Come finisce (e come finiva) l' Orlando furioso - Johns Hopkins University
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Come finisce (e come finiva) l' Orlando furioso Riccardo Bruscagli MLN, Volume 134, Number 1, January 2019 (Italian Issue), pp. 84-102 (Article) Published by Johns Hopkins University Press DOI: https://doi.org/10.1353/mln.2019.0004 For additional information about this article https://muse.jhu.edu/article/722567 [ This content has been declared free to read by the pubisher during the COVID-19 pandemic. ]
Come finisce (e come finiva) l’Orlando furioso ❦ Riccardo Bruscagli Dunque, ‘Come finisce il Furioso’. O anche, interrogativamente: ‘Come finisce il Furioso?’ O meglio ancora: ‘Ma finisce, il Furioso?’ La possibile diffrazione dei titoli investe un problema critico serio. Voci autorevoli di amati maestri ci hanno suggerito che, in effetti, il Furioso non finisce; anzi, che come si rifiuta di cominciare (il suo incipit è, in fondo, l’Innamorato del Boiardo), così si rifiuta di chiudersi. Come scriveva Caretti: […] il Furioso ci appare come un libro senza vera conclusione, come un libro perenne. Anche se protratto felicemente per lunghissimo corso, il suo impeto narrativo non appare mai definitivamente esaurito. Sentiamo, invece, che la grande avventura, il viaggio meraviglioso, si prolunga ideal- mente oltre le pagine scritte, senza incontrare mai, neppure nelle ottave finali, un ostacolo invalicabile. Non c’è nel poema un vero e proprio congedo, proprio perché vi manca la catastrofe risolutiva. La morte di Rodomonte è, infatti, un ‘accidente’, non una catastrofe; e il matrimonio fra Ruggiero e Bradamante serve appena come ‘lieto fine’, già scontato e in fondo provvisorio, di uno dei nuclei narrativi dell’opera e non già come conclusione perentoria (conclusione senza residui) di tutta la complessa storia ariostesca. Potremmo perciò definire il Furioso come l’aureo capitolo di una vicenda a cui è ignota qualsiasi forma di piano provvidenziale e nella quale si rispecchia piuttosto il senso libero, estroso, incalcolabile e inesauribile della vita.1 1 LANFRANCO CARETTI, L’opera dell’Ariosto [1954], in Antichi e moderni. Studi di Let- teratura Italiana, Torino, Einaudi, 1976, pp. 100–101. MLN 134 (2019): 84–102 © 2019 by Johns Hopkins University Press
M LN 85 È la lettura ‘modernista’, novecentista, dell’Orlando furioso come ‘opera aperta’: ancora nelle parole di Caretti, “tutta percorsa da una energia dinamica, nella quale non appare alcun centro stabile, alcun luogo preminente, così come ne risulta esclusa una durata prestabilita.”2 Una lettura che non a caso trova consonanza con il celebrato ri-racconto di Calvino: “Dall’inizio l’Orlando furioso si annuncia come il poema del movimento, o meglio, annuncia il particolare tipo di movimento che lo percorrerà da cima a fondo, movimento a linee spezzate, a zig zag.”3 Il Furioso “è un universo a sé in cui si può viaggiare in lungo e in largo, entrare, uscire, perdercisi.” 4 La consonanza, fra l’altro, non è casuale: il rapporto e lo scambio epistolare tra Caretti e Calvino, al tempo in cui quest’ultimo mise mano al ‘suo’ Furioso, fu significativo; e non dobbiamo dimenticare che Caretti è lo studioso a cui Calvino si rivolse per farsi imprestare le note a piè di pagina da utilizzare— riprodurre, per essere esatti—nei brani del poema intercalati alla sua lettura.5 L’Ariosto che ‘non finisce’ sarebbe dunque un singolare anticipo rinascimentale dello sprezzo novecentesco per la convenzionalità dei finali di romanzo, per quegli stucchevoli happy endings memorabil- mente riassunti da Henry James nella sua Art of Fiction: “a distribution at last of prizes, pensions, husbands, wives, babies, millions, appended paragraphs, and cheerful remarks…” Una convenzione alla quale, beninteso, si presta anche l’Ariosto, nel momento in cui decide di chiudere materialmente il poema sulle “nozze splendide e reali” (XLVI 73 v.1) di Ruggiero e Bradamante, e sulla “pompa trionfal” (XLIV 32 v.1) con cui Carlo Magno accoglie in Francia i “liberatori de l’Impero” (XLIV 33 v.8).6 2 Ivi, p.99. 3 Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino. Con una scelta del poema, Torino, Einaudi, 1970, p.xxiv. 4 Ivi, p.xix. 5 Vedi adesso la corrispondenza fra Calvino e Caretti nel Fondo Caretti della Biblio- teca Ariostea di Ferrara: Il Fondo Lanfranco Caretti, a cura di Angela Ammirati, Ferrara, Servizio Biblioteche e Archivi, 2015, Corrispondenza, 1.161. 6 Per un’eccellente impostazione teorica della narratologia dei ‘finali’, si veda GIULI- ANA ADAMO, L’ inizio e la fine. I confini del romanzo nel canone occidentale, Ravenna, Longo Editore, 2013, e bibliografia relativa. Memorabili, per altro, le considerazioni di Italo Calvino sulla (relativa) irrilevanza dei finali, caratteristiche dell’affezione modernista per l’ ‘opera aperta’, ma anche dell’effettiva ambiguità di valore attribuibile alla con- clusione di una storia: “Il problema di non finire una storia è questo. Comunque essa finisca, qualsiasi sia il momento in cui decidiamo che la storia può considerarsi finita, ci accorgiamo che non è verso quel punto che portava l’azione del raccontare, che quello che conta è altrove, è ciò che è avvenuto prima: è il senso che acquista quel seg- mento isolato di accadimenti, estratto dalla continuità del raccontabile. Certo, le forme narrative tradizionali danno un’impressione di compiutezza: la fiaba termina quando
86 RICCARDO BRUSCAGLI Ma, se vogliamo consentire con la lettura di Caretti, o di Calvino, questa finale “pompa trionfal” in realtà non conta, nel senso—mod- ernista—che un finale simile non è che un sipario purchessia calato su una scena che si interrompe lì, ma che potrebbe, o avrebbe potuto, interrompersi in ogni altro punto del testo. Io credo, invece, che l’Orlando furioso finisca, finisca anche troppo. Nel senso che la gran tela, per chiudersi, o anche per semplicemente interrompersi, mette in atto una molteplicità di strategie, non solo, ma anche tematizza ironicamente tali multiple strategie, in cor- rispondenza col principio di pluralità che la governa sin dall’inizio: “Ma perché varie fila a varie tele/ uopo mi son, che tutte ordire intendo…” (II 30 vv. 5–6). E dunque, per tutti questi fili, e queste tele, bisognerà trovare la forbice, o la bordura finale, adatta. Un primo taglio di forbice, un primo finale—tipicamente un ending, non una closure 7—è quello della storia che ha riattivato nel primo canto il motore narrativo lasciato in panne dal Boiardo, ovvero la storia di Angelica.8 E’ un finale caratteristicamente romanzesco, cioè comico, aperto, implicato nella serialità del sistema narrativo romanzesco—di quel sistema, si badi, che l’Ariosto respinge in ogni punto della sua favola, rifiutando di identificarsi come continuatore del Boiardo, allontanando il tempo dell’Innamorato in un vago dianzi non meglio specificato, affermando, sin dal nudo frontespizio del Furioso, il suo carattere di opera