridimensionata l’ala del presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, che potrebbe far convergere
i propri voti sull’uscente sardo Salvatore Cicu. Ne fanno parte, almeno sulla carta, il grande escluso dalla lista, l’uscente
Giovanni La Via, il vicepresidente della Regione Gaetano Armao e la deputata Giusi Bartolozzi, compagna di Armao. A questo
punto, in Forza Italia, ci sarà probabilmente una conta della quale potrebbe beneficiare il terzo incomodo, Saverio Romano.
I "lealisti" minimizzano

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Intanto, però, Miccichè e i suoi – che invece sostengono il capogruppo all’Ars Giuseppe Milazzo – serrano le fila. «La politica
– dice il componente del consiglio di presidenza della Camera Francesco Scoma – non si fa con i ricatti. Il signor Pogliese ha
preso da tempo la via del personalismo » . A pesare, sul fronte miccicheiano, ci sono gli accordi degli ultimi giorni: lo strappo
fra Sicilia futura e il Partito democratico che potrebbe portare voti verso i berlusconiani, l’intesa raggiunta last minute con gli
autonomisti, che si conteranno facendo convergere i propri voti su Giorgia Iacolino e l’asse con Db di Nello Musumeci. La
partita è ancora aperta. E a questo punto il risultato si conterà il 27 maggio. Il giorno dopo il voto europeo: perché i conti,
adesso, si fanno sul filo delle preferenze.
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Miccichè, Armao, Pogliese e Berlusconi in una convention etnea del 2017 Sotto, il commissario della Lega in Sicilia Stefano
Candiani

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CRONACA                                                                                                                 19/4/2019

La mappa

Tutto chiuso per il superponte uffici svuotati,
niente piscina
Sportelli pubblici a ritmo rallentato tra boom di ferie, orari ridotti e assenze strategiche

tullio filippone

Il più lungo sarà quello delle scuole, che, in alcuni casi, non riapriranno prima di giovedì 2 maggio, dopo quasi due settimane di
vacanza. Ma per una settimana almeno rallenteranno anche alcuni uffici pubblici, comunali e regionali, tra orari ridotti, qualche
disinfestazione strategica e le ferie dei dipendenti. Anche a Palermo e in Sicilia, il calendario con la Pasqua " alta" del 21 aprile,
a pochi giorni dal 25 aprile, ha allungato come non accadeva da anni la riduzione delle attività didattiche e le "tentazioni" di
concedersi uno o due giorni di ferie per fare un lungo ponte.
Niente scuola per 10 giorni
Da ieri, oltre 100mila tra bambini e studenti delle scuole palermitane sono "ufficialmente" in vacanza. Le classi però resteranno
chiuse per molti giorni ancora, quanto la pausa natalizia. Secondo il calendario scolastico regionale, le vacanze si concludono il
25 aprile, includendo i due giorni che separano il lunedì 22 di Pasquetta dalla festa della Liberazione. Ma al grosso delle scuole,
forti della settimana " corta" con il sabato libero, è bastato aggiungere il venerdì 26 per creare un ponte fino al lunedì 29 aprile.
È il caso, per citarne alcune, del liceo classico Garibaldi, del Garzilli e degli istituti comprensivi Marconi e Rita Atria, dove i
consigli d’istituto hanno deliberato la sospensione delle attività didattiche per il venerdì 26 aprile e nel caso del Garibaldi anche
per sabato 27 aprile. Altri, come consente il regolamento, si sono spinti oltre, aggiungendo altri tre giorni fino al primo maggio.
Totale 14 giorni di vacanza. A Palermo hanno scelto questa opzione il liceo classico Umberto e gli scientifici Galilei, Benedetto
Croce e Basile, e l’istituto comprensivo Sferracavallo- Onorato, con classi di scuola d’infanzia, primaria e media. Una scelta
consentita dal fatto che le lezioni sono iniziate il 12 settembre con chiusura l’ 11 giugno, con la possibilità per gli istituti
autonomi di gestire 10 giorni ( 11 a Palermo, dato che la festa di Santa Rosalia, cade in estate).
Assemblee e disinfestazioni
Il giorno più strategico è sicuramente venerdì 26 aprile, a cavallo tra la Liberazione e il weekend, ideale per la disinfestazione o
un’assemblea sindacale. Si fermerà per la pulizia l’assessorato regionale alla sanità, che quindi resterà chiuso dal 25 al 28
aprile. Scelta identica per l’Ersu, l’ente regionale del diritto allo studio, che da oggi a Pasquetta ha anche chiuso le mense
studentesche di Santi Romano, Santissima Nunziata e San Saverio. Il dipartimento della Famiglia e delle politiche sociali e
quello della funzione pubblica e del personale anticiperanno il rientro obbligatorio dal 24 al 23 aprile. A Palermo, invece, il
dirigente del settore scuola, con una nota ufficiale, ha comunicato che l’assemblea sindacale del 26 aprile, potrebbe causare
disservizi agli asili nido e scuole dell’infanzia e far slittare il ricevimento delle unità didattiche della sede di via Notarbartolo.
Sportelli a rilento
Ma non si fermano solo le scuole. In tutta la prossima settimana procederanno a ritmi ridotti a causa delle ferie anche alcuni
uffici comunali e qualcuno sospenderà o ridurrà i ricevimenti. Per esempio il servizio dignità dell’abitare di viale Regione
Siciliana non riceverà per tutta la settimana, mentre l’ufficio per il cambio di domicilio per gli stranieri sarà chiuso dal 23 al 30

