#4PHONE STORIES - 4PHONE 4 PERSONAGGI E UN UNICO VERO PROTAGONISTA: mar plast
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#4PHONE STORIES 4 PERSONAGGI E UN UNICO VERO PROTAGONISTA: 4PHONE
Racconto 1: MILO “Una camera di bambino da si- stemare, è una vita da costruire” DANIEL PENNAC
Milo ha otto anni appena compiuti, ha la pelle ambrata di un colore che sembra sempre baciato dal sole, gli occhi scuri e profondi sono incorniciati da lunghe ciglia nere. I suoi ricci tenaci dalla nasci- ta gli danno un aspetto vivace in netto contrasto col suo carattere timido e riservato. Per un lungo periodo ha vissuto coi nonni materni in Francia, emigrati dalla Nigeria ne hanno mantenuto la cultu- ra fondendola con quella francese in un mètissage di colori, sapori e racconti. Storie raccontate a Milo quando era ancora piccolissimo, impresse definitivamente nella sua mente ne formano la fan- tasia e la sua grande immaginazione. La sua sensibilità, ereditata senza dubbio dalla mamma, è un punto dolente per il padre che, rimasto solo durante il periodo Covid, non sa bene come muoversi, non sa come approcciarsi a suo figlio, non sempre riesce ad aiutarlo e a volte urta inevitabilmente la sua delicatezza di bambino e di temperamento. Milo allora si chiude in camera sua, una stanza di- pinta completamente di blu e azzurro, una piccola scrivania, un armadio antico e un letto in ferro battuto, qua Milo trova il suo mondo fantasticando in quel soffitto blu che di notte immagina pieno di stelle e pianeti inesplorati. Un arredo spartano, non certo una camera piena di giochi come quella della maggior parte dei suoi compagni di classe, ma è arrivato da poco a Miramare e ha avuto a ma- lapena il tempo di fare conoscenza con la sua classe a scuola che la bufera provocata dal Covid ha spazzato via un come un vento di tempesta potrebbe spezzare germogli appena nati. Cos’è questa storia che ci fa rimanere tutti in casa, di cui tutti parlano in televisione, che rende così nervoso e scostante mio padre: Milo se lo chiede continuamente ma non trova risposte convincenti e si rifugia sotto le lenzuola candide, ricamate da qualcuno che lo aspettava da tempo e il cui nome ha ricamato con ago e filo in tutto il suo, seppur piccolo, corredo. Così fantastica sui suoi compagni, è un gioco che gli permette di rimanere avvinghiato a un ricordo, a qualcosa di certo, di ancora presente purchè ricordato come in una sorta di rituale. Enrico, il più simpatico, Timo, quello bravo in italiano, Mi- chelle non la batte nessuno in matematica e poi è un po’ straniera anche lei con la sua mamma sve- dese che le ha regalato occhi azzurri come pietre di acquamarina. Tuttavia, bisogna dire che il suo inserimento a scuola non è stato dei più semplici, la prima difficoltà linguistica e l’abitudine alla routine acquisita in Francia ha reso il suo arrivo un momento delicato e non sempre facile. Le diffi- coltà coi compiti, la mamma e i nonni in Francia, il papà sempre occupato al lavoro si sono fatte sentire presto. Maledetto questo mostro invisibile che si aggira dappertutto, bisogna stare in casa anche con un sole così invitante, indossare una strana cosa che ci fa sembrare tutti dei banditi usciti da una storia a fumetti, non si può toccare niente e ‘lavati le mani’ non è più solo per andare a tavo- la. Ci sono anche dei lati positivi però: si può stare a letto di più, niente interrogazioni, niente mae- stra che ti chiama ‘alla lavagna’ per farti domande e metterti un numero sul diario, niente spalle in- dolenzite dal peso dello zaino. A quanto pare sarà tutto più leggero, niente cattedra, niente zaino, adesso tablet e computer per seguire lo stesso le lezioni, è strana la maestra dal video, è strano il silenzio che c’è, è strano non sentire il suono della campanella che segnava e scandiva le aspettative della mattinata. Sono strani questi modi nuovi, ma bisogna adattarsi, anche il papà di Milo lo sa no- nostante sia molto preoccupato per la sua attività, i ristoranti hanno dovuto chiudere e ora si chiede come andrà a finire il suo di ristorante, se dovrà reinventarsi un lavoro, cambiare tutto, stravolgere quelle prospettive che lo avevano motivato a rischiare un’impresa tutta sua. Che pasticcio Milo, il tavolo in camera è piccolo, il tablet che non sta mai su da solo e