autonoma (altro che Quarto libro, altro che Tutti li libri di Orlando innamorato…), a costo magari di vedersi gravato, ai giorni nostri, da un sospetto di anxiety of influence. Ma se di anxiety si tratta, io direi che non è nei confronti di un autore, il Boiardo, ma di un genere, il romanzo cavalleresco, con la sua sterminata continuabilità e la pretesa di essere, ogni volta, nient’altro che la ri-narrazione di l’eroe ha trionfato delle avversità, il romanzo biografico trova il suo finale indiscutibile nella morte dell’eroe, il romanzo di educazione quando l’eroe raggiunge la maturità, il romanzo poliziesco quando il colpevole è stato scoperto[…] Il finale veramente importante è quello che come nell’Education sentimentale mette in discussione tutta la narrazione, la gerarchia di valori che presiede al romanzo. […] Comunque, inizio e finale, anche se possiamo considerarli simmetrici su un piano teorico, non lo sono sul piano estetico. La storia della letteratura è ricca d’incipit memorabili, mentre i finali che presentino una vera originalità come forma e come significato sono più rari, o almeno non si presentano alla memoria così facilmente” (Cominciare e finire. Appendice a Lezioni americane, in Saggi 1945–1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995,Tomo I, pp.748–750). D’altronde, è facile osservare che Calvino ha scritto, con Una notte d’inverno un viaggiatore, un romanzo tutto di incipit, e non di finali. 7 Riprendo qui la distinzione di MARIANNE TORGOVNICK, Closure in the novel, Princeton, Princeton University Press, 1981, p.83. 8 A questo proposito si veda il mio Invenzione e ricominciamento nel canto I dell’Orlando furioso, in Saggi cavallereschi, Firenze, SEF, 2003, pp. 55–73.
M LN 87 un episodio dell’archetipo turpiniano. Colpisce dunque la modalità con cui l’Ariosto si congeda da Angelica e dal suo carisma erotico e narrativo. Al canto XXIX, si ricorderà, l’Ariosto abbandona la sua femme fatale con modalità un po’ ruvida, attribuendole, in un ultimo fotogramma d’addio, una posa alquanto sgraziata. Sulla spiaggia di Terragona, Medoro e Angelica, freschi sposi, s’imbattono in un uomo selvatico, bruciato dal sole, irriconoscibile, annidato nella sabbia come un animale: Orlando, che nell’automatismo della follia replica il gesto ossessivo di inseguimento e di attentato predatorio sulla bella donna: “Come di lei s’accorse Orlando stolto, / per ritenerla si levò di botto:/ così gli piacque il delicato volto, / così ne venne imman- tinente giotto” (XXIX 61 vv. 1–4). Angelica dal canto suo sfugge alla aggressione di Orlando furioso mettendosi prontamente in bocca l’anello magico, ma a prezzo di un inelegante capitombolo: “levò le gambe, et uscì dell’arcione/ e si trovò riversa in sul sabbione” (65 vv. 7–8). E giacché si celebra qui l’anniversario del primo Ariosto del ’16, sarà il caso di notare in questo frangente una variante minima, ma di grande conseguenza narrativa: nell’ultimo Furioso del ’32 Orlando si scaglia su Angelica, ma senza riconoscerla: “D’averla amata e riverita molto/ ogni ricordo era in lui guasto e rotto” (61 vv. 5–6). Nel ‘16, invece, Orlando riconosceva Angelica: “D’haverla amata e riverita molto/ havea in memoria anchora; ma condotto/ dal gran furor, la caccia in la maniera / che si farebbe una selvaggia fiera” (XXVII 61 vv. 4–8). Ovvero, nel primo Furioso la reazione di Orlando, forse in modo più banale, si iscriveva nel solito meccanismo di comparsa di Angelica/riconoscimento della fanciulla/ inseguimento che i lettori hanno visto in atto fin dal primo canto del poema. Nell’ultimo Furioso, invece, il non riconoscimento della donna lascia Orlando sigillato nella sua follia, mentre i suoi gesti soltanto mimano, in una sorta di insconscia coazione a ripetere, le azioni dell’“amorosa inchiesta”. Ma questo finale che tronca in grottesco la quête di Orlando non basta all’Ariosto. Come sappiamo, al canto XXX, dopo aver seguito lo strazio della giumenta di Angelica da parte del conte, dopo avergli fatto attraversare a nuoto lo stretto di Gibilterra, e averlo avventurato in terra africana, l’Ariosto sembra pronto, attraverso un tipico indi- catore di trapasso, a ritornare indietro, dove ha lasciato Angelica e Medoro; pronto insomma a re-intrecciare il loro filo nella gran tela del romanzo: Lasciamo il paladin ch’errando vada: ben di parlar di lui tornerà tempo. Quanto, Signor, ad Angelica accada
88 RICCARDO BRUSCAGLI dopo ch’uscì di man del pazzo a tempo; e come a ritornare in sua contrada trovasse buon navilio e miglior tempo, e dell’India a Medor desse lo scettro, forse altri canterà con miglior plettro. Io sono a dir tante altre cose intento, che di seguir più questa non mi cale. (XXX 16, 17, vv. 1–2) È una mossa narrativa molto singolare, che non trova riscontro in nessun altro luogo del testo. In pratica, l’autore aveva già lasciato perdere i due amanti sposi. Adesso torna indietro, secondo le consuetudini del suo racconto entrelacé, ma solo per precisare che non ne parlerà più, che della loro storia non gliene cale più. O meglio, che avrebbe sì in mente un programma narrativo, nelle sue linee generali—il ritorno in Oriente, l’incoronazione—ma che ha perso interesse a questo filo della trama: che se ne occupi qualcun altro. È evidente che siamo di fronte ad una consapevole, perfida anzi, citazione dei meccanismi romanzeschi tradizionali, quelli appunto—come ho detto—denegati in tutto l’impianto del testo ariostesco. È un tipico finale aperto, che allude alla infinita continuabilità del repertorio cavalleresco, e, con aria sorniona, sfida altri ‘plettri’ a mettersi a gara con lui: letteralmente, a continuare il Furioso. Ed è una sfida, come sappiamo, che venne abbondantemente raccolta. Parecchi anni fa, ormai, mi sono divertito a seguire le tracce di Medoro e Angelica in Oriente: non solo quelle narrative, dovute alla penna dei romanzatori, ma anche e soprattutto quelle, ancor più copiose, dovute all’invenzione dei drammaturghi e dei librettisti.9 L’esercizio non è soltanto curioso e divertente, ma serve, io credo, a far emergere a ritroso il più vero significato della sospensione ariostesca: che non è solo una astuta ruse narrativa, ma una impasse di valori. Scartabellando i continuatori, infatti, ci si rende conto che le loro varie modalità di dar seguito alle avventure dei due amanti sposi svela le ambiguità irrisolte del testo ariostesco. Ci sono coloro, come il Brusantini nella sua Angelica innamorata (1553), che considerano assolutamente sconvenevole la scelta del “povero Medor” da parte della principessa del Cataio, respingono l’impresentabile sposo nella sua anagrafe di fante appiedato, indegno di aspirare ad una qualche promozione sociale, e approdano addirittura ad un formale divorzio fra i due; ci sono coloro, al contrario, che magnifi- cano in Angelica la capacità di ignorare le disparità di partenza, e di 9 Si veda RICCARDO BRUSCAGLI, Medoro riconosciuto, in Saggi cavallereschi, cit., pp.75–101.