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aprile. I piani ferie della settimana caldissima potrebbero ridurre il servizio di alcuni sportelli molto frequentati, come quello
per le attività produttive ( Suap), o l’ufficio anagrafe e l’edilizia. «Nessuna emergenza per le aperture – assicura il dirigente
responsabile Maurizio Pedicone – ma è chiaro ci sarà qualche rallentamento dell’attività dovuto al perdonale ridotto » .
Secondo Nicola Scaglione, segretario provinciale del Csa, la prossima settimana saranno in ferie il 30-40 per cento di
dipendenti in più rispetto a un periodo normale. « Dobbiamo comunque garantire sempre una presenza di almeno un terzo della
forza lavoro e con i dirigenti si è scelta una turnazione con buonsenso », dice il sindacalista. Sicuramente saranno a regime i
centri di informazione turistica della città. «Abbiamo trovato un accordo per prolungare in via sperimentale l’apertura del punto
di piazza Bellini sino alle 18.30 proprio in questa settimana di feste », dice ancora Scaglione. La diminuzione del persone in
ferie ridurrà per tutti giorni feriali della prossima settimana gli orari di apertura della biblioteca regionale, che chiuderà alle
13.30. E si approfitterà della Pasqua per ripristinare la temperatura delle vasche della piscina comunale, che domani chiuderà
alle 14 e martedì prossimo non riaprirà prima delle 13.
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Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA   19 APRILE 2019

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                                 G.D.S.
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POLITICA                                                                                                              19/4/2019

Il retroscena
Separati in casa nel governo

Salvini furioso affronta Conte “Volete far saltare
tutto” E Di Maio non gli parla più
Tensione in consiglio dei ministri su Siri. Il premier: “Ovvio che ci siano conseguenze” L’ira del
leader M5S: “Hanno messo in pericolo anche me”. Il Movimento difende Raggi