senza un appoggio ci finiscono sempre sopra matite, biro, quaderni che con un semplice tocco cambiano pagina virtuale, sparita la lezione in un attimo. ‘Milo, mi ha chiamato la mamma di Enrico, voleva sapere di te, richiamalo’ Enrico è stato il primo ad accogliere Milo in classe, ad aiutarlo e a condividere con lui compiti e giochi in spiaggia quando il tempo lo permetteva. Piace a tutti Enrico, è forte e se la cava sempre anche quando non sa le risposte. Per Milo è un punto di riferimento, ed è felice di risentirlo. Ma an- che Enrico ha le sue preoccupazioni, la sua tensione vissuta in casa, le sue paure che decide di con- dividere con quel ragazzo appena arrivato, con quel vizio di arricciarsi sempre i capelli fra le dita come se non fossero già abbastanza ricci di loro. E’ proprio con lui che ha voglia di confidarsi, con lui e nessun altro. ‘Sai Milo, mi manca un po’ la maestra Luisa, vederla nello schermo del computer di mamma è buffo, a volte si vede l’immagine a scatti e la maestra Luisa diventa un insieme di qua-
dratini mia madre mi sgrida in continuazione e da quando è nata mia sorella non fa che dirmi di mettere in ordine, è sempre con lei in braccio e con il telefono nell’altra mano, chissà poi cosa aspetta’ Ma non è solo di questo che Enrico vuole parlare con Milo, ha anche una sorpresa ‘Appena si potrà uscire te lo porto, me l’ha comprato mio papà, è nuovo e sembra una piccola torre, da quan- do lo uso vedo bene sullo schermo e non devo chinarmi con la testa per avvicinarmi lo sai che porto degli occhiali ‘come fondi di bottiglia’, lo dicevano tutti in classe...poi ci metto i pennarelli, le biro, quelle colorate, ti ricordi che Timo me le rubava sempre? ne abbiamo due, uno è in camera mia, l’altro è sul tavolo in cucina così mia mamma non deve stare sempre col telefono in mano...a cola- zione ieri mi si è rovesciato il caffelatte, se non ci fosse stato lui addio tablet e sai che disastro dopo! Milo, ti immagini? Allora te lo porto, ok, quando possiamo vederci, anzi te lo regalo che tu sei più disordinato di me...’ Quando me lo porti? Enrico, io non ho idea di cosa stai parlando, ci metti il tablet, tua mamma il telefono, i pennarelli, che cos’è ‘mio papà lo chiama Buddy anche se non si chiama veramente così, non so perchè ma dice che lo chiama così perchè è come un amico che ti aiuta..’ Non ti dico più niente, è una sorpresa Milo...aspetta e vedrai, quando te lo porterò lo vorranno anche i tuoi amici in Francia e mi toccherà portartene una colonna intera, aspetta...ancora qualche settimana, allora ciao, ah non dirlo a nessuno che è un segreto fra di noi...non vedo l’ora, aspettami…
Racconto 2: PARIDE “Ma quando cresci, babbo? Quando la smetti di fare l'imbecil- ”?le MAURIZIO SCATTORIN - Luciano Perozzi
Paride ha sempre avuto un’unica grande passione: la cucina. Da quando era bambino aiutare in cu- cina lo faceva sentire felice e si entusiasmava a sentire la nonna spiegargli come manipolare il pa- netto di pasta, indugiava su ogni singolo movimento e sulle mani della nonna che lavoravano quella materia in maniera così fluida e senza fatica, Paride rimaneva estasiato come un’amante dell’arte rimane in sacro silenzio davanti a un’opera artistica. Così Paride l’ha sempre saputo, il suo mestiere senza alcun dubbio sarebbe stato cucinare. Iniziò la sua gavetta come lavapiatti in un piccolo ristorante del suo paese, osservava i cuochi tra pentole e fornelli con apprensione, non voleva perdere neanche un minimo passaggio. Imparava giorno per giorno, piatto dopo piatto e presto diventò capace di muoversi bene in cucina, di soppor- tare la fatica e lo stress che quest’arte comporta: lavorare fino a tardi, l’attenzione in ogni passag- gio, la creatività per non annoiare mai il cliente. Del resto, si sa, l’amore è il primo ingrediente, se non c’è quello rimane una buona esecuzione tec- nica ma senza quel sapore che ti riempe la pancia e l’anima. Fu durante una breve vacanza a Castellamare, insieme a un gruppetto di amici, che incontrò Fati- mah, seduta sulla sabbia mentre guardava persa nei suoi pensieri il mare e le sue onde ritmiche qua- si ipnotiche. In un attimo, come del resto aveva sempre preso le sue decisioni, le sentiva come un bagliore che si illumina d’improvviso, seppe con assoluta certezza che doveva rimanere