M LN 89 innamorarsi delle autentiche virtù di Medoro: così per esempio Anton Maria Salvini: “Per questo maritaggio […] ella veramente si mostra regina, non con trovare un re per marito, ma col farlo; coll’innalzare una regia virtù conosciuta in un servo, e premiarla con un impero”.10 E, meglio di tutti, ci sono coloro che proprio non riescono a mandar giù la scelta di Angelica, ma rimediano alla sua oltranza egualitaria inventandosi per Medoro uno statuto di trovatello regale, via provvida agnizione: ecco allora Medoro riconosciuto “infante dell’Epiro”, “re di Tangut”, imperatore della “China”, figlio del soldano d‘Egitto. È, in fondo, il giuoco già impostato dal Boccaccio nel rapporto fra la IV e la V giornata del Decameron: fra quella che si potrebbe chiamare la ‘funzione Ghismonda’, che presiede alle trame in cui la mésaillance tra principessa e innamorato a lei inferiore sfocia in punizione e tragedia, e la ‘funzione Violante’, che prevede invece—come nella novella set- tima della V Giornata—un riconoscimento in extremis del maschio fin allora indegno, e la ricomposizione del dramma in un lieto fine che non disturbi le gerarchie sociali consacrate—e quanto questa funzione sia attiva nel filone di ‘Medoro riconosciuto’ lo dimostra il dramma di Pietro Bonarelli, intitolato appunto Medoro riconosciuto (1645), in cui il giovane si scopre esser figlio di Alcandro, sultano d’Egitto, grazie ad “uno strano segno impresso/ su l’omero sinistro” svelato nel momento in cui, seminudo, sta per essere condotto al patibolo: esattamente come il Teodoro della novella decameroniana di Teo- doro e Violante. Ma questi differenti esiti della favola corrispondono puntualmente alla sospensione, o ambiguità di giudizio, dell’Ariosto stesso. Il quale non si decide mai sino in fondo tra consenso e spre- gio nei confronti della scelta di Angelica. Anzi, quando prende in prima persona la parola, come narratore, è per dar luogo allo sfogo misogino su cui si chiude, memorabilmente, il canto XXIX: “Deh, maledetto sia l’annello et anco/ il cavallier che dato le l’avea!/ che se non era, avrebbe Orlando fatto/ di sé vendetta e di mill’altri a un tratto:/ né questa sola ma fosser pur state/ in man d’Orlando quante oggi ne sono:/ ch’ad ogni modo tutte sono ingrate,/ né si trova tra loro oncia di buono” (73 vv. 5–8, 74 vv. 1–4). Sfogo, certo, corretto dalle scuse del proemio successivo.: “Quando vincer da l’impeto e da l’ira/ si lascia la ragion, né si difende…” (XXX 1, vv. 1–2), ma che d’altra parte rispetta impeccabilmente quella che nel Cinquecento si sarebbe chiamata la “persona del poeta”: il quale, fino dall’inizio, si è presentato come l’analogo di Orlando furioso, e si è dunque pre- 10 ANTON MARIA SALVINI, Discorsi Accademici, 3 voll., Firenze, Giuseppe Manni, 1695 (citato nello stesso Medoro riconosciuto, p.89).
90 RICCARDO BRUSCAGLI scelta un’identità pregiudicata, solidale con i sentimenti, sia pure in sé ingiusti o disputabili, del personaggio eponimo. Ma d’altra parte, se il narratore, insieme ad Orlando, sembra considerare Angelica colpevole di un mancamento di fé (“La sua donna ingratissima l’ha ucciso:/ sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra”, XXIII 128, vv. 3–4), come si fa a dismettere Medoro quale scelta indegna quando lo si è presentato ricolmo di ogni virtù, di bellezza, di cortesia, di coraggio, di valore? Come si fa a non vedere in Angelica lo stampo delle Ghi- smonde rivendicatrici dei diritti del cuore gentile nei confronti del puro privilegio sociale e spietate contestatrici della nobiltà di nascita? Ma i miglior plettri (si fa per dire) che vollero continuare il Furioso, e raccogliere la sfida—o cadere nella trappola—apprestata dall’autore, videro benissimo questa contraddizione irrisolta: forse, mi azzardo a dire—non l’ultima ragione di questo finale aperto, tipicamente romanzesco, del poema. D’altronde, questo è il luogo testuale in cui la modalità romanzesca dell’abbandono del personaggio ad una continuabilità altrui è accusato e tematizzato esplicitamente, ma non è l’unico. Almeno altri due, o tre, fili narrativi rimangono irrisolti nell’ Orlando furioso: quello di Sacripante, che—come già gli accadeva, si badi, nell’Innamorato—viene perso di vista quando, sconfitto da Rodomonte alla torre d’Isabella, decide di non far ritorno al campo pagano, ma di rimettersi sulla traccia di Angelica: Di pur cercar nuovo desir lo prese colei che sol avea fissa nel core. Fu l’aventura sua, che tosto intese (io non vi saprei dir chi ne fu autore) ch’ella tornava verso il suo paese: onde esso, come il punge e sprona Amore, dietro alla pesta subito si pone. (XXXV 56 vv.l–7) E di Sacripante non sapremo più nulla. Poi c’è Marsilio, che nella rovinosa fuga per mare dell’armata di Agramante si fa sbarcare in Spagna, e viene perso di vista mentre prepara “la guerra che fu poi/ la sua ruina e degli amici suoi.” (XXXIX 74 vv. 7–8). Più provocante di tutti rimane il filo tacitamente sospeso di Ulla- nia, la donzella dell’Isola Perduta che Bradamante incontra dopo l’avventura di Marganorre, e che reca da parte della sua regina uno scudo, in dono per il migliore cavaliere della corte di Carlo Magno, che ella desidera farsi sposo: un’esca narrativa di cui Bradamante stessa sospetta il potenziale pericolo, ma che non avrà modo di esplodere:
M LN 91 Ste’ molto attenta Bradamante a udire quanto le fu da lo scudier risposto; il qual poi l’entrò inanzi, e così punse il suo cavallo, che i compagni giunse. Dietro non gli galoppa né gli corre ella; ch’adagio il suo camin dispensa, e molte cose tuttavia discorre, che son per accadere: e in somma pensa che questo scudo di Francia sia per porre discordia e rissa e nimicizia immensa fra paladini ed altri, se vuol Carlo chiarir chi sia il miglior, e a colui darlo. Le preme il cor questo pensier… (XXXII 59 vv. 5–8; 60; 61 v. 1) Ma le preoccupazioni di Bradamante non avranno esito: lo scudo di Ullania si collega bensì con le ottave della regina Elisa, un frammento concepito dall’Ariosto insieme alle altre giunte del ‘32 e che poi rimarrà lettera morta; anche qui, un filo rimasto troncato e in sospeso ma rilevante, che l’Ariosto stesso si proponeva evidentemente di avvi- are a ulteriori sviluppi. Per altro, non sarà una sorpresa che proprio su questo filo pendulo dell’arazzo ariostesco si appunti l’interesse di altri ‘plettri’ continuatori: soprattutto l’interesse di Danese Cattaneo, il cui Amor di Marfisa si rappicca proprio allo spunto lasciato perdere dall’Ariosto, con l’arrivo di Ullania al campo franco (nel canto sec- ondo) e l’ecfrasis descrittiva dello scudo recato dalla donzella. Se nel congedo da Angelica riconosciamo un tipico finale by link- age, e negli altri fili in sospeso, per quanto di esile rilievo, possiamo identificare una modalità che potremmo definire di open ending,11 il modo finale contrario e opposto a queste sospensioni della vita dei per- sonaggi è, naturalmente, quello di eliminarli fisicamente: d’altronde non diceva Forster che se non fosse per la morte e il matrimonio uno scrittore medio non saprebbe proprio come concludere il suo romanzo?12 E in effetti, la morte del personaggio è proprio un mez- zuccio da scrittore medio: quel “modulo…eliminatorio” di cui parlò Domenico De Robertis a proposito dei poemi cavallereschi del Quat- trocento e dello stesso Morgante13 e di cui si servono ampiamente gli 11 Anche qui ci si riferisce alla terminologia, e alle distinzioni, di MARIANNE TOR- GNOVNICK, Closure in the Novel, cit., p.215. 12 EDWARD.M. FORSTER, Aspects of the Novel, London, Arnold, 1927, p.96. 13 DOMENICO DE ROBERTIS, L’esperienza poetica del Quattrocento, in Storia della Let- teratura Italiana, a cura di Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Vol.III (Il Quattrocento e l’Ariosto), Milano, Garzanti, 1966, p.593.
92 RICCARDO BRUSCAGLI altri continuatori del Boiardo per disfarsi dei personaggi, ma di cui l’Ariosto fa un uso parco e stilisticamente elevato: servendosene in pratica, nonostante le necessarie macellerie della guerra di Carlo e Agramante, principalmente nel grande duello di Lipadusa. Per dire: questa politica di sterminio era stata seguita da Niccolò degli Agostini e dal Valcieco perfino nei confronti di Angelica, che il primo elimina fulminandola, letteralmente, cioè facendola colpire da un fulmine mentre Orlando e Rinaldo ennesimamente duellano per lei; il Valcieco invece, più mitemente, la fa morire di parto, dopo un felice quanto breve matrimonio con Dardinello. Ma naturalmente il finale ottenuto per via di morte del personag- gio ci riporta all’inizio, a quel finale materiale del poema che i lettori modernisti hanno voluto derubricare a fermaglio convenzionale e dovuto, prevedibile e insignificante. Senza voler smentire la sugges- tione di questa lettura, vorrei però qui soffermarmi sulla tutt’altro che tranquilla convenzionalità di quel finale. Che innanzitutto è un finale doppio, come sappiamo: da una parte l’happy ending delle nozze Bradamante-Ruggiero, dall’altra quello, luttuoso e tenebroso, del duello fra Rodomonte e Ruggiero, su cui davvero si arresta, con la celebre citazione virgiliana, la scrittura dell’autore: “Alle squallide ripe d’Acheronte, / sciolta dal corpo più freddo che ghiaccio, / bestemmiando fuggì l’alma sdegnosa, / che fu sì altera al mondo e sì orgogliosa” (XLVI 140, vv. 5–8)14. Si tratta in realtà, nell’uno e nell’altro caso—le nozze, il duello—di due finali inquietanti; diversamente inquietanti. Giustamente è stato di recente osservato a proposito del duello fra Enea e Turno su cui si chiude l’Eneide, e sulla cui solenne imitazione l’Ariosto scelse di chiudere il suo poema, che si tratta in realtà di un finale ‘aperto’: “la tradizionale restaurazione della pace (come nell’ Iliade e nell’ Odissea) non la vediamo […]; il finale, con l’ombra del guerriero ucciso che scende all’Ade bestemmiando, è più tragica che epica.”15 La stranezza di questo finale virgiliano risalta 14 Sul carattere epico-classicista del finale ariostesco, si veda JOSEPH. C. SITTERSON, Allusive and Elusive Meanings: Reading Ariosto’s Virgilian Ending, in “Renaissance Quar- terly”, XLV (1992), pp. 1–19. 15 Così GIULIANA AMATO, L’inizio e la fine, cit, p.95. E in particolare a proposito del finale del Furioso: “Tuttavia, poiché l’immagine estrema che accompagna il lettore al silenzio non è lieta, vi si coglie un’incrinatura dall’interno del sistema ariostesco, un ironico distacco dal mondo possibile, che è sempre rappresentazione di quello reale, che fa pensare. Ed è in questa sospensione, pur nella perfezione, da cui trapelano incertezza e ambiguità che va cercata l’eredità lasciata da Ariosto ai futuri scrittori (al di là della più meccanica imitazione dei continuatori dell’epoca), perché proprio in essa s’incarna l’ontologica infingibile incompiutezza del genere romanzo, quanto di più lontano dalle chiuse dell’epica classica” (p.154).