CLAUDIO TITO,

ROMA
«Guarda che così non si va da nessuna parte. Con gli insulti non risolvete nulla. Con gli attacchi personali non ottenete niente.
Sappiate che Siri non si dimette.
Né ora né mai». Il consiglio dei ministri convocato a Reggio Calabria non è ancora iniziato. I membri del governo arrivano alla
spicciolata. Nella sala della prefettura che deve ospitare la riunione, però, c’è già il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, e
un gruppetto di ministri, sia leghisti sia grillini. Entra anche Matteo Salvini e va diretto verso il premier. Senza alzare la voce
ma facendosi intenzionalmente ascoltare dagli altri presenti, scarica la sua rabbia. Il tono è freddo, il volto livido. L’inchiesta
sul sottosegretario ai trasporti, ma soprattutto la reazione dell’“alleato” pentastellato lo hanno mandato su tutte le furie.
Conte ascolta e poi parte a sua volta. La tensione sale. Tutti i ministri si bloccano. Restano in silenzio. Uno solo di loro,
grillino, lancia uno sguardo verso l’uscita e chiede sottovoce al vicino: «Ma Luigi è arrivato?». No, Di Maio ancora non è
entrato in prefettura. «Guarda - risponde allora il capo del governo - che questa inchiesta è una cosa seria. Stiamo parlando di
corruzione. Come puoi pensare che non ci siano conseguenze». Il ministro degli Interni lo blocca e insiste: «Ma di che stiamo
parlando? Con questo atteggiamento state bloccando il Paese solo per le elezioni europee.
Ma allora ditelo, ditelo che volete far saltare tutto». Conte respinge le accuse: «Nessuno pensa a questo. Ma non capisco quale
sia il problema delle dimissioni. Se poi chiarisce tutto, ritorna al suo posto».
Ecco, la giornata gialloverde ad altissima tensione ieri è cominciata così. Con un litigio quasi pubblico. Una scena da separati
in casa. A un passo dal divorzio, ma intimoriti dall’idea di assumersene la responsabilità.
Sempre sul filo della sopportazione. E con un dato del tutto nuovo rispetto a questi dieci mesi di burrascosa coabitazione: i
rapporti personali sono deteriorati, quella che veniva chiamata la sintonia tra “Luigi e Matteo” non c’è più. O comunque non
riesce più a colmare il gap della distanza politica. La riprova viene data solo qualche ora più tardi da un altro scandalo
giudiziario: le intercettazioni tra la sindaca grillina Raggi e l’ex amministratore delegato di Ama.
Una sorta di rivincita in diretta per i leghisti nei confronti dell’M5S che comunque difende la prima cittadina.
Il casus belli, però, resta l’accusa per corruzione nei confronti di Siri. Per i grillini le dimissioni sono una via obbligata. Come
dice Di Maio in privato, si tratta di una «grave questione morale per cui nessuno può far finta di niente. E nessuno può pensare
che possa restare lì». Del resto anche il capo politico 5Stelle è imbufalito. I suoi uffici hanno ricostruito in una specie di dossier,
gli emendamenti del Carroccio - più di uno - al Def relativi all’energia eolica. E anche la richiesta giunta proprio al ministero
dello Sviluppo Economico di modificare la norma su quel punto specifico.

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Richiesta respinta ma che se fosse stata accolta avrebbe comportato di fatto l’allargamento dell’indagine allo stesso Di Maio.
Un pericolo che, appunto, ha fatto infuriare il vicepremier pentastellato. Non a caso per tutta la giornata di ieri, anche una volta
arrivato al Consiglio dei ministri, non ha mai rivolto la parola al “collega”. Aspetta. Aspetta che Siri faccia un passo indietro.
Perché troppi elementi dell’inchiesta guidano nella stessa direzione.
«Deve lasciare, non può reggere in questa situazione». Eppure il diretto interessato si barrica dietro un secco «non esiste, nelle
carte non c’è niente contro di me». Ma soprattutto lo blinda il segretario leghista che rimprovera Di Maio di muoversi solo per
recuperare nei sondaggi. Per poi rivolgersi a Toninelli con un ulteriore monito: «Senza Siri, voglio vedere come te la cavi su
Alitalia». Ossia sulla vertenza su cui si sta spendendo in prima persona Di Maio. Un’osservazione che anche il sottosegretario
alla presidenza del consiglio, Giancarlo Giorgetti, ha rimarcato al premier Conte: «Senza Siri, senza la sua competenza, si
rischia di avere qualche problema su Alitalia». Il presidente del Consiglio non si è lasciato convincere. Tanto da aver deciso di
convocare nei prossimi giorni il sottosegretario ai Trasporti per chiedergli semplicemente di «dimettersi».
Nel frattempo nella Lega è scattato un altro allarme. Quello giudiziario. Il capo lumbard sospetta una nuova offensiva dei pm. È
avvolto dal timore che siano in arrivo altre inchieste. Perché il trittico Umbria-Siri-Raggi a suo giudizio sembra un equilibrismo
studiato. Anche se di studiato non c’è nulla. «Questa Anm e questo Csm - racconta ad esempio un autorevole membro togato
del Consiglio Superiore della Magistratura - non sono in grado di orchestrare un bel nulla. I giudici agiscono ognuno per conto
proprio. L’unico vero pericolo, semmai, è l’effetto emulazione». Sta di fatto che Salvini, proprio ieri sera, rilancia un vecchio
cavallo di battaglia del centrodestra berlusconiano: la riforma della giustizia. Un po’ come avvertimento, un po’ come
minaccia. Esattamente con lo stesso spirito con cui i leghisti hanno chiesto di estrapolare dal decreto crescita il capitolo sul
bilancio di Roma.
In questa lunghissima giornata, il contratto gialloverde sembra ormai carta straccia. Tra i banchi del Senato e della Camera
nessuno più scommette che l’esecutivo abbia una vita lunga. Le liti diventano un rimbombo e le elezioni anticipate una
prospettiva. Per votare a giugno, però, non ci sono più i tempi. Le urne il 23 giugno - data limite considerando che in Italia non
si è mai votato dopo il 26 giugno imporrebbero lo scioglimento del Parlamento entro questo mese. La resa dei conti è rinviata al
27 maggio, dopo i risultati europei.
Fino a quel momento tutto sarà in stand-by. Il Paese sarà congelato in una sorta di grande freezer della politica. Di Maio e
Salvini assomiglieranno così sempre più a De Mita e Craxi, i due leader della Prima Repubblica che negli anni ‘80 si
insultavano da alleati inseguendo poltrone e staffette. A scapito dell’Italia.
Ellekappa
Il vicepremier
Luigi Di Maio, 32 anni, ieri all’arrivo a Reggio Calabria per il consiglio dei ministri
FORTUNATO SERRAN ˜ /