lì in quella città di mare. Non si presentò a lei, la lasciò lì dov’era, come in una foto, un fermo immagine troppo bello che non doveva essere modificato neanche di un millimetro. Forse la incontrerò di nuovo, o forse mai più ma devo venire qua e continuare in questo posto nuo- vo la mia cucina. Tornò, prese le sue cose tutte racchiuse in un’unica valigetta di pelle che a vederla, sembrava più una ventiquattr’ore, regalo del padre quando ancora sperava che il figlio avrebbe continuato a stu- diare e sarebbe diventato ‘dottore’. Accadde tutto in fretta, partì con l’unica certezza della stazione a cui doveva scendere: Castellama- re, nient’altro, nessun posto dove dormire, nessun lavoro, nessun amico o parente. Si sistemò in un albergo qualunque e si mise subito alla ricerca di ristoranti in vendita, non sapeva che di lì a poco qualcosa gli avrebbe stravolto la vita. ‘Cosa le porto?’, eccola è di nuovo lei, la ragazza del mare, con la sua maglietta bianca e il grem- biule nero mentre gli chiede cosa vuole ordinare in quel bar trascurato coi tavoli segnati dal tempo, una brezza leggera entra dalla porta che rimane sempre aperta quasi che tutta la stanza volesse prendere aria più che ospitare clienti. Un momento sospeso corre fra i due in quel momento, un tempo che sembra infinito da quanto è carico di sensazioni: stupore, sorpresa, desiderio, imbarazzo. Paride non si era mai innamorato in vita sua, gli andava bene così, preferiva rimanere da solo giac- chè aveva già un’amante che lo distoglieva da tutto il resto: la cucina. Quando tenne Milo per la prima volta fra le braccia, si rese conto del suo totale distacco dal resto del mondo, dalla bolla protetta in cui era vissuto assorbito nella sua arte come fra le sabbie mobili. Comprarono un ristorante e lo chiamò ‘da Milo’ nella speranza che quel locale avrebbe portato, come suo figlio, nuova vita ma anche perchè non riusciva ancora a staccare le cose, il ristorante, anche quello era un po’ come un figlio per lui. Fatimah non si lamentava mai, anche se Paride era quasi sempre assente mentre Milo cresceva. An- che lei era un’artista, sapeva com’è vincolante fare della propria passione una professione. Spesso tornava in Francia, dov’era cresciuta coi genitori di origine Nigeriana, portò con sè Milo an- cora piccolo il quale si adattò presto al mènage familiare con Fatimah e la nonna nigeriana che ogni sera gli raccontava storie della sua terra piena di fascino. Tornò in Italia quando aveva ormai otto
anni per volere di Paride. Fu un periodo difficile, Milo ormai parlava più in francese che in Italiano, l’inserimento a scuola non fu facile e Paride si rese conto di aver perso molto della vita del figlio, faticava a comprendere le sue angosce di bambino spaesato, quella sensibilità che aveva certo ereditato dalla madre. Poi si cominciò a parlare di un’influenza, diversa dalle altre, più forte, più persistente. All’inizio Paride non ci fece caso, ma sì sarà il solito terrorismo televisivo. Non si rese conto di cosa stesse accadendo finchè non arrivò l’obbligo di chiudere temporaneamente il ristorante. Allora, quella che prima era solo una percezione diventò una certezza, un’angoscia costante, un’agonia di preoccupa- zioni. Si ritrovò in casa con Milo tutto il giorno, tutti i giorni, Fatimah non poteva tornare in Italia, tutto divenne buio come una luce che si spegne all’improvviso. A quel punto tutte le idiosincrasie fra padre e figlio, i silenzi e i sensi di colpa nascosti come si la- scia la polvere sotto i tappeti, scoppiarono in una volta sola. Milo sopportava a fatica quella situazione forzata di cui non capiva nemmeno il senso, voleva usci- re, respirare l’aria del mare, correre sulla spiaggia e respirare a pieni polmoni e senza paura l’aria salata, bagnandosi i piedi sulla sabbia addensata dall’acqua e dalle piccole conchiglie che gli pun- gevano la pelle. ‘Non si può Milo, te l’ho già detto’ Paride era impacciato, troppo autoritario a volte, troppo permis- sivo altre; in questa confusione Milo si rifugiò in camera sua, una camera che Fatimah aveva dipin- to dei colori del mare. Lì si sentiva in un nido protetto e versò calde lacrime senza farsi sentire fin- chè Paride non entrò di forza in quel suo luogo sacro e privato. Fu un esplosione di rabbia, il senso di isolamento