M LN 93 ancora di più se guardiamo cosa accade nelle riscritture medievali della leggenda troiana: “[…] l’Enéas medievale liquida i conti fra Enea e Turno cinquecento versi prima della fine, e si conclude col matrimonio di Enea e Lavinia, e l’instaurazione di una durevole pace”; quello che veramente più interessa all’autore sono “le palpitazioni e gli affanni amorosi dei due promessi sposi. […] E ad Enea, non più pius e drammatico eroe epico, ma prode cavaliere senza macchia e senza paura, è riservata una fine trionfale, rassicurante, senza ombre. Una fine dalle tinte favolose e leggendarie. Esattamente quello che il pubblico voleva sentirsi raccontare e ripetere di continuo.” Il che mette ancora in maggior rilievo la “fine drammatica, aperta, ricca di tensione dell’Eneide”16. Ho citato a lungo queste considerazioni per- ché mi pare che esse possano ribaltarsi utilmente anche sul finale del Furioso: dove il fermaglio virgiliano potrà dunque essere letto davvero come un’ombra luttuosa, come se l’Ariosto non potesse, o non volesse concludere il suo poema con l’immagine lieta e sfarzosa dei festeg- giamenti parigini; come se avesse bisogno di un’allusione funerea, di una tinta mortuaria e infernale, su cui sospendere il suo canto. Su un’ombra di morte che, forse, sta per un’altra morte, che qui non viene raccontata, ma che incombe da sempre sulla trama del poema. L’happy ending matrimoniale dell’ Orlando furioso sarà anche un finale convenzionale, alla Henry James, ma come sappiamo è un finale arbi- trario e sorprendente, che contraddice clamorosamente le aspettative del lettore: il quale sa benissimo, fino dall’ Innamorato, che quella non è la fine della storia; che Ruggiero, poco dopo lo sposalizio con Bra- damante, sarà tradito e ucciso dai Maganzesi; si tratta di quel destino di morte, di quel finale non lieto da cui Atlante cerca disperatamente di preservarlo, sia nell’ Innamorato che nel Furioso. E che l’Ariosto tutto sommato non cambia, anche se non lo racconta: basta vedere le due profezie della fata Melissa, al canto III (21–25) e dell’eremita, al canto XLI (61–66), che prevedono un disegno secondo tradizione, e anche piuttosto specifico, di come si sarebbe dovuta svolgere la gesta di Ruggiero e del figlio suo (Ruggiero III o Ruggierino). Beninteso in questa disobbedienza rispetto al Boiardo, e rispetto anche a se stesso, l’Ariosto poteva appoggiarsi ad esempi illustri: in fondo anche l’ Odissea si chiude sulla pacificazione degli Itacesi, e Omero non si dà pensiero di eseguire il dettato di Tiresia che, nell’oltretomba, aveva prefigurato per Ulisse un tempo ulteriore, in cui col remo in spalla avrebbe dovuto cercare il paese che non conosce il mare, e in cui il remo sarebbe stato scambiato per un ventilabro; e solo allora, tornato 16 Ivi, citazioni a pp. 95–96.
94 RICCARDO BRUSCAGLI ad Itaca, l’eroe sarebbe andato incontro alla sua fine, ad un thanatos ex alòs, una “morte venuta dal mare”. Pure, la disobbedienza ariostesca—reiterata fermamente in tutt’e tre le edizioni del Furioso, nel ‘16, nel ‘21, nel ‘32—rimane un’opzione narrativa spettacolare nella sua quieta ostinazione. Non meraviglia certo che l’Ariosto anche in questo caso decida di ‘finire’ diversamente dagli altri continuatori, i quali puntualmente mettono a morte Rug- giero. Il Valcieco nel suo Libro V lo fa sorprendere addormentato in un prato da Agramante, ivi guidato da Gano, che vilmente lo decapita; Niccolò degli Agostini nel suo Libro VI lo fa cadere in un tranello di Gano che attira sia Ruggiero che Gradasso (nel frattempo convertito e sposo a Marfisa) in una profonda tana, dove in poco tempo muoiono di fame e di sete. Incuriosiscono, semmai, le varianti di questo finale lieto, dal ‘16 al ‘32, e gli indizi di un diverso finale, che io credo si possano ravvisare nel lungo e controverso frammento dei Cinque canti. Come finiva l’Orlando furioso nella prima edizione del 1516? Finiva, lo sappiamo, senza la lunga giunta di Ruggiero e Leone: nel ’16, all’arrivo dei vincitori della guerra d’Agramante a Parigi, Aimone e Beatrice non avevano niente da obiettare al matrimonio della figlia, e la coppia felice scivolava senza intoppi verso il coronamento definitivo della loro love story: “Consentì ognuno, ognun lodò la cosa, / così fu Bradamante a Ruggier sposa” (XL 43 vv.7–8). Nel ’32, l’ambizione dei genitori, che per conto loro hanno promesso Bradamante al figlio dell’imperatore d’Oriente, avviluppa la trama in un nodo intricato di doveri, obblighi, ‘fedi’ promesse, da mantenere o da rompere, che non a caso incanterà il Metastasio de Il Ruggiero o vero l’Eroica gratitudine. Bradamante com- battuta fra obbedienza filiale e amore, e anzi, a ben vedere, fra una ‘fede’ che ha già valore, nell’antico regime pretridentino, di vincolo matrimoniale, e un’altra ‘fede’ promessa in suo nome dai genitori (quindi, con un pericoloso caso di bigamia sullo sfondo); Ruggiero, combattuto come un personaggio della decima giornata decameroni- ana fra amore e amicizia, tra fede promessa a Bradamante e obbligo di reciprocità cortese nei confronti di Leone. È una giunta improntata ad un’esaltazione parossistica di valori cortesi, che nel ’32, fra l’altro, infilandosi nell’ultimo canto del ‘16, va a sconvolgere l’assetto del testo precedente, non solo in senso narrativo, ma di intavolatura valoriale del poema: finendo col costituire, infatti, un perfetto controcanto rispetto a quello che era il canto XXXIX—e che ora è il canto XLIII, in cui le due novelle del nappo incantato e del giudice Anselmo rap- presentavano, e ancora rappresentano nell’ultimo Furioso, parabole
M LN 95 esemplari dell’eros asservito al mercimonio, del sesso barattato per denaro. Nel ’16, quelle due parabole esemplari costituivano il culmine del cripto-novelliere ariostesco all’interno del poema: un cripto- novelliere ordinato in senso inverso rispetto al modello del Decam- eron., visto che qui si va non all’insù, dall’inferno cortese della prima giornata all’abnegazione di Griselda, ma, invece, all’ingiù, dai valori cavallereschi celebrati nelle prime novelle (di Ariodante e Ginevra, di Olimpia, di Isabella) all’inferno di vizi delle due novelle del canto XLIII. La dialettica valoriale tra il romanzo e le novelle viene dunque spettacolarmente incrementata dalla giunta di Ruggiero e Leone, che finisce col rappresentare il trionfo dei più puri valori cortesi rispetto al loro mercimonio borghese, nelle storie del nappo incantato e del giudice Anselmo. Allo stesso tempo, la giunta di Ruggiero e Leone serve a chiudere una volta per tutte la partita aperta dei due romanzi di formazione—chiamiamoli ormai convenzionalmente così - di Bra- damante e Ruggiero. Su come l’Ariosto, anche qui, disobbedisca al Boiardo, prolungando fino alla fine del suo lungo poema le nozze dei due progenitori estensi, e esigendo dal suo Ruggiero, all’inizio assai meno perfetto cavaliere di quanto già apparisse nell’Innamorato, un adeguato percorso di educazione amorosa e cavalleresca, molto è stato detto;17 meno, mi sembra, sul simmetrico cammino della sua amata—ma spesso tradita e negletta—Bradamante. Di regola, d’altronde, il racconto di formazione si applica a pro- tagonisti maschili; essendo la figura femminile in genere destinata non alla crescita psicologica o all’integrazione sociale, ma soltanto a quel passaggio di soglia, in genere attraversato con piena incoscienza, che è il matrimonio. Ma Bradamante non è solo femmina, è anche maschio; è donna, anzi donzella, e cavaliere. È anche lei, dunque, suscettibile di un bildungsroman in piena regola: che consiste però non in un processo d’integrazione sociale in un ruolo pubblico, ma nella progressiva distruzione di esso. Maschio e femmina insieme, uomo e donna, donzella innamorata e cavaliere, la Bradamante dei primi canti del Furioso vede via via rivelarsi intollerabile tale sua doppiezza, in un controcanto preciso col rafforzarsi e sublimarsi più sicuro della maturità di Ruggiero; man mano che lo sposo promesso cresce in statura di perfetto cavaliere, Bradamante deve spogliarsi simmetrica- mente delle sue stimmate cavalleresche, ed accettare la sua reductio ad 17 Mi permetto di rimandare in proposito al mio Ruggiero’s Story: The Making of a Dynastiv Hero, in Romance and History. Imagining Time from Medieval to the Early Modern Period, Edited by Jon Whitman, Cambridge University Press, 2015, pp.151–167 (e bib- liografia relativa ivi citata).