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POLITICA                                                                                                         19/4/2019

Intervista
Rixi (Lega)

“Stufi dei 5S: così si va a votare subito”
TOMMASO CIRIACO,

ROMA
«Non è solo Salvini ad essere stufo dei cinquestelle, ormai.
Siamo tutti stufi. Tutti, nessuno escluso. Ma vi sembra normale che ogni santissimo e benedettissimo giorno che il Signore
manda in terra questi ci attaccano su ogni cosa?». Il leghista Edoardo Rixi è viceministro delle Infrastrutture, come Armando
Siri. Si aggira per il Transatlantico, difende il collega messo alla porta da Danilo Toninelli, attacca il Movimento. Una storia
finita o quasi, se a parlare così è uno degli uomini più vicini a Salvini.
«Ci siamo scocciati, ora basta».
Viceministro, Toninelli ha revocato le deleghe a Siri. Che
dire del suo ministro?
«Senza consultare nessuno, ma vi sembra normale? Esce un lancio dell’Ansa e in sette minuti annunciano che gli tolgono le
deleghe. Come non aspettassero altro. Sono senza parole».
Non hanno avvertito Siri?
«No, Toninelli non lo ha chiamato.
Neanche un sms».
E Salvini, l’hanno avvertito?
«Niente. Pare che neanche il presidente del Consiglio sia stato consultato. Eppure, era convocato un consiglio dei ministri a
Reggio Calabria. Quale migliore occasione per confrontarsi, parlarsi, valutare? Potevano affrontare lì la vicenda, politicamente.
Poi Siri, autonomamente, avrebbe deciso il da farsi».
Ora fate sfoggio di garantismo, ma poche ore fa Salvini era in piazza in Umbria per cavalcare l’inchiesta che ha travolto la
governatrice dem Marini. Siete incoerenti.
«Ma Marini si era dimessa. E comunque: neanche Toninelli conosce le carte, ma non hanno aspettato neanche dieci minuti».
Intanto Virginia Raggi rischia di essere travolta da un audio. E voi a chiederne le dimissioni.
«Se avessimo avuto un audio di Siri che diceva qualcosa di grave, saremmo stati i primi a dirgli di farsi da parte. Ma qui non
c’è nessun audio, né l’emendamento di cui si parla». (Mentre si svolge la conversazione alla Camera, Rixi non sa che a sera
emergerà che l’emendamento in questione esisteva, ma fu stralciato, ndr).
Dicevamo di Raggi, però.
«Se si sono comportati così con Siri, cosa possono fare con lei? È ovvio che a questo punto devono dirle di farsi da parte. Tra
l’altro parliamo di un sindaco che non è capace neanche di tappare le buche di questa città».
Ma che ci fate al governo insieme, se litigate su tutto?
«Eh… Ma non possiamo mica votare prima delle Europee, in piena campagna elettorale».
Potreste a giugno. Possibile?