e abbandono ‘Non sto bene qua con te, voglio che la mamma torni e invece non può perchè c’è questo mostro in giro’, la preoccupazione per il lavoro ‘Milo io sono sempre al lavoro per assicurarti un futuro’, tutto uscì come grandine tagliente dalle nuvole cariche di pioggia, sature di energia elettrica che si scarica a terra con un rumore assordante. Tutto fu improvvisamente chiaro a Paride, come quei temporali che smettono in un attimo dopo aver scaricato l’acqua di cui era gravido il cielo: suo figlio era Milo, non il ristorante. Un abbraccio li fuse come un bozzolo che avvinghia due creature che stanno nascendo in una forma nuova. Mentre baciava e accarezzava quei capelli ricci ricordandosi che avrebbe dovuto pettinarli come Fatimah faceva ogni sera con Milo, vide un oggetto sulla piccola scrivania della stanza di Milo. Cos’è quello Milo? Cosa papà? (era perso nel piacere delle mani calde del padre e in quell’abbraccio tanto voluto) Quella specie di torretta squadrata che hai lì Ah sì, me l’ha portata Enrico di nascosto, per fortuna abita vicino e sua mamma doveva uscire per forza perchè serviva il latte per sua sorella Un’idea comincia a prendere forma nella mente di Paride: ‘Milo posso prenderlo? voglio provarlo a ristorante, è un’idea geniale, terrebbe tutto più in ordine...sai quante persone si dimenticano il tele- fono o devo dimenarmi per mettere un piatto sulla tavola piena di telefoni o tablet?’ Milo rise davanti a questa idea, si immaginava il papà mentre che posava i suoi piatti caldi di pesce alla griglia su qualche malcapitato telefono... ‘va bene papà, però mi porti con te quando riapri?’ si Milo te lo prometto e metteremo insieme questi...come si chiamano? sulle tavole di tutti, faremo un figurone.. Enrico mi ha detto che lo chiamano Buddy, ma non è il suo nome vero, mi sembra inizi con quattro.. Quattro come i lati di un tavolo Milo, dove ci metteremo tutti insieme quando riapriremo e divente- rà ancora meglio di prima
Racconto 3: FATIMAH Le“donne hanno un potere quasi divino: lasciano in noi segni che restano nella nostra vita ben più a lungo di loro.” WALID HAKIRI
‘Fatimah non puoi tornare in Italia, possiamo solo sentirci e sperare che tutto finisca presto’ Proprio lei che detesta i telefoni, detesta non vedere le persone con le quali sta parlando, non ama questi nuovi strumenti tecnologici, lei dipinge, usa i pennelli, i colori ad olio, si sporca le mani, i vestiti, persino i capelli quando dopo ore di lavoro assorta completamente nel suo lavoro si asciuga la fronte con le mani macchiate di colori ancora freschi. Dalla Nigeria, la sua terra d’origine e la Francia, terra d’adozione ha unito e riassunto nella sua arte le forme e i colori di entrambe. L’ultimo telefono l’ha rotto rovesciandoci sopra per sbaglio del solvente per pennelli. Ma ora dovrà procurarsene per forza uno nuovo se vuole almeno sentire suo figlio Milo e Paride. Paride, si ricorda ancora il loro primo incontro: lei era in spiaggia, osservava in adorazione il colore del mare e i riflessi del sole sullo specchio d’acqua, era in Italia perchè voleva vedere da vicino e non più solo sui libri d’arte, le sue declamate meraviglie architettoniche e storiche, gli Uffizi, il Co- losseo; ma ci volevano i soldi per viaggiare e si era trovata un lavoro come barista in un piccolo bar situato in una città costiera. Adorava il mare, le dava un senso di libertà e quando trovò questo lavo- ro per quanto non fosse la sua passione, fu contenta di potersi mantenere e continuare a viaggiare nutrendo così la sua arte. Seduta sulla sabbia col suo vestito a fiori, la gonna a plissè che le nascondeva i piedi immersi nella sabbia calda, assorta nei suoi pensieri si accorge, come una percezione d’istinto, che qualcuno la sta guardando, non ha il coraggio di girarsi nà la curiosità la spinge a voltarsi. Si lascia guardare, poi quando la voglia di vedere finalmente di chi erano gli occhi che la stavano osservando si gira di scatto e vede un uomo girato di spalle che sta andando via, nella direzione opposta alla sua, è alto, moro con una semplice camicia bianca e un paio di pantaloni tirati su alla benemeglio per non spor- carli con la sabbia bagnata. Spera che lui si giri per tornare a guardarla ma niente, svanisce come un miraggio nel deserto dopo aver sperato tanto che fosse reale. non l’ha visto in viso ma qualcosa l’ha toccata nel cuore, e quando al bar si ritrova a chiedere la so- lita domanda ‘cosa le porto?’ a un uomo che avrebbe potuto essere chiunque, come un morso di serpente penetra nella vittima senza scampo, un’elettricità mai provata prima l’attraversa in un istante fulmineo. Lui vuole aprire un locale sul mare, lei ha la sua arte e la sua famiglia in Francia, ma non fanno in tempo a sistemare i loro progetti che una nuova vita esige la sua parte di attenzioni. Quanto le manca ora quella sua creatura che si è portata in Francia per lasciare Paride alle prese con la sua nuova attività. Sapeva che non poteva chiedergli di più ma aveva bisogno di tornare anche lei a dipingere assicurandosi che Milo non rimanesse solo e non fosse mai trascurato, l’ poteva contare sull’aiuto di sua madre e Milo cresceva in serenità fra le tele dipinte e la cucina un po’ africana un po’ francese della nonna. Fu durante una giornata di vento che preannunciava un’estate calda e afosa, che Fatimah cominciò a sentire una paura accrescere dentro di lei, discuteva spesso con Paride e si decisero a far venire Milo in Italia, poi sarebbe arrivata anche lei. In fondo lei era già stata in Italia, poteva riprendere la sua vita da artista là insieme a suo figlio e a Paride. Eppure sentiva che qualcosa si stava avvicinando, come un sibilo di vento che si fa forza attraverso finestre ben chiuse annuncia ostinatamente l’arrivo di una tempesta. Rimase qualche giorno a Miramare dopo aver accompagnato Milo, poi tornò a Grass per organizza- re tutto il suo lavoro e trasferirsi in Italia. Si lasciarono entrambi, Milo e Fatimah, fra lacrime soffo- cate chiuse in uno scrigno segreto per non rendere a nessuno le cose ancora più difficili di quanto non lo fossero già, sentivano entrambi che qualcosa li avrebbe tenuti lontani più del tempo previsto, lo intuivano come si sente la paura nelle viscere, una morsa che tiene imprigionata la voglia di scappare paralizzando il corpo e la mente in un momento che non ha più nè tempo nè spazio.
‘Stai tranquilla Fatimah, sono solo sciocchezze che dicono per spaventare le persone, prendi l’aereo che Milo e io sentiamo la tua mancanza’ signora non può prendere nessun biglietto, lei non può uscire dalla Francia, ma non li ha guardati i telegiornali? No, Fatimah non segue i telegiornali, non legge le ultime notizie sul telefono che lascia sempre in giro da qualche parte nel suo studio, si ricorda di averne uno solo alla sera quando il suo squillare le ricorda che è finalmente arrivato il momento di sentire la voce di suo figlio. Questa nostalgia comincia ad essere così forte da diventare distruttiva, così in un momento di scon- forto a Fatimah cadono i pennelli, i colori si spargono sui tavoli e sul pavimento come acque sta- gnanti, i solventi nelle loro bottiglie di vetro si frantumano in mille pezzi come un mosaico irrecu- perabile. Una disattenzione, un momento di scoramento, non era mai stata così, dove prima aveva costruito delle certezze ora si trovava coi cocci taglienti dovunque. Tutto era stato contaminato da quel momento di disperazione, il telefono completamente rovinato dai diluenti le interrompe il suo unico filo di vicinanza a Milo e Paride, insieme alla sua rassicurante abitudine serale di sentirli entrambi. Se solo ci fosse stato un supporto, un aiuto per quanto piccolo, per quanto banale possa essere o sembrare, le avrebbe salvato l’unico mezzo che aveva per rimane- re vicino al figlio. Forse quel ‘Buddy’ di cui parlava Enrico, quello che poi ha visto anche Paride? Ci fosse stato ades- so potrebbe usare il suo telefono, per quanto detestabile fosse per lei bisogna pur adattarsi, e se quello era l’unico modo concesso adesso l’aveva perso insieme a quel filo sottile delle abitudini che ci si costruisce per non impazzire. Adesso potrebbe confidare il suo stato d’animo a Paride, sentire il suo conforto e ascoltare la voce di Milo, anzichè raccogliere vetri come lame, taglienti come il panico. Se solo ci fosse stato quel, come si chiama? Buddy, sì non si chiama proprio così ma deve pur avere un nome familiare, anche un oggetto si merita un nome proprio quando non è più un semplice am- masso di materia ma diventa un aiuto, un appoggio, una cosa rassicurante.