96 RICCARDO BRUSCAGLI un solo sesso, quello femminile, e ad un solo ruolo, quello privato di fidanzata, chiusa nelle quattro mura della cameretta dove la fanciulla attende trepidante le lettere dello sposo lontano (altro che la selva del primo canto!). L’antica Bradamante, d’altronde, muore di una lunga agonia. Infatti la fine del personaggio s’imposta per tempo nel testo, a metà del poema, e anche qui, come per Ruggiero, ogni passo dentro la nuova identità prepara e avvicina il gran finale dell’opera. Per Bradamante, il momento di rottura è rappresentato dal duello sotto il castello di Pinabello: la prima impresa affrontata insieme dai due fidanzati. Ma se Ruggiero, dopo aver avuto ragione dei conten- denti attraverso l’uso inavvertito e involontario dello scudo di Atlante, proprio da questa facile vittoria trarrà lo scatto morale che lo avvia sulla strada della perfezione cavalleresca, Bradamante nella stessa occasione, sperimenta per la prima volta l’impossibilità di continuare ad esercitare la sua doppiezza in compagnia di Ruggiero: Bradamante pregò molto Ruggiero che le lasciasse in cortesia l’assunto di gittar de la sella il cavalliero ch’avea di fiori il bel vestir trapunto; ma non poté impetrarlo, e fu mestiero a lei far ciò che Ruggire vòlse a punto. Egli vòlse l’impresa tutta avere, e Bradamante si stesse a vedere. (XXII 63) Ma Bradamante è ancora troppo maschio, e a vedere soltanto non ci starà. Come sappiamo, riconosciuto Pinabello, Bradamante lo insegue fin nel bosco vicino dove, raggiuntolo, lo massacra di colpi (“cento volte gli avea fin a mezzo/ messo il brando pei fianchi e per lo petto”, XXII 97, vv. 3–4): in uno sfogo vendicativo così cruento che, al canto successivo, trovando Zerbino nella selva il cadavere di Pinabello straziato di colpi, egli ne indurrà che non uno, ma tanti cavalieri devono avere slealmente attaccato, e avuto ragione, del solo Pinabello: “Giaceva Pinabello in terra spento, / versandoli sangue per tante ferite, / ch’esser doveano assai, se più di cento / spade in sua morte si fossero unite” (XXIII 40, vv. 1–4). Da qui, il meccanismo compensativo, o forse meglio, la corrente alternata che percorre il personaggio, comincia funzionare in modo eloquente. La sanguinaria sterminatrice di Pinabello, infatti, perde subito nella selva il Ruggiero appena ritrovato: amore ed esercizio delle armi evidentemente si escludono a vicenda. Quando Bradamante funziona come cavaliere, è destinata a perdere Ruggiero; e, simmetricamente, la conquista dell’amato implica la rinuncia alla propria identità cavalleresca.
M LN 97 Non a caso, appena uscita dalla foresta in cui ha ucciso Pinabello (e perso Ruggiero), la guerriera sanguinaria di poche ottave prima si metamorfosa in sorella, in figlia, in fanciulla di casa: persa la strada, si ritrova inopinatamente nei pressi di Montalbano, il castello di famiglia: “Come la donna conosciuto ha il loco, / nel cor s’attrista, e più ch’i’ non so dire: / sarà scoperta, se si ferma un poco, / né più le sarà lecito a partire” (XXIII 21, vv. 1–4). La massacratrice del canto precedente diventa una ragazza che si lascia impigliare senza resistenza negli obblighi di famiglia: incontrato, contro il suo desiderio, uno dei fratelli (“Ma sua fortuna, o buona o trista, vòlse / che prima ch’ella uscisse de la valle, / scontrasse Alardo, un de’ fratelli sui; né tempo di celarsi ebbe da lui” XXIII 22, vv. 5–8); che si lascia condurre senza opporre resistenza nel castello materno, ove è accolta dalla madre come una figliola un po’ troppo esuberante e vagabonda, da troppo tempo assente da casa: “Entrò la bella donna in Montalbano, / dove l’avea con lacimosa guanci/ Beatrice molto desiata invano, / e fattone cercar per tutta Francia” (XXIII 24, vv. 1–4). A Montalbano, la stati- cità di Bradamante sembra tagliarla fuori definitivamente dai circuiti dell’inchiesta amorosa: “[…] misera aspetta; e sospirando stassi,/ da Montalban mai non movendo i passi” (XXX 89, vv. 7–8). E, alla fine dello stesso canto XXX, quando la masnada dei fratelli maschi parte per nuove avventure, lei, che soleva animosamente accompagnarsi a loro, accusa addirittura un mal di testa, o qualche simile indisposi- zione femminile: “[..] inferma disse agli fratelli ch’era, / e non vòlse con lor venire in schiera” (94, vv. 7–8). Non è questo il luogo, né ci basterebbe il tempo, per una ricostruzione minuta del romanzo di formazione ‘inverso’ di Bradamante, e quindi per seguire di passaggio in passaggio il progressivo prepararsi del finale epico-dinastico del Furioso. Ricordiamo soltanto che, quando Bradamante sarà raggiunta dalla falsa notizia degli amori di Ruggiero e di Marfisa, ella penserà al suicidio; ma, pressoché simbolicamente, la punta del pugnale incontrerà non la tenera carne di una qualsiasi donna tradita, ma una corazza guerriera: Così dicendo, di morir disposta, salta del letto, e di rabbia infiammata si pon la spada alla sinistra costa; ma si ravvede poi ch’è tutta armata. (XXXII 44, vv. 1–4) Bradamante è dunque ancora abbastanza maschio per non abban- donarsi ad un vittimismo senza speranza e senza ribellione. Si rimetterà in inchiesta, con armi e divisa eloquentemente mutate: “[…] tosto una