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«Sono loro che stanno facendo di tutto per portarci a votare a giugno».
E Salvini, è stufo?
«Siamo tutti stufi».
Lo siete tutti da mesi. La novità è se anche Salvini, ora, intende rompere l’alleanza.
«La situazione non è semplice.
Salvini sa che c’è una legge elettorale proporzionale. Che non è detto che dopo il voto esca una maggioranza netta. E magari ci
ritroviamo con la stessa maggioranza di oggi. Insomma, non è facile. Resta il fatto che succedono cose assurde. Ma lo sa di
Piaggio Aerospace?».
Cosa intende?
«Oltre mille dipendenti fermi senza lavoro perché i ministeri guidati dai 5S non sbloccano le commesse. Ma possibile che
fanno sempre così?».
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Il viceministro Rixi, 44 anni LUIGI MISTRULLI FOTOGRAMMA

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POLITICA                                                                                                                 19/4/2019

I conti pubblici

Retromarcia di Tria "L’Iva non aumenterà"
Manovra da 40 miliardi
Via libera alla risoluzione di maggioranza al Def che fissa nel 2020 l’avvio della flat tax. Bankitalia:
"Mini ripresa nel primo trimestre"

ROBERTO PETRINI,

ROMA
Tria rompe gli indugi e salta il Rubicone: l’aumento dell’Iva non ci sarà e si procederà con la flat tax. Esattamente come
intimato da Di Maio e Salvini e come chiesto nella risoluzione della maggioranza gialloverde al Def approvata ieri in
Parlamento: significa, come ha detto il ministro dell’Economia alla Camera, che si procederà ad adottare le « misure alternative
» anche « dal lato della spesa » e nel «rispetto degli obiettivi di finanza pubblica».
In altre parole l’Iva non aumenterà di 3 punti nel 2020 come previsto dalla attuale normativa, perché in sede di legge di
Bilancio, in autunno, ha spiegato il ministro, «la legge cambierà » . L’opzione per le « misure alternative » prospetta una
manovra assai pesante sui conti pubblici e sul Paese: 23,1 miliardi costa la sterilizzazione dell’Iva, circa 15 la flat tax, 2,5
miliardi le spese indifferibili ( missioni militari ecc.) e 2 miliardi la correzione dei saldi: si arriva a 40 miliardi. Al netto di altre
pretese e interventi.
Tria dunque ottiene la «decisione politica» chiesta mercoledì in Parlamento e aderisce ai diktat della coppia dei leader
gialloverdi: peraltro andare alle prossime elezioni con un aumento dell’Iva non deve essere stato giudicato prudente.
Il ministro dell’Economia a Montecitorio è stato assai chiaro: « Il Def mantiene la legislazione vigente, secondo la legislazione
vigente l’Iva l’anno prossimo aumenterà se la legge non sarà cambiata: ma la legge sarà cambiata con la prossima legge di
Bilancio » , dunque l’aumento sarà disinnescato. « Nell’occasione – ha proseguito Tria – verranno adottate misure alternative».
Via libera da parte del ministro dell’Economia anche alla flat tax a favore dei ceti medi per il prossimo anno: « Quest’anno - ha
detto - è iniziata la prima fase della flat tax, l’anno prossimo ci sarà la seconda parte».
Se la sterilizzazione dell’Iva sembra al momento scontata, anche se non si può escludere che, dopo le elezioni, in autunno
riesca dal cassetto l’ipotesi di aumenti " selettivi", per quando riguarda la flat tax il cantiere è aperto su aliquote, scaglioni e
detrazioni "progressive".
Quello che è certo è che il Def indica come coperture spending review ( ieri il governo ha nominato commissari straordinari i
viceministri del Tesoro Castelli e Garavaglia) e revisioni degli sgravi fiscali: entrambi terreni minati sui quali sembra difficile
recuperare quasi 40 miliardi, mentre il ricorso al deficit resta limitato anche con l’aiuto, tutto da verificare, di una nuova
flessibilità di bilancio in vista dei futuri equilibri europei.
L’assaggio di cure dolorose c’è già da quest’anno, non è solo un’ipotesi: Tria ha confermato il taglio dei due miliardi chiesti "
in pegno" da Bruxelles nel dicembre scorso se avessimo sfondato il deficit nominale: siccome siamo passati da 2,04 per cento
promesso al 2,4 la scure scatta. Non sarà tecnicamente una manovra bis ma non per questo morderà di meno: tanto è vero che il