Racconto 4: MARILENA Sono solo una mamma. Non hai idea di cosa sarei capace.” GABRIELLE UNION - Shaun Russell
Quand’è che abbiamo smesso di avere tempo? Da quando non c’è più tempo neanche per ammalar- si, per sentire davvero qualcosa? Quand’è finito il tempo per essere madri abbastanza da non sentir- si colpevoli di aver lasciato il proprio figlio in luoghi estranei, educativi ma pur sempre fuori da quel posto ovattato, caldo e rassicurante a casa. Marilena si tortura con queste domande nei giorni di isolamento forzato, è diventata mamma per la seconda volta da poco tempo e per lei, che a detta dei medici era ‘più sterile di un pezzo di cemen- to’, è un altro miracolo. Un altro dopo il primo figlio: Enrico, arrivato quando meno se lo aspettava, quando ormai si era rassegnata all’idea di avere preoccupazioni solo per il suo lavoro e niente notti passate insonni per risvegli notturni o serate fuori con gli amici. Per lei che era così attaccata all’ordine, alla precisione maniacale e all’organizzazione avere Enrico ha significato un ribaltamento totale del suo mondo. Un mondo che fino a quel momento aveva co- struito solo intorno a lei, tanti dettagli in ogni stanza da lei disegnata tanto il caos generato dall’arri- vo di una nuova vita che comincia a dettare legge. Allora quello che prima era necessario diventa superfluo, le certezze barcollano e la paura, quella vera che ti si attacca alle ossa, comincia a riempire ogni spiffero di libertà rimasto libero. Enrico però era così vivace e senza paura che non si poteva pensare fosse il primo figlio, quello nato nell’incertezza, nello sconosciuto e nel tentativo di controllare tutto. Persino lei ne rimaneva sempre impressionata, in ogni occasione di rimprovero o di apprensione rimaneva stupita da quel sorriso con cui Enrico riusciva a superare tutto. Al contrario della neonata Veronica, la quale piange tutto il tempo e non è affatto tranquilla quando Marilena si allontana anche se per pochissimo. Esplode in pianti che sembrano non volersi mai quietare, e nemmeno lei come madre si sente sempre in grado di poter calmare sua figlia. Forse tutta questa inquietudine è legata a come è nata: un segreto custodito nel cuore di Marilena che ha confidato solamente a una persona. Fatimah è sempre vicino a lei, la aiuta e la comprende anche in silenzio, non c’è sempre bisogno di parlare quando un evento, troppo pesante per essere espresso a parole, sigilla per sempre la compli- cità di due persone. Si sono conosciute in un modo tanto banale quanto unico, entrambe si trovavano a comprare verni- ci, pennelli e spatole in un piccolo negozio solitamente frequentato solo da imbianchini, elettricisti, idraulici, insomma il mondo maschile stereotipato. Due donne in un luogo così sono immediata- mente unite da una caratteristica unificante e atipica. Si guardano e si studiano per un istante incu- riosite l’una dell’altra. Fu Fatimah a rompere il ghiaccio riconoscendo nel bambino attaccato alle gambe di Marilena il compagno di classe di suo figlio Milo. Il resto venne da sè, nonostante il carattere sfuggevole e diffidente di Marilena riuscivano sempre a comprendersi, a divertirsi ridendo anche delle cose più banali o a sdrammatizzare quelle che all’ini- zio sembravano insormontabili. Come questa fase, dall’oggi al domani forzata a rimanere in casa in una condizione che, valutandola su stessa, non avrebbe mai immaginato. La maternità tanto desiderata entrava ora in conflitto con i problemi economici e con tutto l’ordine che fino a quel momento aveva caratterizzato la sua vita. Spesso si sentiva in difficoltà nel trovare qualcosa fuori posto, ogni oggetto doveva rimanere nel suo spazio definito da lei. Ora non poteva più controllare tutto, le cose sfuggivano dalla sua volontà e doveva farci i conti. Da sola. Perchè vicino a Marilena non c’era nessun uomo che potesse aiutar-