98 RICCARDO BRUSCAGLI divisa / si fe’ sull’arme, che volea inferire / disperazione e voglia di morire” (XXXII 46, vv. 6–8). E con un’arma, in particolare, ambigua: la lancia d’oro dell’Argalia di cui ella, come già l’Astolfo boiardesco, ignora il potere magico. E così, d’ora in avanti Bradamante non potrà che essere un cavaliere dimezzato, o, almeno, ipotecato: sempre vit- toriosa, certo, come alla Rocca di Tristano e alla torre di Isabella; ma quanto le sue vittorie devono al suo persistente valore cavalleresco, e quanto al fortunoso possesso della lancia magica? La spoliazione cavalleresca di Bradamante ci conduce così, per passaggi successivi, alla sua contraddittoria situazione nella giunta di Ruggiero e Leone: donzella femminilmente sottoposta all’autorità familiare, ma insieme guerriera capace di ottenere da Carlo un duello che la affronti col suo nobile pretendente. E siccome questo pretendente, come sappiamo, non sarà Leone, ma Ruggiero stesso, in vesti di Leone, il duello, che sarebbe impossibile immaginare ‘in chiaro’ fra i due fidanzati estensi, permetterà di regolare, nell’equivoco delle identità, il rapporto fra le due virilità presenti, e ingombranti, la coppia dei due progenitori ferraresi: finalmente il vero guerriero, il vero uomo, Ruggiero, avrà ragione dell’ambigua maschilità della sua sposa. E Bradamante sarà così consegnata, nel finale, al ruolo davvero di spettatrice: Ma non sa ritrovar priego che vaglia, perché Ruggiero a lei l’impresa lassi. A riguardare adunque la battaglia con mesto viso e cor trepido stassi. (XLVI 115, vv. 1–4) Ma siamo sicuri che il finale del Furioso sia stato, nell’immaginazione dell’Ariosto, sempre e soltanto questo? Siamo sicuri che l’Ariosto non abbia mai accarezzato l’idea di un finale in linea con le aspettative dei lettori, e con le sue stesse profezie? C’è qualche indizio che ci autorizza a pensare che la ‘vera’ fine di Ruggiero—la fine luttuosa per mano dei Maganzesi—potesse essere integrata nel suo racconto? Si apre qui, naturalmente, la vexata quaestio dei Cinque canti, sulla quale non posso che rimandare a quanto ho cercato di argomentare nel mio intervento zurighese sull’argomento.18 E di cui ripropongo qui, in maniera forse più definitiva di quanto mi sia sentito di fare in quell’occasione, le conclusioni. Narrativamente postumi alle nozze di Bradamante e Ruggiero (e su questo non c’è più discussione fra 18 Si veda RICCARDO BRUSCAGLI, I “Cinque canti” dell’Ariosto, in Carlo Magno in Italia e la fortuna dei libri di cavalleria, a cura di Johannes Bartuschat e Franca Strologo, Ravenna, Longo Editore, 2016, pp. 19–52.
M LN 99 gli studiosi), incentrati sui tradimenti di Gano, incompatibili rispetto al testo del Furioso per un consistente mannello di discrasie narra- tive, prevenutici in una veste che ormai piuttosto unanimemente si riconosce spuria—anche se non vogliamo arrivare al giudizio severo di Debenedetti, che li considerava “non…in tutto genuini”—a me i Cinque canti sembrano il relitto di un ur-Orlando in cui l’Ariosto fu tentato, e forse lungamente tentato, come la probabilità di ritocchi linguistici alla vigilia dell’ultima edizione potrebbero suggerire, di oltrepassare l’happy ending delle nozze e di includere nel suo racco- nto la fine luttuosa del capostipite estense. E che si tratti di un testo arcaico me lo fa pensare un dettaglio, che ho già citato, ma forse non col debito rilievo. Nei Cinque canti l’Ariosto spende, per definire il fido servitore di Ottone di Villafranca, questo verso: “Stato era cacciator tutta sua vita” (III 75, v. 1). Si può pensare davvero che un verso fatidico come questo, speso già nel ’16 per Cloridano, l’Ariosto pensasse di poterlo riutilizzare in scritture successive a quella data? o non sarà più logico pensare l’inverso, che il transito cronologico vada da un frammento ancora genericamente legato alla trama di un Furioso in fieri, verso la sua prima uscita in pubblico nell’edizione del 1516? Se è così, potremmo dire che alla fine l’Ariosto si arrese, anche lui, alla più ovvia constatazione di ogni scrittore di serial: il quale sa, o sapeva benissimo, prima che il finale ambiguo diventasse, da mossa d’avanguardia, anch’esso una moda, che è dura uccidere l’eroe principale, e che il lettore predilige, tutto sommato, le storie che vanno a finire bene. Come il Ruscelli, forse apocrifamente, ma non proprio senza criterio, affermò entrando anche lui nella diatriba dei Cinque canti: […] egli era in animo, che il Furioso si contenesse in cinquanta Canti. Ove voleva haver trattata la morte di Ruggiero, & poi l’ultima rotta de’ paladini in Roncisvalle. Et già n’havea fatti fino al detto numero di cinquanta. Ma havendo da principio mostrato il detto libro al Bembo, & altri amici suoi, gli fu ricordato, che per niente non dovesse lasciarlo così. Percioche primi- eramente il libro veniva ad essere sconvenevolissimamente lungo. Oltre a ciò veniva a far quello, che studiosamente si vede haver fuggito Omero, & Virgilio, cioè, di non lasciare i Lettori sconsolati, col tristo fine delle persone che sono principali nel soggetto, & nell’intentione del poema loro.[…] . Et così venne a lasciare i Lettori, et gli ascoltanti lieti, sereni, & ogni cosa de’ Cristiani in festa, & in gioia.19 19 Così il Ruscelli afferma nel suo discorso Dei Cinque canti / nuovamente aggiunti ne gli altri / Furiosi stampati, a giustificazione del fatto che, nell’edizione Valgrisi da lui curata, i Cinque canti non fossero compresi: vedi RICCARDO BRUSCAGLI, I “Cinque canti dell’Ariosto, cit., pp. 27–29.