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ministro dell’Economia in Parlamento ha sentito il bisogno di rassicurare su un ammorbidimento dei tagli lineari previsti in
tabella per il trasporto pubblico locale.
Sul fronte delle tasse la risoluzione Lega- M5S al Def, oltre allo stop dell’Iva e all’indicazione della flat tax, impegna il
governo a «non prevedere misure di incremento della tassazione sui patrimoni » . Un " no" ribadito nei giorni scorsi da Tria che
escluderebbe un ritorno dell’Imu sulla prima casa ed eventuali misure straordinarie sul debito («È sostenibile», ha scandito il
"numero uno" del Mef).
Nel quadro fosco dell’economia internazionale, delineato anche dall’Fmi nei recenti Spring Meetings, per l’Italia c’è un piccolo
segnale positivo: la Banca d’Italia nel " Bollettino economico", diffuso ieri, prevede per il primo trimestre di quest’anno il
ritorno ad una seppur minima crescita positiva, pari allo 0,1 per cento, dopo i due trimestri di recessione dello scorso anno.
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Il ministro
Giovanni Tria guida l’Economia

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Il caso

Reddito, proteste per gli assegni ridotti Autogol
dell’Inps che fa ironia sui social
Risposte polemiche ai quesiti su Facebook Poi le scuse di Tridico che precisa: l’importo medio è di
520 euro

aldo fontanarosa,

roma
Per il reddito di cittadinanza e per l’Inps sono i giorni del caos. Decine di migliaia di italiani si riversano sulla pagina Facebook
dell’Inps — mercoledì e ieri — con i loro dubbi e con una pressante domanda di assistenza. A volte ricevono risposte brusche.
Altre migliaia urlano la loro rabbia sui social dopo aver avuto l’amara sorpresa di un assegno che in alcuni casi si limita ad un
obolo di 50 o 100 euro: " Ma state scherzando?". " È questo l’aiuto che ci date?". "Da oggi farò campagna elettorale contro i 5
Stelle". E l’Inps non regge l’urto.
Alla fine di una giornata buia, ieri, il nostro istituto previdenziale deve chiedere scusa due volte. Prima lo fa controvoglia, con
un comunicato. Poi è addirittura il numero uno dell’Inps Pasquale Tridico a cospargersi il capo di cenere perché i curatori della
pagina Facebook, tutti dipendenti dell’istituto, hanno dato risposte ora ironiche, ora maleducate. «Non in linea con i valori»
della casa, scrive Tridico.
Tre soli soldati in prima linea. L’errore dell’Inps è tutto qui. La sua struttura social si compone di tre persone, punto. Nella
normalità l’avamposto social dell’istituto se la cava decorosamente. Stavolta invece — via Facebook — si presenta l’Italia
arrabbiata, disorientata, a volte disperata che il reddito di cittadinanza lo pretende, magari senza sforzo. Quando una persona fa
una domanda, centinaia di altre si accodano, interagiscono. L’errore dell’Inps è anche questo. Il modello della piazza web
aperta, tipico di Facebook, non può funzionare su una questione come il reddito (e infatti sarà accantonato). Qualcuno nella
squadra social dell’Inps va oltre il suo ruolo. All’indirizzo degli utenti partono anche espressioni di scherno ( " Forse è troppo
impegnata a farsi selfie con le orecchie da coniglio"), a volte intimidatorie (" Se suo figlio lavora in nero la devo denunciare").
Ogni tanto si getta la palla sugli spalti: "Rivolgete le vostre considerazioni ai politici". Le frasi dei dipendenti Inps iniziano a
girare vorticosamente sui social; paiono più quelli che le apprezzano che quelli che si indignano. Notata l’enorme falla nella
comunicazione social dell’Inps, si muovono anche i falsari del web. Circolano in Rete — accusa Tridico — finte risposte. In
serata Pd, Forza Italia, Fratelli d’Italia depositano interrogazioni parlamentari. Il numero uno dell’Inps prepara intanto un piano
B: sul reddito, i social finiranno in secondo piano. I cittadini saranno invitati a imboccare strade diverse per informarsi:
sportello e telefono.
Ma la giornata è così pesante anche per i tanti delusi del reddito, per chi ha ricevuto molto meno di 780 euro o per chi accusa di
prendere meno di quanto prendeva prima, con il Rei, il reddito di inclusione del Pd. Una marea di cittadini che riversa sul web
la sua ira. E l’Inps torna a difendersi. Il 65% delle 473 mila pratiche finora accettate, spiega Tridico, ha un importo tra i 400 e
1.200 euro. La media dell’assegno è di 520 euro. «Spiace che si soffermi sui casi di singoli che avendo già un reddito
percepiscono importi tra i 40 e 150 euro. Questi casi rappresentano il 17% della platea».

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