la, non un uomo che potesse indispettirla e aiutarla a buttare fuori la sua angoscia di madre nata da poco e ancora piena di paure. Soltanto su Fatimah poteva contare, anche stavolta. Si trovava con Veronica in braccio, cullandola distrattamente nel tentativo di placare un pianto di cui non conosceva con certezza la causa. Così si perdeva in questi pensieri e senza nemmeno accor- gersene iniziò a lasciarsi andare in un pianto silenzioso. Sentiva di essere come divisa in due, Mari- lena come madre che accudisce e Marilena come madre che lavora per far crescere i figli senza mancanze da colmare in un futuro, quando forse sarebbero stati troppo grandi per perdonarla. Diventata insofferente a tutto, non ne più di niente, detesta persino il suo cellulare, pensare che per lei fino a qualche anno prima era essenziale averlo sempre con sè. Anche adesso lo sarebbe stato forse se avesse potuto scegliere. Se non avesse iniziato a suonare ogni volta che Veronica si calmava, sembrava che lo facesse appo- sta e lei si dimenticava sempre di spegnere la suoneria. Forse perchè aspettava, aspettava una tele- fonata che non arrivava mai, quella che le avrebbe risolto ogni dubbio in un solo momento. Ora le basterebbe un impiego a mezza giornata, non la sfrenata carriera verso la quale si sentiva destinata. Il latte a scaldare sul fornello, le lavette da pulire sul tavolo, lo zaino di Enrico ancora aperto dal- l’ultimo suo giorno di scuola prima della chiusura per il Covid; a volte tutto sembra come paraliz- zarsi in un tempo sospeso. Lo sguardo di Marilena si posa su un oggetto lasciato da suo figlio sul ripiano in salotto, proprio vicino alla sua borsa per la scuola ancora mezza aperta e da svuotare. Sicura che Enrico le parlò di quell’oggetto, Buddy o qualcosa di simile, non ricordava con certezza a cosa servisse. Quante cose si dimenticano nella fretta, ci si preoccupa di cose che forse non acca- dranno mai e invece ci si perde il presente, l’unica cosa che abbiamo veramente e in cui possiamo stare. Lo appoggia sul tavolo, l’osserva come se lo vedesse per la prima volta nonostante stesse in casa sua da molto più tempo. Comincia a incuriosirsi, presa completamente da quell’oggetto che in un momento sembra darle un aggancio alla realtà, un motivo per rimanere vigile e attenta nonostante la stanchezza, una distrazio- ne che tranquillizza. Allora mette il biberon pronto per Veronica nel vano centrale e pone il suo telefono in una delle quattro tasche laterali di questo solido. Potrebbe sembrare anche un gioco per i bambini, con quegli angoli arrotondati e la sua forma accat- tivante. Lo osserva così, neanche fosse una sua composizione artistica. Stava quasi per non accorgersene da quanto era presa dai suoi pensieri, che una luce intermittente dal telefono appoggiato inizia a risvegliarla da questa sorta di torpore. Per una volta si era ricordata di spegnere la suoneria, se non fosse stato appoggiato su quel ‘Buddy’ non avrebbe mai risposto nè si sarebbe accorta di chi la stava chiamando. Avrebbe perso quella telefonata, quell’occasione che non sperava nemmeno più, i pochi minuti che spezzano una rassegnazione che ormai non ha perso le forze per vedere oltre le difficoltà, che non vede più le soluzioni ma solo il problema. Se non fosse stato appoggiato lì avrebbe dovuto continuare a scegliere Marilena, a tormentarsi nelle sue domande. Adesso invece deve chiamare subito Fatimah, deve raccontarle assolutamente cos’è appena succes- so, deve svuotare il suo entusiasmo prima che imploda dentro se stessa come un grido senza suono. Riappoggia il cellulare sulla tasca di quel Buddy e telefona a Fatimah, senza scegliere se prendere Veronica in braccio o tenere il telefono in mano aspettando qualcosa. Non deve più attendere, non deve più logorarsi nel dubbio di quale sia la soluzione migliore, adesso può iniziare a fare pace anche con se stessa.
Racconto 5: RACCONTO FINALE Un“amico, un vero amico, è an- che un testimone, e il suo sguar- do ti permette di valutare meglio la tua vita”. EMMANUEL CARRÈRE
16 ‘Finalmente possiamo riaprire’, è una giornata importante per Paride, dopo un periodo così difficile finalmente può aprire di nuovo la sua attività. Ma il suo primo pensiero va a Milo, non vuole fargli sentire l’adrenalina e quella sottile paura che provoca piccole scosse dolorose, perchè neanche lui in fondo sa come andrà, non ha alcuna certezza e questa è un’incognita che genera inevitabilmente angoscia. Ora però sono tutti insieme, lui, Milo e Fatimah, bisogna pensare a questo e a tutte quelle cose che prima si davano per scontato. Allora forse qualcosa di positivo è rimasto, apprezzare quello che prima rimaneva sempre sulla sfondo come una foto sfocata i cui soggetti importanti rimangono. ‘Faremo una cena tutti insieme, noi, Enrico, sua mamma e tutte le altre persone che non vediamo da un po’, Milo non sta più nella pelle, è felice di rivedere i suoi amici e si sente così importante e coinvolto in questa impresa di suo papà come prima non si era mai sentito prima. ‘Ti aiuterò io papà’, e lo farà perchè a Milo piace trafficare tra tovaglie, posate e centrotavola, lo appassiona arredare i tavoli, disporre