100 RICCARDO BRUSCAGLI Ma—infine—la domanda formulata all’inizio (‘Come finisce il Furioso?’ - ‘Finisce’, il Furioso?’) potrebbe ricevere anche una risposta diversa. Una risposta meno legata all’interrompersi fisico, materiale, dei fili narrativi; più interna ai meccanismi struttivi del testo e alla natura profonda della sua favola. Dove, insomma, il Furioso comincia a non essere più il Furioso; dove la favola così come maneggiata sin dall’inizio dal poeta comincia a finire; a cambiare, a diventare un’altra? Dove, insomma, Prospero spezza la sua bacchetta, non perché il racco- nto finisca lì (non mancherà di seguitare un lieto fine purchessia, comunque), ma perché la magia del racconto è finita e lo spazio dell’invenzione e dell’immaginazione si è ristretto, e il poeta deve decidersi a prendere congedo da se stesso? In tal senso c’è un episodio, nel Furioso, in cui mi è sempre sembrato che il poema cominciasse a finire, in cui la sua scena testuale, sempre denudata sotto gli occhi del lettore, sempre svelata nella sua fabbrica, ci lasciasse cogliere il poeta nel momento di imporre l’ultima, decisiva virata al suo racconto. Nel canto XXXIII, Astolfo sta continuando il suo svagato ripercor- rere, quasi en touriste, il mondo e i percorsi della ventura romanzesca tradizionale, boiardesca. L’abbiamo visto vagabondare per l’Oriente disincantando, con ironico divertimento, e imperturbata sprezzatura, tutto il repertorio del meraviglioso consueto; talvolta, come nel caso di Caligorante, il gigante nella rete, parodiando addirittura le convenzioni cortesi della forte avanture arturiana e boiardesca: perché cos’altro se non parodia, è la risposta di Astolfo all’ “eremita con bianca barba”, classico imbonitore avverso della ventura, che lo aveva scongiurato di evitare lo scontro con l’ “orribil gigante/ che d’otto piedi ogni statura avanza”? Come si ricorderà, Astolfo risponde “Io ti ringrazio, padre, del consiglio /(rispose il cavalier senza paura)/ ma non istimo per l’onor periglio,/ di ch’assai più che della vita ho cura”, eccetera. Pec- cato che questo indomito coraggio e questa commovente dedizione all’identità avventurosa del cavaliere cortese sia inficiata dal possesso di quella vera e propria assicurazione-vita che sono i mezzi magici posseduti da Astolfo: il libretto che insegna a sciogliere gli incanti, ovvero a superare le venture, e il corno al cui orribile suono nessuno può resistere; mezzi che Astolfo impiega anche qui senza alcuno scru- polo contro Caligorante, senza minimamente resistere, fra l’altro, alle acclamazioni che seguiranno l’impresa da parte del popolo cairota, accolte graziosamente dal nostro cavaliere senza alcun cenno, natu- ralmente, ai mezzi speciali adoperati nell’impresa. Ora, questo Astolfo svagato e un po’ cinico, che si diverte a recitare la ventura senza assumersene i rischi, che trasforma le ambages pulcer-
M LN 101 rime della tradizione arturiana in moderni viaggi turistici, senza vero brivido e senza spargimento di sangue, nel canto XXXIII, a cavallo ddell’ippogrifo, ha potuto dar sfogo alla sua passione di viaggiatore senza frontiere: dalla Francia eccolo sorvolare i Pirenei, poi Navarra, Aragona, Galizia, e insomma “tutta Spagna”; poi eccolo sulle colonne d’Ercole, e quindi in Africa, sopra Marocco, Feza, Orano, Ippona, Algieri, Biserta, Tunisi, Tripoli, fino in Egitto e, piegando a sud, in Etiopia, finalmente. E qui il colpo di scena. Il personaggio meno ideologico del Furioso, il più libero e irresponsabile (libero, come si sa, anche dall’altrimenti pervasiva passione d’amore) subisce nella nuova avventura una imprevedibile metamorfosi funzionale. Astolfo, scendendo a lente ruote verso la reggia del Senapo, è attratto soltanto dalla esotica, lussuosa natura del luogo: “ricche gemme … gangheri e chiavistei … d’oro, colonnate di limpido cristallo … rubin smeraldi, zafiri e topazi…” Un’altra meraviglia, un’altra curiosità orientale da aggiungere al ben ricco carnet del trasvolatore. Ma il Senapo, il re di quella reggia, come sappiamo, è perseguitato da una maledizione divina: è stato reso cieco, e per di più le Arpie, lordando le sue ricche mense, gli impediscono di mangiare: “Quantunque ricchissimo si chiame, / cruciato era da perpetua fame”. Unica sua speranza, una profezia che ha promesso la fine dei suoi tormenti “quando venir per l’aria si vedesse/ un cavallier sopra un destriero alato”. Sì che quando il nostro Astolfo “ne la piazza del castello/ con spaziose ruote a terra scese” egli non sa di star avverando, in quel momento, una profezia sacra, e si sente apostrofare, con magnifica incongruenza, “Angel di Dio, Messia novello”. Così Astolfo viene risucchiato in una funzione spettacolarmente inversa rispetto alla sua consueta. Personaggio per eccellenza periferico e centrifugo, su di lui si addossa ora il compito di chiudere, pezzo per pezzo, le valenze aperte della trama: salire sulla Montagna del Para- diso Terrestre, e poi sulla Luna, per recuperare il senno d’Orlando; guarire il conte, reinserirlo nella trama epica del poema; provvedere i mezzi, anche logistici, dello scontro finale; determinare, finalmente, la chiusura dello sfondo, eternamente aperto, della grande guerra fra Cristiani e infedeli. Il suo commercio col meraviglioso, fin qui disincan- tato fino alla parodia della ventura cortese, si ribalta inopinatamente in carisma miracoloso: per intervento divino, Astolfo metamorfosa i sassi in cavalli, le fronde in navi, rinserra i venti…Il viaggiatore un po’ blasé si metamorfosa in uomo della Provvidenza: di una provvidenza narrativa, evidentemente, che ha deciso di chiudere una volta per tutte i conti sospesi della favola. E infatti, la provvidenza dura poco, il
102 RICCARDO BRUSCAGLI tempo strettamente necessario: dopo l’uso, i cavalli ridiventano sassi, i venti escono dalle grotte dove erano stati rinchiusi, le navi ritornano fronde. Le luci della scena si spengono una ad una, e Astolfo dismette, uno a uno, i suoi privilegi: l’ippogrifo gli vola via, e il corno? Già avea il più basso ciel che sempre acquista del perder nostro, al corno tolti i suoni; che muto era restato, non che roco, tosto ch’entrò ‘l guerrier nel divin loco (XLIV 25, vv. 5–8) Non vorrei stendere un velo troppo crepuscolare su questa closure del Furioso. Però il volo dell’ippogrifo, restituito alla libertà da cui l’aveva catturato Atlante, il corno arrochito, Astolfo, nell’ultima sua comparsa, ridotto a tenere il cavallo di Ruggiero prima del duello con Rodomonte, mi sembrano indicare una chiusura di possibilità narra- tive recisa, confermano che la conversione di Astolfo da “aventuroso” a “Messia novello” non era un buffo equivoco, ma una svolta decisiva della trama. Era lì che il Furioso cominciava a rinunciare a se stesso, era lì che cominciava a finire. Dopo, rimane una festa di nozze e un ultimo magnanimo duello, e forse potrebbe cominciare un altro rac- conto: un poema di odio e di vendette, senza magia e senza incanti. Potremmo ancora chiamarlo Orlando furioso?
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