tutto il necessario e ha già un senso estetico che lo aiuta ad intuire gli equilibri di forme e colori, del resto sua mamma è un’artista. Anche Fatimah è contenta, si stupisce di come prenda un senso nuovo pulirsi le mani dai colori e solventi per presentarsi ad altre persone, si era trovata più di una volta durante il lock-down a chie- dersi che senso aveva levarsi ogni minima traccia di pittura se tanto l’unica persona che avrebbe incontrato sarebbe stata se stessa di sfuggita allo specchio. Eccoli, Milo e Paride insieme nel ristorante a Castellamare proprio sulla spiaggia, una brezza serale azzurra come il cielo ancora carico di luce, un profumo salino avvolgente ha riempito le stanze du- rante la chiusura e ora emerge con forza dagli stipiti in legno e dal porticato esterno i cui intarsi e pavimento sono irrorati ora di sabbia. Insieme cominciano ad aprire ogni porta e finestra per far entrare nuova luce e aria fresca, per un momento contemplano il mare che si stende di fronte a loro come una distesa di velluto blu, morbi- de onde si accavallano e un rumore quasi ipnotico affascina Milo e Paride che rimangono in silen- zio, in ascolto di questa bellezza che oggi sembra completamente nuova e mai vista per davvero o guardata con gli stessi occhi. ‘Tua mamma è sempre in ritardo’ ‘Sono lì, guarda, li vedo, stanno arrivando’, Fatimah cammina a piedi nudi sulla riva accompagnan- do Marilena che porta con sè Veronica, stretta in un marsupio al suo petto ed Enrico che gioca con la sabbia immergendo ogni passo in quella morbidezza dorata. Paride torna in cucina, uscendo porta con sè una pila di torrette, insieme a Milo le sistemano sul ta- volo apparecchiato con semplicità, ma stasera l’importante è stare insieme, tutti insieme e festeggia- re. ‘Papà hai preso i Buddy!’ ‘Sì Milo, beh in realtà si chiamano 4Phone, ma sì, li ho presi da mettere in ogni tavolo. Me l’hai data tu l’idea. Adesso aiutami a sistemarli con i grissini al centro, altri con la bottiglia d’olio, sale e pepe’ ‘Ciao Paride, Milo! Quanti Buddy hai?’ Enrico nel rivedere quell’oggetto che aveva tanto voluto regalare al suo amico Milo, si sente subito come a casa. Entrano anche Fatimah e Marilena con Veronica. ‘Possiamo sederci noi intanto Paride? Metti il telefono qua Marilena, così sei comoda con la Vero nel seggiolo’ ‘Sì guarda, è comodo questo 4Phone, davvero una bella invenzione, io a casa ormai non posso più farne a meno’ ‘Pensa che io avevo quasi distrutto il telefono, una sera mi sono caduti i solventi, se avessi avuto il
Buddy non sarebbe successo, peccato’ Milo si è seduto di fianco ad Enrico, chiaccherano della scuola, di quando si tornerà ad andarci, de- gli amici che hanno sentito solo per telefono in questi mesi. ‘Guarda Milo, appoggio sul Buddy il tablet che mi hanno regalato per la scuola’ ‘Io il mio l’ho tutto riempito di pennarelli, poi lo tengo col tablet anch’io che guardo le lezioni’ Intanto Paride ha cominciato a servire le prime portate, tutto sembra prendere come per magia un ordine perfetto. Sui tavoli ogni cosa è al suo posto, i piatti e i vassoi caldi non rischiano più di finire sopra un mal- capitato telefono e nemmeno le bibite per Enrico e Milo, sempre pericolosamente tenute sul bordo del tavolo, sono più un rischio per quella tecnologia che ormai è sempre inevitabilmente presente sui tavoli. La serata continua con altri piatti, Paride è entusiasta di cucinare e Milo lo aiuta ai tavoli con lo stesso entusiasmo. Persino Veronica stasera è calma, il suo temperamento difficile sembra essere tranquillizzato da quell’ atmosfera così in pace e in equilibrio. Il mare accompagna la serata coi suoi riflessi violacei e il suono delle sue onde. ‘Paride grazie per questa cena, era tutto squisito e complimenti per quel..come si chiama?’ ‘Buddy, no scusa 4Phone, lo trovi come 4Phone, sono io che lo chiamo così dacchè me ne ha parla- to Milo, perchè è così simpatico e utile che ti viene da chiamarlo come un amico’ ‘Ciao Milo, ci vediamo a scuola quando riapre, ci sentiamo domani?’ ‘Sì, possiamo sentirci quando mia mamma ha finito di disegnare che da quando è tornata mi ha ru- bato il Buddy e non mi va di tenere il telefono in mano’ ‘Ciao Marilena, grazie di essere venuti qua stasera, sono davvero contenta per il tuo nuovo lavoro e stai tranquilla, noi siamo qui se hai bisogno’ ‘Grazie Fatimah, non lo dimenticherò, a presto’ A presto 4Phone, chi aiuterai la prossima volta? Di quali storie sarai testimone?
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